Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

martedì 26 novembre 2019

Pietro Ichino sulla Brexit: cronaca di un rigore a porta vuota (per noi).

Interessante disamina su alcuni aspetti non collaterali dell'ormai stracca Brexit ci viene elargita in un articolo a quattro mani (due delle quali appartenenti al giuslavorista- ex sindacalista- scrittore e opinionista Pietro Ichino) pubblicato sul glorioso megafono della buona borghesia italica con sede in via Solferino a Milano. 
Dicono Ichino e il suo attaché che uno dei lati di gran lunga più deprimenti della Brexit è il drammatico impoverimento del discorso politico e civile che l'evento ha snudato in Angliaterra. Stupisce, capiamo dalle righe ichiniane, che la patria del Parlamento lungo e corto, gente che ha decapitato i suoi sovrani con un secolo e mezzo di anticipo su Lady Oscar, gente che ha la politica attiva e passiva nelle vene da tempi remoti, in anni in cui i nostri scrittori dovevano rifare tre volte un romanzo per riuscire a farsi capire da tutti gli alfabetizzati della penisola (cioè da pochi), stupisce insomma che PERSINO in Inghilterra un argomento non proprio semplice come la Brexit sia presente nel dibattito pubblico soprattutto in una serie di slogan fritti e rifritti (leave the EU, take back control!, deliver a clean Brexit, out means out!), e che di fatto quasi nessuno dei sudditi dell'Eterna sia in grado di sostenere un'argomentazione minimamente articolata pro o contro l'uscita.


L'Eterna

Tutto si riduce a qualche tweet, come da noi. Ma noi, si sa, siamo les Italiens, i perenni immaturi della politica; sono quasi trent'anni, ci sentiamo dire da mezza Europa, che abbiamo affidato le chiavi del vapore ad una serie impressionante di imbonitori mediaticamente efficaci, ma incapaci di cambiare davvero le sorti del Paese, ecc. ecc. Adesso salta fuori che gli inglesi sono messi, se non peggio, perlomeno come noi.
Ovvove.
Noi, si sa, siamo abituati a veder polarizzare piattamente l'opinione pubblica su qualsiasi cosa, che si sia pro o contro la Juventus, i sacchetti di plastica maggiorati di prezzo al supermercato, Berlusconi, Milly Carlucci a Ballando con le stelle, la fecondazione assistita, il sovranismo, la cipolla nell'amatriciana, e si sa che da non meno di trent'anni il grosso dei nostri giornali e tivvù ama soffiare sul fuoco della polemica di pancia per agitare le acque, senza mai proporre un vero sforzo di sintesi tra gli opposti opponenti. Noi, di fatto, abbiamo ormai la vista talmente annebbiata dal diluvio di bias cognitivi inoculatoci dal sistema informativo e (cough cough) culturale che ci pare quasi strano che la nazione modello di ogni libertà costituzionale (gente che ha la BBC che ringhia ai polpacci del potere, noi abbiamo emittenti pubbliche e private inzerbinite di default) ci sia d'un colpo diventata così simile. Dice Ichino che i media inglesi, salvi rari casi preferiscono la drammatizzazione all’informazione, cosicché il Paese di Beckham è piombato in un’interminabile lotta tra Montecchi e Capuleti. Ovvove.
La disamina rotola quindi prevedibilmente sulla mesta osservazione che quanto accade di là dalla Manica ci dovrebbe servire da lezione al di qua, perché da più di due anni ci tocca sorbirci i giri di valzer di un leader acchiappa-sondaggi (ho il vago sospetto che parli di Salvini) che dice sempre una cosa e il suo contrario e nessuno gliene chiede conto. Del resto l'opinione pubblica ormai a tutte le latitudini guarda ai lati frivoli della vita dei leader, senza badare al succo delle loro proposte. Elementi, questi, che danno il passo della crisi della democrazia tradizionale.




Osservazioni, nella loro sostanza, che non aggiungono nulla rispetto alle pensose riflessioni sulla deriva della politica terrestre che sentiamo fare da un po'. E' in effetti un altro il momento della disamina ichiniana che ci ha fatto sorridere amaramente: dice l'esimio giuslavorista che per affrontare questioni complesse come la Brexit è necessaria altrettanta complessità: Occorre confutare costantemente le soluzioni semplici proposte dalla parte avversa, affrontando la fatica di comunicare la complessità a un’opinione pubblica distratta, il che si ottiene quando si hanno media veramente indipendenti e soprattutto un’opinione pubblica in qualche modo interessata a fare le pulci ai politici sulle cose che contano, non sui pettegolezzi da bar o da spiaggia.

Ecco. 

Caro Ichino, tutto vero tutto bello, ma possiamo chiederci da dove arrivi questa (apparentemente) improvvisa botta di superficialità degli inglesi? Peggio ancora: a partire da quando quelli là hanno disimparato a ragionare complesso? Si potrebbe fare il battutone e dire: "A partire da Guglielmo da Occam", ma la cosa è ben più seria. Quello che vediamo avvenire oggi oltremanica non è che l'ennesima coda di quel processo di rimbecillimento collettivo in atto da decenni, uno dei cui cardini è - indovina un po', Pietro? - la costante procedura di disavvezzamento al pensiero complesso (ovvero astratto) in nome di altre scale di valori cognitivi e pratici. 




Suvvia, Pietro, sai bene, e lo sai da quando noi eravamo ancora impegnati ad imitare il tiro ad effetto di Oliver Hutton, che è da non meno di 40 anni che un certo sistema mediatico-ideologico demonizza una certa regione del vasto mare degli studi possibili e- indovina un po'? - la regione incriminata è quella degli studi umanistici. Figurarsi se in un mondo dominato dalla tecnologia potrebbe ancora avere senso perdere tempo sui classici del pensiero, peggio ancora se letti nelle loro noiosissime e magari morte lingue originali (latino e greco brrrrrrrrrrrrrrrrr); macché: riduciamo tutto alla didattica del fare, diceva gente ostile bipartisan a quel mostro chiamato 'tradizione occidentale', fatto di assurde chiacchiere filosofiche, poemi lunghi o brevi che altro non sono che piagnistei di innamorati friendzonati o sciocche esaltazioni di valori defunti. Abbattiamo tutto, dicevano, svecchiamo la didattica, adeguiamola ai tempi.





Bene: adesso che anche Ichino se n'è accorto, vogliamo dire una buona volta che adeguare i contenuti della didattica a questi tempi significa fare l'esatto contrario di ciò a cui la scuola è chiamata? Inseguire la rivoluzione digitale digitalizzando i contenuti e trasformando tutto in piattaformina, ricerchina, dibattitino, rigettando i ragionamenti alti, gli studi pesanti, la fatica del costruire giorno per giorno un grande edificio di conoscenze, unico vero presupposto per lo sviluppo delle competenze, porta esattamente lì dove sta portando oggi gli inglesi: di fronte ad un caso pratico complesso, l'incapacità di ragionare complessamente in astratto, drammaticamente sostituita dai compitini empirici legati ad un unico risultato concreto, rende del tutto inermi. Non esiste abilità pratica complessa sganciata dall'abilità ragionativa altrettanto complessa. Conoscere a menadito le regole del testo argomentativo o del debate, e magari saper ammannire un prodotto in  power point  senza avere argomenti da inserire nell'argomentazione (o contenuti da inserire nel prodotto), è pura assurdità: io posso sostenere la mia tesi, e confutare quella altrui, io posso convincere gli altri della bontà del mio prodotto solo se la mia tesi o il mio prodotto sono frutto di conoscenze ampie e articolate che so rapportare in modo solido e approfondito. Usiamo la tecnologia e avvaliamoci delle nuove didattiche purché queste non ci costringano volare basso, appiattiti sul concreto, sullo spendibile, sull'immediato. Tutto si può concretizzare, spendere, immediatizzare, purché abbia fondamenti solidi e non si pretenda che i contenuti delle discipline umanistiche siano ridotti a pilloline effervescenti da sciogliere alla bisogna.   
Non siamo più noi a chiedere questo: è il dramma dell'istupidimento collettivo a obbligarci a rimettere la barra a dritta (e un po' anche a te, Pietro caro, che nello stesso blog ospiti questo e allo stesso tempo quest'altro). Chi non vede ciò, e continua a ciarlare di scuola fuori dal tempo senza mai averci messo piede, poi non si lamenti se la gente ragiona per pacchetti di frasi fatte e vota in base a quello che legge su Twitter.

domenica 24 novembre 2019

Visti per voi: "Miserere", quando trionfa la privativa del dolore.

Eravamo a Trieste senza bora, con un tramezzino sullo stomaco a cena (e sarde in saor + frittura mista FRESCA a pranzo), gli occhi pieni degli splendori di palazzo Sartorio e Museo Revoltella (ANDATECI!!!): restava da digerire il tramezzino. E a Trieste, scoprimmo, ci sono qualcosa come QUATTRO cinema in circa 250 metri. Città sublime.
Fatta la rapida cernita, decidemmo ovviamente di farci del male scegliendo il cinema monosala intitolato a Federico Fellini, dichiaratamente cinema d'essai. E come ci insegna il Maestro, tra l'essai e l'assai il salto è breve, quindi ci sedemmo assai speranzosi in sala (comodissime poltrone peraltro, appena nei cinema di Brescia mi mangio le ginocchia tutte le volte...), pronti ad assistere ad una cosa dal titolo promettente: Miserere. Non ho capito per che motivo, ero convintissimo che si trattasse di un filmone francese à la manière de Samuel Benchetrit (tipo questo... brrrr), a ciò indotto dalla faccia da dottor Morte del protagonista stampata sul manifesto.



