Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 15 settembre 2013

I grandi tour culturali di Eligio de Marinis. Machittevòle@festivaletteratura. Siamo tutti Mario Bros.

[Pre-avviso: a tutti quelli che a fine lettura alzeranno il ditino dicendo che la mia ricostruzione del parallelismo videogiochi-cartoni animati è cronologicamente disomogenea, ricordo che i prodotti culturali di un'epoca non vanno mai di pari di passo (letteratura e pittura romantiche, per dire), eppure mostrano ad uno sguardo panoramico ineludibili affinità. Gioiezze e abbraccitudini].  

[Diario del capitano, data astrale 5 settembre 2013]

Saltabeccando tra uno scrutinio settembrino (bocciali!bocciali!) e un puccioso matrimonio, non avremo grandi occasioni di venire quest'anno a Virgiliopoli, nondimeno oggi qualcosa riusciamo a sentire. Mantova è come sempre un crogiuolo di etnie, nel senso che, passeggiando amenamente per Piazza Sordello, odo non solo accenti norditalici più o meno familiari, ma bensì persino invece addirittura gente del sud e pure TEDESCHI in giro con tanto di brochure degli eventi e relativa cartina orientativa. Ora, sarà pur vero che una forte percentuale dei partecipanti al festivàl forse viene più per curiosità che per altro, e magari tra costoro si celano quei famosi italiani che leggono in media meno di un libro all'anno. Però il grosso della gente alla letteratura tiene davvero, vedo in questo momento, negli augusti corridoi che conducono all'aula magna dell'università, individui di età assai diversa che confluiscono e la cosa mi dà un certo piacere. Sì, la quota bimbominkia è rispettata, ne ho giusto tre qui a fianco,  ma...
Comunque, che una città medio-piccola, pur di enorme tradizione culturale come Mantova, riesca anche in tempi grami come quelli odierni a calamitare tutta 'sta gente ad ascoltare scrittori che provengono da dovunque, e parlano di qualunque cosa, permettendo di soddisfare davvero tutti i gusti, io dico che siamo al miracolo. È la prova della tesi che noi pervicacemente sosteniamo almeno dai tempi dell'esordio di Del Piero nella Juventus: non è vero che gli italiani sono tutti ignoranti o non amano la cultura, con la quale al massimo si possono fare i panini, vero Tremonti? No, gli italiani amano la cultura, solo che siano offerte loro occasioni vere e coinvolgenti e non pallosi vernissage i cui protagonisti e relativi ospitanti si parlano addosso, a ribadire che loro sono tanto bravi e grazie al popolo bue che è venuto a sentire, ma tanto non capirà niente. Per fortuna situazioni di questo tipo si verificano di rado a Mantova. Giusto quando un quintetto di boriosi cattedratici ciarlò su Pavese per concludere che "io mi sono laureata nel '70 su questo scrittore, ma a quasi 40 anni di distanza mi  rendo conto che è davvero difficile capirlo, anzi impossibile, l'ho capito solo io, voi ascoltatemi, se ci arrivate"; oppure, presente il giovane 98enne Gillo Dorfles, l'intervistatore che se ne esce con: "Gillo, possiamo dire che oggi, qui a Mantova, ad ascoltare te, ci sia la parte migliore dell'Italia?", come no, il primo leghista di passaggio ti avrebbe replicato: "No, c'è la parte d'Italia che al giovedì pomeriggio può permettersi di non lavorare e venire a Mantova a sentir conferenze!"; o ancora, presente l'ultimo Levi rimasto, Arrigo, il suo dotto interlocutore, il sempre modesto Riccardo Chiaberge, occupa circa un quarto d'ora a dirci di come lui, giovane giornalista pivello ma già pieno di talento, fu assunto a La stampa da Arrigo, e come ci siamo voluti bene, e come ho imparato il giornalismo da lui, e gnè gnè gnè.
