Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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mercoledì 31 dicembre 2014

Ciao. Ma stavolta sul serio.

Scriviamo queste genuine parole in attesa del cenone, che cucineremo noi stessi perché il pesce a capodanno, eh, beh... tuttavia non può passare sotto silenzio che stasera assisteremo ad un evento unico nella storia repubblicana, ovvero il bi-congedo del Capo dello Stato: il vecchio Giò, dopo averci già salutato due capodanni fa, è stato costretto a 'ripensarci' e stasera, cronometro alla mano, valigia per la Polinesia sotto il tavolo e un gran voglia di mandare a quel paese tutti quelli che lo hanno re-issato al Quirinale, ebbene Napolitano ci dirà davvero: "Addio", con tentazione ben sopita di gesto dell'ombrello e parolacce compresse nel cavo orale. Lui non voleva starci, lì. Lui aveva già pronta la teglia di pastiera alla Mergellina; lui già sospirava elegiache notti al chiar di luna dalla terrazza di Castel dell'Ovo. 
Macché.
Due anni passati a macerarsi di fronte allo spettacolo di una politica caotica, inconcludente, caciarona, costretto a fare il maestro d'asilo per dare un indirizzo ad una platea di politichetti rissosi, neanche capaci di trovargli un successore. Mai, nella nostra breve esperienza repubblicana, noi italici ci trovammo a rieleggere un Capo dello Stato per mancanza di alternative. Anzi, semmai il contrario: tutte le volte che si ventilò l'ipotesi di un bis, ci pensarono i parlamentari stessi a infrangere i sogni del bissando, fosse egli Gronchi (rovinato dal disastroso esperimento Tambroni e ancor più - pare- dall'amicizia con Mattei) o Scalfaro, che candidamente, a fine 1998, fece capire di essere prontissimo a ricicciare, ma i pur flebili accenni ad un'ipotesi anche solo di un biennio extra si infransero contro la voglia diffusa, a destra come a sinistra, di toglierselo dai piedi, e così si pescò Ciampi. 
Stavolta no: Napolitano era pronto a scappare da un tunnel qualsiasi che dal Quirinale portasse alla fermata del metrò di Piazza Barberini e da lì raggiungere la stazione Termini e lasciare il Parlamento alla sua nequizia. Poi la ragion di Stato; poi la minaccia di nuovi tuffi allo spread; poi il rischio di un impasse politica e il trionfo definitivo dei 5 Stelle. Vabbe', si disse Giò, diciamo di sì e vediamo fin quando dura.
E' durata. Anche troppo, penserà lui stesso. Ma perché tutto ciò? Di fatto, non si tratta qui di giudicare il quasi novennale operato di un uomo che ha alle sue spalle anni e anni di militanza attraverso tutte le più intricate stagioni della politica italiana; sarebbe semmai da chiedersi: ma perché nove anni?
Perché questa zonta di due anni è il frutto estremo di tutta la contraddittorietà della Seconda Repubblica. Figlia, rendiamocene conto e sotterriamoci, di un sistema elettorale, rinnegato dal suo stesso demiurgo, che è riuscito a creare o maggioranze spaccatutto (PDL 2008, tagli della Gelmini inclusi) oppure minoranze di governo (Ulivo 2006, PD e spicci 2013) sempre bisognose di calcolare i vivi e i morti in Senato per sperare di far passare le leggi, salvo creare coalizioni col meccano, magari prendendo pezzi di opposizione e riverniciandoli. 
Si veda il 2006: non ci rallegrammo affatto dell'elezione di Napolitano, e non certo per la persona in sé, quanto per il come lo si era eletto, ovvero a maggioranza della sola coalizione di governo, 543 voti, con l'opposizione a votare scheda bianca di corsa nelle cabine. "Potrà essere il Presidente di tutti?", ci domandammo. Dicasi: eravamo bensì certi che, da bravo uomo della Prima Repubblica, Napolitano avrebbe avuto la capacità di collocarsi, una volta quirinalizzato, in posizione assolutamente super partes rispetto alle bercianti aie degli schieramenti parlamentari. Però che tristezza vederlo eleggere senza una controparte. Anche gente di spessore come Segni, per dire, ottenne nel 1962 il soglio quirinalizio con voti a dire il vero pochini (400 e qualcosa  su 842), ma perché il grosso degli altri neanche 400 se li era presi Saragat. Ottimo. Scontro tra DC e PSI, ci stava (al netto di alcune contraddizioni). Ma nel 2006? "Votatevelo voi, noi usciamo e ciao!", esclamò il PDL, dopo la breve ipotesi D'Alema, sobriamente cassata da Berlusconi.        