Invece era molto di più, molto meglio e molto peggio.
Molto di più, perché il tasso di sfigaggine dei personaggi del film di Benchetrit è qui tutto riunito nell'unico, titanico protagonista, un uomo capace di far intristire un charter intero di Patch Adams con un solo sguardo.
Molto meglio perché, rispetto alla trama squagliarola del film francese di cui sopra, qui la storia procede serrata, gelida, angosciante, fino al botto finale.
Molto peggio, perché la storia dell'anonimo protagonista (NESSUNO dei personaggi della pellicola ha un nome proprio, il che la dice lunga) uccide discretamente la fiducia nel genere umano.
Ma tant'è.
Siamo in Grecia, e siccome il film è d'essai ci godiamo la versione in lingua ORIGINALE NEOGRECA con sottotitoli, apprezzando la cadenza tombale dell'idioma dei discendenti di Omero, Pindaro e Sofocle. C'è quest'uomo, che di professione fa l'avvocato, in gocciolante depressione perché la moglie è in coma in seguito ad un'aggressione o giù di lì. Nel chiuso della sua cameretta, il tapino piange, comprensibilmente costernato, ma nei suoi rapporti con gli altri esibisce al contrario una freddezza disperata (o disperata freddezza) che si mischia, pare di capire, ad un sotterraneo compiacimento nel venire commiserato da tutti, dalla vicina del piano di sotto, che si è messa a preparare una torta a settimana e viene fatta aspettare apposta davanti alla porta nonostante abbia suonato il campanello, al proprietario della lavanderia che, straziato al vedere la massa di abiti luttuosi portati a lavaggio ("i medici hanno perso le speranze, sa..."), decide addirittura di fare sconti al tapino (roba tipo da 42 a 20 euro IN GRECIA, ridotti alla fame come sono...). Al treno si aggiungono il padre, che normalmente, come si deduce più avanti nel film, non si fila mai di pezza il figlio, poi la segretaria poco espressiva ma tanto abbracciosa (da cui lui adora farsi abbracciare pur mantenendo la faccia tapina) e l'amico della spiaggia. Tanto per essere allegri, il tapino ha preso in carico il caso di un omicidio ai danni di un anzianotto la cui figlia e il cui genero sono tanto disperati, e in qualche modo gli fanno da pietra di paragone per attapinarsi vieppiù.



Sta di fatto che la trama si svolge tutta stampata nell'immutabile faccia da funerale del protagonista, che addirittura, quando gli eventi prendono una certa svolta (sorry, no spoiler here...), non aggiorna la frequenza della tristezza, anzi quasi si dispiace di non poter più farsi commiserare e cerca quindi di tener viva la fiamma di morte della musoneria (ecco spiegato l'abbandono in mare della cagnetta, dichiarando però di averla persa nel bosco, per cercare compassione da parte del padre che invece gli volta le spalle)(ecco spiegato il quasi-stalking con la vicina del piano di sotto, che ha smesso di sfornare torte)(ecco spiegata la richiesta all'amico della spiaggia di avere una simpatica - e illegale- bomboletta di gas lacrimogeno da far scoppiare in studio giusto, per piangere un po'...)(s'era detto niente spoiler)(ok). Finché, per essere sicuro di farsi compatire usque ad consummationem vitae, il tapino prende la decisione estrema. D'altronde è uomo di legge, saprà come cavarsela. 
La storia è scioccante dall'inizio alla fine, mai del tutto prevedibile, nonostante il ritmo sia inevitabilmente funereo non ci si annoia, forse perché la media attesa dello spettatore medio (anche al cinema d'essai) si attende sempre la svolta in storie del genere. Certo, non questa svolta.




Niente da dire sull'attore, perfettamente calato in una parte non facile. Sceneggiatura ottima, direi, se ne sapessi qualcosa, ma mi fido di chi ne sa. Saremmo in Grecia, ma le luci in tutto il film sono fredde e taglienti, anche quando il tapino è in spiaggia.
Mi stupisce semmai il fatto che il film mi arriva in tackle su un post a cui stavo lavorando e che adesso sviluppo qui...
[Agganciamento!!!][ahhhh....]
E' da un po' di tempo che mi interrogo su un problema che rampolla dalla lettura di certi classici latini. Ci sarebbe una commedia di Terenzio (II sec. a.C.) nella quale un tizio vede il suo vicino di casa spaccarsi la schiena di lavoro 24/7 e non capisce perché, allora glielo chiede. L'altro gli ribatte chiedendogli a sua volta per quale motivo gli interessino la vita e la sofferenza di un uomo che conosce appena, al che il tizio predetto ri-ribatte con una frase divenuta celebre, in quanto costituisce il fondamento di tutto l'umanesimo occidentale e anche un po' più in là: homo sum, humani nihil alienum a me puto ("sono un uomo, non ritengo che nulla di umano mi sia estraneo"). Entra in scena, letteralmente, l'idea di empatia, di condivisione emotiva basata sul riconoscimento dell'altro in quanto persona come me, quindi strutturalmente degna di compassione & comprensione. Roba nota, si dirà, ma per l'epoca era un discreto siluro all'idea che prima venisse il cittadino e poi l'individuo.
Ecco, il film di cui sopra mi pare l'esatto rovesciamento del paradigma terenziano: "Sono uomo e voglio che tu mi compatisca perché se io soffro è giusto che debba soffrire anche tu, ma soprattutto solo io sono degno di compassione e fuori dalla bolla del mio dolore non ne esiste uno paragonabile. Tu dunque, finché sarò infelice io, non potrai mai avere diritto ad una felicità tua. Ma soprattutto, non aspettarti mai che io compatisca per qualche motivo te".



Si dirà che questo è un ritratto abbastanza corrispondente al tipo (o a uno dei tipi) del cosiddetto vampiro emotivo. Può essere. Ciò che però mi colpisce del vampirizzamento emotivo non è tanto il desiderio insaziabile di essere compatito, ma l'incapacità assoluta di compatire a propria volta. Il fatto è che questo secondo aspetto del carattere dei cosiddetti vampiri emotivi è in realtà comune anche a gente che vampira non è: ci sono persone che non chiedono di essere compatite, ma piuttosto ritengono di passare o aver passato tali e tante disavventure (vere o presunte, s'intende) da sentirsi in diritto di non concedere a nessuno non solo la compassione, ma nemmeno l'ascolto. Delle monadi assolute.
Questa tipologia di individui mi addolora ancor più dei vampiri emotivi, perché si chiude totalmente sulle proprie esperienze pregresse e non sente altro; è come se il loro Io fosse regolato su una sorta di 'frequenza' del dolore che provoca sordità rispetto a tutte le altre. Non li sentirete mai dire: "Nessuno mi capisce", perché non sentono il bisogno di essere capiti. Casomai, qualora provaste a manifestare un vostro qualsiasi disagio, la loro risposta standard sarà: "Ma cosa vuoi che sia, con quello che sto passando/ ho passato io...". A differenza degli individui privi di empatia, che neanche si accorgono che un altro soffre, costoro sono piuttosto sono auto-patici: si accorgono che l'altro soffre, e probabilmente capiscono anche la sofferenza, ma non sentono il bisogno di ascoltare o aiutare a lenirla. Ma anche quando non la capiscono, non lo fanno per incapacità: sono, come dire, già saturi della propria e non hanno spazio per quella altrui.



Il che obbliga naturalmente ad almeno una distinzione: un conto sono gli individui reduci da un dolore recentissimo e devastante, che come feriti gravemente non possono guardare fuori di sé perché devono anzitutto guarire sé medesimi. Pretendere da costoro che si accorgano anche del dolore altrui, in questa fase, è in effetti troppo. Certo, il tapino del film di cui sopra estremizza fino a metà film questa condizione: passi la momentanea interruzione del'empatia, difficile accettare la pretesa che il proprio dolore vada ad infettare la serenità degli altri, perché si presupporrebbe che tutti gli altri siano felici tranne me che soffro, quindi è giusto che, nel compatirmi, soffrano un po' anche loro. Niente di più egoistico.
Altra questione, tuttavia, è quella che si pone quando le cause e gli effetti del dolore, stoicismo alla mano, dovrebbero essere estinti da mo': sempre stoicismo alla mano, dopo un certo tempo, la ferita dell'anima si rilassa e anche se il rammarico del dolore passato rimane, l'assenza delle medesime circostanze che l'hanno prodotto dovrebbe consentire di ri- connettersi al mondo, esattamente come una ferita rimarginata non si riapre se uno non si taglia di nuovo. Qui però l'individuo auto-patico cade catastroficamente e, pur avendo (forse) elaborato a sufficienza la sofferenza passata, la ritiene così oltre rispetto a qualsiasi sofferenza altrui da non giudicare quest'ultima degna delle benché minima attenzione. Il che, finché si è tra pari, è già negativo, perché di fatto si ammazza l'empatia, ma l'altrui sofferente si suppone abbastanza maturo da riuscire a farsi una ragione dell'indifferenza dell'interlocutore auto-patico e abbastanza scafato da cercare qualcuno che sappia cos'è la comprensione. Il dramma vero è quando c'è una relazione asimmetrica, ad esempio quella genitori- figli: è evidente che un adulto non può accettare come dotate di fondamento tutte le lamentele di un giovane, ma dismettere regolarmente ogni segnalazione di disagio con la formuletta: "Eh, ma io alla tua età... con quello che ho passato... ma di cosa ti lamenti...?" è un modo eccellente per distruggere le relazioni. Io credo che non ci dovrebbe mai essere una hit parade del dolore: ogni dolore è dolore della coscienza individuale, dipende anche dalle circostanze storiche e biografiche del sofferente, nel senso che ad età diverse possono esserci scale di dolore diverse. Si può anche ritenere il dolore altrui meno grave del proprio, ma questo fatto non è di per sé sufficiente a dire che l'altro non soffre o non merita comprensione e/o aiuto, né tantomeno compiacersi segretamente del fatto che "soffri un po' anche tu come ho sofferto io, così vedi come si sta". Purtroppo l'individuo auto-patico fa proprio tutte queste cose, e difficilmente dubita di essere in torto. La domanda è appunto: si può regolare la frequenza del dolore di costoro per, diciamo così, abbassarla e renderla psichicamente meno assordante, cosicché riescano una buona volta a sentire il dolore degli altri? O si deve essere costretti ad 'alzare' la propria frequenza, rischiando però di teatralizzare la sofferenza e renderla bombastica e quindi ancor meno convincente ai loro occhi? O si deve rinunciare?
E' il problema delle relazioni affettive monodirezionali in cui il monodirigente non si accorge di monodirigere senza MAI ricevere in cambio. Oddio, che poi, ricevere in cambio quel che dà il tapino del film... magari anche no...

sabato 19 ottobre 2019

Senecana (5): e LUI cosa dice?

