Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 17 novembre 2017

LE GRANDI TELECRONACHE DI ELIGIO DE MARINIS. ITALIA-SVEZIA 0-0: "BUONASERA A ENTRAMBI".



Considerando che ormai l’italica popolazione non si indigna più per nulla, sarebbe paradossale vedere domenica curve schiumanti di rabbia per la mancata qualificazione ai mondiali. Ma ci aspettiamo di tutto.
No, ma non succederà nulla: nulla è accaduto in campo, nulla accadrà domenica, a parte la solita corsa al piagnisteo e al caprone espiatorio. Personalmente, mi ha fatto molto peggio l’uscita alle semifinali di Italia ’90: là c’era una nazionale VERA (Zenga tra i pali, Baresi, Maldini, Donadoni, ROBERTO BAGGIO, Schillaci, Vialli, Mancini, Ferrara, devo proseguire…?) che giocava convinta di difendere i colori di un popolo intero. Qui no, qui una serie di fighetti smidollati, di brocchi strapagati, di bimbominkia vestiti d’azzurro affidati ad un simpatico (?) oste pronto a mescere vino misto a fiele. Senso della maglia, no. Inutile piangere adesso. È gente che non è mai entrata nello spirito della nazionale, men che mai in partita. Occhi vitrei, facce inespressive, mai un guizzo, mai una scintilla. Basta vedere le facce di Bernardeschi e Gabbiadini nelle interviste del dopo partita, e il nulla delle loro frasi. 
Nulla in campo, nulla fuori. Questa nazionale è specchio di molte cose.

Finire fuori da un Mondiale dopo un doppio confronto con una squadra globalmente di serie C (o Lega pro) buona solo a respingere senza mai tirare in porta, chiudere una china discendente presa ancora 7 anni fa, interrotta da brevi barlumi di illusione agli Europei e ora trovarsi qui smarriti, come lo studente che ha provato con modesti mezzi a evitare la bocciatura, ma no, troppi risultati mediocri in fila e ciao: tutto il 2017 è stato una corsa al baratro, come nei migliori drammi scolastici che si consumano da marzo a giugno.

Il catino di San Siro si limita ad una coreografia tricolore coi fogli A3 verdi, bianchi e rossi, poi una bella bombardata di fischi all’inno svedese, perché da noi la sportività è di casa, quindi Bonucci con la mascherina di titanio a dirci che siamo a pezzi prima ancora di iniziare.
I tratti interessanti del match? 
• L’infinita serie di fraseggi laterali Candreva-Darmian; 
• gli affondi a vuoto di Parolo;
• le giravolte di Jorginho;
• i traversoni finiti nel niente;
• gli sciocchi fraseggi di ripiego a centrocampo;
• Bonucci che si toglie la mascherina e gioca con un ginocchio e mezzo perché crede di essere finito dentro Holly e Benji;
• la telecamera inquadra Moratti e Galliani in tribuna e Zenga dice: “Buonasera a entrambi!”.
• Darmian che finisce privato della cassa toracica dopo uno scontro con Lustig;
• El- Shaarawi con la riga di lato;
• Alberto Rimedio che, mentre siamo prossimi al naufragio, ribadisce che ci vuole pazienza;
• le interessantissime osservazioni tecniche di Zenga (“Se abbassiamo troppo Candreva e Darmian non abbiamo forza per prenderci la palla”; “Berg si abbassa su Jorginho”);
• Bernardeschi che entra e si fa il triplo segno della croce;
• “Ormai parla da solo, Gian Piero Ventura”; “Continua a guardare fisso a terra, Gian Piero Ventura” (cit. Antinelli): fidatevi, sono i segni clinici della melancolia.

E così un movimento celebra il suo fallimento. Del resto la nazionale è un intervallo tra due partite di club: l’Italia guicciardiniana, dove chiunque bada solo al proprio particulare, è tutta in questa catastrofe. Possibile, ci chiedevamo, che i nostri teneri under 21 della nazionale olimpica non riuscissero mai a combinare un tubo alle Olimpiadi, Olimpiadi che certo avevano il difetto di coincidere con l’inizio del nostro campionato? Vabbe’, lasciamola lì.
Forse che la visibilità e i rientri economici in termini di sponsor che dà la nazionale non sono poi così un grande incremento rispetto a quando si guadagna nei club, laddove un infortunio in nazionale può compromettere un’intera stagione (e relativi contratti) e allora evitiamo di darci troppo dentro? Vabbe’, lasciamola lì.