Temevo, a dir la verità, che l'ottimo Carlo Freccero, relatore su argomento fiction, cadesse lui pure nell'autoreferenzialità di quello che ha lavorato in modo innovativo e ha capito la tv meglio di chiunque altro, e mi ricordo i miei primi anni a Rete4 ecc. Invece no, di sé Freccero ha detto solo l'essenziale e il vero, ovvero che l'hanno praticamente rottamato. Ciò però è emerso durante un intervento molto coinvolgente, cosa rara quando si legge una relazione già pronta, che Freccero ha detto in esergo essere dedicata soprattutto agli spettatori più giovani. Oddio, visti certi riferimenti 'alti' (Hegel, Lukacs, Propp, il formalismo, lo strutturalismo, l'iperrealismo, cose così...), non so quanti 'giovani' siano riusciti ad orientarsi, nondimeno grazie Freccy, ci sei arrivato. Freccy che ne sa, nevvero? è colui che ha riportato Boncompagni in Rai con Macao, ma sopratutto colui che ama e odia Berlusconi in egual misura, lodandone il mostruoso talento imprenditoriale, da lui stesso sperimentato quando lavorava a Rete4, e deprecandone con gocce di bile che cadono dagli incisivi la parabola politica, condotta a suo giudizio all'insegna di un bonapartismo cieco e psicotico che ha ammazzato la cultura in questo Paese, provocando peraltro la rovina lavorativa di Freccero medesimo. Insomma, un pezzo grosso che conosce altezze e cadute del sistema della creatività televisiva.
La relazione frecceriana ci ha dato novella linfa per portare avanti la nostra idea fondamentale sulla civiltà bimbominkia, ovvero che i nostri adorati Nativi Digitali vivono immersi in un mondo di stimoli che li porta a concepire ogni aspetto della realtà come parte di un gigantesco videogame, videogame che coincide di fatto con la vita stessa. Scopro peraltro che in tempi remoti (anno domini 1947) il filosofo Theodor Adorno, quello di "come si può credere in Dio dopo Auschwitz", scagliò i suoi fulmini teoretici contro, udite udite, I CARTONI ANIMATI DELLA WARNER BROS (Gatto Silvestro, Will E. Coyote, quelli lì, insomma), poiché a suo dire producevano nel pubblico una sorta di anestesia al concetto di violenza: la visione di storie in cui i personaggi si picchiano coi martelli e gli incudini, esplodono con la dinamite, cadono nei burroni, vengono spiacciati a fisarmonica e magicamente subito dopo ritornano intatti come prima, aveva, secondo l'Adorno, l'effetto di neutralizzare la concretezza del dolore e della sofferenza, poiché il bamboccio d'allora veniva portato a concludere che la violenza vera non esiste e tutto si risolve come se niente fosse (se avesse visto anche solo mezza puntata qualsiasi di Ken il guerriero, si sarebbe suicidato...). Il che fa il paio con quella che io e la Spocchia abbiamo ribattezzato: "sindrome del drago Shenron", in memoria del dragone magico di Dragonball a cui si chiede sempre di riportare in vita tutti gli umani uccisi dal cattivo di turno: il bimbominkia d'oggi si illude che, nel suo percorso scolastico, ci sia prima o poi uno Shenron che gli tolga le castagne dal fuoco, ergo lo aiuti, senza alcun merito specifico, ad avere i voti sperati con poca o punta fatica, esorcizzando evidentemente lo spettro dell'esame a settembre o peggio della bocciatura. L'importante è non faticare.
Dimensione cartoonesca e videoludica hanno quindi profondamente innervato gia da mo' il nostro modo di pensare, e noi che siamo cresciuti a pane, Mazinga e Street Fighter 2 lo sappiamo bene; ma, come dissimo già altrove, a noi è rimasta ancora la facoltà di distinguere il momento videogame dalla realtà vera. Se però oggi, ai nativi digitali, ogni occasione massmediatica viene declinata nelle forme del videogame, quale scampo può trovare il bimbominkia odierno?