Seneca non cita mai espressamente la scuola Pneumatica in nessuna delle opere giunteci, ma è verosimile una sua conoscenza delle dottrine mediche stoiche: filosofia e medicina, nel mondo antico, erano molto meno distanti, dal punto di vista teoretico, di oggi, in quanto entrambe si prefissavano di curare l'uomo dai suoi mali. Essendo poi la scuola Pneumatica filiazione diretta della scuola stoica, difficilmente Seneca avrebbe potuto erudirsi di sola filosofia senza buttar l'occhio sulle opere dei medici, detto pure che lui stesso, come evinciamo dalle sue opere, non era esattamente un fiore dal punto di vista della salute.
A questo punto, lettore accanito, vorrai chiederci se è possibile in ogni caso dimostrare in Seneca conoscenze mediche Pneumatiche pur senza esplicita ammissione? Noi ti diciamo di sì, ma per arrivare a tale contezza si dovranno recuperare tasselli sparsi un po' dappertutto nell'opera del Nostro. Saremo brevi.
Dice Seneca (De ira) che quando bisogna mettere a punto una terapia che renda più difficile cadere preda dell'ira è molto importante tener conto della mescolanza di calore e umidità all'interno di un individuo (ricordate che siamo nel I secolo d. C....): ebbene, un medico greco del secolo successivo, nientemeno che Galeno (il curriculum è scaricabile qui) attribuirà, così pare di capire dai suoi testi, quest'attenzione al caldo e all'umido proprio ai medici Pneumatici.
Dice sempre Seneca (Naturales Quaestiones) che tutto il mondo è retto dalla tensione dello spiritus che in esso scorre, la qual cosa ricorda assai da vicino il pneuma coibente degli stoici. La virata in senso medico è poi poco distante, per così dire: il Nostro afferma che nel corpo, come in tutto il resto del pianeta che è un macro-corpo in cui abitiamo noi micro-corpi, possono nascere malattie se il flusso regolare dello spiritus è alterato da qualche causa come può essere il freddo, il caldo, uno scompenso o scossone di qualsiasi tipo, ma anche un accesso di febbre o un timore improvviso, tutti fattori che intaccano la nostra energia vitale, il tutto senza contare le anomalie che possono interessare gli umori corporei; se hai seguito le puntate precedenti, amico lettore, non potrai non rilevare che queste di cui Seneca parla sono esattamente le cause procatartiche ed antecedenti messe a fuoco da Ateneo (sia fisiche che psichiche, oltretutto), laddove il fatto che lo spiritus si alteri insieme alla parte del corpo ammalata rimanda direttamente alla nozione di pneuma coibente che si fa veicolo della malattia in tutto il corpo. 
Le sindromi biliari sono a conoscenza del Nostro? Ovviamente sì. Nell'accezione di Areteo, magari? Io credo di sì.
Noterai infatti, amico lettore, che nella lettera 94 a Lucilio Seneca parla di una insania publica e di una insania quae medicis traditur: per follia 'pubblica', ovvero rilevabile in modo abbastanza diffuso in quel caravanserraglio di pazzi che è la Roma imperiale, Seneca intende la melancolia di natura psichica, mentre l'altra, che va affidata ai medici, è evidentemente quella somatica, causata dalla bile nera. L'eziologia del male è quindi, solidamente, biunivoca, cosi come biunivoche sono le cure: parole sagge possono spegnere l'infiammazione della bile, come pure sani salassi biliari possono smorzare il malumore. Anche altrove Seneca ribadisce che alla base dei disturbi dell'umore possono trovarsi sia cause fisiche che psichiche.
Se poi diamo un'occhiata ai ritratti dell'uomo in preda all'ira, gli accessi del male presentano elementi assai vicini a quelli che leggiamo nei medici greci: occhi infossati che si alternano a occhiatacce furibonde, urla sguaiate, agitazione di tutto il corpo, il segno insomma dello spiritus che ha perso il suo giusto ritmo. Soprattutto, pare chiaro che il nostro filosofo preferito ritenga che nell'ira possano confluire sia i sintomi della mania che della melancolia. Del resto depressione rabbiosa e pazzia furiosa sono consorelle.
E' però che nelle tragedie che Senecuccio nostro dà il meglio di sé: secoli addietro critici frettolosi additarono i personaggi tragici senecani come piatte allegorie del furor, imprigionate in comportamenti ripetitivi e irrealistici, in certi casi fissati sulle proprie azioni malvagie a tal punto da sconfinare nel manierismo. Sciocchitudini: chi legge i comportamenti, tanto per dire, di Fedra e Medea nelle rispettive tragedie con occhio medico-Pneumatico, non può non vedere che quando queste donne sono descritte dalle rispettive nutrici ciò che abbiamo sott'occhio non è banale fisiognomica del potenziale pazzo, ma una vera e propria cartella clinica che riproduce i sintomi della malattia psicosomatica. Vuoi la prova con Fedra, amico lettore?

[Antefatto: Teseo, re di Atene, si fa un giretto nell'Oltretomba per aiutare il fido sodale Piritoo nell'impresuccia di rapire la regina di laggiù, Proserpina; ad Atene la moglie di Teseo, Fedra, cretese, figlia di Minosse, sorella di Arianna (l'altra grande fiamma di Teseo, puntualmente piantata in Nasso a seguito del minotauricidio), attende solitaria il ritorno del marito, trovandosi peraltro un pochino infatuata del di lui figlio Ippolito, nato da una relazione espressa con la regina delle Amazzoni, Ippolita, poi morta. Pur tentando di fermare questa passione, Fedra cede gradualmente alle spinte irrazionali, nonostante la Nutrice, manuali di stoicismo alla mano, tenti invano di farla rinsavire. A un bel momento, quando l'innamoramento diventa irreversibile, la regina si presenta in scena vestita da amazzone per far capire al figliastro quanto gli sia groupie. La Nutrice così ce la descrive, versi 360-383...]

      NUTRICE  
      Che speranza può esserci? Una passione così non si può frenare, è un fuoco 
      senza fine. Si consuma a un silenzioso ardore... Anche se la chiude in sé 
      e la nasconde, questa follia, il volto la tradisce. I suoi occhi brillano 
      febbrili, le palpebre stanche non sopportano la luce. Non sa quello che 
      vuole, soffre, le sue membra sono irrequiete. Ora il suo passo è stremato, 
      vacilla come se morisse, e il collo, reclinando, sostiene la testa a 
      fatica; ora vuol concedersi riposo, ma si nega al sonno e passa la notte 
      in lamenti. Si fa levare dal letto e, subito dopo, coricare. I capelli, 
      ora sciolti li vuole, ora acconciati. Insofferente di se stessa, muta 
      continuamente di aspetto. Del cibo e della salute non si cura. Fa l'atto 
      di muoversi, incerta, e subito le forze l'abbandonano. No, non c'è più il 
      suo slancio, non c'è più sul viso lucente colore di rosa. Quel pensiero la 
      consuma tutta. Il suo passo è tremante, adesso, la tenera bellezza del suo 
      corpo se ne va. E gli occhi, quegli occhi che recavano le tracce della 
      luce del sole, non brillano più del loro splendore divino. Lacrime 
      scendono giù per le guance, bagnandole di rugiada, senza sosta, come sui 
      gioghi del Tauro le nevi si sciolgono alla tiepida pioggia...

Notiamo, notiamo...
  • il volto tradisce la follia = i sintomi del male sono tutti evidenti in viso. Non si tratta, bada bene lettore, della fisiognomica che pretende di dedurre il carattere di una persona e le sue personali inclinazioni dai tratti somatici, qui assistiamo ad una malattia in atto.
  • occhi che brillano (arrossati) = mania
  • occhi che fuggono la luce = melancolia
  • non sa quello che vuole, membra inquiete = mania
  • passo stremato, testa che ciondola sul collo = melancolia
  • insonnia = melancolia
  • si alza e si corica, cambio acconciatura = mania
  • insofferenza di sé = mania/melancolia
  • rifiuto del cibo = melancolia
  • forze carenti, passo tremante = insufficienza dell'energia pneumatica
Vuoi vedere Medea? Eccotela...

