Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 23 novembre 2014

Che si dibatta, finalmente...!

Contro ogni prospettiva immaginabile & sensibile, negli ultimi giorni si è sviluppato un vivace dibattito su un argomento che credevamo tutti sepolto, ovvero l'utilità del liceo classico e, contestualmente, la crisi della cultura umanistica all'interno di una società globalizzata, economicistica, scettica e soddisfatta del consumo dell'oggi a spese delle riflessioni sull'Oltre. 
Le posizioni sono davvero tante, e bisogna dire che detrattori e sostenitori dell' "imputato" hanno speso energie generose nel sostenere le proprie posizioni. Noi, con Spocchia anticipatrice, ci occupammo della cosa in occasione di un triste dibattito sul Corriere online, triste per la povertà assoluta degli argomenti che gli anti-umanisti portavano a sostegno delle proprie tesi, argomenti riassumibili in: "A me la cultura umanistica non è mai servita, quindi non serve". Rispondemmo con un post che, a seconda delle prospettive, può sembrare di delirante astrattezza o di insopportabile profondità. 
Ora il campo di battaglia si popola di umanisti che difendono l'umanesimo, umanisti che non credono più nel liceo classico, scienziati/economisti che si chiedono come sia possibile che il liceo classico non sia ancora stato raso al suolo su tutto il territorio europeo, scienziati che ringraziano l'esistenza dell'umanesimo come presupposto ineliminabile del progresso del pensiero scientifico. E poi, trasversale a tutto, l'auspicio che si abbattano una volta per tutte le barriere tra settore umanistico e settore scientifico, cadano le diffidenze reciproche tra i rappresentanti dei due àmbiti, e finalmente si possa produrre un modello culturale integrale e inclusivo. È al momento impossibile tirare le fila del dibattito, perché esso promette di durare ancora (per fortuna). Possiamo tuttavia muovere alcune discrete, sommesse, spocchiose osservazioni al'oggetto del contendere, e soprattutto alla prospettiva con cui l'oggetto viene trattato. Prospettiva, a nostro giudizio, spesso fuorviante.
Per essere immediatamente precisi, ci sta venendo il fiero sospetto che chi attacca il liceo classico e l'umanesimo in genere lo faccia spesso per motivi "altri" che non siano l'effettiva o al contrario inesistente utilità delle discipline sotto esame. Una prima catena di ragionamento, ottenibile attraverso la sintesi delle varie istanze, dice:


1a: il liceo classico così come lo conosciamo è invenzione del fascista hegeliano Giovanni Gentile;
1b: ciò comporta un impianto fortemente elitario, zeppo di materie astratte e poco "democratiche";
1c: ci sono cose molto più importanti, spendibili e soprattutto utili a tutti che si possono studiare, oggi che nel mondo l'unico fattore trainante è la tecnocrazia volta al profitto.


Poi c'è l'altro fronte:
2a: le materie umanistiche sono state sequestrate da un élite di sinistra che ha finito per considerarle cosa sua;
2b: questi professoroni non si sono mai preoccupati di rendere davvero popolare la cultura;
2c: sarebbe ora stipendiare i cattedratici per qualcosa di più fruibile, magari spingendoli ad adeguare le loro discipline alle nuove logiche di mercato globale.


Poi c'è il fronte 3, singolarmente convergente: la crisi dell'umanesimo è colpa tanto del neoliberismo e delle sue logiche utilitaristiche quanto del marxismo e del suo considerare "struttura" solo i fondamentali dell'economia. Ovviamente, chi sostiene una delle due diagnosi finisce per negare l'altra.
  
