Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 8 maggio 2022

Appunti di umanesimo quantistico#3

 

4.


L’umanesimo quantistico come impostato sopra può inverarsi in qualche esperienza reale al di fuori del web? I miei dubbi a riguardo sono stati ulteriormente stimolati dalla lettura di un romanzo uscito (relativamente) di recente (2016): Una vita come tante della scrittrice hawaiana Hanya Yanagihara, edizione italiana a cura di Sellerio, titolo originale A Little Life. Romanzo che, diciamolo in esergo, ha spaccato perfettamente in due parti pubblico e critica tra ammiratori sfegatati e odiatori inconvincibili. Il motivo di questa polarità di gradimento risiede a mio giudizio nella raffigurazione del dolore irredimibile cui è soggetto il protagonista (Jude St Francis), le cui fratture esistenziali sono impossibili da ricomporre, come se la sua anima fosse perennemente la recidiva di un tumore. Senza spoilerare troppo, la vicenda si svolge tra New York e circondario più o meno tra gli anni ‘80 del secolo scorso e gli anni ‘10 di questo e ruota attorno alle vicende di un gruppo di quattro amici che inseguono i rispettivi sogni: tre di loro (Malcolm, JB – che starebbe per Jean-Baptiste – e Willem) si dedicano a professioni creative (architettura, pittura e cinema), mentre Jude è un brillante avvocato che durante il romanzo lascerà l’ufficio del procuratore per il ben più lucroso incarico in uno studio associato specializzato nel salvare i farabutti. Man mano che la storia si dipana, ci rendiamo conto che il protagonista principale è proprio lui e scopriamo gradualmente (MOLTO gradualmente) che il suo passato di orfano è stato irrimediabilmente rovinato da una serie di gravissimi abusi subiti fino all’età di 16 anni che hanno lasciato tracce più visibili (sul suo corpo, in particolare sulla schiena e sulle gambe) e altre meno (nella psiche) che tuttavia si ipostatizzano in ripetuti e incontrollabili atti di autolesionismo. Ciò nonostante, e parliamo di sofferenze psicofisiche inenarrabili, Jude svolge in maniera impeccabile la propria professione, come se riuscisse a compartimentare il suo Io in modo che la parte, per così dire, malata sia silenziata per tutta la durata della giornata lavorativa. Resta inteso che gli orrori del passato non cessano di tormentarlo, esattamente come un branco di iene sempre in agguato e pronte a sbranare la sua fragile serenità.

Ciò che colpisce nella storia è che solo uno dei tre amici riuscirà a sapere da Jude tutto quanto riguarda il suo passato, mentre altri (compreso il medico personale) restano completamente esclusi da tale conoscenza: eppure, nonostante autolesionismi, menzogne, incontri sentimentali disastrosi e svolte prossime alla catastrofe che punteggiano la quarantennale vicenda narrata nel romanzo, Jude è di fatto circondato da gente che vuole solo il suo bene e fa il massimo per procurarglielo e consolidarlo, anche laddove Jude sembra fare di tutto per respingerlo e respingere chi lo circonda. Qui sta il nodo tragico della lunga (1091 pagine) vicenda: il Male si è a tal punto sedimentato in Jude a tutti i livelli che egli non riesce ad assecondare gli atti di affetto delle altre persone perché non se ne sente degno. Egli si odia e si disprezza, si sente irreparabilmente corrotto dal suo passato pur senza avere la minima colpa e pertanto ritiene di essere, semplicemente, inadatto a ricevere il bene. L’entrata in scena di una figura di sadico sessuale, così come l’imprevedibile svolta sentimentale che avviene a circa due terzi della narrazione, sortiscono evidentemente effetti diversi nella vita di Jude, ma sarebbe ingenuo pensare che la prima esperienza sia l’acme del male mentre la seconda costituisca l’inizio della redenzione; basti pensare che gesti estremi di autolesionismo anche peggiori dei precedenti avvengono proprio in questa seconda. Eppure nemmeno questa ripetuta corsa all’autodistruzione (anche quando essa si aggrava dopo l’ennesima disgrazia personale) fa mancare a Jude la vicinanza degli altri personaggi, che anzi moltiplicano le premure nei suoi confronti. Questo è uno dei motivi- cardine del romanzo: NESSUNO abbandona mai Jude a se stesso, anche quando i suoi comportamenti si fanno esasperanti. Jude però è come un buco nero che assorbe la luce, troppo ha patito in anni decisivi per il suo sviluppo e si rende conto che un ritorno alla normalità (o a una parvenza di essa) è semplicemente impossibile. Con un certo nervosismo, alcuni recensori hanno notato che l’espressione più ricorrente del suo frasario è “I’m sorry” (ne sono stati contati 215 casi), stigmatizzandone in certo modo la snervante e pleonastica banalità. Forse però proprio questa presenza ossessiva di un’espressione così basica svela molto più del resto: Jude si scusa non tanto di non venire incontro alle richieste di chi vorrebbe sapere di più su di lui per poterlo meglio aiutare, né gli pesa davvero ricadere più volte negli stessi atti autolesionistici, vanificando tutto ciò che gli altri fanno per dissuaderlo (o anche ostacolarlo): egli di fatto si scusa di esistere così com’è. E nulla e nessuno potrà fargli cambiare idea.