Nel 2013, un immobilismo ben peggiore, dovuto all'exploit dei 5 stelle e al sistema di premio su base regionale del Senato che ha creato di fatto 3 schieramenti perdenti a Palazzo Madama. E Bersani a umiliarsi in un giro di consultazioni tra i più deprimenti che si ricordino, paragonabile solo ai mandati esplorativi a fondo perduto che Pertini e Cossiga affidavano a inermi volonterosi quando non si riusciva a rabberciare una maggioranza di governo neanche a rovesciare il bostik sulle due Camere. Poi i 101 affossatori di Prodi. Sublime epica dell'italica inconcludenza? Semmai raffigurazione perfetta di un Paese che va guicciardinianamente a caccia del proprio particulare e non vede l'interesse generale: per quanto notarile sia la figura del nostro Presidente della Repubblica (e comunque Napolitano, ma pure Scalfaro hanno mostrato che i suoi margini di azione sono molto più elastici di quanto la nuda lettura della Costituzione lascerebbe intendere) un Parlamento serio DEVE giungere, presto o tardi, ad un nome, perché in quella figura si coagula, bene o male, l'immagine di un'intera nazione e delle sue istituzioni. Due anni fa, ad un certo punto, è sembrato davvero che il Parlamento girasse a vuoto, anche per merito della grande new wave dei pentastellati, i quali, al grido di "sfonnamose tutto, magnamose er tiranno", avevano proposto nelle loro credibilissime graduatorie online le candidature di Prodi e Rodotà, notoriamente due pivelli mai visti prima nei palazzi romani. Da una parte il "no" pregiudiziale a TUTTO, poi due nomi che più stantii non potevano essere; in casa PD i sabotaggi assortiti; in casa PDL il sospiro per la catastrofe mancata (per quanto si fossero persi 6 milioni di voti in 5 anni). Poi, il nulla.
E tutto per colpa di una legge elettorale assurda, che oggi si riesce a fatica a gettare al macero. Ecco, di questo ci duole il novennato napolitanesco: le sue due elezioni sono nate su un'assenza in entrambi i casi, assenza di una voce dell'opposizione le prima volta, assenza di un intero parlamento la seconda. Di qui, con solo apparente paradosso, l'inevitabile ruolo quasi degaulliano che Giò ha dovuto ricoprire per gestire sia l'esuberanza berlusconiana, sia il criticissimo passaggio al governo Monti, sia la scelta di Letta, sia la nomina premieratizia di Renzi, uomo che in Parlamento non siede neppure. Azioni anomale di fronte ad interlocutori tutti anomali, per i più vari motivi. Stasera ci sarà certamente l'endorsement di addio a Renzi, e noi stessi qui a Spocchialand non sapremmo davvero cos'altro augurarci se non che Matt combini qualcosa, visto che dopo di lui non sembra proprio esserci nient'altro. Ma è possibile che, al fondo di tutto, stia semplicemente un meccanismo operativo? In Italia sì, perché siamo forse l'unica democrazia occidentale dotata di una legge elettorale (per fortuna cassata da chi doveva cassarla) fatta per creare confusione e non per garantire maggioranze stabili, fatta anzitutto per sabotare, ove si perda, il nemico, sulla base dei presumibili flussi di voti regionali, e poi per garantirsi, ove si vinca, un comodo margine di maggioranza. Che poi, vista la storia della legislatura 2008-2013, 'sto gran margine non era poi tale, se si sono dovuti cercare, diciamo così, dei riempitivi
Ma è così: schiavi non di una sostanza, ma di un accidente, come se uno si accorgesse che basta cambiare le lenti degli occhiali per distinguere i cartelli stradali e non andare a sbattere appena uscito di casa. Qui però non sono occhiali: sono alchimie elettorali che ci hanno regalato Parlamenti instabili e un bi-Presidente della Repubblica di emergenza. Il fatto però di aver eletto e ri-eletto un galantuomo come Giò vedendo in lui più la garanzia di un minimum ("almeno si va avanti") che il sigillo di un maximum ("in lui si esprimono il Parlamento e un Paese intero") è il più giusto correlativo oggettivo di una situazione ormai incistata nello Stivale del nostro cuore: il tirare a campare day by day. E quindi non credano di essere chissà che originali tutti coloro, Grillo in primis, che stasera controdiscorreranno alla stessa ora di Napolitano. Siamo saturi anche di pose e platealità che sanno di retorica peggio di qualsiasi discorso ufficiale.
Buona pensione, Presidente. E grazie della pazienza.
(Poi eleggono Casini, sono arcisicuro, quest'anno è il suo anno!!)