Fatta la media degli interventi, insomma, da qualsiasi parte arrivi l'attacco, il vero torto che si contesta alle discipline umanistiche prescinde dai loro contenuti. Esse sono ritenute difettose perché "proprietà" di una casta a danno di tutto il resto della collettività. Troppo difficili, esclusive, o perlomeno rese tali da una precisa politica dell'istruzione che ha reso il liceo classico un decadente museo di vecchiume assortito che non ha saputo adeguarsi al mutare dei tempi, restando pertanto drammaticamente "altro" rispetto alla realtà "vera", una realtà non più eurocentrica, realtà che impone, nella migliore tradizione del sincretismo, un'apertura e una messa in discussione di tutti i paradigmi, assiologici prima ancora che contenutistici, didattici e docimologici. Insomma: adeguate la classicità e l'umanesimo occidentale al mondo, o ne verrete spazzati via.
La qual cosa è pure legittima in linea di principio. Nondimeno, vorremmo porre noi a nostra volta alcune domande ai dotti contestatori. Avvisiamo fin d'ora che non sono domande retoriche o ironicamente socratiche. Sono questioni che inevitabilmente sorgono dal dibattito sin qui svolto e attendono ancora risposta.


1) Cosa vuol dire rendere più "popolari" le discipline umanistiche occidentali? Se la linea da seguire è quella dell'evento di massa, qualcosa in tal senso c'è già, si vedano manifestazioni dall'appeal torrenziale come i festival di Mantova, Carpi, Sarzana, Pordenone, ecc., per tacere, ma solo per non sembrare campanilistici, del nostro festival Filosofi lungo l'Oglio, che l'estate prossima giungerà alla decima edizione e che, per diretta esperienza, posso assicurare aggrega un pubblico assai composito e veramente trasversale. Peccato che già da tempo quella stessa stampa che lamenta l'agonia della cultura umanistica stigmatizzi senza pietà la moda dei festivàl, carrozzoni omnicomprensivi che sono solo fintamente popolari, ma alla fine coinvolgono sempre più o meno gli stessi autori, ovviamente spinti dalle case editrici o da "poteri forti" consimili. E poi, data l'eterogeneità del pubblico, non si è sicuri che chi assiste ai vari incontri ci capisca davvero qualcosa, nel senso che chi già sa continuerà a sapere, quelli arrivati al festivàl per curiosità o per sentito dire se ne andranno grattandosi la testa per i paroloni uditi o per il disgustoso parlarsi addosso dei vari intervenienti. Sono il primo a dire, perché ho assistito e visto, che succede purtroppo di trovarsi ad incontri che tradiscono spesso le attese, ma mi pare che questi oggettivi difetti dei festivàl siano esattamente la conseguenza del loro voler essere "popolari", e non può che essere così, anzi è di fatto un finto problema. Nessuno degli organizzatori, penso, ha la pretesa di acculturare integralmente gli indotti, ma piuttosto di gettare semi, spore, ami, esche, fate voi, insomma, di creare un'enorme rete a strascico che, pur con i rischi della carrozzonaggine omnicomprensiva, ha la potenzialità di lasciare un po' di limo dopo cotanta piena (troppe metafore, oggi...), ovvero di stimolare chi già sa a saperne di più e chi non sa a desiderare di sapere. Si potrebbe pensare a qualche forma meno tonitruante di popolarizzzazione della cultura: resta inteso che, qualsiasi giusto tentativo si faccia per portare i saperi umanistici fuori dal chiuso delle accademie, bisogna anche accettare senza scandalizzarsi l'eventualità che essi saperi possano ricevere scherno, incomprensione, rifiuto. Il popolo è moltitudine, c'è chi ragiona di testa chi di pancia. Spero che non si finisca col solito "armiamoci e partite,", ovvero "rendiamoci popolari, però pensaci tu, che a me la ggente fa senso". E ci si rassegni al fatto che la popolarizzazione della cultura può comportare investimenti a fondo perduto (ovvove!!).

