Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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sabato 24 dicembre 2016

Senecana (1) : quanto ce piace ciangotta'...

[avviso ai lettori dal naso fino: ricordate che è la pagina di un blog...]

Dedichiamo qualche post ad alcuni punti fondamentali del pensiero del più grande filosofo di Roma e isole circonvicine, convinti della sua invincibile modernità.
Tralasciando la biografia e le complicate risultanze di un'epoca piuttosto ardua da viverci dentro (guardate cosa gira sul web, che bellezza...), diciamo che Seneca rispecchia nel suo animo complesso e multiforme un'ampia gamma delle disposizioni umane: filosofo stoico che non disdegna di praticare l'usura, teorico del disprezzo delle ricchezze purché a lui rimangano quei tre milioni di sesterzi giusti giusti per conseguire la virtù senza scendere a compromessi con lo stomaco, consigliere del principe finché tigelle e soprattutto Tigellino non gli consigliano di lasciar perdere, alfiere di un umanesimo quasi paolino e primo firmatario della mozione per far fuori Agrippina, adulatore senza faccia dell'imperatore Claudio per tentare di rientrare dall'esilio e poi zucchizzatore del medesimo quando costui morì, Seneca ci ha lasciato tesori di saggezza difficilmente comparabili coi prodotti di qualsiasi altra stagione della cultura occidentale (pace Volo et Moccia).
L'efficacia del messaggio senecano sta nella sua rinuncia alla chiacchiera astratta, in omaggio sia a certa tradizione cinico-stoica sia alla mentalità concretissima dei romani suoi uditori, il tutto a vantaggio di una prosa non certo semplice, ma costellata da esempi e metafore di squisita efficacia. 
Il bello è poi che Seneca ha tradotto in massime solidissime e indimenticabili i presupposti di una filosofia che per colmo d'ironia ci è pervenuta, prima di lui, desolatamente a pezzi. Spesso infatti si omette di considerare che la filosofia stoica, fondata dal greco/fenicio Zenone di Cizio laggiù verso il III sec. a.C, ha avuto bensì esponenti di genialità indiscussa (Zenone appunto, Cleante, Crisippo, Panezio, Posidonio), il pensiero dei quali ci è giunto tuttavia frammentario e spezzettato (guardate un po' qui...) in citazioni di altri autori, autori che in non pochi casi erano avversari dello stoicismo, le cui testimonianze vanno quindi prese con estremo beneficio di inventario.
La cosa stupefacente è appunto che una filosofia così architravica per la cultura occidentale risulti, alle sue fonti, per noi solo ricostruibile da una messe di frammenti non sempre chiarissimi, alle volte vagamente contraddittori tra loro o assai difficili da interpretare nel contesto generale (noch, Herr Max Pohlenz, wir lieben dich...).
E dunque.
E dunque il ruolo di Seneca come diffusore di filosofia bellissima ma perduta nella sua interezza originale appare di primissimo piano e meritevole della più ampia commendevolezza.
Certo, come egli stesso afferma, il SUO stoicismo non è rapsodico montaggio delle teorie dei greci, alla maniera di Cicerone diciamo (ricordate che ecc. ecc.), ma cosciente e responsabile rielaborazione di un mare magnum di precetti, a volte accettati, altre volte rimodernati in ragione delle esigenze dell'epoca sua. Egli è in tutto e per tutto erede della tradizione della sua scuola, nella quale si sono succeduti maestri che non hanno avuto problemi a rimettere in discussione, anche pesantemente, le dottrine messe a punto dai predecessori (o almeno così ci pare di capire dai frammenti).
Così lui pure assorbe tonnellate di stoicismo, ma non esita a mostrare gradimento nei confronti di sapide spezie epicuree, senza contare, come gente spocchiosa ha messo in luce ormai da millenni, il contributo fondamentale offerto dalla sapienza medica del tempo alla messa a punto delle teorie filosofiche.
Ricavare una condensazione minima di un pensiero ampio e articolato come quello di Seneca sarebbe, in questa come in qualsiasi sede, impresa a dir poco ridicola. E per le imprese ridicole abbiamo già provveduto. Per quanto concerne le intenzioni di questo umile blogghino, mi vorrò più e più volte soffermare su un aspetto del modus docendi di Seneca che mi ha sempre colpito in particolare e che in questi periodi di bullismo mediatico e arene social mi pare di tutta importanza: l'atteggiamento di un filosofo che, pur seguace di una dottrina in grado, teoricamente, di dare una risposta a TUTTO, è sempre perfettamente conscio che tra la luminosa perfezione delle concezioni astratte e il momento in cui esse devono calarsi nel concreto della quotidianità esiste una discrasia irriducibile. Detto meglio: altro è convincersi che l'universo obbedisca ad una struttura razionale ed infallibile, altro è illudersi che tali canoni di perfetta razionalità valgano davvero per tutti gli aspetti della vita umana, la quale sarebbe niente più che un prevedibile algoritmo facilmente controllabile una volta che, sapute le cause dei singoli fatti, se ne possono dedurre irrefutabilmente gli effetti. Con la conseguenza di essere sempre in grado di collocare senza errore il Bene e i Buoni da una parte e il Male e i Malvagi dall'altra.