Questo mi domando mentre Freccy declina l'ottima relazione: veniamo a sapere che nelle facoltà di Scienze della comunicazione americane il libro europeo più letto è la Poetica di Aristotele (Gelmini-Tremontiiiiii, la sentite questa voce????), perché in essa gli sceneggiatori di fiction trovano la base teorica del successo delle fiction medesime, ovvero il fatto di puntare tutto sull'intreccio lasciando perdere sociologismi o psicologismi calati dall'alto, poiché, come insegna lo Stagirita (Aristotele, sempre), il carattere emerge direttamente dall'azione, che è imitazione della realtà, senza bisogno che l'autore avverta il pubblico di questo & di quello; in effetti in tragedia la cosa funziona così (domanda volante: e Dawson's Creek, con le pippe mentali reiterate dei suoi interpreti, allora da dove spunta?); ulteriore struggimento giuggioloso mi addiveniva dal sentire che di là dallo zio Sam i miti greci sono studiatissimi, perché il loro intreccio prevede tutto quanto messo in luce dagli studi proppiani sulle funzioni della fiaba (mancanza iniziale, prove, scioglimento, ecc.), sì che Indiana Jones non sarebbe spiegabile senza le fatiche di Ercole (Gelminiiiiii, are you listening?). E quindi lodi lodi lodi alla narratologia e al suo studio (ok, ma non ai bambini del biennio del Liceo, sennò non leggeranno mai più un libro in vita loro....).
Ma la svolta quando avviene? Avviene, dice Freccy, quando la linearità dell'azione narrativa, con relative funzioni proppiane, si 'smonta' né più né meno come nei videogame: le vicende delle fiction videoludizzanti, che Freccero capostipitizza con Lost e le altre a seguire, sono come partite a scacchi che invitano lo spettatore a vedere e rivedere gli episodi per cogliere cose che magari al primo sguardo non erano chiare; i personaggi sono concepiti come eroi in lotta contro una realtà le cui regole non sono fissate all'inizio una volta per tutte, ma si rivelano man mano che la storia si dipana; essi personaggi sono poi messi in condizione di dover completare livelli narrativi per acquisire capacità via via più ampie che serviranno per gli ulteriori livelli della storia, ovvero per le stagioni successive della serie (e qui non possiamo non citare a supporto del Freccy il fenomeno anni '90 dei Librogame, che mettevano su carta esattamente ciò che avviene nei videogame, ah Lupo Solitario...); non è di fatto prevista un fine alla serie, che virtualmente può aprirsi ad infiniti sviluppi spiraliformi, sì che l'inizio della storia è un puro pretesto, il finale può anche sapere di posticcio, ove esso si riveli, poiché tutto il bello risiede nello sviluppo dell'azione. Freccy, ricicciando i concetti aristotelici di unità di tempo e luogo della tragedia, argomenta che una fiction come Prison Break è di fatto un gigantesco videogame, con un personaggio che ha addirittura tatuata sul corpo la mappa della prigione da cui dovrebbe sfuggire, e quindi la lotta è giocata contro l'unità spaziale, laddove l'angosciosa serie 24 vede i personaggi in lotta contro l'unità di tempo. Si tratta comunque di fiction in cui la storia è un puzzle che obbliga lo spettatore a partecipare attivamente per decifrare, quasi assieme ai personaggi, la situazione entro cui si svolge l'azione (e qui Freccy opina: tipico concetto di apprendimento attivo di scuola Dewey, vero, verissimo, chissà quanti hanno colto l'accenno...). Morale: la fiction italiana, che poi è tutta per Rai1 e Canale5, al confronto è pura preistoria. 