A inizio romanzo è proprio Malcolm a definire il misterioso Jude un post-uomo (specie perché di lui, in effetti, sono ignoti agli amici passato, etnia, orientamento sessuale ecc.) sì che uno dei siti che con più entusiasmo hanno recensito il romanzo afferma che Yanagihara ha scritto un manifesto letterario sul post-umanesimo del ventunesimo secolo. Dove c’è post-umanesimo c’è forse umanesimo quantistico? Se seguiamo la linea ragionativa di Rovelli, credo di no. Jude rappresenta semmai la prova rovesciata della coerenza strutturale dell’umanesimo classico: egli è incapace di autentiche relazioni perché odia se stesso, odia per l’appunto il suo semplice essere. Un essere che non si ama, non ama gli altri né può comprenderne l’amore. Egli è un vuoto di essere che nemmeno la relazione sentimentale più felice (finché dura) riesce a riempire fino in fondo. Ci sono limitazioni (dicasi: ferite) relazionali ereditate dal passato che non verranno MAI superate. Se valessero i temi dell’umanesimo quantistico, Jude dovrebbe convincersi che tutta la sofferenza patita può essere semplicemente cancellata dall’affetto degli altri protagonisti, quasi si fosse trattato di un’illusione. Il venire-all’-essere quantistico di Jude si esplicherebbe sotto il segno dell’abuso psicofisico, nel senso che egli ‘esiste’ allorché la sua identità di vittima vieneattivata’ da coloro che lo violentano. Egli non sussiste in sé, ma è l’oggetto delle violenze altrui che definiscono la sua identità. Tuttavia il subentro della nuova dimensione relazionale non ripara i guasti provocati dalla precedente: trovare una persona che lo ama – che lo fa esistere come essere amato - dovrebbe salvare Jude dal baratro, ma così non è. Ciò perché, a differenza di quanto un umanesimo quantistico prevederebbe, non siamo dotati di identità intercambiabili che si annullano reciprocamente a seconda delle persone con cui interagiamo. Per quanto possiamo muoverci pendolarmente tra nessuno e centomila, le diverse interazioni con gli altri si depositano da qualche parte in noi dando forma, per quanto fluido e instabile, ad un uno che serba in sé una memoria anche minima del susseguirsi delle esperienze relazionali. Non credo però che quest’uno sia semplicemente la risultante (chimicamente: il precipitato) delle relazioni, perché esse, nel loro succedersi cronologico, dovrebbero annichilarsi a vicenda, o meglio in sequenza. Se esse lasciano una traccia, ciò comporta che esista prima di esse qualcosa su cui posarsi. La coscienza di Jude (sfuggente e auto-trasparente finché si vuole) preesisteva a tutte le esperienze e purtroppo la primazia di quelle devastanti sulle altre ha curvato in una direzione irrevocabile il suo tracciato esistenziale. Egli, per tutto il romanzo, vive come quelle persone che non sono riuscite ad elaborare un lutto e sono perseguitate da una perenne afflizione; nello specifico, paradossalmente, il lutto di Jude non si connette ad un evento di morte ma alla sua stessa vita che di fatto è morta per lui tra gli otto e i sedici anni. Tale morte-in-vita è appunto frutto delle relazioni disastrose vissute da giovane: Jude ha perso in un certo senso il possesso di sé e non è più in grado di relazionarsi in modo autenticamente sano e costruttivo con gli altri. Alla luce dell’Umanesimo tradizionale (e ovviamente di tonnellate di manuali di psicologia e psichiatria) tutto ciò è dolorosamente plausibile. Un umanista quantistico (o un neuroscienziato) cosa direbbe? Che tutte le sofferenze di Jude sono state niente più che un’illusione? Che il Jude violentato è tale solo nella coscienza di chi lo ha violentato, mentre il Jude-in-sé, che non esiste autonomamente, ha solo creduto di aver subito violenza, ma non avendo quest’ultima un fondamento oggettivo nella coscienza di Jude non può essere realmente avvenuta?