Sì, perché è anche ora di smontare il mito del calciatore-eroe che incarna i valori di una civiltà. Il calciatore, oggi, è una macchina da soldi, manager di se stesso, e il gioco del calcio è una fonte di reddito, lecita finché si vuole, ma da lì a dire che dal calcio si possono ancora estrarre nobili esempi di virtù ce ne passa.
Diciamo ciò, perché nella stagnante aria milanese aleggia già l’interrogativo: “E adesso? Da dove ripartire?”. E avanti con la solita litanìa: “Ripartiamo dai vivai”, “Valorizziamo i giovani” e via ciarlando.
Sarebbe ora di prendere atto che ci vuole una rivoluzione ben maggiore, ed è qualcosa che riguarda il modo stesso di concepire questo sport, almeno da noi:
1) La si smetta di considerare il calciatore come un dio in terra: li vediamo, alla prova delle grandi competizioni, i nostri “atleti”, onesti broccherelli che tirano insieme un campionato nazionale ormai asfittico, ma che di più non danno. La loro vera specialità è tirare sul prezzo del contratto, come squallidamente abbiamo visto fare Donnarumma l’estate scorsa. Basta con le mammine che vengono a colloquio a scuola ribadendo e tribadendo che “Sì, il mio [aggiungere nome a piacere] ci tiene tanto allo studio, però il calcio, sa, professore, è una scommessa importante…”. Se vabbe’, salutami il Bernabeu. Poi finiscono in serie D (se va bene) ed è colpa nostra che gli abbiamo tarpato le ali col latino.
2) La si smetta, di conseguenza, di perdonare qualsiasi disastro piccolo o grande costoro combinino, perché poi è inutile gridare e stracciarsi le vesti quando “i nostri giovani” si abbandonano ai peggiori comportamenti, perché i loro esempi sono quelli lì: quando si schiantano a 120 all’ora con i loro bolidi fiammanti, “ma sono ragazzate”, tanto per dire, non si pretenda poi che un pubblico facilmente impressionabile come quello dei giovani tifosi non si lasci traviare, “perché quelli alla fine c’hanno i soldi, tu chi sei per criticarli? Sei invidioso!!”. 
3) Si prenda atto, una volta per tutte, che il rapporto tra i “successi” di questa gente e i loro guadagni è una follia etica. Discorso, beninteso, che non è né di sinistra né di destra, perché l’Etica non ha bandiere. E non si venga a ciarlare che i calciatori “fanno girare l’economia, quindi prendono il giusto per gli introiti che generano”. Non sono questi miliardari in mutande a cambiare le sorti del mondo, né la loro attività genera alcun contenuto valoriale: la loro forza economica sta nella forza irrazionale del tifo che generano, e non è con l’irrazionalità che si fa progredire la civiltà, più semplicemente si fanno lievitare i guadagni di chi questa irrazionalità sa convertirla in merchandising. E se anche dalle loro pedate dipendono stipendi e pagnotte di giornalisti, cronisti, tecnici audio e video delle relative trasmissioni dedicate, venditori di sciarpe e famiglie al seguito, ciò non giustifica che essi guadagnino quanto i predetti lavoratori non guadagneranno neanche vivendo 30 vite consecutive. La retorica del gesto atletico, del campione che parte dal polveroso campetto di provincia e si trova sul grande palcoscenico magari riscattandosi da una vita difficile o anche solo anonima, dell’emozionante azione da gol che rende felici i tifosi che nello spettacolo sportivo scaricano ed esorcizzano le proprie frustrazioni quotidiane… bei quadretti del tempo che fu: la storia dice di gente che, facciamo l’esempio di Cassano, seppure in gioventù può trovarsi economicamente e socialmente svantaggiata, raggiunge grazie al calcio vertici di benessere economico non meno scandalosi della precedente miseria, se si pensa ad altri che poveracci restano solo perché non sanno fare gol. Attenzione, cioè, all’idea “democratica” del grande campione che fa strada solo grazie alla sua virtù e si riscatta dal triste passato: il fatto che lui abbia la virtù, e altri no, e che questa virtù lo renda un nababbo, rende nuovamente “aristocratica” tutta la situazione, perché alle vecchie ingiustizie basate su antichi privilegi se ne sostituiscono semplicemente di nuove. Se era ingiusto che uno fosse nobile (e ricco) per nascita, guadagnare da calciatore certe cifre per virtù pedatoria “innata” è tanto uguale. E alla fine questi idoli non educano in nulla le masse: sanno che, vincano o perdano, i loro portafogli si gonfieranno. Dove sta il merito? Credete che anche il più ingrifato dei tifosi non senta dentro di sé quest’assurdità? Credete che certe barbarie che vediamo svolgersi sugli spalti dei nostri stadi non dipendano anche da questi fattori inconsci che si celano dietro l’esibita idolatria dell’eroe? Altro che sfogo esorcistico delle frustrazioni. 
4) Per dire, insomma, che oggi il calcio è business. E non c’è nulla di male. Ma il business, di suo, non è buono né cattivo: dipende da chi lo gestisce e come. E se davvero vogliamo applicare certe regole, proprio quelle del business, questi bambolotti devono prendere quanto meritano e venire considerati quanto meritano, e oggi sono tutti sopravvalutati, come certi pacchetti azionari che fanno la bolla per poi esplodere. A cascata, i giovani e giovanissimi (e i loro genitori) devono crescere senza concepire la carriera calcistica come l’investimento della vita, il biglietto milionario della lotteria, l’attività più desiderabile perché assai più redditizia di molte altre. Se fossimo tutti calciatori, ci saremmo estinti da un pezzo. Si ricordi che alla base della passione sportiva e relativa motivazione esistono anche elementi immateriali. Quando si difendono i colori della propria patria, non è una questione di contratti che si ritoccano verso l’alto: è lo spirito di un popolo che trasmigra nell’azione dell’atleta. Ma l’atleta, per incarnare questo mondo emotivo, deve svuotarsi dei suoi egoismi individuali e farsi simbolo dei valori che tengono incollato il pubblico alla bandiera. Valori, di necessità, non quantificabili né “pagabili”. Questa è la nazionale come dovrebbe essere vissuta. Bisognerebbe però partire dai club, eliminando dalla prospettiva del calciatore italico le condizioni di vita di un monarca ellenistico: quando tutto il movimento finirà di viaggiare su scale quantitative di fatto insostenibili, e si recupererà il valore anche simbolico del gesto sportivo, allora forse crescerà una generazione di atleti veri e non di affaristi di se medesimi. Direi che per il 2300, quando i mondiali di calcio si giocheranno su Aldebaran, dovremmo essere pronti. Chi vivrà vedrà.