Analisi, come si vede, eccellente. Già certi film d'azione più o meno fantastici o fantascientifici americani, del resto, mostrano una struttura di trama che prelude ampiamente alla loro futura edizione in videogame, con sezioni arcade riconoscibilissime (da Spider Man a Minority Report, per dire...). Non v'è poi chi non veda come il concetto di potenziamento successivo delle abilità dei personaggi e quello di boss di fine livello da superare per accedere al livello successivo abbiano copiosamente innervato di sé le serie dei Cavalieri dello Zodiaco, di Sailor Moon e dei Digimon, tutti cartoni animati prottrattisi per stagioni e stagioni. Tutto si tiene, insomma. Ciò peraltro corrobora tutta la nostra riflessione sul bimbominkismo. Psichiatricamente parlando, già noi alfieri della generazione X abbiamo episodicamente sofferto della cosiddetta sindrome del mondo magico, ovvero di una deformazione mentale nel leggere la realtà che comporta la convinzione che tutto ciò che accade o ci accadrà sia orientabile solo ed esclusivamente secondo i nostri desideri, così che magicamente i momenti di opposizione dialettica con persone, cose ed eventi si risolveranno con la 'nostra' vittoria. Tale forma mentis, che io e la Spocchia conosciamo fin troppo bene (ah ah, sei pazzo, sei pazzo!!)(e quindi? verità e bellezza si nascondono dietro le pieghe della follia)(che cretino, si risponde da solo...)(ok, chiudiamola qui...), si concreta in una 'storia' che prima o poi deve vedere la fine; il mondo magico di estrazione videoludica, teoricamente, non dovrebbe finire mai, perché ad ogni livello ne seguirà sempre un altro, ogni episodio di Call of Duty non è mai quello definitivo, poiché io giocatore so che i produttori hanno pronta una nuova edizione, con nuove abilità da acquisire e potenziamenti vari da sbloccare. La qual cosa potrebbe forse parzialmente spiegare la da noi più volte denunciata bidimensionalità fantavirtuale che caratterizza il modo bimbominkiesco di rapportarsi col mondo esterno: i videogiochi di oggi hanno appunto la tendenza a proporre una realtà fantastica senza fine, in cui certo la violenza è ridotta a puro gioco (Call of Duty, appunto), e difatti sappiamo di ragazzi che vandalizzano cose e persone giusto perché secondo loro la loro vita non è altro che estensione  di quella dentro cui giocano quando accendono la PSP. La spirale vince sul cerchio, ma soprattutto il diaframma tra finzione e concretezza si sbirciola, sì che la concretezza si fa finzione e viceversa.
Vorrei quindi registrare almeno tre tappe dell'evoluzione videoludica a sue relative ricadute: i primissi-issi-issimi videogiochi d'azione dell'evo moderno (Pac-Man, Donkey Kong, Burger Time) avevano come caratteristica la proposizione di un'avventura abbastanza statica, con un crescente livello di difficoltà, senza che fosse prevista una fine. Più si era bravi, più si imparava a scansare i nemici e completare il livello: l'abilità progressiva era tutta, per così dire, del giocatore, mentre il personaggio guidato rimaneva sostanzialmente uguale a se medesimo, senza potenziamenti di sorta. Notevoli poi le varianti come Pitfall, in cui il simpatico eroe doveva attraversare caverne & oceani per giungere da qualche parte, ma in genere per completare l'avventura e riprenderla daccapo, magari coi nemici più veloci. Sono videogiochi che noi abbiamo appena annusato, perché eravamo piccini all'epoca della loro uscita. Videogiochi, mi permetto di osservare, sovrapponibili alle avventure virtualmente infinite dei cartoni di Hanna e Barbera (o ancora WB), sì che ad ogni episodio Yoghi e Bubu avevano il loro daffare ad interagire col ranger e con varia gente umana e animale a Yellowstone; non c'era tuttavia la prospettiva di un'evoluzione dei caratteri, né l'ambiente dell'azione conosceva significative variazioni. Finché c'era materiale da sceneggiare, bene, poi chissà. Direi che nella loro prevedibie circolarità, cartoons e videogiochi di questo tipo impedivano automaticamente l'immedesimazione dello spettatore, che coglieva senza dubbio il limite metafisico tra la propria vita reale, basata su una decisa varietà di situazioni, e la stereotipezza (o stereotipitudine) di gente che continuava a schivare barili scagliati da uno scimmione ubriaco fino allo sfinimento.