[Antefatto: Medea, principessina del Mar Nero est, si incapriccia dell'eroico benché imbranatuccio Giasone, giunto sulle coste della Colchide dalla lontana Iolco per recuperare una pelliccia d'ariete dalle proprietà miracolose, inviato lì da uno zio usurpatore che spera lo scotennino. Medea tuttavia, come Arianna del resto, non resiste alla seduzione dello straniero belloccio e lo aiuta a conquistare l'agognato plaid, ricevendo peraltro una proposta di matrimonio in cambio di ulteriore aiuto per consentire a Giasone e compagnia di tornare a casuccia, obiettivo centrato ritardando gli inseguitori con una sfida a puzzle consistente nella la dispersione in mare di pezzetti del fratellino Absirto. Tornati a Iolco e de-usurpato il trono tramite bollitura fraudolenta dello zio, i due devono poi fuggire a Corinto, dove Giasone, colto da improvviso cinismo, ripudia Medea per poter impalmare Creusa, figlia del reonzolo del luogo, Creonte, e garantirsi finalmente un trono non traballante. Medea, sola, barbara e senza diritto alcuno, la prende sportivamente e decide di uccidere i figli avuti da lui. Mentre la follia omicida monta in lei, così la descrive la Nutrice, versi 380-396...]


      NUTRICE 
      Dove corri, figlia; lontano dalla tua casa? Fermati, calmati, frena la tua 
      furia. Come una menade, che, alla cieca, già invasata da dio, si lancia e 
      porta i suoi passi sulla cima del Pindo nevoso o sui gioghi di Nisa, così 
      Medea corre qua e là con gesti selvaggi, mostrando in volto i segni di un 
      furore delirante. Il suo viso è in fiamme, il respiro affannoso, grida, il 
      pianto le sgorga dagli occhi, di colpo si mette a ridere. È in preda ad 
      ogni emozione. Esita, minaccia, avvampa, si lamenta, singhiozza. Dove si 
      volgerà l'empito del suo cuore? Dove spingerà le sue minacce? Dove andrà a 
      infrangersi questo vortice? Il suo furore trabocca. No, non è da poco, non 
      è comune il delitto che medita tra sé. Supererà se stessa, Medea. Li 
      conosco, io, i segni del suo antico furore. Qualcosa di inaudito sta sopra 
      di noi, qualcosa di grande, selvaggio, empio: lo leggo nel suo volto 
      delirante. O dèi, fate che la mia paura sia vana.    

Ri-notiamo, ri-notiamo...
  • similitudine con la Menade, sacerdotessa dei riti dionisiaci che prevedevano l'abbandono estatico alla possessione divina = mania, termine peraltro corradicale a 'Menade'.
  • corsa delirante, viso in fiamme = mania
  • respiro affannoso = crisi dell'energia pneumatica
  • alternanza pianto/riso = bipolarità
  • minacce, avvampamento = mania
  • lamenti, singhiozzi = melancolia
  • lettura sul volto delirante del furore = ulteriore prova che non di mera fisiognomica si tratta,ma di autentico quadro clinico
Vediamo dunque che in nessuno dei due casi predomina solo uno uno dei due disturbi, poiché fanno sempre capolino anche i sintomi di quello opposto. Alla fine, nel personaggio domina una perenne alternanza di umori e  e comportamenti che testimonia l'instabilità delle sindromi biliari.

Questa è arte di serie A+++: non una piatta resa del furor, ma l'illustrazione realistica dei suoi catastrofici effetti. Le conoscenze mediche al servizio della filosofia e della tragedia: questo è il genio.

[poi c'e sempre https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca nonché https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_pneumatica]

sabato 12 ottobre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: ipotesi di complotto

La sera Sassuolese di venerdì 13 si frizza con l'intervento dell'acuto Paolo Ercolani.

L'intervento prende le mosse da una questione che può essere ormai frusta, eppure sempre gravida di spunti: l'esperienza online è un arricchimento o una minaccia per il soggetto?
Come piace a noi, la risposta parte da dati concreti e non da fuffa. Ercolani ci dice di avere effettuato una survey con studenti delle superiori ai quali è stata posta una domandina facile facile: perché i ggiovani d'oggi si fissano ad immortalare i momenti più inutili della loro quotidianità per poi condividerli sui social? Non è una perdita di tempo? Davvero si vive nell'ansia perenne del riscontro?   Ebbene, la giovanil risposta è di quelle notevoli: noi, dicono gli studenti, sappiamo bene che la quasi totalità dei contenuti che postiamo sui social è del tutto inutile, siamo consci che nel mondo virtuale fluttuano elementi e azioni obiettivamente senza scopo, ma, caro Ercolani, "se la sera non ho condiviso parte della mia vita reale nel mondo virtuale, mi sembra di non essere esistito".




Si capisce che la frase si commenta da sé, e potremmo chiederci dove noi tutti abbiamo fallito. Di là da ciò, Ercolani nota una sorta di inversione dell'umano, in ragione della quale molti, moltissimi utenti social vomitano nella vita reale aggressività, incomunicabilità, intolleranza, ma nelle bacheche web è tutto un frullare di bellezza, pienezza di vita e attività. Al di sotto di questa dinamica tra passerella di sé e matta bestialità per le strade del mondo, giace un immenso oceano di solitudine, che produce odio e non trova autentica consolazione spolliciando sulla tastiera. Paradosso supremo, abbiamo i giovani meno capaci di relazionarsi della storia umana. Loro che oggi hanno reti relazionali potenzialmente infinite nello spazio & nel tempo. Il solipsismo è sterilità. Già la tv aveva spento i cervelli degli spettatori (ricordi Homo videns di Sartori? Adesso c'è internet...), oggi gli schermi non ci chiedono solo di guardarli, ma anche di entrarvi, dando più importanza a quel che avviene dentro di essi rispetto alla vita concreta. Risultato che ci si para davanti (cfr. J.M. Twenge, Iperconnessi, Einaudi) sono giovani che sembrano felici e sempre felicemente impegnati, poi basta una mezza indagine sociologica e ci dicono di essere soli e spaventati. La generazione più in crisi che abbiamo mai avuto.



L'identità via social si crea tramite la vetrinizzazione del sé: selfie come si deve, elenchi fluviali di musiche e film preferiti, creazione o meglio ri-produzione di un'identità preconfezionata (quindi dipendente da modelli preesistenti all'identità stessa) volta al successo, ovvero ai like. Di converso, certuni si convincono di valere poco perché hanno pochi like. Peggio ancora, gli ingenui osservatori di stories altrui si convincono dal chiuso della loro alienata cameretta che gli altri siano felicissimi, loro dei poveri sfigati (il che ovviamente non è vero). Il ragazzo diventa un prodotto stesso della realtà virtuale, si fa in certo senso 'consumare' dal suo pubblico. Certo, se il pubblico reagisce maluccio, per esempio col cyberbullismo, si verificano quei casi estremi di suicidio che non cessano di interrogarci e tormentarci. Sui social è vietato mostrarsi deboli ed erranti. Guai ad essere angosciati.


Da qui l'Ercolani parte per una ampia & desolante panoramica sul rapporto tra umanità e tecnologia: tutta la tecnologia che ci sommerge ha come effetto imprevisto, ma forse non imprevedibile, di  impoverire o addirittura eliminare il pensiero, il ragionamento, la conoscenza e il dialogo. Stiamo dunque dando l'addio al logos nell'era in cui Internet avrebbe dovuto costituire il trionfo del logos medesimo. Morale: siamo diventati una società misologa.
Seguono dati, un pochino acri verso lo zio Sam.



Primo esempio di misologia: in USA negli anni '50 girava la favola intitolata La locomotiva, in cui una locomotiva pucciosa andava a scuola per diventare un treno. Le venivano insegnate due cose: non uscire dai binari e fermarsi alla bandierina rossa. Ma la locomotiva amava i fiori che crescevano a fianco dei binari e voleva uscirne. Allora la società ferroviaria fece in modo che la locomotiva desiderasse solo restare sui binari disseminando di bandierine rosse i prati in fiore e mettendo le bandierine verdi sui binari. Così la locomotiva rientrava tutta felice sui binari. Allegoria del tutto: l'uomo moderno vive solo sulla base dell'approvazione della società. I bambini vengono allevati secondo un conformismo eterodiretto: esistono dei binari, se li segui sarai felice, perché tutti ti approveranno (cfr. La folla solitaria). Questa favola dimostra il passaggio dal divide et impera di romana memoria al conforma e dirigi. Omologate le persone il più possibile, ci dicono queste allegorie, e avrete il potere di dirigerle dove vorrete. E dove vanno dirette? Ovviamente a consumare secondo una precisa pedagogia del consumo (cfr. I persuasori occulti).




Secondo esempio: nel 1971 un giudice americano, tal Lewis Powell, scriveva al Ministero dell'istruzione che il sistema economico basato sul profitto era in crisi, si vedeva che le Università erano piene di contestatori, quindi bisognava provvedere con un'azione chirurgica nelle facoltà di Scienze sociali. Lì si sarebbe dovuta scatenare una lotta a tutto campo contro le teorie di Marcuse e compagnia, neutralizzandole con contro-conferenze di eminente gente di orientamento liberista; a fianco di ciò, tv, stampa, radio, riviste avrebbero dovuto diventare altrettanti gangli di una rete di controllo dell'opinione pubblica che sarebbe stata indottrinata ai valori del sano capitalismo. Il tutto da esportare al resto dell'Occidente. 

