Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 15 settembre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: la lezione (tragica) dei classici.

(Carpi, città adottiva di Dorando Pietri e natale Gregorio Paltrinieri, 13 settembre 2019 - 27 fruttidoro 226° anno della Rivoluzione, ore 15.00)



Grandi scervellamenti sotto il cielo dell'Emilia. Il tema del festivàl di quest'anno (Persona) si declina in un numero di incontri ad alto tasso di attualità, come quello presieduto dal prof. Maurizio Bettini, gran capo degli studi di antropologia del mondo antico (versante prevalentemente latino), che oggi ci regala puntute riflessioni sull'attualità o meno dei grandi temi tramandatici dalla letteratura classica. Osserviamo in esergo che quell'arietta timorosa di Lanterna Verde, che ci pareva aver guidato la mano degli organizzatori del festivàl di Mantova settimana scorsa, spira leziosa anche qui, visto il primo step del discorso bettiniano. Ma noi, osservatori dell'Assoluto nel mondo del Relativo, amiamo guardare i grandi contorni della Permanenza piuttosto che ingolfarci con i dettagli della Contingenza.
Tutto questo per dire che ogni discorso sull'attualità dei classici non può prescindere da uno dei testi fondanti della cultura occidentale, letto & goduto da generazioni e generazioni di intellettuali e non solo, ovvero l'Eneide.
Enea e compagni sono a tutti gli effetti dei profughi che fuggono dalla guerra, sballottati da una tempesta fino a schiantarsi soli e disperati in una terra straniera e potenzialmente ostile. I Cartaginesi vorrebbero farli fuori in quanto invasori non desiderati. Ed è qui che il troiano Ilioneo se ne esce col carico da 11 (libro I, vv. 539 ss.): cari voi, quale patria è così barbara da permettervi di respingere dei disgraziati come noi dall'ospitalità qui sulla spiaggia? Se vi facciamo proprio tanto schifo, ricordate in ogni caso che gli dèi hanno buona memoria sia delle azioni buone che di quelle cattive. Morale: una città che sblatta i naufraghi è barbara, non merita di essere considerata civile.
E qui Virgilio ci regala il primo copioso caso di empatia di tutto il poema con la figura di Didone, prontissima a soccorrere i troiani perché vede gente che soffre e lei sa benissimo cosa voglia dire soffrire. Bettini opina pertanto che sembra di parlare dell'oggi, stessi temi e stessi luoghi, profughi fuggiaschi, annegati, accolti ostilmente.
Quindi l'Eneide cos'è?
Un libro che ha fatto filtrare nella nostra cultura modi di sentire e pensare che fondano l'occidente.
Tutto ruota intorno al comportamento degli uomini nei confronti degli altri uomini.
Come oggi. Al punto che, sostiene puntualmente il dotto, tanto la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 quanto l'articolo 10 della nostra Costituzione sono di fatto emanazioni spirituali dell'Eneide. Ma Bettini va oltre: il vero fattore aggiunto degli studi classici rispetto a tutti gli altri è la possibilità di farci riflettere su cose che sono nostre, ma da un altro punto di vista. Essi sono un laboratorio importantissimo in cui si svolge un gioco di identità e alterità che ci obbliga a metterci in costante confronto con le nostre radici. Gli antichi avevano il concetto di diritti umani? Cosa hanno in comune e diverso da quelli di oggi? 




A questo punto l'antropologo esperto getta i dovuti ponti tra ieri e oggi: gli Human Rights promossi dai coniugi Roosevelt (Eleanor in particolare), sono la traduzione letterale del latino ius humanum. Interessante però che lo ius humanum sia un po' come la salute, ci si accorge di esso quando manca, cioè a dire che il concetto non è spiegato in sé, ma lo si cita in situazioni in cui esso risulti palesemente violato.
Esempio: narra Tito Livo (AUC 1, 28) che Mezio Fufezio, ultimo re di Alba Longa, accusato di tradimento, fu condannato  ad essere squartato da due cavalli in corsa; Tito Livio commenta dicendo che questa è una violazione dello ius humanum. Dal che noi dobbiamo dedurre in cosa consista lo ius in questione (osservo io: che è come dire che mangiare con le mani sporche di terra non igienico, dal che dobbiamo dedurre cosa si intenda per igiene). E' chiaro che dietro questo ius ondeggia l'idea del rispetto dell'integrità strutturale dell'individuo, ovvero il rispetto dei requisiti minimi in forza dei quali un uomo può definirsi tale: l'incolumità fisica come garanzia da torture e mutilazioni è sicuramente uno di questi.   
Su questa linea 'liviana' può certamente collocarsi il romanziere Edgar Doctorow che, nella sua opera intitolata Ragtime (1974), dice che gli Human rights coprono uno spettro amplissimo di diritti, ma l'idea diffusa è che l'importante sia tutelare quelli minimi come la libertà di parola o essere garantiti dalla legge; più spesso ancora, l'appello ai diritti umani si compie quando quando si esige da colui che può disporre pienamente di noi, e quindi potrebbe essere il nostro carnefice, la garanzia minima di incolumità, quindi non venire torturati o mutilati o uccisi. Il minimo inteso come il minimo quando si è stati deprivati di tutto.