lunedì 15 dicembre 2014

La Spocchiclopedia dell'Arciduca

Mentre noi si vergava i diari di viaggio del Portogallo, ci accorsimo (o accorgemmo? o accorgebbimo?) che l'Arciduca compitava fittamente quadernetti di appunti con calligrafia minutissima e svolazzante. "Sai," mi disse poi, alzando il naso adunco dalle sudate carte e togliendosi il monocolo "abbiamo fatto un tal pieno di tipi umani nell'ultimo tredecennio che possiamo aggiornare a livello threshold il catalogo dei Caratteri di Teofrasto".
"Al tempo, Arciduca, " obiettai io "Lei ha forse intenzione di canzonare sotto mentite spoglie persone ben riconoscibili?".
"Ma certo che no, mio caro... ogni voce dell'enciclopedia dei nuovi caratteri umani stilata con sapienza dal sottoscritto è il risultato di osservazioni comprensive compiute su più esemplari della specie!".
"Quindi nessuno deve sentirsi chiamato in causa direttamente?".
"Impossibile... anzi, per dare l'idea più compiuta della bonaria cazzimma dedicata all'umanità e alla sua composizione chimica, ascriveremo questa enciclopedia alla Spocchia mia consorte".
"Allora dovremmo chiamarla 'Spocchiclopedia', non crede?".
"Se per Lei va bene, caro De Marinis...".
"E così sia".

A voi dunque, lettori di tutte le epoche, le 21 voci della Spocchiclopedia, ovvero l'enciclopedia ragionata dei caratteri più urgenti dell'umano consorzio. Buona lettura. EDM.


Accidioso rancoroso: passa i suoi giorni col pensiero fisso che tutto il resto dell'umanità abbia ciò che vuole, ma NON si merita, mentre lui, tapinello, è costantemente al di sotto di quello che dovrebbe essere, ma la colpa non si sa di chi sia. Animato da un languore pretenzioso e inane, non fa nulla per modificare sensibilmente la sua condizione, ma va avanti a gridare all'ingiustizia, convinto che sia il mondo a dovergli venire incontro e non viceversa. Lui è buono, onesto, non si mette mai le dita nel naso, eppure è messo all'angolo, gli altri sono farabutti, mestatori, leccapiedi, ladri, filibustieri e arrivano sempre dove vogliono, poiché pretendere la giustizia immanente è pia illusione di anime belle. Se per caso raggiunge alla fine quel che desidera, non ne è comunque soddisfatto, perché in lui resterà sempre l'idea di essere stato privato per troppo tempo di quel che meritava, sì che nulla potrà mai compensare i decenni passati a rosicare. Inoltre, non avendo più nulla di cui lamentarsi, non sa più come attirare l'attenzione su di sé. La sua specialità è fare sempre l'offeso con qualcuno per qualcosa che nessuno sa bene cosa sia, fatto che gli aliena tutte le amicizie faticosamente create, defunte le quali egli si chiede perché tutti siano così cattivi con lui.