Forse l’umanista quantistico potrà rispondere a questi quesiti, ma credo che il nodo fondamentale di questa nuova visione dell’individuo sia ormai chiaro: la sua portata controintuitiva, se accettata, ci obbligherebbe a rivedere radicalmente i fondamenti dell’etica, della libertà e della responsabilità. Non si potrebbe, mi pare, parlar più di responsabilità individuale, ma piuttosto relazionale. Ma se le relazioni attivano sussistenze che da sole non esisterebbero, come stabilire l’oggettività di un danno esistenziale irreparabile come quello subito da Jude? E soprattutto: di che Jude si parlerebbe? Credo infatti che l’Umanesimo quantistico trascenda persino la più estrema prospettiva idealistica: non si può dire che la realtà non esiste fino a che il soggetto non la crea, perché al livello di cui parliamo il soggetto, semplicemente, non c’è, sostituito dalle relazioni. Willem potrà vedere gli effetti degli atti autolesionistici di Jude, ma non le violenze subite in gioventù. In prospettiva quantistica, potrà credere al racconto di un non-soggetto? E quand’anche raccogliesse confessioni tardive dei suoi violentatori, potrebbe dare a questa relazione di violenza valore oggettivo?


Se quindi vien facile estendere a livello quasi di catacresi la teoria einsteiniana della relatività nel classicissimo “tutto è relativo”, o se l’equazione della funzione d’onda di Dirac ha subito il bizzarro destino di essere ribattezzata “equazione dell’amore”, finendo tatuata, spesso con formula erronea, sugli avambracci degli adolescenti ai quattro angoli del globo, la quantizzazione dell’esperienza soggettiva convertita in “nuvola di relazioni” (estensione visibile della nuvole di possibilità di posizione dell’elettrone nel nucleo dell’atomo) può essere certamente una bellissima creazione dell’intelletto, ma la sua traduzione pratica, mi pare, avrebbe effetti robusti sui meccanismi sociali e non solo. Si tratta, come si vede, di un altro dei pedaggi da pagare nel cammino verso l’era del post-Umano. Se ci sarà.

Le grandi recensioni (teatrali) di Machittevòle: "Agnello di Dio", l'incomunicabilità dei sottomondi.