2. Dove portiamo il liceo classico? A mio parere, le discipline umanistiche sono già state diluite a sufficienza nel corso degli ultimi decenni, se è ben vero che latino e greco, al triennio, totalizzano sette ore settimanali su un plafond di non meno di trenta. La proporzione migliora certo se si aggiungono italiano, storia e filosofia, me resta inteso che i saperi caratterizzanti dell'indirizzo classico hanno quello spazio lì, e non mi pare davvero eccessivo. Veniamo invece allo specifico delle due materie: esse hanno delle oggettive difficoltà perché sono lingue di civiltà estinte, con una struttura diversa dalla nostra, parlano di argomenti lontani che difficilmente mandano in deliquio gli studenti (i ritratti di Agesilao, i prodigi per la nascita di Scipione) o che sfidano in modo arduo la comprensione (certi passi di filosofia o teoria della storiografia, per tacere dei testi poetici). Eppure, chiunque abbia frequentato con un minimo di giudizio il classico, e magari non ci mandera' comunque i figli, sa che dietro la fatica a volte improba e noiosa di certi pezzi di programma si trovano tesori che spalancano orizzonti metavigliosi. Cosa si può fare, allora, detto pure che il valore formativo di questi studi è riconosciuto da molti (e avversato da altrettanti, lo so bene)? È chiaro che vi sono due vie del tutto divergenti: o li si rende magnificamente accessibili a chiunque abbia un minimo di volontà di studiare, e però allora si elimina del tutto l'ostacolo della grammatica e si legge tutto in traduzione, facendo quindi cultura classica generale; oppure si decide che l'unico modo per non avere studenti addolorati dai paradigmi dei verbi politematici greci è fare in modo che gli addolorabili neanche entrino al classico; detto più crudamente, si trasforma questo liceo in un selettivissimo giardinetto di poche intelligenze con la media dell'otto che, non avendo difficoltà alcuna a transitare dal gerundivo al futuro attico, non trovandosi mai a doversi chiedere a che cosa servono discipline in cui il successo è per loro sostanzialmente agevole, apprenderanno gioiosamente e senza afflizione o complessi di anacronismo e di inutilismo, perlomeno non peggio di quelli dello scientifico alle prese con le derivate "utilissime" derivate t. Oggi si sa, la situazione è più ambigua: la grammatica si studia, i testi in lingua originale pure, le difficoltà ci sono, epperò ci sono anche ottimi salvagente costituiti dagli esami di settembre, per tacere della stagione dei debiti formativi senz'obbligo di saldo. In tal modo vanno avanti lungo i cinque anni del curricolo classi di qualità inevitabilmente eterogenea, con livelli di motivazione disuguali, oltre ad un cospicuo gruppone di gente che sta in classe perché "il classico è una tradizione di famiglia". Il che non è esattamente un bene per la didattica, come si capisce. Come non è un bene che i genitori dei classicisti, terrorizzati dalla prospettiva di avere un figlio nerd ed emarginato, gli permettano di (o lo costringano a) inzeppare i pomeriggi di attività parascolastiche che, ove in numero e/o intensità eccessiva, finiscono per danneggiare lo studio e stressare il giovine. Col che nessuno contesta il fatto che si possa studiare greco e seguire corsi di teatro o dedicarsi ad uno sport, però sinceramente, per aver provato direttamente cosa siano gli studi classici, fatico a credere alle mitologie dei superbravi e superimpegnati che tengono insieme voti altissimi e non meno di tre-quattro attività extra (Eugenia, se stai leggendo, sappi che quest'idea me la sono fatta da MOOOOLTO prima di conoscerti). È chiaro che, perché si verifichino certi mirabolanti risultati, la corda, da uno dei due lati, dev'essere meno tesa che in passato. Oppure sono nati davvero i bambini indaco e allora meglio così. Io resto dell'idea che, per avere un senso e un'utilità formativa, latino e greco (a scuola) debbano rimanere difficili ed impegnative. Altro è il loro livello divulgativo, e allora rimando al punto 1. Resta inteso che trasformare il liceo classico nella scuola di tutto un po', con latino e greco spiaccicati tra diritto, informatica, tre lingue straniere, perché sennò gli studenti non maturano le competenze vere che servono nella vita vera, è come tenersi un coltellino svizzero in una stazione spaziale "perché non si sa mai": a quel punto piuttosto buttate tutto.  