[Potremmo evidentemente aggiungere che lo sfacelo tecnico ed etico del nostro calcio si inserisce nel più generale sfacelo culturale di un Paese che ha deciso di buttare a mare la cultura, sia perché certe élites l’hanno considerata cosa loro e ne hanno fatto un balocco per parlarsi addosso alla faccia delle masse, sia perché altre contro-élites, in nome di una non meglio identificata ideologia pop-consumista, hanno demonizzato l’umanesimo e tutto ciò che consente lo sviluppo dello spirito critico e del pensiero indipendente: di qui la creazione di tutta una generazione di eroi a due dimensioni, calciatori compresi, che nell’infantilismo, nel vizio e nell’ignoranza, sempre perdonati in nome dei guadagni generati, sono assurti a nuovi simboli dell’individuo vincente; potremmo aggiungere che, esaltando il tipo del belloccio che fa ascolti o dello sportivo che fa soldi in opposizione allo sfigato che, poveretto, studia per diventare qualcuno di forse meno mediatico ma di gran lunga più utile alla società, certi media hanno gettato intere generazioni di gente ‘normale’ in oceani di frustrazione (o peggio) per il senso di incapacità di aderire alla figaggine e per quello di inutilità connesso coi propri sforzi, ridicolizzati da chi predicava il successo facile basato sull’estetica o sulla pedata: di qui la crescita di una generazione di montati sbruffoni, convinti di essere tanti piccoli cristianironaldi e bravi a prendersi gioco degli ‘sfigati’, tutta gente alla prova dei fatti che si è sgonfiata nei tornei sponsorizzati dalla macelleria all’angolo, ovvero tutta gente che nel mondo del lavoro VERO darà un contributo risibile, altro che far girare l’economia; potremmo aggiungere che una nazionale di nullità sopravvalutate è la propaggine estrema di un sistema educativo che non ha più il coraggio di dire alle persone quanto valgono e se si possono permettere certe aspirazioni o è meglio ripiegare su obiettivi più modesti, perché ormai alla scuola si chiede il todos caballeros, tutti bravi perché questa è (sarebbe) l’essenza della democrazia: di qui la nascita di una generazione di gente che fatica nella vita perché non è mai stata educata alla gestione dell’insuccesso e alla considerazione consapevole dei propri pregi e limiti. Potremmo. Ma evitiamo, poi direbbero che stiamo strumentalizzando…]

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