Terzo esempio: nel 1975, in una delle riunioni della Commissione Trilaterale, fondata dal compianto Rockfeller, si creò un pool di 200 eminenze grigie provenienti da Usa, Europa e Giappone. Tre di questi studiosi, interpellati per mappare la situazione sociale in corso, conclusero che c'erano troppe persone istruite e dotate di pensiero autonomo e critico che decidevano di uscire dai binari come la locomotiva tirocinante dell'esempio 1. Si propose dunque una pianificazione educativa per correlare gli studi scolastici agli obiettivi del potere (tipico paradigma neoliberista): punto d'arrivo di ciò, la formazione del concetto di capitale umano da contrapporre a quello di sviluppo umano. Formare individui funzionali a quello che chiede il mercato, disinteressandosi della loro umanità autentica.

Il disastro attuale verrebbe quindi da lontano, con l'attuale collaborazione dei social: in essi l'identità reale si annulla nell'omologazione, portandosi via lo spirito critico.




Si capisce che le nostre antenne insegnantizie si sono rizzate quando l'Ercolani ha aperto il confronto tra scuola e mondo virtuale. Se la scuola richiede allo studente l'apprendimento tramite la lentezza, la profondità, la selezione delle nozioni per sviluppare lo spirito critico, nel mondo virtuale è tutto l'opposto: velocità, superficialità e opulenza informativa con assenza di spirito critico. Peccato che opulenza e buon funzionamento del cervello facciano apertamente a pugni, perché un cervello sovraccarico non funziona. La sua plasticità si manifesta non nell'incamerare quintalate di dati, ma gestendo i contenuti e sviluppando strategie per il loro immagazzinamento. Sicché, ed è anche la nostra tesi da millenni fin qua, la scuola non può competere con la rete nel poter dare informazioni, ma deve insegnare ai ragazzi la selezione del sapere mostruoso che trovano ormai ovunque. Lo spirito critico deve elaborare le informazioni perché si formi un pensiero autonomo. Ercolani mi pare quindi vedere con sospetto certe derive didattico-docimologiche degli ultimi tempi. In ciò ovviamente incontrando i nostri dubbi: bisogna vagliare attentamente certe 'nuove' mode che sembrano virare più sull'apprendimento funzionale al 'fare' immediato, sulla creazione dell'alunno 'efficiente' più prono alla soluzione dei casi singoli rispetto alla considerazione generale del reale.



Ma certo l'allocuzione ercoliana, specie sulla questione del rimbecillimento sistemico della gioventù, ci ha stimolato ulteriori istanze: anni fa, su un forum di Macchianera.net, un utente sintetizzò in modo sparaflashante l'evoluzione delle tattiche di insonnolimento del pensiero critico attuate dal Sistema nei decenni che furono, arrivando più a meno a dire che (semicit.) "se negli anni '70 in Italia si anestetizzarono i giovani con lo stragismo e l'eroina, negli anni '80 fu sufficiente la programmazione pomeridiana di Italia1". Il che, essendo io fruitore di quella programmazione, mi questionò: in effetti, non posso nascondere che una certa tendenza a cartoonizzare gli aspetti dell'esistenza sia piuttosto diffusa tra noi dei gloriosi second-mid-seventies. Già altrove e altrando (=altroquando) evidenziammo che certe pose di Matteo Renzi (Rignano, Firenze, 1975- vivente) in prossimità della fine della sua esperienza di capo del Governo sembravano molto vicine all'allure cartoonesco-videoludica. Si ricordi inoltre che l'ex vicepremier Matteo Salvini (Milano 1973- vivente), appena prima di schiantare la sua esperienza vicepremieriatizia, dalle assolate spiagge di Milano marittima chiese al popolo tutto pieni poteri, ricordando a noi tutti almeno due celebri episodi dell'epica nippo- giappo (vedere il Capolavoro 1 qui e il Capolavoro 2 qui). A molti di noi, in effetti, è stato sempre ripetutamente rinfacciato "di non essere mai cresciuti", di aver vissuto troppo coi videogiochi e di aver ritardato assai assai il distacco dalla mammella per farci una vita autonoma. Ora, a parte che come sempre ci sono esempi luminosi di gente che è maturata 'normalmente' accanto a gente dai percorsi più o meno... originali, è un fatto che, rispetto ai maremoti di fiamma che agitarono la gioventù scuolafrequentante nella generazione precedente alla nostra, noi adolescenti fabulouseighties abbiamo vissuto proporzionalmente abbastanza nella bambagia. Escludendo gli scioperi di default ad ogni approvazione di legge finanziaria, quando venne giù il Muro io ero in terza media, quindi non so bene se le piazze giovanili siano esplose, ma ricordo bene che, iniziati i bombardamenti della prima guerra del Golfo, si scioperò giusto il primo giorno e poi ciao. Qualche altro scioperetto giornaliero punteggiò gli anni successivi (per la strage di Capaci, per la mancata autorizzazione a procedere contro Craxi, per la guerra nell'ex Jugoslavia...), inframmezzato da tentativi di sciopero in cui un tizio di una classe venne da un tizio della nostra e gli disse che quella mattina lì bisognava fare sciopero perché sennò lo interrogavano in greco ("aiutami con lo striscione!!"). Bene, rispose l'altro, e per cosa lo facciamo? Ma sì, disse il tizio, diciamo che facciamo sciopero contro l'attuale situazione mondiale.
Certo, questo scambio di battute è illuminante sulla fondatezza della tesi ercolanesca: qualcosa, in effetti, cambiò in quegli anni, nel senso che la generazione cosiddetta 'di carta' dei giovani superimpegnati dei tempi di Moro e Berlinguer, gente che leggeva almeno due libri a settimana e giornali vari, fu sostituita, nella proposta mass-mediatica del 'ciò che faceva figo', da una gioventù teledipendente e giocherellona. Il metro della figaggine divenne progressivamente l'abbinata bellezza&stupidità, all'impegno politico si preferì progressivamente il disimpegno gaudente.
Cose che già dissimo, ma oggi abbiamo qualche spunto in più, legato ovviamente all'esperienza insegnantizia, ma anche alla tesi ercolanesca: sappiate infatti che negli anni '80-'90 non tutti smisero di pensare e tormentarsi sul senso delle cose. Forse la prospettiva era meno legata a (leggi: inquinata da) questioni di ideologia e forse, rispetto alla carne e sangue e m***a del vissuto socio-politico quotidiano, le inquietudini prendevano una piega, per così dire, metafisica. Fatto sta che ci furono adolescenze molto più pensose di quanto la vulgata abbia fissato nell'immaginario collettivo; ebbene, pensando da grandicelli alla nostra adolescenza pensosa, forse troppo pensosa, ci siamo indotti spesso a ritenere che tra noi e i bimbominkia la differenza fondamentale fosse nello spassoso mondo di bolle di sapone in cui fluttuavano loro rispetto al barile di chiodi giù per il fianco della collina stile Attilio Regolo in cui spesso eravamo rotolati noi. Pare invece che i giovani di oggi siano infelicissimi e il paradosso è che la società che li ha coccolati in epoca bimbominkia sembrava aver predisposto tutto per togliere dal loro cammino ogni inciampo e ogni dolore. O forse era l'illusione delle gioia che doveva predisporre agli abissi della solitudine e della frustrazione online. Credo però che 'predisporre' sia errato come verbo: non penso che, nascendo internet, le sue ostetriche avrebbero immaginato che esso internet da ricettacolo della democrazia globale sarebbe diventato (anche) vasca di fermentazione di odio e ignoranza globalizzati. Allo stesso modo, chi ha inventato i social non ha secondo me immaginato le conseguenze descritte dall'Ercolani. I social erano certo parte di un sistema basato, per dirla con Bauman, sulla stimolazione perpetua dei bisogni e del senso di inadeguatezza rispetto alle novità perpetue proposte dal mercato, ma che anche sui social si sarebbero riprodotte le stesse dinamiche della circostante civiltà consumistica non poteva essere chiaro sin da subito. Da mo' ci siamo convinti che non sempre tutte le conseguenze della tecnologia siano prevedibili, come del resto ci insegna il capolavoro dell'animazione anni '90 più complesso che sia mai uscito da cervello umano (oggi ridoppiato da denuncia).
Non credo, concludendo, che tutto lo sfacelo a cui assistiamo oggi fosse programmato (se è vero il motivo per cui Zuckerberg ha inventato Facebook, si capisce): esso si è gradualmente uniformato al presunto piano di rimbambimento generale, ma solo per effetto delle leggi dell'evoluzione umana che si sono estese alla blogosfera (di fatto Facebook, Twitter & C. sono tutti blog). La casuale invenzione dei social ha manifestato caratteri adatti all'ambiente più della vecchia bloggheria (qui mi leggono in pochi, ma anche i blog storici boccheggiano): narcisismo esasperato, sete di notorietà, senso di autorealizzazione like-dipendente. Evoluzione dell'evoluzione, ecco che dagli anfibi si arriva ai rettili: gli influencer. E gli 'altri', quelli 'sfigati con pochi like' a soffrire ai margini dei social. Visto però che ogni evoluzione è più casuale che altro, pare, non perderei la speranza di qualcos'altro.
(Comunque un rituale propiziatorio lo farei...)
   
















domenica 15 settembre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: la lezione (tragica) dei classici.