E del resto l'universalismo stoico, di cui sommo rappresentante latino è S.E.N.E.C.A. non ci dice che siamo tutti fratelli perché la natura ci ha generati uguali?

Sin qui le analogie tra noi e gli antichi. Certo, non possiamo trascurare alcune cospicue differenze, perché la realtà è sempre più complessa dei poveri schemi che ci inventiamo quotidianamente per ingabbiarla.
Per dire, già il vulcanico Saint- Just, ai tempi della Rivoluzione, disse con lepida ironia che i diritti umani rivendicati nel XVIII secolo  avrebbero causato la rovina di Atene e Sparta, poiché l'abolizione della schiavitù sarebbe equivalsa alla rovina totale dell'economia di queste città (si ricordi che per Aristotele lo schiavo era tale per natura). In effetti non c'è una sola voce tra gli autori classici che si levi per condannare la schiavitù, laddove condannare significherebbe evidentemente abolire. Anche Seneca, nel suo testo pro-schiavi più famoso, arriva al massimo del concedibile, ovvero riconoscere che l'umanità degli schiavi li rende degni di un trattamento migliore rispetto alla norma. Stop.
Del resto anche S. Agostino, signore assoluto della letteratura dell'interiorità, aveva schiavi al lavoro nei terreni del suo vescovado. La schiavitù era conseguenza del peccato. Quanto allo schiavo prigioniero di guerra, la schiavitù era conseguenza dell'aver combattuto una guerra sbagliata.

Bisogna quindi andarci piano con la lode in toto della classicità. Non per dire che questi fossero carnefici senza cuore o al contrario custodi dell'Armonia universale: bisogna far parlare le fonti per capire la LORO perimetratura dei diritti umani, senza applicare retroattivamente le nostre categorie.
Proviamo.
In Attica, moooolto tempo prima della democrazia di cui tutti tessiamo le lodi, c'erano sacerdoti, i bùzigi ("aggiogatori di buoi") che all'inizio dell'anno agricolo praticavano l'aratura sacra per favorire lo svolgimento fausto delle attività. L'aggiogatore lanciava tre maledizioni contro chi negava acqua, fuoco e cibo ai bisognosi (non c'erano discount a ogni pie' sospinto, all'epoca), contro chi non indicava la strada al viandante (non c'erano i GPS, all'epoca, perdersi era un attimo, ecco perché oggi anche i profughi hanno il cellulare con google maps) e contro chi non seppelliva i morti (si sa, si sa...).
Attenzione bene: non si trattava di semplici minacce (un kittemuort generico, per dire), ma formule di maledizione (arài in greco) che si era certi avrebbero sortito effetto in caso di azioni empie tali da scatenare l'ira degli dèi. Rispetto quindi alla sostanziale laicità dei "nostri" diritti umani, i "loro" diritti umani si riferivano a comportamenti dietro i quali era presupposta la presenza vigilante degli dèi.
Il che suggerirebbe maggiore attenzione nei confronti della nota interpretazione hegeliana del mito sofocleo di Antigone, recentemente ripreso da cantanti- professori: dice Bettini che il pur pregevole filosofo teutonico ha sbagliato assai nel vedere nell'opposizione Antigone- Creonte l'ipostasi del conflitto tra diritto familiare e diritto pubblico. Agli occhi di Antigone (e probabilmente del "pio" Sofocle)(uno che guidava il vapore durante i misteri eleusini, sa?) Creonte sta violando un diritto umano, ovvero sta attirando su di sé una maledizione sul tipo di quelle dei bùzigi: non seppellire Polinice non è un'offesa alla famiglia in nome delle leggi dello Stato, è proprio un atto empio.. Difatti, non appena il re di Tebe toglie la polvere che Antigone aveva sparso sul corpo di Polinice a mo' di sepoltura, subito gli dèi fanno venire un forte vento per rimettercela (quindi, osservo io, Carola Rackete non pertiene più al paragone).
Proteggere i morti per salvaguardarne la dignità: si noti che il cadavere di Ettore non va in decomposizione, perché gli dèi non vogliono che resti insepolto. Ma perché ciò accada, Achille deve deporre la sua ira e restituire le spoglie ettòree a Priamo, perché, dice Apollo, ora come ora si sta ostinando ad infierire, a rischio di provocare l'ira divina, contro "terra muta" (Iliade XXIV, v. 56). Chiaro? Muta è la terra perché muto è il cadavere di cui si fa scempio, e che vuol dire muto? Vuol dire che non ha facoltà di chiedere aiuto alcuno ad alcuno, quindi Achille sta giungendo ad un limite di sopportabilità divina che ricade nuovamente nella fattispecie dei contenuti delle arài di cui sopra (Apollo d'altronde minaccia...).
Anche Cicerone, in De officiis I, 52, parla di alcuni valori/diritti comuni (communia) il cui rispetto conferisce saldezza alla società umana: ricompaiono l'obbligo di fornire acqua e fuoco, ma al posto dell'indicare la strada (ovviamente inconcepibile per gente che ha costruito le strade migliori del mondo in cui era impossibile perdersi) inserisce la capacità di dare buoni consigli a chi li chiede. Certo, siccome  i bisognosi sono tanti ma i mezzi pochi, prima bisogna preoccuparsi di quelli che sono a noi vicini. Cicerone è un po' più restrittivo dei greci, pare. Invece Seneca, universalizzando come solo lui sa fare, dice che fornire cibo, indicare la via ecc. è proprio il minimo per sostentare la famiglia umana. 
Resta inteso che, pur con tutti i limiti ora visti, i latini ci hanno consegnato il meraviglioso concetto di humanitas che si traduce come
1) L'essere uomo ed essere riconosciuto come tale  +
2) Comportamento mite, civile, generoso                 +
3) La cultura, aver letto dei libri (Plinio finito sotto il Vesuvio dice che l'humanitas della vita si fonda sulla carta, cioè sulla lettura).
Se tutte queste cose a noi oggi sembrano financo ovvie, va detto che il guadagno concettuale proposto dai romani è ENORME: considerando come girava l'etica antica, un comportamento humanus, cioè un modo di agire da homo dell'epoca, poteva anche essere l'atto di infierire sull'avversario sconfitto. Invece no, i romani associano l'essere uomini con l'essere civili. Salto notevole. 