Battiferro: studente poco incline allo studio, in genere prole di facoltosi artigiani, va a scuola perché gli tocca, e perché almeno un figlio col diploma di liceo fa fino, ma odia visceralmente la cultura, convinto - chissà perché e da chi - che l'unico metro per misurare la dignità umana siano i soldi. Equipara volentieri il docente allo spazzino, non accorgendosi che la prosecuzione della similitudine fa di lui la spazzatura. Preso il diploma in qualche modo, non trova di meglio che andare a lavorare sotto casa, o meglio IN casa, ma invece di benedire cotanta immeritata fortuna, e umilmente godere di quanto essa gli procura, fa le viste di quello che è stato più bravo degli altri, da lui ripetutamente perculati per la loro sciocca illusione che lo studio serva davvero a qualcosa, come se la prosperità sua e della famiglia l'avesse creata lui con la propria fatica. Per un anno di lavoro 'vero' dopo un'adolescenza di nulla totale, si atteggia a supermanager e, pago di quelle due- tre cosette che gli fanno fare, campa nella convinzione che la ditta poggi sulle sue spalle e non viceversa, non accorgendosi peraltro che, per fare quello che gli fanno fare, potrebbero mettere lì chiunque altro. Ma quando il primo preventivo per il cliente esce dalla stampante, per lui è goduria: altro che Divina Commedia, pensa soddisfatto, mentre lo invia per email a se stesso, e come carbon copy a se medesimo.  

Cristiano Ronaldo de 'sta cippa: calciatorino bimbominkia di qualche talento, almeno per spiccare nella massa di bradipi con cui gioca al pomeriggio al parchetto sotto casa. Iscritto da genitori vogliosi di reddito facile alla prima squadretta disponibile, si allena gioca, segna, in qualche modo approda all'età adolescente con discrete speranze di giocare in serie D, o in qualche giovanile di un certo spessore. La qual cosa, che spesso va a sfumare per cause di forza maggiore (= ci sono ben altri talenti in giro), lo porta a vivere l'esperienza presente come si trattasse di un Bernabeu perenne. Di qui gli atteggiamenti da divetto, l'arroganza gettata a secchiate sui coetanei sfigati che studiano, lo sprezzo totale per quei poveracci dei docenti che guadagnano in un anno quanto lui guadagnerà in mezza giornata, l'attesa spasmodica dell'ora di educazione fisica per giocare a calcio, la ricerca ossessiva della fidanzatina sorca per editare in versione lollipop il binomio calciatore-velina. Ovviamente i genitori proteggono il suo next-to-be carrierone litigando a getto continuo con la scuola che si ostina a non dare il nullaosta per verifiche ad hoc e interrogazioni alleggerite da inserire nell'unico giorno della settimana senza allenamenti, "perché mio figlio ha talento!". Talento che, girata la boa dei venti, evapora nel 99% dei casi, lasciando la giovane promessa senza diploma (o col diplomino dei diplomifici), senza carriera universitaria (ovvove!) e un posticino da riserva nella squadra di qualche polisportiva gestita da un board di macellai e impresari nel settore delle mandorle caramellate. Gli resta dunque da passare il ponte verso i trenta, tra spogliatoi maleodoranti di ciabatta umida, trasferte in campetti nebbiosi a bordo di pulmini di fortuna, cene di fine campionato (quart'ultimi, se va bene) in trattorie tipiche che servono i paccheri dei Quattro salti in padella, e tanta malinconia per ciò che non fu. Per il lavoro non c'è problema, gliel'ha trovato il papà. Presso amici di bocca buona.      

Dama di cultura: autodichiaratasi 'altoborghese', quando il suo patrimonio totale è circa un centesimo di quelli degli altoborghesi veri, brandisce la cultura come arma di distinzione di massa. Ella cioè non si perde un concerto/vernissage/mostra/convegno/the danzante anche quando i contenuti dei medesimi le sono totalmente oscuri/incomprensibili, ma almeno può dire di esserci stata e di essere acculturata. Ha una biblioteca fornitissima di libri, i cui titoli ha sempre letto con cura. Dopo aver ben auscultato le opinioni altrui in materia di cinema/teatro/letteratura/opera/filosofia/musica sinfonica/lirica monodica/lirica corale, prima vi si adegua ciecamente in modo da sentirsi à la page, poi si mette ad argomentare esattamente il contrario per distinguersi. Desiderosa di essere amica di tutti, si dichiara 'liberale di sinistra' per non correre rischi, spara a zero sulla civiltà occidentale, ma si guarda bene dal trasferirsi in Medioriente, e fulmina il consumismo senza rinunciare a Sky. Tuttologa di professione, ritiene di poter dire la sua su ogni capitolo dello scibile, specie su argomenti altamente specialistici, pretendendo di saperne più degli specialisti veri, i quali la prima volta ascoltano e abbozzano, la seconda la sfanculano pubblicamente, la terza le tolgono il saluto.