Andò in scena dalle nostre parti in questi giorni la première nazionale di "Agnello di Dio", una pièce piuttosto interessante (e NON, banalmente, perché ambientata in una scuola) dalla cui visione abbiamo trovato uno spunto notevole per approfondire il tema dei temi, ovvero l'incomunicabilità tra generazioni, e forse per capirne la radice profonda. Che è, ancora una volta, l'irrisolvibile contrasto pirandelliano tra forma e vita, con l'impossibilità di una scelta tra le due che soddisfi pienamente. Le info complete sulla pièce sono qui, pertanto dunquizziamo rapidamente: scuola cattolica per rampolli rampanti, padre in carriera (Fausto Cabra) convocato da badessa preside (Viola Graziosi) e sua ex compagna di collegio (e non solo...) proprio lì per tema di figlio (Alessandro Bandini) assai carico di disagio esistenziale. Di qui parte l'istruttoria per capire le ragioni del disagio. Ci vuole poco a polarizzare le posizioni, con Samuele (figlio) che riesce a far perdere le staffe agli altri due perché rifiuta di tornare a più miti consigli circa il suo malessere, malessere che soprattutto Marco (padre) vorrebbe liquidare a paturnia passeggera di diciottenne, forse connessa anche al suo DSA (che invece non c'entra nulla, anzi figlio si scoccia assai che i suoi disagi siano ridotti ad uno sterile tandem diagnosi-cura, come se le sofferenze esistenziali fossero trattabili alla stregua di un mal di denti). Detto che figlio riesce pure ad eccepire sulla visione cristiana di badessa, a suo dire troppo legata a formalismi ed esibizionismi, è naturalmente il match con padre che provoca le frizzantezze dialettiche più vivaci. In superficie, le conclusioni cui entrambi giungono, saldamente ancorati ciascuno al proprio punto di vista, potrebbero sembrare scontate - ma non lo sono: padre accusa figlio di essere alla fine un viziato che, avendo avuto tutto dalla famiglia, godendo di uno status economico-sociale che il 90% dei suoi coetanei può solo sognare da (molto) lontano, si permette di 'giocare' al disagiato, disprezzando tutto & tutti con irrequietudini che finiranno solo per ostacolarlo nella vita; figlio ringrazia certamente padre per tutto, ma questo 'tutto' materiale non lo soddisfa, perché egli non sopporta che il suo futuro sia già pianificato e che padre, tutto assorbito dalla sua successful career, abbia smesso di interrogarsi sul perché delle cose e, più di tutto, non ammetta che figlio possa essere attraversato da inquietudini che, anche se difficili da capire, andrebbero perlomeno ascoltate. C'è in effetti, circa a metà pièce, un momento in cui sembra che le controdeduzioni di Samuele aprano una breccia, e si capisce anche dalla prossemica, perché lui si toglie la felpa e rimane in t-shirt, a simboleggiare il suo volersi 'svestire' del ruolo di bravo figlio zero-problems, mentre Marco si slaccia il nodo della cravatta e inizia a sudare e deglutire, come se le ansie del figlio lo stessero in qualche modo contagiando, facendogli perdere l'impeccabile compostezza dell'abito blu scuro con camicia bianca supermanager style. Poi la storia prosegue (no spoiler here), ma il nocciolo che vogliamo snocciolare è proprio questo: perché entrambi pensano di avere ragione? Risposta agile: dai tempi di Atene antica il teatro tragico fa scontrare sottomondi individuali impossibilitati a conciliarsi (Antigone docet). Risposta articolata: tante volte a scuola vediamo dispiegarsi sofferenze alunnizie in cui non è semplice distinguere tra il capriccio passeggero e il disagio profondo (difficoltà su cui convengono anche i genitori). Come sempre sarebbe opportuno evitare gli estremismi, ovvero il poverinismo a oltranza come pure la stringa automatica "ma di cosa si lamenta, non saranno mica problemi questi, io ai suoi tempi...". Ma non è di questo che voglio parlare ora, e ritorno alla non comprensione reciproca: secondo me i tipi umani incarnati da Marco e Samuele, in realtà, si sono compresi benissimo, nel senso che, tacitamente, hanno convenuto su un punto, e cioè che l'esistenza -heideggerianamte- è qualcosa in cui siamo gettati e, una volta avviata la giostra, si può decidere di darsi - pirandellianamente- una Forma, oppure rivendicare l'autonomia della Vita. Nello specifico, Marco rivendica con orgoglio i suoi successi lavorativi ed economici - di cui anche Samuele evidentemente beneficia- perché sente che la carriera che si è costruito gli ha consentito di dare una funzione d'ordine all'altrimenti caotico svolgersi dei giorni. Non ha senso, secondo lui, arenarsi su riflessioni di alto spessore esistenziale che non spostano di un millimetro i problemi concreti del vivere. Samuele ne prende atto, ma si dice disposto a rinunciare a tutto il benessere pur di sentirsi vivo, di avere il diritto di non dare tutto per scontato e già deciso, di aprirsi all'incertezza, al dubbio, al mistero, all'ansia, senza alcuna garanzia di giungere ad un approdo sicuro. Ciò che Marco, secondo lui, non sa o non vuole fare, tutto incellophanato nel suo bell'abito e nella sua gioiosa carriera. Il fatto è che nessuna delle due prospettive, alla fine, vince, perché nessuna delle due risponde alla domanda fondamentale: Che ci faccio qui? La qual cosa potrebbe sembrare curiosa, visto che siamo in una scuola cattolica, ma Samuele vorrebbe un cattolicesimo diverso, meno formale e più aperto alle questioni di senso. Che poi egli cerchi davvero il senso o abbia già deciso per un sostanziale nichilismo, è questione che la pièce non risolve. Resta invece - potente - il conflitto di prospettive: Marco vuole convincere Samuele (e se stesso) che il soddisfacimento a livello deluxe dei bisogni materiali dovrebbe zittire una volta e per sempre le ansie della vita, perché la vita è una sfida spietata ma appagante (se vinta), mentre Samuele replica che, per paradossale che possa essere, l'eliminazione delle preoccupazioni materiali lascia campo liberissimo alle altre: proprio perché sollevato dalle pure necessità della sopravvivenza, l'essere umano alza lo sguardo verso un cielo profondo ed enigmatico e trova il coraggio di chiedersi il perché delle cose. La Verità nel pieno (materiale) e la Verità nel vuoto (della ricerca del senso), in questa pièce, si sfiorano e si respingono: per Marco, Samuele è un infelice coi soldi altrui, per Samuele Marco si è cristallizzato in una vita inautentica (cit.). Ci dice Marco: è utile consumare la vita in dubbi senza sbocco? Ci dice Samuele: è utile vivere rimuovendo di continuo le questioni ultime? Ci ri-dice Marco: e anche una volta che passi tutta la vita a pensare alla morte, quando muori senza aver vissuto cosa ci hai guadagnato? Ci ri-dice Samuele: e quando -presto o tardi- dovrai rassegnarti a perdere ciò che hai sempre saputo che avresti perso, non ti sembrerà di esserti preso in giro da solo per tutto il tempo? Cogliere l'attimo della forma e costruirsi una -precaria- felicità o lasciarsi travolgere dalle pulsioni inquiete della vita, liberi però da schemi & risposte preconfezionate?