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La seconda generazione di videogiochi, grazie anche alle maggiori possibilità offerte dall'evoluzione della tecnologia informatica, presenta storie più o meno concluse (Mario Bros, Shinobi, Ghosts 'n goblins con uno sviluppo che prevede anche l'acquisizione di abilità progressive tramite oggetti (i funghetti, i fiori del fuoco, l'armatura,  i poteri legati alle diverse armi, ecc.). In parallelo a questo sviluppo noterei il fiorire dei cartoni in cui, bene o male, un cenno di sviluppo pur nella prevedibilità della trama è presente, così come l'evoluzione delle capacità dei protagonisti. Certo perché ciò avvenga bisogna uscire da Yellowstone e andare in Giappone a vedere Mazinga (e Goldrake, e Jeeg, e Gordian, e Vultus 5, e Golion.....) che, dopo millemila scontri con mostri meccanici di ogni tipo, salva definitivamente la Terra (passando da Z a Grande, of course, poi ci hanno spizzato pure Mazinkaiser, ma siamo in altre epoche). Il versante splatter è tutto appannaggio di Kenshiro coi suoi guerrieri sempre più forti e sempre più asfaltati, fino allo scontro finale col cattivone Raoul. Sul versante rosa, compaiono simpatiche bambinette munite di bacchetta magica che fanno tante cose buone ai loro fantastici amici, tutto in episodi in sé conclusi, inseriti però in una trama generale che comporta momenti evolutivi da una bacchetta all'altra (Creamy, Evelyn) o addirittura interessanti approfondimenti che la personaggia principale esercita su se stessa (Magica Emi, con May che a fine serie decide di rinunciare ai poteri magici per fare prestidigitazione a livello 'umano' come i suoi amici del Magic Arts). Sailor Moon, s'è detto, implementa con situazioni di lotta contro il male e sviluppo di poteri delle ninfette in più serie che guarda già alla fase successiva. Quanto ai Cavalieri dello Zodiaco, che risalgono a fine anni '80, quindi prima di Sailor  Moon, vediamo brava gente che sviluppa poteri sempre più ampi contro avversari sempre più forti, poi sarà la bulimia anni '90-2000 a estendere le avventure a prima (Episode G, The Lost Canvas) e dopo (saga di Artemide, saga di Apollo) la situazione di base. Qui assistiamo al trionfo del mondo magico cui anche noi dobbiamo molto, poiché, tendenzialmente, l'accrescimento delle proprie doti mira ad una conclusione abbastanza definitiva (espressione sciocca, ne prendo atto), nella fiducia che le traversie dei buoni abbiano prima o poi fine e non debbano riprendere da capo. E che i cattivi, che sono sinceramente ed inconfondibilmente tali, vengano debellati una volta per tutte. Non posso negare che la fruizione reiterata di queste storie abbia esercitato, su ingenii particolarmente porosi (il tuo, ad esempio...)(ma che ne sai?)(solo il fatto che ti dai ragione da solo...), una certa influenza e abbia predisposto a episodici momenti di sviluppo di una concezione del reale un pochino giocattolosa (un pochino? ha detto un pochino?)(pazzo, pazzo...)(zitti, ordine nell'aula da me presieduta!), tale per cui le persone a noi avvverse diventavano i cattivi da abbattere, mentre a noi spettava la ricerca indefessa di una sorta di codice di attivazione per generare nuovi poteri in grado di superare le situazioni avverse. Lo so, lo so, è successo. Eppure non si è mai frantumato il diaframma cui accennavamo. Perché? Sia perché va bene essere stupidi, ma scemi no, sia perché le storie cartoon-videoludiche in oggetto, proprio per la loro conclusività circolare (il buon vecchio Jeeg) o limitata serialità (i buoni vecchi Mazinga Z - Grande Mazinga - Goldrake, sì, era il terzo capitolo della saga, ma in Italia ci hanno fatto credere il contrario) si rivelavano per ciò stesso 'altre' dalla vita vera, in cui, come si capisce, nessuna situazione esistenziale è conclusa una volta per tutte.
Cominciò poi la moda dei videogiochi non solo 'lineari', ma 'multidirezionali', quelli cioé in cui, accanto al filone principale dell'avventura, si sviluppavano sotto-giochi o andavano cercati schemi-bonus segreti, magari girando su e giù per mezz'ore intere lungo un livello già visitato ad libitum in cerca di quel passaggino o di quell'oggettino che era sfuggito. Super Mario World per Nintendo 16 bit ne è un esempio eloquente. Ed ecco profilarsi l'idea del gioco infinito, che chiede continui ritorni sul già visitato e pazienti composizioni di puzzle per risolvere vicende parallele a quella che richiede il semplice arrivo in fondo al gioco  (Donkey Kong Country, per dire...). Il salto definitivo si ha con l'ingresso dei giganti Sony e