Esteta pensoso: amante della palestra, nel senso che è la sua unica vera fidanzata, la frequenta con assiduità maniacale, perdendo circa tre diottrie per occhio nel continuare a farsi i selfie col flash nelle pareti a specchio della medesima. Ossessionato dall'idea di mettere su chili, si fionda a fare jogging appena finito il pranzo di Natale, quand'anche fuori ci fossero lastroni di ghiaccio e una tormenta di neve in pieno svolgimento. Dopo aver iniziato a dare del tu a bilancieri e dopo aver scoperto i tremila modi per eseguire un sano crunch addominale, possibilmente a testa in giù con un copertone da autocarro piombato attaccato al collo e i tiranti dietro la schiena, gli tocca constatare che la natura non vuole che lui si gonfi eccessivamente, o si definisca smagrendo al punto da sembrare anoressico. Ciò constatato, si bomba di amminoacidi e beveroni assortiti, nonché di diuretici e bruciagrassi di origine vegeto- petrolchimica e, a seconda dell'altezza, finisce per sembrare un comodino dell'Ikea o un cetriolo di cartapecora. È a quel punto che, interrogato sulla sua pittoresca fissazione, giura e stragiura che lo fa per se stesso, per l'estetica ma non per piacere agli altri, anzi neanche gli interessa venire guardato, afferma costui continuando a volgere il capo ovunque tranne che in direzione di chi gli parla. E comunque lui tiene a farci sapere che la bellezza fisica non conta, che ci sono valori più profondi, che un buon romanzo è tutto, che la filosofia è meravigliosa, che la cultura emancipa, che il mondo è ingiusto, pieno di disparità sociali da combattere, e lui contribuirà alluvionando Instagram coi suoi selfie scattati indossando dagli 80 ai 100 capi di vestiario diversi, ovviamente griffati perché gli piace piacersi.

Finto self made man: variante piagnucolosa dell'Accidioso e del Battiferro, costui supera entrambi nella capacità di sfrancicare le gonadi di chiunque con la giaculatoria a tema: "Come sono sfortunato, capitano tutte a me!", laddove le cose che gli capitano avvengono semplicemente perché lui non fa niente per far capitare il contrario. A differenza dell'Accidioso, costui ha ben chiaro di chi sia la colpa del suo nulla conlcudere, nel senso che qualcuno da accusare tranne se stesso si trova sempre. In più, egli ha in canna il ritornello che la situazione attuale è quella che è perché lui non si è ancora messo davvero d'impegno, ma se appena appena capitasse l'occasione giusta... che ovviamente non capita, o se capita lui è sempre altrove. Eppure, dopo circa un dieci/quindici  anni di geremiadi, spunta sempre fuori il genitore/parente/amico impietosito che, temendo chissà quali azioni estreme che un VERO accidioso non compirebbe mai, trova al predetto quella collocazione lavorativa cui lui, con le sue sole forze, non arriverebbe mai, ma in genere si tratta di collocazioni extrafamiliari: ciò consente al piagnucolone di non sentirsi un paraculato, anzi lo convince di essere artefice del proprio successo, sì che egli, dopo poco, osserverà: "Oh, ma sai che il mio ufficio è pieno di paraculati?", escludendo ovviamente se stesso dal novero. In tal modo gli sarà agevole ascrivere a proprio merito un percorso lavorativo frutto di spinte altrui, cui egli ha contribuito circa al 12%.