Se poi dall'esistenzialismo estremo scendiamo - si fa per dire- ai problemi più concreti del quotidiano, certamente l'atteggiamento di chi non si riconosce nei disagi dell'altro perché non li ha mai vissuti è la grande croce dei nostri giorni; peggio ancora quando la liquidazione dei disagi medesimi avviene sulla scorta di frasi fatte del tipo: "Le sofferenze vere sono altre", "Non sei il solo", "Guarda avanti". Piccolo o grande che sia, il dolore altrui va capito, perché attendere semplicemente che si estingua come fuoco fatuo è la strategia migliore per farlo ingigantire fino a quando sarà ingestibile. Ogni dolore va sconfitto da dentro, e se è davvero banale la sconfitta sarà rapida, una volta reso cosciente l'interessato della sua inconsistenza. Ma da dentro. Chi si limita a rapide diagnosi esterne corredate da raccomandazioni qualunquistiche e senza spessore, non solo non aiuta nella cura ma si fa complice del male. Questa, secondo noi, può essere l'onda lunga o lunghissima del sasso lanciato dalla pièce: gente giovane che si rovina l'esistenza perché non riesce a vivere come un influencer non va derubricata alla voce "bambocci superficiali", ma aiutata a capire la differenza tra mondo virtuale e reale, anche combattendo - certo ad armi impari- coi numerosi disvalori del mondo massmediatico. Chiuderla sbrigativamente con "ai miei tempi" -o simili- equivale a mettere il fondotinta su un melanoma. 