Poi certo (e qui il ricco resoconto del Bettini's talk lascia spazio alle spocchiose riflessioni del sottoscritto) i detrattori del mondo antico diranno che i padri dell'humanitas erano gli stessi che facevano dilaniare i poveracci nel Colosseo, per tacere del fatto che gli ateniesi si sono sempre ben guardati dal concedere il diritto di voto alle donne. Il fatto è appunto che "quel" mondo è anteriore al "nostro", ma a mio giudizio non nel senso banale di "prima nel tempo", semmai nel senso che "sta davanti": quel mondo ha anticipato certamente dinamiche che hanno caratterizzato molta storia dell'occidente, ma soprattutto ne fornisce la chiave di lettura generale, che è tutta nella più grande conquista artistica del mondo greco, ovvero il senso tragico dell'esistenza. A fronte di posizioni come quelle di molta umanità odierna che non resiste e deve per forza schierarsi in uno qualsiasi degli spogli giardinetti ideologici sul mercato, il senso tragico costituisce un salutare correttivo all'anestesia dello spirito critico inoculata dalle ideologie medesime. Siamo anche discretamente stufi di gente che deve comportarsi da tifosa qualsiasi cosa accada nel mondo, per cui le verità della "propria" parte sono sempre assolute, la ragione è solo la propria, le posizioni degli "altri" sono sbagliate di default. Se la realtà smentisce la validità di idee precotte e assimilate senza vaglio critico, ovviamente è la realtà ad essere sbagliata. Questo muro contro muro perpetuo andrebbe smontato proprio prendendo in considerazione il giudizio che si può dare dei protagonisti del mondo classico.
A fronte di chi vede solo splendori in esso, siamo i primi a riconoscere che gli inventori della democrazia (in casa propria) hanno ben pensato di diventare imperialisti (all'estero), così come i civilizzatori d'Europa "fanno il deserto e lo chiamano pace" (cit). Non c'è, ci insegna la storia di Atene e Roma, progresso storico, civile, spirituale a costo zero: il dominatore fa risplendere la gloria del suo ingegno su un popolo di dominati, la popolazione dominatrice si polarizza sempre in un nucleo, ristrettissimo, di potenti e in uno, vastissimo, di poveri, cosicché dentro e fuori di essa la logica gerarchica nei rapporti tra gli individui si ripropone ciclicamente. Arriva un momento in cui l'etica accelera di colpo per osmosi con i mondi degli "altri", ed il benessere seduce i giovani che non se lo sono conquistato e lo ritengono a sé dovuto, attirandosi i fulmini dei vecchi che non concepiscono la vita che non sia sacrificio, l'agire bene essendo un premio in se stesso che non necessita di ulteriori riconoscimenti; il popolo all'apice del potere può franare per difetto interno, la democrazia intesa come tirannia della maggioranza mal guidata dai suoi capi produce guasti inimmaginabili, quando in gioco è il potere assoluto non bastano abili discorsi di fronte alla forza delle armi.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma l'idea mi pare chiara: la storia antica ha molto di anticipatorio dell'oggi, anche in molte delle brutture dell'oggi. Eppure quei popoli dal vissuto così contraddittorio sono anche quelli che ci hanno regalato le coordinate per ricercare le Bellezza. Qui sta il senso tragico dell'esistenza, ovvero la presa d'atto che è solo superbia quella di chi pretende di separare sempre con nettezza il bene dal male dall'alto di un perfezione che non possiede. La vera consapevolezza del reale sta nell'incoercibile sforzo verso il bene che deve però misurarsi sempre con la minaccia del male, preso atto che le due forze convivono spesso. Eliminare una delle due, paradossalmente, ci proietterebbe in una dimensione non umana. Questo siamo, invece, in ogni epoca: costruttori di progresso al prezzo dell'imperfezione del medesimo. L'esclusiva del bene non è appannaggio di nessuno.
Si può dunque davvero schierarsi ideologicamente del tutto pro o del tutto contro gli antichi? No, come non si possono tacere i meriti dei nostri padri anche se nella loro vita magari non hanno azzeccato tutto, e ci permettiamo di farglielo notare: eredi della complessità, dobbiamo progredire consci della nostra perfettibilità.
Certo, la Bellezza più autentica nasce sempre dal dolore più profondo. Questo è il prezzo dell'humanitas.

mercoledì 11 settembre 2019

Machittevòle@festivaletteratura: fascista chi?