Microsoft che, sviluppando sistemi di console dalla memoria extra-ultra espansa, creano avventure mostruosamente lunghe, serialmente inesauribili, articolate lungo catene di sviluppi, potenziamenti ed enigmi, giocabili online con sterminati per quanto ignoti co-concorrenti. La serialità cartoonesca si accoda, con realizzazioni che sono di fatto videogame a disegni animati (i Pokémon, Yu-gi-oh),  in cui in effetti una storia non c'è, sostituita da una serie interminabile di scontri che preludono ad altri scontri. In altri casi la storia è una palese successione di 'missioni' (Naruto), o più semplicemente una riproposizione ad sfrangendas pilas di un unico cliché (Dragonball, Dragonball GT, Dragonball Z, Dragonball gné gné, ecc.). Di evoluzione in evoluzione, il personaggio offre allo spettatore l'illusione della inconsistenza dei confini tra vita e gioco, perché queste storie, esattamente come la vita vera, non hanno fine o, come nel caso degli indecifrabili manga giapponesi di ultima generazione (Neon Genesis Evangelion, I Cieli di Escaflowne e strazi consimili), sono enigmatiche e provocanti nel loro ansiogeno parlar per allegorie, nell'assenza della distinzione netta tra buoni e cattivi (Nerv vs Seele), evocando proprio per questo una dimensione problematica ed irrisolvibile che prolunga nel cartone la quotidianità delle inquietudini del fruitore. Ed è da questo livello, come Freccero ha saggiamente colto, che pesca la fiction americana d'oggi, aliena ormai tanto dalle storielle ad episodi in sé conclusi (ah, Mary Tyler Moore, ah, I Jefferson, ah, Star Trek...) quanto da quelle più articolate, ma fondamentalmente lineari (ah, Beverly Hills, ah, Streghe...). Trionfa il multiverso di Lost, True Blood e gioiezze varie. E soprattutto, lo spettatore bimbominkia è circondato ovunque da scenari di mondo magico INFINITO, infinito però NEL BENE E NEL MALE, che lo convincono senza possibilità di fallo alcuno che la storia inventata e la vita vera valgono uguale. Alla base dell'anestesia emotiva dei nostri Nativi Digitali, però, resta un paradigma che abbiamo conosciuto noi per primi, ma che a loro ha provocato danni enormi: Pitfall o Mario o Sonic cadono in un buco, ma poi il gioco ricomincia e loro sono lì dov'erano; oggi il personaggio videoludico, quale che sia il tasso di sfiga e/o incapacità di chi lo guida, può addirittura 'salvare' la sua posizione su cartuccia, così da essere eternamente riattivabile (vedi alla voce Rei Ayanami); come il povero coyote che si friggeva la testa nel tentativo di bloccare lo struzzo e poi tornava come nuovo. Credo che la faccenda si possa condensare proprio in questo dettaglio: siccome tutto ricomincia, tutto si può riportare all'ultima posizione utile salvata, anche il dolore degli altri, sia che lo si infligga o che semplicemente vi si assista, è un episodio che si può cancellare per sovrascrivervi altro. 'E vabbe', gli passerà,', pensa il Nativo Digitale "è la sua vita [leggasi= la sua partita], non posso mica intervenire...".  Idem per il dolore che gli altri ci infliggono. Se il fidanzatino tradito uccide la sua ex, o il padre uccide i figli avuti dalla ex moglie, lo fa per 'salvarsi' una posizione più conveniente nella mappa della sua esistenza, una posizione in cui LEI, così disturbante nel suo rifiuto, non deve più comparire. Gli infiniti schemi offerti dal videogame dell'esistenza consentono di resettare il proprio profilo per crearne uno migliore, con gli add-ons giusti e senza le penalità che tanto hanno ostacolato la risoluzione del livello.
Tutto ciò, insomma, è la riprova tragica che l'evoluzione dell'uomo nella sua componente artificiale muta in modo grandioso ma terribile anche i suoi connotati psicobiologici. Eppure nessuno vorrebbe rinunciare al progresso; ma c'è chi da questo progresso viene psicologicamente travolto. E la storia continua.

3 commenti:

  1. Sono particolarmente contenta del fatto che sia stata dimostrata l' "attualità" della cultura classica e "libresca" in generale. ;-) Per quanto riguarda il collegamento tra i cosiddetti "delitti passionali" e la "forma mentis" che sarebbe stata instillata dai videogiochi, però... non è un'ipotesi un po' troppo ardita? ;-)

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    1. Lo sarebbe, se non avessi letto delle due pazze quindicenni che hanno ammazzato il vecchiardo che ci provava con loro in Friuli qualche mese fa e che si sono date alla fuga su un'automobile, dichiarando poi alla polizia: "Ci pareva di essere in un videogame".

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