(Sul versante dei figli che rifiutano carriere preconfezionate, dalla monaca di Monza in giù, la questione è sempre quella: lo status ha un suo costo, se tu figlio vuoi avere voce in capitolo e magari eccepire, calcola bene se ciò che guadagni risarcisce ciò che perdi. Si torna quindi a quanto sopra: la felicità è il prezzo del successo?)(vabbè, questo un'altra volta...) 

Per quanto riguarda gli attori, a cui aggiungiamo la spassosa Ola Cavagna nel ruolo di suora-segretaria, il nostro giudizio da non specialisti è positivissimo: Cabra è certo una conferma, mentre Bandini - del tutto a suo agio nel ruolo di diciottenne pur avendo superato i diciotto da un po'- è stato davvero una gradevole sorpresa. La Graziosi semplicemente perfetta (praticamente la recensione è finita in fondo)(lol).

sabato 30 aprile 2022

Appunti di Umanesimo quantistico#2

 


Resta quindi inteso che la Relazione dinamica di amore presuppone un essere consapevole di sé che, proprio in forza dell’amore di sé, riesce a individuare un altro da rendere oggetto del medesimo amore. Essere-in-relazione, sul piano della condizione divina, non indica una priorità cronologica tra i due poli del sintagma: l’Essere è perciò stesso Relazione. Sul piano umano, evidentemente, prima avviene la scoperta del Sé (livello di identità nucleare) poi la relazione con l’altro (livello di identità transizionale) dalla quale l’essere arricchisce per via dialettica la propria autocoscienza. Sarebbe tuttavia, secondo questa prospettiva, impossibile che la relazione avvenga indipendentemente dall’essere. Meglio: sarebbe inaccettabile demandare alla sola Relazione il compito di definire l’identità dell’individuo. Se l’individuo non ha anzitutto coscienza di sé, mai potrà gettare ponti sull’altro da sé.

Una simile impostazione trova senza dubbio una vivace concorrenza in una concezione dell’essere e della relazione diametralmente opposta, le cui radici affondano in un territorio ben lontano dalla filosofia e teologia medievali, ovvero la fisica quantistica.

Tale branca della fisica ha raggiunto ultimamente risultati che la apparentano in modo sorprendente (e sorprendentemente inquietante) a quelli delle neuroscienze. Queste ultime, indagando più a fondo l’assioma cartesiano cogito ergo sum, giungono a concludere che l’anima è di fatto trasparente a se stessa, nel senso che si percepisce, ma per così dire ‘non sa trovarsi’. Che la sua origine sia puramente biologica o metafisica (e il neuroscienziato opta decisamente per la prima ipotesi), resta un fatto che essa non conosce alcuna ‘dimensione’ di sé: possiamo vedere le nostre mani e constatare che abbiamo cinque dita, e persino gli occhi grazie a cui vediamo sono studiabili nella loro anatomia e funzionalità. L’anima, invece, ‘funziona’ ma non è collocabile né descrivibile in alcun modo come le altre parti del nostro corpo.