Forse per il clima apparentemente destreggiante che si respira (o si respirava) (o qualcuno credeva di respirare) in certe capitali europee, gli attenti organizzatori del festivàl hanno pensato di farcire il sempre corposo programma degli incontri con un certo numero di chiacchierate o lezioni singole su fascismo, nazismo, campi di concentramento, ecc. Al mio occhio di osservatore ingenuo la cosa potrebbe suonare (sinestesia) come un desiderio di tener viva la memoria del passato per evitarne certi temuti rigurgiti nell’oggi. Il che è legittimo.



Certo risulta lievemente spiazzante che proprio uno dei conferenti, l’esimio prof. Emilio Gentile, imposti la sua conferenza-evento sull’idea che di fascismo ce n’è stato solo uno, quello storico dal 1921 al 1945 (no, il fascismo del 1919 è un’altra cosa, chiedetelo a lui), laddove chi si lamenta dell’esistenza di un fascismo eterno sempre a rischio di reimporsi nelle società odierne commette un errore macroscopico di fraintendimento del reale.
Nessuno stupore: Gentile è allievo di Renzo De Felice, ovvero di colui che tentò di analizzare il fenomeno del fascismo spogliandolo di tutte le deformazioni ideologiche & interpretative di parte avversa per identificarne la natura documentalmente più vicina al vero, anche a rischio di infrangere alcuni dogmi resistenziali ormai cristallizzati, cosa che in effetti gli costò una certa serie di scomuniche nel mondo accademico (e gli garantì l’ammirazione usque ad consummationem aevi di Indro Montanelli, ovviamente).
Gentile pure, che non ha intenzione punta di riabilitare Mussolini, mette tuttavia in chiaro alcune cosette che ci hanno titillato molto, non tanto per i contenuti delle cosette, che si possono ovviamente condividere o meno (spoiler: tranquilli, il fascismo ne esce a pezzi), quanto per il metodo adottato, che è quello su cui insistiamo anche noi coi nostri discenti: non parlate a vanvera, fate dire alle fonti quello che dicono e non quello che vi piacerebbe dicessero. La lucidità del metodo e il rigore dell’approccio intellettuale hanno certamente illuminato la già luminosa Basilica palatina di Santa Barbara.
Succingendo, dice Gentile: guai a chi parla di "fascismo eterno" come categoria innata nella civiltà occidentale che scorre come un fiume carsico pronto a riemergere di quando in quando. L’errore è già nella definizione, che sottrae questa presunta categoria a qualsiasi possibilità di analisi storiografica. La storia si occupa infatti di ciò che avviene nel tempo, mentre ciò che è eterno, come si sa, si colloca fuori dal tempo, in un immutabile presente. In tal modo, l’eternità presunta del fascismo renderebbe il fascismo medesimo materia non trattabile. Ci si occupi quindi delle radici storiche del fascismo, quelle che le fonti di allora ci illustrano con ampia messe di particolari. Manco a farlo apposta, Gentile si trovò 40 anni fa proprio a Mantova per studiare l’attecchimento del fascismo nel mantovano, dicasi una delle zone di più solido dominio socialista ancora nel 1919, tanto da essere definita “la Pietroburgo padana”. Tempo un anno e mezzo e il fascismo dominava incontrastato (non posso citarvi i documenti da lui citati, ma ogni sua affermazione era ottimamente supportata). Come è potuto accadere?



Riprendiamo dal principio. Fascismo storico, dunque. Da delimitarsi entro gli anni di cui già accennammo e non prima e non dopo e non fuori dall’Italia. Altri si sono certamente ispirati al fascismo, ma il copyright è nostro (come quello del pecorino di fossa, del resto). Si badi dunque a non bollare come fascista qualunque orientamento politico nutrito di nazionalismo esasperato e xenofobia, culto della violenza e antisemitismo, chè allora sarebbero fascisti pure certi regimi politici di secoli addietro. No no. Il fascismo, documenti alla mano, si contraddistingue per alcuni elementi peculiarissimi, e Gentile li snocciola con lepidezza.
    1) Presa del potere tramite formazioni armate in seguito inquadrate come forza politica (no, amico lettore, Pisistrato non era fascista).
   2) Intervento di tipo antropologico sulla popolazione italiana per trasformarne i caratteri intrinsecamente deboli e plasmare una nuova società vigorosa, aggressiva e affamata di futuro (no, amico lettore, Saruman non   era fascista).
     3) Incanalamento delle attese collettive in una serie di campagne militari volte a dare una dimensione concreta a questa fame di futuro e consolidare il senso di appartenenza alla nazione, nazione la cui religione laica si identifica in toto con l’ideologia fascista (no, amico lettore, Bismarck non erafascista). Quello che non riuscì, per dire, a Francisco Franco e Antonio Salazar, poiché spagnoli e portoghesi erano poco eccitabili rispetto alle bombastiche ambizioni dell'italico italiano (infatti Spagna e Portogallo restarono ben fuori dal secondo conflitto mondiale).  
Già così il saggio Gentile delimita in modo notevole il fenomeno e risponde, o almeno a me è parso, alla domanda di cui sopra: il fascismo dilagò persino nella socialistissima Mantova e provincia anzitutto per la violenza militaresca delle squadracce che fecero pappetta delle sedi periferiche del partito socialista e all’occorrenza dei socialisti stessi. La tolleranza mostrata da certa borghesia industriale, disturbata dai tumulti e dagli scioperi, e la gnecchezza delle forze di governo fecero il resto. Cose risapute, si dirà. Ma i documenti e le statistiche su cui la dimostrazione della natura peculiarissima del fascismo storico si fonda rendono il discorso concreto oltre ogni stratificazione straniante della memoria collettiva.