(Carpi, città adottiva di Dorando Pietri e natale Gregorio Paltrinieri, 13 settembre 2019 - 27 fruttidoro 226° anno della Rivoluzione, ore 15.00)



Grandi scervellamenti sotto il cielo dell'Emilia. Il tema del festivàl di quest'anno (Persona) si declina in un numero di incontri ad alto tasso di attualità, come quello presieduto dal prof. Maurizio Bettini, gran capo degli studi di antropologia del mondo antico (versante prevalentemente latino), che oggi ci regala puntute riflessioni sull'attualità o meno dei grandi temi tramandatici dalla letteratura classica. Osserviamo in esergo che quell'arietta timorosa di Lanterna Verde, che ci pareva aver guidato la mano degli organizzatori del festivàl di Mantova settimana scorsa, spira leziosa anche qui, visto il primo step del discorso bettiniano. Ma noi, osservatori dell'Assoluto nel mondo del Relativo, amiamo guardare i grandi contorni della Permanenza piuttosto che ingolfarci con i dettagli della Contingenza.
Tutto questo per dire che ogni discorso sull'attualità dei classici non può prescindere da uno dei testi fondanti della cultura occidentale, letto & goduto da generazioni e generazioni di intellettuali e non solo, ovvero l'Eneide.
Enea e compagni sono a tutti gli effetti dei profughi che fuggono dalla guerra, sballottati da una tempesta fino a schiantarsi soli e disperati in una terra straniera e potenzialmente ostile. I Cartaginesi vorrebbero farli fuori in quanto invasori non desiderati. Ed è qui che il troiano Ilioneo se ne esce col carico da 11 (libro I, vv. 539 ss.): cari voi, quale patria è così barbara da permettervi di respingere dei disgraziati come noi dall'ospitalità qui sulla spiaggia? Se vi facciamo proprio tanto schifo, ricordate in ogni caso che gli dèi hanno buona memoria sia delle azioni buone che di quelle cattive. Morale: una città che sblatta i naufraghi è barbara, non merita di essere considerata civile.
E qui Virgilio ci regala il primo copioso caso di empatia di tutto il poema con la figura di Didone, prontissima a soccorrere i troiani perché vede gente che soffre e lei sa benissimo cosa voglia dire soffrire. Bettini opina pertanto che sembra di parlare dell'oggi, stessi temi e stessi luoghi, profughi fuggiaschi, annegati, accolti ostilmente.
Quindi l'Eneide cos'è?
Un libro che ha fatto filtrare nella nostra cultura modi di sentire e pensare che fondano l'occidente.
Tutto ruota intorno al comportamento degli uomini nei confronti degli altri uomini.
Come oggi. Al punto che, sostiene puntualmente il dotto, tanto la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 quanto l'articolo 10 della nostra Costituzione sono di fatto emanazioni spirituali dell'Eneide. Ma Bettini va oltre: il vero fattore aggiunto degli studi classici rispetto a tutti gli altri è la possibilità di farci riflettere su cose che sono nostre, ma da un altro punto di vista. Essi sono un laboratorio importantissimo in cui si svolge un gioco di identità e alterità che ci obbliga a metterci in costante confronto con le nostre radici. Gli antichi avevano il concetto di diritti umani? Cosa hanno in comune e diverso da quelli di oggi? 




A questo punto l'antropologo esperto getta i dovuti ponti tra ieri e oggi: gli Human Rights promossi dai coniugi Roosevelt (Eleanor in particolare), sono la traduzione letterale del latino ius humanum. Interessante però che lo ius humanum sia un po' come la salute, ci si accorge di esso quando manca, cioè a dire che il concetto non è spiegato in sé, ma lo si cita in situazioni in cui esso risulti palesemente violato.
Esempio: narra Tito Livo (AUC 1, 28) che Mezio Fufezio, ultimo re di Alba Longa, accusato di tradimento, fu condannato  ad essere squartato da due cavalli in corsa; Tito Livio commenta dicendo che questa è una violazione dello ius humanum. Dal che noi dobbiamo dedurre in cosa consista lo ius in questione (osservo io: che è come dire che mangiare con le mani sporche di terra non igienico, dal che dobbiamo dedurre cosa si intenda per igiene). E' chiaro che dietro questo ius ondeggia l'idea del rispetto dell'integrità strutturale dell'individuo, ovvero il rispetto dei requisiti minimi in forza dei quali un uomo può definirsi tale: l'incolumità fisica come garanzia da torture e mutilazioni è sicuramente uno di questi.   
Su questa linea 'liviana' può certamente collocarsi il romanziere Edgar Doctorow che, nella sua opera intitolata Ragtime (1974), dice che gli Human rights coprono uno spettro amplissimo di diritti, ma l'idea diffusa è che l'importante sia tutelare quelli minimi come la libertà di parola o essere garantiti dalla legge; più spesso ancora, l'appello ai diritti umani si compie quando quando si esige da colui che può disporre pienamente di noi, e quindi potrebbe essere il nostro carnefice, la garanzia minima di incolumità, quindi non venire torturati o mutilati o uccisi. Il minimo inteso come il minimo quando si è stati deprivati di tutto.

E del resto l'universalismo stoico, di cui sommo rappresentante latino è S.E.N.E.C.A. non ci dice che siamo tutti fratelli perché la natura ci ha generati uguali?

Sin qui le analogie tra noi e gli antichi. Certo, non possiamo trascurare alcune cospicue differenze, perché la realtà è sempre più complessa dei poveri schemi che ci inventiamo quotidianamente per ingabbiarla.
Per dire, già il vulcanico Saint- Just, ai tempi della Rivoluzione, disse con lepida ironia che i diritti umani rivendicati nel XVIII secolo  avrebbero causato la rovina di Atene e Sparta, poiché l'abolizione della schiavitù sarebbe equivalsa alla rovina totale dell'economia di queste città (si ricordi che per Aristotele lo schiavo era tale per natura). In effetti non c'è una sola voce tra gli autori classici che si levi per condannare la schiavitù, laddove condannare significherebbe evidentemente abolire. Anche Seneca, nel suo testo pro-schiavi più famoso, arriva al massimo del concedibile, ovvero riconoscere che l'umanità degli schiavi li rende degni di un trattamento migliore rispetto alla norma. Stop.
Del resto anche S. Agostino, signore assoluto della letteratura dell'interiorità, aveva schiavi al lavoro nei terreni del suo vescovado. La schiavitù era conseguenza del peccato. Quanto allo schiavo prigioniero di guerra, la schiavitù era conseguenza dell'aver combattuto una guerra sbagliata.

Bisogna quindi andarci piano con la lode in toto della classicità. Non per dire che questi fossero carnefici senza cuore o al contrario custodi dell'Armonia universale: bisogna far parlare le fonti per capire la LORO perimetratura dei diritti umani, senza applicare retroattivamente le nostre categorie.
Proviamo.
In Attica, moooolto tempo prima della democrazia di cui tutti tessiamo le lodi, c'erano sacerdoti, i bùzigi ("aggiogatori di buoi") che all'inizio dell'anno agricolo praticavano l'aratura sacra per favorire lo svolgimento fausto delle attività. L'aggiogatore lanciava tre maledizioni contro chi negava acqua, fuoco e cibo ai bisognosi (non c'erano discount a ogni pie' sospinto, all'epoca), contro chi non indicava la strada al viandante (non c'erano i GPS, all'epoca, perdersi era un attimo, ecco perché oggi anche i profughi hanno il cellulare con google maps) e contro chi non seppelliva i morti (si sa, si sa...).
Attenzione bene: non si trattava di semplici minacce (un kittemuort generico, per dire), ma formule di maledizione (arài in greco) che si era certi avrebbero sortito effetto in caso di azioni empie tali da scatenare l'ira degli dèi. Rispetto quindi alla sostanziale laicità dei "nostri" diritti umani, i "loro" diritti umani si riferivano a comportamenti dietro i quali era presupposta la presenza vigilante degli dèi.
Il che suggerirebbe maggiore attenzione nei confronti della nota interpretazione hegeliana del mito sofocleo di Antigone, recentemente ripreso da cantanti- professori: dice Bettini che il pur pregevole filosofo teutonico ha sbagliato assai nel vedere nell'opposizione Antigone- Creonte l'ipostasi del conflitto tra diritto familiare e diritto pubblico. Agli occhi di Antigone (e probabilmente del "pio" Sofocle)(uno che guidava il vapore durante i misteri eleusini, sa?) Creonte sta violando un diritto umano, ovvero sta attirando su di sé una maledizione sul tipo di quelle dei bùzigi: non seppellire Polinice non è un'offesa alla famiglia in nome delle leggi dello Stato, è proprio un atto empio.. Difatti, non appena il re di Tebe toglie la polvere che Antigone aveva sparso sul corpo di Polinice a mo' di sepoltura, subito gli dèi fanno venire un forte vento per rimettercela (quindi, osservo io, Carola Rackete non pertiene più al paragone).
Proteggere i morti per salvaguardarne la dignità: si noti che il cadavere di Ettore non va in decomposizione, perché gli dèi non vogliono che resti insepolto. Ma perché ciò accada, Achille deve deporre la sua ira e restituire le spoglie ettòree a Priamo, perché, dice Apollo, ora come ora si sta ostinando ad infierire, a rischio di provocare l'ira divina, contro "terra muta" (Iliade XXIV, v. 56). Chiaro? Muta è la terra perché muto è il cadavere di cui si fa scempio, e che vuol dire muto? Vuol dire che non ha facoltà di chiedere aiuto alcuno ad alcuno, quindi Achille sta giungendo ad un limite di sopportabilità divina che ricade nuovamente nella fattispecie dei contenuti delle arài di cui sopra (Apollo d'altronde minaccia...).
Anche Cicerone, in De officiis I, 52, parla di alcuni valori/diritti comuni (communia) il cui rispetto conferisce saldezza alla società umana: ricompaiono l'obbligo di fornire acqua e fuoco, ma al posto dell'indicare la strada (ovviamente inconcepibile per gente che ha costruito le strade migliori del mondo in cui era impossibile perdersi) inserisce la capacità di dare buoni consigli a chi li chiede. Certo, siccome  i bisognosi sono tanti ma i mezzi pochi, prima bisogna preoccuparsi di quelli che sono a noi vicini. Cicerone è un po' più restrittivo dei greci, pare. Invece Seneca, universalizzando come solo lui sa fare, dice che fornire cibo, indicare la via ecc. è proprio il minimo per sostentare la famiglia umana. 
Resta inteso che, pur con tutti i limiti ora visti, i latini ci hanno consegnato il meraviglioso concetto di humanitas che si traduce come
1) L'essere uomo ed essere riconosciuto come tale  +
2) Comportamento mite, civile, generoso                 +
3) La cultura, aver letto dei libri (Plinio finito sotto il Vesuvio dice che l'humanitas della vita si fonda sulla carta, cioè sulla lettura).
Se tutte queste cose a noi oggi sembrano financo ovvie, va detto che il guadagno concettuale proposto dai romani è ENORME: considerando come girava l'etica antica, un comportamento humanus, cioè un modo di agire da homo dell'epoca, poteva anche essere l'atto di infierire sull'avversario sconfitto. Invece no, i romani associano l'essere uomini con l'essere civili. Salto notevole. 