Certi approdi della fisica quantistica arrivano anche oltre, là dove forse nemmeno Pirandello si sarebbe mai spinto. Di fatto, sostengono alcuni, nessuno di noi può dire di avere un’esistenza autonoma finché non entra in relazione con qualcun altro. Allo stesso modo, le cose non esistono di per sé, non hanno un’autonoma sussistenza, ma iniziano ad esistere solo nel momento in cui entrano nel nostro campo percettivo. Le proprietà sostanziali e accidentali delle cose si attivano solo se le cose sono in relazione tra loro, allo stesso modo le persone: esse iniziano ad esistere solo quando altri le percepiscono ed evidentemente la permanenza (ma addirittura la stessa sussistenza) di una sola identità è messa fortemente in scacco dal fatto che ciascuno di noi è sempre la risultante di come è percepito dagli altri. Il che porta ben oltre il classico Uno, nessuno e centomila, o meglio toglie dalla serie l’uno. Per quanto sfuggente e proteiforme essa sia, Pirandello non nega che ciascuno di noi sia dotato di un’essenza che tuttavia diventa sempre qualcos’altro da sé non appena entriamo in contatto col mondo esterno, generando di volta in volta una maschera diversa (quindi l’evento è di fatto inevitabile); l’approdo quantistico nega invece proprio la possibilità di una nostra essenza autosussistente che precede la maschera anzidetta: noi possiamo dire di essere solo quando siamo in relazione con gli altri, pur con tutte le ricadute soggettive dell’evento. Come singoli, pertanto, noi non siamo nessuno finché non ci tuffiamo nelle centomila maschere che la vita di relazione ci cala addosso. L’anima non ha il problema di trovarsi; essa non c’è, perlomeno non in senso classico. Non è prioritaria.

Se ora torniamo a Dante, possiamo comprendere l’abisso concettuale tra le due visioni dell’essere: al vertice della Commedia noi vediamo l’Essere-in-Relazione e capiamo che anche noi, prima di metterci in relazione con chicchessia, dobbiamo prima avere una solida e netta relazione con noi stessi. Se cade l’essere, cade la relazione. L’approdo quantistico tematizza invece un Essere-Relazione. La soppressione della preposizione ‘in’ gioca un ruolo fondamentale, perché rovescia completamente i termini della questione dantesca: l’essere in qualche modo si attiva solo in presenza della relazione, quindi, esattamente all’opposto di prima, senza relazione non c’è essere.

Non è qui il caso di riflettere sulla portata enormemente controintuitiva della teoria. Semmai si può indagare se tra i tanti “quantismi” che sempre più diffusamente popolano il dibattito culturale si possa trovare la sintesi più ardita, ovvero l’umanesimo quantistico. E’ infatti del tutto evidente che, rovesciando il rapporto tra essere e relazione nel modo che si è detto, il concetto stesso di humanitas si deve aggiornare: Il celeberrimo verso terenziano che costituisce convenzionalmente il sigillo di tale concetto (Homo sum. Humani nihil alienum a me puto) ci dice che si può percepire l’umanità altrui solo se essa risulta in sintonia con una sostanza umana che è anche in noi: homo sum, cioè dato che sono uomo posso percepire l’umanità in chi mi sta attorno. Possiamo dunque ipotizzare che esista anche la forma speculare di umanesimo, quella cioè che rende l’alienum la radice (il prius) del nostro essere? Attenzione: non nel senso già ampiamente esplorato dai filosofi dell’identità che si plasma tramite la relazione, ma in quello tutto nuovo che nega una sussistenza assoluta dell’identità in assenza della relazione.

Ipotizziamo una relazione tra il soggetto A e il soggetto B. Sulla base di quanto detto sin qui, A esiste quando B lo percepisce, non prima. La cosa è evidentemente reciproca. Ebbene, cosa potrà provare A per B e B per A? In cosa si declinerà la loro relazione?