Non meno bum-bum è la domanda (con relativa risposta) se Mussolini abbia creato il fascismo o il fascismo abbia creato Mussolini. E qui i fuochi d’artificio: dice Gentile che, documenti alla mano, non può dubitarsi giammai che Mussolini dovette prendere col tempo le misure al fascismo, giacché egli non ne fu il dominus incontrastato sin da subito. Anzi, e anche qui Montanelli applaudirebbe, Mussolini in certo modo mal sopportava i fascisti, o almeno certi fascisti e certe metodologie fasciste. Per dire: non fu Mussolini a volere la marcia su Roma, ma il fumantino Michele Bianchi (poi quadrumviro) che, a governo creato, rinfacciò al Predappiese (tramite lettera appositamente citata, ma voi non c’eravate, stolti) i propri meriti nell’aver radunato i fascisti per mandarli nell’Urbe a spaventare Vittorio Emanuele e Facta. Come dire che Mussolini era agli occhi di Bianchi poco meno che un timido. Così come Mussolini si trovò in gobba le conseguenze potenzialmente devastanti del delitto Matteotti, delitto che lui era stato ben lungi dall’ordinare (si sa, si sa...). Detto che il Duce non era esattamente un gelsomino, il suo polso su tutto il movimento fascista si dovette tuttavia esercitare a lungo prima di egemonizzare appieno le folle adoranti in camicia nera, visto che ad agitarle c’era un gruppo di personaggi piuttosto feroci. 
Il che, sia chiaro, non mira a nessuna riabilitazione postuma del Duce, ma semplicemente ci mostra come una lettura attenta dei documenti consenta di approfondire la complessità di qualsiasi fenomeno. Non si potrebbe del resto parlare di riabilitazione dopo che Gentile snocciola altre lettere, stavolta di monsignor Tardini, prelato di alti incarichi vaticani, che nel 1935, in vista della guerra in Etiopia, sparava a zero su Mussolini (alla faccia della conciliazione ecc. ecc.) con espressioni pesantucce (che ascolterete quando su questo sito sarà disponibile l’audio dell’intervento, stolti)(comunque qualcosa c’è pure qui)(prego, eh...).
Sull’altra mitologia di un Mussolini sin da subito furibondo & assetato di vendetta contro i traditori del fascismo, quelli cioè che gli levarono il trono da sotto il sedere nella fatal notte del 25 luglio 1943, oltre che con il connivente Badoglio, ecco che uno scambio epistolare Badoglio- ex Duce fresco di arresto (vedere qui) (ben prima del momentaneo collocamento fuori ruolo a Campo Imperatore dove i maligni dicono fu concepito Bruno Vespa) getta una luce curiosa sulla vicenda: a fronte di un maresciallo neo-premier che quasi si scusa per i modi un po’ bruschi della detronizzazione, resi necessari dalla preoccupazione di garantire l’incolumità personale del Predappiese, il Predappiese medesimo risponde cordialissimamente e ringrazia delle premure (!), mettendosi a disposizione dello Stato, da lui fedelmente servito sin lì, per ogni futura esigenza (!). Il che, di nuovo, non riabilita in nessun modo il Duce, casomai mostra che, all’altezza della detronizzazione, la sua percezione delle cose era un attimino sfalsata. Come dimostra del resto l’ultima lettera citata (che purtroppo mi è sfuggita in gran parte a causa di inopinate chiacchiere di pubblico accanto a me e gente che si alzava e chiedeva cose ai ragazzi del service), che penso sia questa qui (comunque verificheremo con gli audio)(stolti) in cui un Mussolini ormai alla frutta trova i colpevoli del fallimento del fascismo in chiunque tranne che in se stesso. Nessuna contrizione, osserva Gentile: come si poteva pretendere che uno così ridotto capisse cosa stava succedendo a lui e agli italiani? 