Poi certo (e qui il ricco resoconto del Bettini's talk lascia spazio alle spocchiose riflessioni del sottoscritto) i detrattori del mondo antico diranno che i padri dell'humanitas erano gli stessi che facevano dilaniare i poveracci nel Colosseo, per tacere del fatto che gli ateniesi si sono sempre ben guardati dal concedere il diritto di voto alle donne. Il fatto è appunto che "quel" mondo è anteriore al "nostro", ma a mio giudizio non nel senso banale di "prima nel tempo", semmai nel senso che "sta davanti": quel mondo ha anticipato certamente dinamiche che hanno caratterizzato molta storia dell'occidente, ma soprattutto ne fornisce la chiave di lettura generale, che è tutta nella più grande conquista artistica del mondo greco, ovvero il senso tragico dell'esistenza. A fronte di posizioni come quelle di molta umanità odierna che non resiste e deve per forza schierarsi in uno qualsiasi degli spogli giardinetti ideologici sul mercato, il senso tragico costituisce un salutare correttivo all'anestesia dello spirito critico inoculata dalle ideologie medesime. Siamo anche discretamente stufi di gente che deve comportarsi da tifosa qualsiasi cosa accada nel mondo, per cui le verità della "propria" parte sono sempre assolute, la ragione è solo la propria, le posizioni degli "altri" sono sbagliate di default. Se la realtà smentisce la validità di idee precotte e assimilate senza vaglio critico, ovviamente è la realtà ad essere sbagliata. Questo muro contro muro perpetuo andrebbe smontato proprio prendendo in considerazione il giudizio che si può dare dei protagonisti del mondo classico.
A fronte di chi vede solo splendori in esso, siamo i primi a riconoscere che gli inventori della democrazia (in casa propria) hanno ben pensato di diventare imperialisti (all'estero), così come i civilizzatori d'Europa "fanno il deserto e lo chiamano pace" (cit). Non c'è, ci insegna la storia di Atene e Roma, progresso storico, civile, spirituale a costo zero: il dominatore fa risplendere la gloria del suo ingegno su un popolo di dominati, la popolazione dominatrice si polarizza sempre in un nucleo, ristrettissimo, di potenti e in uno, vastissimo, di poveri, cosicché dentro e fuori di essa la logica gerarchica nei rapporti tra gli individui si ripropone ciclicamente. Arriva un momento in cui l'etica accelera di colpo per osmosi con i mondi degli "altri", ed il benessere seduce i giovani che non se lo sono conquistato e lo ritengono a sé dovuto, attirandosi i fulmini dei vecchi che non concepiscono la vita che non sia sacrificio, l'agire bene essendo un premio in se stesso che non necessita di ulteriori riconoscimenti; il popolo all'apice del potere può franare per difetto interno, la democrazia intesa come tirannia della maggioranza mal guidata dai suoi capi produce guasti inimmaginabili, quando in gioco è il potere assoluto non bastano abili discorsi di fronte alla forza delle armi.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma l'idea mi pare chiara: la storia antica ha molto di anticipatorio dell'oggi, anche in molte delle brutture dell'oggi. Eppure quei popoli dal vissuto così contraddittorio sono anche quelli che ci hanno regalato le coordinate per ricercare le Bellezza. Qui sta il senso tragico dell'esistenza, ovvero la presa d'atto che è solo superbia quella di chi pretende di separare sempre con nettezza il bene dal male dall'alto di un perfezione che non possiede. La vera consapevolezza del reale sta nell'incoercibile sforzo verso il bene che deve però misurarsi sempre con la minaccia del male, preso atto che le due forze convivono spesso. Eliminare una delle due, paradossalmente, ci proietterebbe in una dimensione non umana. Questo siamo, invece, in ogni epoca: costruttori di progresso al prezzo dell'imperfezione del medesimo. L'esclusiva del bene non è appannaggio di nessuno.
Si può dunque davvero schierarsi ideologicamente del tutto pro o del tutto contro gli antichi? No, come non si possono tacere i meriti dei nostri padri anche se nella loro vita magari non hanno azzeccato tutto, e ci permettiamo di farglielo notare: eredi della complessità, dobbiamo progredire consci della nostra perfettibilità.
Certo, la Bellezza più autentica nasce sempre dal dolore più profondo. Questo è il prezzo dell'humanitas.

mercoledì 11 settembre 2019

Machittevòle@festivaletteratura: fascista chi?


Forse per il clima apparentemente destreggiante che si respira (o si respirava) (o qualcuno credeva di respirare) in certe capitali europee, gli attenti organizzatori del festivàl hanno pensato di farcire il sempre corposo programma degli incontri con un certo numero di chiacchierate o lezioni singole su fascismo, nazismo, campi di concentramento, ecc. Al mio occhio di osservatore ingenuo la cosa potrebbe suonare (sinestesia) come un desiderio di tener viva la memoria del passato per evitarne certi temuti rigurgiti nell’oggi. Il che è legittimo.



Certo risulta lievemente spiazzante che proprio uno dei conferenti, l’esimio prof. Emilio Gentile, imposti la sua conferenza-evento sull’idea che di fascismo ce n’è stato solo uno, quello storico dal 1921 al 1945 (no, il fascismo del 1919 è un’altra cosa, chiedetelo a lui), laddove chi si lamenta dell’esistenza di un fascismo eterno sempre a rischio di reimporsi nelle società odierne commette un errore macroscopico di fraintendimento del reale.
Nessuno stupore: Gentile è allievo di Renzo De Felice, ovvero di colui che tentò di analizzare il fenomeno del fascismo spogliandolo di tutte le deformazioni ideologiche & interpretative di parte avversa per identificarne la natura documentalmente più vicina al vero, anche a rischio di infrangere alcuni dogmi resistenziali ormai cristallizzati, cosa che in effetti gli costò una certa serie di scomuniche nel mondo accademico (e gli garantì l’ammirazione usque ad consummationem aevi di Indro Montanelli, ovviamente).
Gentile pure, che non ha intenzione punta di riabilitare Mussolini, mette tuttavia in chiaro alcune cosette che ci hanno titillato molto, non tanto per i contenuti delle cosette, che si possono ovviamente condividere o meno (spoiler: tranquilli, il fascismo ne esce a pezzi), quanto per il metodo adottato, che è quello su cui insistiamo anche noi coi nostri discenti: non parlate a vanvera, fate dire alle fonti quello che dicono e non quello che vi piacerebbe dicessero. La lucidità del metodo e il rigore dell’approccio intellettuale hanno certamente illuminato la già luminosa Basilica palatina di Santa Barbara.
Succingendo, dice Gentile: guai a chi parla di "fascismo eterno" come categoria innata nella civiltà occidentale che scorre come un fiume carsico pronto a riemergere di quando in quando. L’errore è già nella definizione, che sottrae questa presunta categoria a qualsiasi possibilità di analisi storiografica. La storia si occupa infatti di ciò che avviene nel tempo, mentre ciò che è eterno, come si sa, si colloca fuori dal tempo, in un immutabile presente. In tal modo, l’eternità presunta del fascismo renderebbe il fascismo medesimo materia non trattabile. Ci si occupi quindi delle radici storiche del fascismo, quelle che le fonti di allora ci illustrano con ampia messe di particolari. Manco a farlo apposta, Gentile si trovò 40 anni fa proprio a Mantova per studiare l’attecchimento del fascismo nel mantovano, dicasi una delle zone di più solido dominio socialista ancora nel 1919, tanto da essere definita “la Pietroburgo padana”. Tempo un anno e mezzo e il fascismo dominava incontrastato (non posso citarvi i documenti da lui citati, ma ogni sua affermazione era ottimamente supportata). Come è potuto accadere?