Seneca forse ci sperava, ma ha sempre saputo, e le sue opere sono lì a dimostrarlo, che la tragicità della condizione umana riposa sull'irrisolvibile contrasto tra volontà individuale e attuazione della medesima in contesto popolato da altri che non siamo noi, nonché sulla triste certezza che il male non è un'entità esterna a noi, ma un prodotto delle nostre più insondabili fragilità. Il Bene assoluto che lo stoicismo promette e che consiste di fatto nella virtù morale, la quale a sua volta discende dalla comprensione della perfetta razionalità del mondo e dall'adeguamento altrettanto razionale della nostra anima ai suoi processi, questo Bene assoluto giace intatto e invitto nelle menti dei filosofi, ma per tutti gli altri, e Seneca si colloca fra costoro, è conquista quotidiana pezzo per pezzo, sempre perfettibile, tra cadute, risurrezioni, vicoli ciechi, cambi di direzione e purtroppo sì, anche palesi deviazioni nell'incoerenza (leggete qui cosa dice Montanelli di Seneca, due mesi prima di tirare le cuoia...).
Le vicende della Roma dei suoi tempi avranno poi convinto Seneca di qualcos'altro, che forse resta più sottotraccia, a motivo del carattere eminentemente razionalistico dello stoicismo: il fatto cioè che nessuno può veramente ritenersi detentore del Bene, poiché, a seconda delle prospettive, la tragicità dell'agire umano esige una goccia di male anche là dove si vorrebbe un esito moralmente buono. E' il dramma della ragion di Stato che Seneca ha conosciuto dal di dentro come pochi, ma è il prolungamento di quello stesso dramma che Virgilio aveva intravisto tra le pieghe del provvidenzialistico mito di Enea carinamente commissionatogli da Augusto via Mecenate: una volontà superiore guidava le azioni dell'eroe verso il radioso futuro della fondazione di Roma e del dominio di questa sul mondo intero, eppure tale disegno ha richiesto un tributo di dolore innocente e di sofferenze individuali e collettive che portano Virgilio stesso, all'inizio di un poema pure epico-celebrativo, a chiedersi se ne sia valsa davvero la pena.
Sono gli interrogativi che ci poniamo oggi noi occidentali del terzo millennio globalizzato, allorché registriamo le conseguenze quotidiane di processi storici alimentati dai nostri predecessori che sembrano presentare il conto tutti in una volta in questi ultimi anni. Di qui l'angoscioso dubbio che forse siamo noi gli sbagliati, mentre tutti coloro che riversano critiche su noi e sul nostro modo essere e di vivere, considerandoci causa del male di tutto il resto del mondo, sembrano essere invincibilmente nel giusto.
Ebbene, la risposta alle questioni di oggidì è ardua e complessa, ma gli spunti offerti dal pensiero di Senecuccio nostro, posto pure che non portino ad alcuno sbocco risolutivo, mi paiono comunque stimolanti per impostare un discorso critico che ormai è merce rara sul web, dove tutti procedono per verità autoevidenti e autopiaciute, in genere ammannite da profeti e profetesse dell'ovvio che prima guardano dove va il mainstream riguardo le singole questioni, dopo fanno due conti se sia più conveniente, in termini di seguaci social, mettersi in scia o dire l'esatto opposto, quindi scrivono. Bravi, eh, ma c'è anche di meglio in giro.
Concludo questo post introduttivo alla serie Senecana ridendo in realtà di me stesso, poiché affido alle pagine di questo blog che non ha certo il seguito di quelli là di cui sopra riflessioni assai impegnative che meriterebbero ben altro palcoscenico e numero di lettori. Non per me, per Seneca.
Vabbe', ma la Spocchia si nutre di sé medesima, dai...
Appuntamento al prossimo post dal titolo: Il mondo è tutto un logos.

                                                                                                                                         [1- continua]  

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