E così, tra scrosci di applausi, termina la conferenza. Per quanto mi concerne, trovo importantissima la linea metodologica interamente basata su documenti, che possono certo essere passibili di interpretazioni anche opposte, ma sono materiali concreti, non chiacchiere volanti o idee rimasticate per sentito dire come spesso accade nella nostra twitter-crazia. 
Non secondaria è la convinzione gentiliana che uno solo è stato il vero fascismo, laddove l’estensione del termine a fenomeni solo superficialmente affini rappresenta un abbaglio intellettuale che genera a sua volta non pochi problemi. Sia chiaro: l'esimio studioso è ben conscio del pericolo insito in certi atteggiamenti che rigurgitano odio razziale et similia, ma per lui il fascismo è morto con Mussolini. I problemi di oggi, al netto delle costanti positive e negative dello spirito umano la cui memoria non può mai svanire, vanno affrontati con le categorie di oggi. E qui  mi permetterei di allargare il discorso (spocchiaaaaa).
In effetti, nonostante il ‘900 sia schiattato da un po’, le sue ideologie più resistenti non cessano di esercitare un certo fascino anche su giovani menti che, del tutto ignare dei fondamenti storico-socio-filosofici delle ideologie medesime, si dichiarano avventurosamente comunisti e (neo) fascisti pur non avendo assolutamente idea di cosa si stia parlando. Mi capitò di chiedere ad un giovane (sedicente) attivista di ultrasinistra quali fossero i suoi testi politici di riferimento e i pensatori- guida, o perlomeno le idee forti su cui piedistallava la sua azione. Risposta: “Mah, così, in generale…”. Così come non poco sconcerto mi causò un dibattito tra miei allievi nei tragici giorni della morte della povera Eluana Englaro. Se in un primo momento notai che gli studenti si dividevano piuttosto nettamente in due fazioni pro e contro l’eutanasia, grande fu la sorpresa allorché, finite le argomentazioni di base, i favorevoli all’eutanasia cominciarono a dare dei fascisti a quegli altri che condannavano il gesto di Beppino Englaro, ricevendo in cambio l’appellativo di comunisti. Che senso aveva ricondurre due posizioni su un simile delicatissimo argomento a categorie politiche decotte, che oltretutto nulla c’entravano? Ma soprattutto, perché, nel secolo ventesimo primo, dovrebbe avere davvero senso dichiararsi di destra e di sinistra, visto che il mondo che ha prodotto quelle categorie non esiste più, o meglio si è evoluto in tutt'altro? E perché in un'epoca in cui il progresso democratico e tecnologico dovrebbe favorire la libera autodeterminazione dell'individuo, si rimane ancora ingabbiati nei 'pacchetti tutto compreso' delle ideologie? Sento spesso gente 'di destra' dichiarare in rigoroso filotto di essere nazionalista, non-ambientalista e filo-americana, laddove gente 'di sinistra' è rigorosamente terzomondista, ambientalista e filo-qualsiasi cosa non siano gli USA (con addentellati pro o contro Israele e la Palestina). Pare che un menù à la carte, in cui uno possa liberamente scegliere posizioni appartenenti in teoria a schieramenti ideologici diversi, diventi automaticamente taccia d'incoerenza o cerchiobottismo. Detto poi che, al loro primo vagito (avevano appena ammazzato Lady Oscar), 'destra' e 'sinistra' ovviamente nulla dicevano rispetto ai pacchetti di cui sopra (figurarsi sull'eutanasia). Sarebbe come aprire il barattolone di latta dei biscotti danesi e trovarci dentro un set per il cucito (ma quando mai...).  
Bello sarebbe, sulla scorta del magistero gentiliano, deformare la realtà il meno possibile. Essa, si capisce, sarà sempre una ri-creazione delle singole coscienze soggettive e quindi mai uguale per tutti. Ma tra il non poter cogliere la cosa-in-sé e convincersi che una mela è una pera ce ne passa.
("C'è tutto negli archivi, basta aprirli", cit.)


lunedì 9 settembre 2019

La politica spiegata con la scuola (tanto noi facciamo tre mesi di ferie...).

[Intro: chi scrive non si sente attualmente rappresentato da nessuna delle formazioni politiche che siedono in Parlamento. La presente analisi va quindi letta non tanto come commento ai più recenti fatti, che pure sono citati, men che mai come endorsement ai fatti di oggi pomeriggio, che dimostrano gli effetti catastrofici di un turno elettorale che ha prodotto TRE minoranze parlamentari che si odiano, ma come riflessione distaccata e generale su uno dei tanti mali della nostra politica]