Potremmo ragionare per sottrazione: se partiamo dal concetto di amore come darsi all’altro previo il pieno e consapevole possesso del sé, in un ambito di umanesimo quantistico questo tipo di amore non è praticabile. Il soggetto A e il soggetto B non sono autosussistenti, quindi al limite potrebbero amare se stessi solo dopo la percezione da parte dell’altro. E’ però chiaro che questo amore di sé durerebbe finché dura tale percezione. Forse allora si dovrebbe abbandonare il concetto classico di amore, poiché è difficile pensare che un sentimento che, tradizionalmente, richiede lo scambio di una pienezza che una concezione quantistica dell’identità non consente. Si potrebbe dire che A e B, esistendo ciascuno grazie alla relazione con l’altro, possano piuttosto provare gratitudine reciproca, dato che si fanno esistere a vicenda. Il soggetto A è grato a B perché, finché sono in relazione, ha coscienza di sé. Il problema è semmai come non perdere questa coscienza e il piacere esistenziale che ne deriva. Il modo è uno solo: stare assieme più che si può per non uscire dal cono di luce di sussistenza garantito dalla piacevole relazione con l’altro. Stare assieme, cioè? Essere dove si trova l’altro, Seguirlo e farsi seguire.

I termini in corsivo di questa relazione quantistica, se tradotti in inglese, sono ovvi: like e follow. L’architrave delle reactions su qualsiasi social network. Da quando si è diffuso questo fenomeno, in effetti, tutti gli osservatori hanno notato che ad essi si lega un bisogno più o meno intenso (a tratti disperatamente morboso) di riscontro: i like e i followers diventano il metro di un prestigio immateriale che però diventa per alcuni influencer sostanziale (mentre altri osservavano lepidamente che avere tanti followers su Facebook è come essere miliardari col Monopoli). La soddisfazione dopaminica di vedere tanto il gradimento sotto i propri post o le proprie foto quanto l’aumento del numero di chi segue il profilo si lega evidentemente non alla propria identità reale, ma a quella virtuale che si consegna al web (sarebbe solo comico, ma a questo punto è anche significativo, sentire adolescenti che non possono fidanzarsi perché, a giudizio di lei, lui non ha abbastanza followers, quindi è un po’ sfigato). Si andrebbe così a creare esattamente una situazione di umanesimo quantistico, poiché io mi creo un profilo i cui like e followcioè i segni della relazione ne costituiscono la vera ragion d’essere. Con il like io comunico all’altro profilo che per me lui esiste e seguendolo ne ‘sostengo’ l’esistenza (e il tutto vale reciprocamente nei confronti del mio). Senza like e follow il mio profilo rimarrebbe un puro guscio senza senso, dentro al quale non c’è alcuna essenza autosussistente che io debba amare per poter amare le altre: a computer spento, io non sento quel profilo, non me ne preoccupo, non ne gioisco, in definitiva non lo possiedo perché l’ho affidato alla dimensione virtuale. Il mio e gli altrui profili sono per l’appunto perfettamente trasparenti a se stessi e prendono corpo solo nell’incrocio di like e follow. Se ad un certo punto, nel corso di un’intera giornata, nessuno degli utenti di Facebook (o Instagram o uno qualsiasi degli altri) entrasse sul suo profilo, ciò significherebbe per per quel giorno i profili, semplicemente, c’erano ma non sono esistiti, a differenza dei loro creatori. L’atto della creazione del profilo mette quindi in azione una pseudo-sostanzialità che perde lo pseudo- solo quando il profilo riceve visite.

Si potrebbe pertanto concludere che un abbozzo (o qualcosa di più) di umanesimo quantistico è già in essere ad esempio nel mondo dei social, in coesistenza a mio modo di vedere con l’umanesimo ‘classico’. Certo, da un punto di vista non classico, il profilo social altro non sarebbe che la proiezione virtuale di una non-identità preesistente, pertanto tra vita reale e vita virtuale non ci sarebbero in realtà differenze. Rimane da indagare, ma ce lo teniamo per future indagini, come possa una non-identità generare un non-profilo.