Riprendiamo dal principio. Fascismo storico, dunque. Da delimitarsi entro gli anni di cui già accennammo e non prima e non dopo e non fuori dall’Italia. Altri si sono certamente ispirati al fascismo, ma il copyright è nostro (come quello del pecorino di fossa, del resto). Si badi dunque a non bollare come fascista qualunque orientamento politico nutrito di nazionalismo esasperato e xenofobia, culto della violenza e antisemitismo, chè allora sarebbero fascisti pure certi regimi politici di secoli addietro. No no. Il fascismo, documenti alla mano, si contraddistingue per alcuni elementi peculiarissimi, e Gentile li snocciola con lepidezza.
    1) Presa del potere tramite formazioni armate in seguito inquadrate come forza politica (no, amico lettore, Pisistrato non era fascista).
   2) Intervento di tipo antropologico sulla popolazione italiana per trasformarne i caratteri intrinsecamente deboli e plasmare una nuova società vigorosa, aggressiva e affamata di futuro (no, amico lettore, Saruman non   era fascista).
     3) Incanalamento delle attese collettive in una serie di campagne militari volte a dare una dimensione concreta a questa fame di futuro e consolidare il senso di appartenenza alla nazione, nazione la cui religione laica si identifica in toto con l’ideologia fascista (no, amico lettore, Bismarck non erafascista). Quello che non riuscì, per dire, a Francisco Franco e Antonio Salazar, poiché spagnoli e portoghesi erano poco eccitabili rispetto alle bombastiche ambizioni dell'italico italiano (infatti Spagna e Portogallo restarono ben fuori dal secondo conflitto mondiale).  
Già così il saggio Gentile delimita in modo notevole il fenomeno e risponde, o almeno a me è parso, alla domanda di cui sopra: il fascismo dilagò persino nella socialistissima Mantova e provincia anzitutto per la violenza militaresca delle squadracce che fecero pappetta delle sedi periferiche del partito socialista e all’occorrenza dei socialisti stessi. La tolleranza mostrata da certa borghesia industriale, disturbata dai tumulti e dagli scioperi, e la gnecchezza delle forze di governo fecero il resto. Cose risapute, si dirà. Ma i documenti e le statistiche su cui la dimostrazione della natura peculiarissima del fascismo storico si fonda rendono il discorso concreto oltre ogni stratificazione straniante della memoria collettiva.



Non meno bum-bum è la domanda (con relativa risposta) se Mussolini abbia creato il fascismo o il fascismo abbia creato Mussolini. E qui i fuochi d’artificio: dice Gentile che, documenti alla mano, non può dubitarsi giammai che Mussolini dovette prendere col tempo le misure al fascismo, giacché egli non ne fu il dominus incontrastato sin da subito. Anzi, e anche qui Montanelli applaudirebbe, Mussolini in certo modo mal sopportava i fascisti, o almeno certi fascisti e certe metodologie fasciste. Per dire: non fu Mussolini a volere la marcia su Roma, ma il fumantino Michele Bianchi (poi quadrumviro) che, a governo creato, rinfacciò al Predappiese (tramite lettera appositamente citata, ma voi non c’eravate, stolti) i propri meriti nell’aver radunato i fascisti per mandarli nell’Urbe a spaventare Vittorio Emanuele e Facta. Come dire che Mussolini era agli occhi di Bianchi poco meno che un timido. Così come Mussolini si trovò in gobba le conseguenze potenzialmente devastanti del delitto Matteotti, delitto che lui era stato ben lungi dall’ordinare (si sa, si sa...). Detto che il Duce non era esattamente un gelsomino, il suo polso su tutto il movimento fascista si dovette tuttavia esercitare a lungo prima di egemonizzare appieno le folle adoranti in camicia nera, visto che ad agitarle c’era un gruppo di personaggi piuttosto feroci. 
Il che, sia chiaro, non mira a nessuna riabilitazione postuma del Duce, ma semplicemente ci mostra come una lettura attenta dei documenti consenta di approfondire la complessità di qualsiasi fenomeno. Non si potrebbe del resto parlare di riabilitazione dopo che Gentile snocciola altre lettere, stavolta di monsignor Tardini, prelato di alti incarichi vaticani, che nel 1935, in vista della guerra in Etiopia, sparava a zero su Mussolini (alla faccia della conciliazione ecc. ecc.) con espressioni pesantucce (che ascolterete quando su questo sito sarà disponibile l’audio dell’intervento, stolti)(comunque qualcosa c’è pure qui)(prego, eh...).
Sull’altra mitologia di un Mussolini sin da subito furibondo & assetato di vendetta contro i traditori del fascismo, quelli cioè che gli levarono il trono da sotto il sedere nella fatal notte del 25 luglio 1943, oltre che con il connivente Badoglio, ecco che uno scambio epistolare Badoglio- ex Duce fresco di arresto (vedere qui) (ben prima del momentaneo collocamento fuori ruolo a Campo Imperatore dove i maligni dicono fu concepito Bruno Vespa) getta una luce curiosa sulla vicenda: a fronte di un maresciallo neo-premier che quasi si scusa per i modi un po’ bruschi della detronizzazione, resi necessari dalla preoccupazione di garantire l’incolumità personale del Predappiese, il Predappiese medesimo risponde cordialissimamente e ringrazia delle premure (!), mettendosi a disposizione dello Stato, da lui fedelmente servito sin lì, per ogni futura esigenza (!). Il che, di nuovo, non riabilita in nessun modo il Duce, casomai mostra che, all’altezza della detronizzazione, la sua percezione delle cose era un attimino sfalsata. Come dimostra del resto l’ultima lettera citata (che purtroppo mi è sfuggita in gran parte a causa di inopinate chiacchiere di pubblico accanto a me e gente che si alzava e chiedeva cose ai ragazzi del service), che penso sia questa qui (comunque verificheremo con gli audio)(stolti) in cui un Mussolini ormai alla frutta trova i colpevoli del fallimento del fascismo in chiunque tranne che in se stesso. Nessuna contrizione, osserva Gentile: come si poteva pretendere che uno così ridotto capisse cosa stava succedendo a lui e agli italiani? 



E così, tra scrosci di applausi, termina la conferenza. Per quanto mi concerne, trovo importantissima la linea metodologica interamente basata su documenti, che possono certo essere passibili di interpretazioni anche opposte, ma sono materiali concreti, non chiacchiere volanti o idee rimasticate per sentito dire come spesso accade nella nostra twitter-crazia. 
Non secondaria è la convinzione gentiliana che uno solo è stato il vero fascismo, laddove l’estensione del termine a fenomeni solo superficialmente affini rappresenta un abbaglio intellettuale che genera a sua volta non pochi problemi. Sia chiaro: l'esimio studioso è ben conscio del pericolo insito in certi atteggiamenti che rigurgitano odio razziale et similia, ma per lui il fascismo è morto con Mussolini. I problemi di oggi, al netto delle costanti positive e negative dello spirito umano la cui memoria non può mai svanire, vanno affrontati con le categorie di oggi. E qui  mi permetterei di allargare il discorso (spocchiaaaaa).
In effetti, nonostante il ‘900 sia schiattato da un po’, le sue ideologie più resistenti non cessano di esercitare un certo fascino anche su giovani menti che, del tutto ignare dei fondamenti storico-socio-filosofici delle ideologie medesime, si dichiarano avventurosamente comunisti e (neo) fascisti pur non avendo assolutamente idea di cosa si stia parlando. Mi capitò di chiedere ad un giovane (sedicente) attivista di ultrasinistra quali fossero i suoi testi politici di riferimento e i pensatori- guida, o perlomeno le idee forti su cui piedistallava la sua azione. Risposta: “Mah, così, in generale…”. Così come non poco sconcerto mi causò un dibattito tra miei allievi nei tragici giorni della morte della povera Eluana Englaro. Se in un primo momento notai che gli studenti si dividevano piuttosto nettamente in due fazioni pro e contro l’eutanasia, grande fu la sorpresa allorché, finite le argomentazioni di base, i favorevoli all’eutanasia cominciarono a dare dei fascisti a quegli altri che condannavano il gesto di Beppino Englaro, ricevendo in cambio l’appellativo di comunisti. Che senso aveva ricondurre due posizioni su un simile delicatissimo argomento a categorie politiche decotte, che oltretutto nulla c’entravano? Ma soprattutto, perché, nel secolo ventesimo primo, dovrebbe avere davvero senso dichiararsi di destra e di sinistra, visto che il mondo che ha prodotto quelle categorie non esiste più, o meglio si è evoluto in tutt'altro? E perché in un'epoca in cui il progresso democratico e tecnologico dovrebbe favorire la libera autodeterminazione dell'individuo, si rimane ancora ingabbiati nei 'pacchetti tutto compreso' delle ideologie? Sento spesso gente 'di destra' dichiarare in rigoroso filotto di essere nazionalista, non-ambientalista e filo-americana, laddove gente 'di sinistra' è rigorosamente terzomondista, ambientalista e filo-qualsiasi cosa non siano gli USA (con addentellati pro o contro Israele e la Palestina). Pare che un menù à la carte, in cui uno possa liberamente scegliere posizioni appartenenti in teoria a schieramenti ideologici diversi, diventi automaticamente taccia d'incoerenza o cerchiobottismo. Detto poi che, al loro primo vagito (avevano appena ammazzato Lady Oscar), 'destra' e 'sinistra' ovviamente nulla dicevano rispetto ai pacchetti di cui sopra (figurarsi sull'eutanasia). Sarebbe come aprire il barattolone di latta dei biscotti danesi e trovarci dentro un set per il cucito (ma quando mai...).  
Bello sarebbe, sulla scorta del magistero gentiliano, deformare la realtà il meno possibile. Essa, si capisce, sarà sempre una ri-creazione delle singole coscienze soggettive e quindi mai uguale per tutti. Ma tra il non poter cogliere la cosa-in-sé e convincersi che una mela è una pera ce ne passa.
("C'è tutto negli archivi, basta aprirli", cit.)