La maturità politica di un popolo si coglie evidentemente in alcuni momenti clou della vita nazionale, ad esempio in occasione delle elezioni; le quali elezioni si suppone diano luogo alla creazione di una maggioranza parlamentare, maggioranza che a sua volta deve sostenere il governo, si spera, per tutta la durata di una legislatura, salvo inconvenienti. Succede nella nostra bella Italia che questa regola basilare della democrazia parlamentare sia stata sempre interpretata in modo alquanto elastico: non è necessario che il ‘salvo inconvenienti’ sia rappresentato da qualche maxi-scandalo, o qualche maxi- defezione di parlamentari o qualche maxi-qualcosa talmente detonante da obbligare ad un rimpasto governativo o addirittura alle elezioni anticipate. Da noi i governi e le relative maggioranze, durante una singola legislatura, si sono sempre distinti per la loro consistenza pongoide, nel senso che, ad ogni stormir di capriccio anche della formazione partitica più spiccicoforme, i governi cadevano, i ministri ruotavano, i sostenitori e gli avversari dell’esecutivo entravano e uscivano dalle coalizioni come fossero porte girevoli. Si potrebbero citare innumerevoli episodi di tutta la nostra storia repubblicana. Ma non qui.
Qui ci preoccuperemo di un preciso caso pongoide, ovvero la fissazione solo nostra di ritenere tutte le elezioni che avvengono nell’arco della legislatura elezioni politiche, motivo per cui le maggioranze governative possono ridefinirsi in perpetuo. Con evidente nocumento alla continuità dell’azione amministrativa del Paese.
L’exploit agostano di Matteo Salvini non è che l’ultimo esempio di questa italica patologia: le elezioni europee hanno sancito un copioso 34% di consensi per la Lega, quasi il doppio rispetto alle politiche di un anno fa, ergo l’attuale maggioranza di governo non rappresenta più i veri orientamenti politici degli italiani, quindi si possono mandare tranquillamente tutti a casa con l’indizione di nuove elezioni.
Prescindendo da tutto quello che è successo dopo, fino a stasera intendo, il ragionamento salviniano non è affatto nuovo: la litigiosità e lo scarso senso istituzionale di molti politici porta ad accettare l’esito delle elezioni politiche non fino al prossimo turno, ma finché non cambia qualcosa, e qualcosa può cambiare ben prima della scadenza della legislatura. Perché? Perché l'avversario va delegittimato a priori. E' vero che anche ai tempi primorepubblicani il fuoco reciproco non mancava, ma erano altri tempi, c'era un partito unico vincitore (DC) che di volta in volta doveva piluccare consensi dalle sue mascotte (PSI, PRI, PSDI, PLI)(molto vintage, n’est-ce-pas?), il PCI sparava a zero, ma le parti in commedia erano fisse: adesso che le coalizioni lottano ad ogni turno per sedere al posto di comando, lo sport prediletto dei politici sconfitti è da 25 anni la delegittimazione perpetua dell’avversario vincitore o (new entry salviniana) lo scalzamento in itinere dell’alleato. Cioè: siete al governo, ma non dovreste. 
L’errore di questa impostazione può comprendersi con una comoda metafora scolastica (sospiro sconsolato di metà dei lettori), ovvero la distinzione tra verifiche formative o in itinere e verifiche sommative, quale che sia la loro declinazione specifica a seconda degli insegnanti e delle materie. La verifica formativa, all’interno di un modulo didattico, può servire per comprendere se lo studente ha chiaro il percorso in atto e se sta facendo propri i contenuti proposti dal docente: non è necessario che tale verifica produca una votazione numerica, o se la produce, essa risulta di grado inferiore rispetto a quella della verifica sommativa, dicasi la prova finale che accerta l’acquisizione di conoscenze, capacità e competenze relative a quella parte di programma: quest’ultima sì prevede una votazione che, insieme a quella delle altre verifiche sommative del (tri) (quadri) (penta) mestre, produrrà la media finale su cui poi si deciderà il voto in pagella.
Al di là delle singole declinazioni (e della fuffa pedagoghese), si diceva, la verifica formativa più basic può essere semplicemente la richiesta di un feedback dal posto a due-tre studenti circa l’argomento delle lezioni precedenti, oppure, nel caso di moduli lunghi & impegnativi, la somministrazione di questionari di riepilogo o qualsiasi altro strumento che consenta un riscontro sul breve periodo dell’efficacia dell’attività didattica, in modo che lo studente comprenda le criticità e le corregga prima della verifica sommativa.
Si capisce il senso di questa metafora (che come tutte le metafore non è MAI sovrapponibile alla situazione di partenza, quindi non perdete tempo ad esercitarvi coi distinguo): le elezioni politiche sono le verifiche sommative a cui si giunge dopo una legislatura punteggiata certamente da altri appuntamenti elettorali ‘formativi’ (comunali, regionali, elezioni europee), il cui risultato è però solo sintomatico di un certo atteggiamento dell’elettorato rispetto all’azione di governo, ma non può diventare motivo valido per chiedere ogni volta dimissioni o cambi in corsa di maggioranze. Esattamente allo stesso modo la verifica formativa serve allo studente e al docente per capire se le conoscenze vengono introiettate con profitto o meno: uno studente non rischia ogni volta che gli si abbassi la media se non è riuscito a dare un feedback accettabile circa gli argomenti del modulo, né deve temere che ogni domanda di comprensione proveniente dal docente si traduca in voto, così da rischiare il recupero a settembre un giorno e schivarlo il giorno dopo (come dite? Una volta i docenti entravano in classe e interrogavano a caso senza preavviso, perché avevano la luna storta, e un votaccio su tre aoristi in quindici secondi sanzionava il debito a fine anno? Altri tempi…).
Questa è la radice del problema, ovvero la perenne inquietudine elettorale da cui siamo afflitti: ai tempi del (semi-) maggioritario col mattarellum la coalizione di maggioranza aveva più deputati pur avendo ricevuto meno voti dell’altra? Subito l’altra coalizione scendeva in piazza al grido di:  “Dimettetevi, non siete maggioranza nel Paese!” (ottobre 1996, by the way). E vabbè. Giro di elezioni regionali e sonora débacle dellacoalizione di governo? L’opposizione tuonava al grido di: “Dimettetevi, non siete maggioranza nel Paese!”. Il voto amministrativo in una o due grandi città produce maggioranze opposte a quella governativa? “Ascoltate il segnale delle città più rappresentative, dimettetevi, non siete più maggioranza nel Paese!”. E avanti così. Il problema è che chi governa si dimentica, o glielo fanno dimenticare, che l’unico mandato degli elettori a legittimare il Parlamento e le sue maggioranze è quello delle elezioni politiche, esattamente come sono solo i voti sommativi a creare la media per la pagella (sulla cui definitività poi influiscono altri elementi, ma naturalmente le metafore contano anche per quanto di non sovrapponibile c’è in esse)(repetita iuvant). Anche di fronte alla più catastrofica consultazione amministrativa, chi governa dovrebbe dire a tutti, in primis alla propria maggioranza: “Cari tutti, gli elettori ci dicono che sono scontenti di come abbiamo lavorato sin qui. Cerchiamo di aggiustare il tiro, sennò alle prossime politiche finiamo all’opposizione”. Stop. Non sarebbe nemmeno il caso di aggiungere: “L’unico mandato e gli unici numeri parlamentari che contano sono quelli scaturiti dalle elezioni politiche: l’elettorato cui dobbiamo il nostro essere in carica è quello e se adesso non è più tale dobbiamo recuperarlo. Ma smontare tutto, no”. Eppure andrebbe fatto tutte le volte. Cosicché o il governo cade o resta in carica in condizioni di perenne precarietà, sempre nel timore che qualcuno sposti un mattoncino e venga giù tutto. E alla fine, fermandoci solo agli ultimi 25 anni:

XII legislatura
Berlusconi 1 (1994)  caduto per defezione inchiestogenica della Lega.
Dini (1995-1996) – mandato a morire per fare nuove elezioni.
XIII legislatura
Prodi 1 (1996- 1998) – caduto per la legge finanziaria e UN voto di meno nella questione di fiducia.
D’Alema 1 (1998-1999) – caduto per capricci interni alla maggioranza, nonché per l’onda lunga del disastro amministrativo di Bologna, persa dalla sinistra per la prima volta nel dopoguerra, disastro dietro cui i più dietrologi vollero vedere il colpo di coda di Romano Prodi (Bologna, 1939), infuriato per la fine del suo governo.
D’Alema 2 (1999-2000)  – caduto per elezioni regionali poco felici.
Amato 2 (2000-2001) – mandato a morire per fare nuove elezioni.
XIV legislatura
Berlusconi 2-3 (2001-2006) – reimpastato dopo regionali poco felici.
XV legislatura
Prodi 2 (2006-2008) – caduto per la ripicca di TRE senatori.
XVI legislatura
Berlusconi 4 (2008-2011) – caduto per terremoti interni e defezioni multiple.
Monti (2011-2013) – sfiduciato in itinere e mandato a morire per fare nuove elezioni.
XVII legislatura
Letta (2013-2014) – sfiduciato dal suo stesso partito.
Renzi (2014-2016) – suicidato via referendum (60% contro) a fronte di un 40% del PD alle europee di due anni prima.
Gentiloni (2016-2018) - mandato a morire per fare nuove elezioni
XVII legislatura
Conte 1 (2018-2019) – caduto per esito di elezioni europee troppo favorevoli ad uno dei due partiti della coalizione.

Prescindendo da tutti i microsismi provocati da tutte le consultazioni intercorse tra una legislatura e l’altra (coi relativi dimettetevi!), il saldo è 14 governi in 25 anni. Come se tutti i Consigli di classe in un anno fossero scrutini. Immaginate l’impazzimento degli alunni. Ecco: adesso trasferitelo all’Italia.


[P.S.: dopodiché, siccome si diceva che le metafore contano anche per quanto non c’è di sovrapponibile tra i loro termini (visto che gli studenti non eleggono i docenti)(repetita iuvant), c’è tanto di scapicollatezza nei politici quanto in noi elettori, vero? Guardate ancora il resumé di cui sopra: in 25 anni non è MAI successo che la coalizione vincente alle elezioni si sia riconfermata a quelle successive. Perché? Da un lato non è nemmeno MAI successo che la coalizione di governo che aveva iniziato la legislatura fosse la stessa che la concludeva (escluso il cdx 2001-2006), dal momento che girotondi di deputati, grazie all’assenza di vincoli di mandato, hanno SEMPRE ridisegnato la seggiografia del Parlamento; facile dunque supporre un certo disorientamento nel corpo elettorale. Facile però anche riconoscere come NOI elettori siamo spesso presi da attacchi di erbavoglite acuta, per cui salutiamo come il Messia qualsiasi candidato premier che prometta mari & monti, lo accompagniamo come il salvatore della Patria salvo poi dismetterlo non appena fallisce nell’esaudire entro un mese dall’insediamento proprio quella promessa per cui l’abbiamo votato, come se esistessero solo le nostre esigenze e non ne fosse differibile il soddisfacimento. Siamo sempre NOI quelli bravi a pontificare sulle mancanze degli altri, ma poi quando ci troviamo a compiere quelle mancanze medesime “eh, ma sai, il mio è un caso particolare…”, siamo noi che ci serviamo di chi ci sta sui cosiddetti facendocelo amico quando occorre per poi rigettarlo nel limbo, noi che ci indigniamo quando qualcuno va avanti grazie “al favorino dell’amico mio”, poi se il favorino tocca noi col piffero che lo rifiutiamo, noi che pur di vedere il nemico che affonda invece di far fronte comune contro un problema collettivo [chessò, i tagli alle ore di latino…], godiamo di andare a fondo assieme a lui al grido di “mal comune mezzo gaudio”.
Questi siamo NOI. LORO sono semplicemente lì a rappresentarci.
Tienn ‘a mment.]