3. Le repliche alle accuse: immaginando pure che la frase: "Sono saperi inutili, ma servono più degli altri" possa essere bollata come spocchiosa reazione "di sinistra" alle accuse neoliberiste, e per converso la replica: "Sono saperi critici" possa configurarsi come motto destrorso da sbattere in faccia all'omologazione del pensiero marxista-sessantottino (schema orribilmente orribile, ma oggi ce lo facciamo andar bene), domando: sono davvero risposte stucchevoli, come dicono alcuni? Ammettiamo pure che la prima, nella sua voluta provocatorietà, risulti controproducente ed antipatica quanto la seconda può apparire pretenziosa. Però, mi domando e chiedo, se nell'upgrade dell'umanesimo dobbiamo rinnegare il valore disinteressatamente formativo di discipline che effettivamente servono ANCHE a sviluppare il senso critico, alla fine cosa resta? Ci vuole tanto a capire che il bello degli studi umanistici è autonomo e prescinde dal colore politico? Quale definizione, quale replica politicamente neutra si potrà dare per difendere questi studi, se si rinnega la loro capacità di elevare il pensiero verso livelli superiori di comprensione della realtà? Certo, detta così sembra una chiusura recisa contro ogni prospettiva di popolarizzare queste discipline, ma non è così, perché il vero fine delle medesime non è né la popolarità né l'elitarietà. Bisogna rassegnarsi al fatto che questi saperi non sono solo estetici, critici, formativi, maieutici, dialettici, panlogistici, ecc., la verità è che, nell'attuale contesto di un mondo post-ideologico e globalizzato in cerca di nuovi equilibri e sostegni, questi saperi hanno il drammatico difetto di essere scomodi, e non c'entra lo studio della grammatica greca. Sono saperi che mettono l'uomo da un lato di fronte alle questioni ultime sul senso dell'esistere, sbattendogli in faccia concettucci come morte, eternità, non-essere, dall'altro scavano nel profondo dell'animo per indagare i conflitti, le debolezze, le altezze e le cadute della nostra specie. In entrambi i casi, il sogno di un'umanità felice, consumatrice, integrata, relativisticamente diluita in un tutto immanente e a-problematico viene infranto o perlomeno incrinato troppo pericolosamente. Il bello delle ideologie è che, essendo esse di fatto religioni della ragione, danno una risposta a tutto. Le discipline umanistiche sono piuttosto volte a porre quesiti. E questo, oggi, non è ritenuto ammissibile. Quale circuito economico reggerebbe se i suoi attori (produttori e consumatori) si fermassero a pensare alla condizione passeggera dell'uomo, se riflettessero DAVVERO sull'abisso di misteriosa essenza che fa da sostrato al nostro fugace brillare lungo la linea del tempo? L'umanesimo è il prodotto insopprimibile del nostro essere animali razionali e simbolici, ma i suoi esiti estremi, ove si prescinda dall'approdo religioso, sono di ampiezza sconcertante e mozzafiato, perché obbligano la psiche a infrangere le proprie forze contro un limite invalicabile e terribile, se interiorizzato appieno. Potrebbe quindi un modello sociale, qualsiasi modello sociale, permettere il propagarsi di sentimenti e idee così corrosivi? Certamente no: conviene semmai che lo studioso sia ridotto a passacarte stritolato dalle mediane bibliometriche, che si faccia reggere l'accusa di parrucconismo accademico per rendere antipatici e quindi inascoltabili gli umanisti, che la letteratura si neutralizzi, diventando fucina di romanzetti piatti con storie inutilmente realistiche, senza un vero messaggio o una riflessione degna di nota e piene di gente che si zompa, o cornucopia di raccoltine innocue di aforismi. Questo, temo, sarà l'orizzonte "popolare" della cultura, se si teme che il suo versante "alto" risulti addirittura eversivo per gli equilibri del pianeta. Ammettiamo che il problema è questo, mentre il resto sono corollari. Poi discutiamo.
Mea quidem sententia, scilicet.          

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