Giovin signore 2.0: espertissimo nel mungere soldi ai genitori, o a chi se lo fila, è convinto di essere troppo 'oltre' per lavorare come i comuni mortali, convinzione che gli matura già negli anni della scuola, da lui conclusi prevalentemente a 21-22 anni da privatista. Incapace di resistere al fascino della griffe, sarebbe in grado di acquistare per 5000 euro uno scopettino da cesso di D&G se costoro si piccassero di disegnarne uno. Predilige le auto tedesche, tanto non paga lui, e le vacanze a latitudini lontane lontane (giusto per far vedere che può spendere, sennò se ne stava anche a Bellaria), dove peraltro ha l'occasione di condividere, commuovendosi a fontana, momenti etnici coi disperati di quelle lande, contemplando con foga terzomondista la loro dignitosa povertà e fissandola poi immortalmente con l'Ipad nuovo di pacco. Tornato in patria, penserà elegiacamente a quei giorni 'così veri, così autentici, in compagnia di un'umanità tanto sincera' spruzzandosi con il profumo di Calvin Klein acquistato al duty free dell'aeroporto, mentre si prepara per uscire al sushi restaurant. Verso i trenta, accortosi che il 99% dei coetanei lavora (orrore!), giusto per non fare la figura del mantenuto trova un impieguccio, possibilmente dalle 11.30 alle 16, della durata massima complessiva di 4 mesi l'anno, a casa o presso amici e soprattutto prende la radicale e wagneriana decisione di andare a vivere da solo, con l'affitto e le spese dell'appartamento pagate dai suoi. Grande sostenitore di tutte le battaglie ambientaliste, prende l'auto anche per andare ai cassonetti della raccolta differenziata dirimpetto a casa, gettandovi dentro peraltro i sacchi a caso. Odia la sozza ed esibizionista ricchezza di Berlusconi e maledice Mediaset come fucina dell'ignoranza generalizzata, ma conosce a memoria tutte le puntate di Naruto e al sabato sera offre giri di Krug a chiunque gli passi accanto. Il matrimonio per lui è roba da vecchi.

High school starlette: alunno/a di scuola superiore che, in nome di piccole o grandi doti artistiche, spesso semplicemente presunte, si convince di essere la reincarnazione di qualche personaggio di Glee, in ciò sentendosi licitato a devolvere l'80/90% del suo tempo libero alle nobili arti di canto/ballo/recitazione. La qual cosa crea automaticamente nel predetto un certo qual fastidio nei confronti della scuola e soprattutto dei suoi compiti pomeridiani, così invasivi e intralcianti a danno della sua arte: egli non comprende infatti come osino i suoi professori pretendere che i compiti vengano fatti davvero tutti e che una verifica in classe cada ESATTAMENTE il giorno dopo la performance, costringendolo evidentemente a stare a casa, perché 7/10 minuti di musical più la prova generale e la prova costumi sono uno sforzo che non può certo essere recuperato in una notte, detto poi che, per fare una verifica, condizione necessaria è l'aver studiato, cosa evidentemente inconciliabile coi preparativi di cui sopra. Il caso in oggetto è quindi certo della sua polifunzionalità, che sia cioè possibile sostenere studi impegnativi e allo stesso tempo cantare/ballare/recitare come neanche Judy Garland o Gene Kelly, sfuggendogli probabilmente che tale possibilità, più che al suo essere appartenente alla generazione dei bambini indaco, è probabilmente da ascriversi alla colpevole rassegnazione dei docenti. Nemmeno per un minuto costui sospetta che la sua voce non sia poi un granché e che ci siano almeno un milione di persone che recitano meglio di lui: ogni sua esibizione è evidentemente una pietra miliare nella storia dello spettacolo, tanto che prima o poi gli toccherà andare all'estero per farsi valere; e da dove compagni e insegnanti sperano non torni più.  

Intellettuale sbombazzante: rassegnatosi, dopo anni di talent show e nullità pneumatiche salite agli onori della cronaca, alla dura realtà dello sboronaggio come unico veicolo di notorietà, costui agisce con precisione chirurgica per diventare un  montafuffa a getto continuo. Trovatosi una certa serie di protettori/paraculatori che lo finanzino o perlomeno non lo costringano ad entrare in un'aula di scuola (ovvove!!) per sbarcare il lunario, si dà a studi, conferenze, articoli dai quali non emerge NULLA che non sia stato già detto, ma lui fa passare un trafiletto del bollettino parrocchiale come fosse un lemma della Pauly-Wissowa. In effetti, al netto di convegni/presentazioni/retrospettive/pubblicazioni di cataloghi in cui la sapiente parlantina copre l'assoluto vuoto di novità dei contributi, costui è lancinato dalla straziante esigenza di esibire pubblicazioni nel curriculum: pur di arrivare a 300 in 4 anni di carriera, egli si vede pertanto costretto a spacciare per pubblicazioni pagine di diario, fotografie commentate con didascalie del tipo: "Ecco un'interessantissima foto", lettere autografe spedite al poeta preferito (lettere cui il poeta si è ben guardato di rispondere), pagine di catalogo da lui curato (una per una per incicciare), ricette di cucina trascritte sotto l'ombrellone. Se poi all'università gli viene affidato un insegnamento a contratto di esercitazioni di statistica, dirà a tutti di essere ordinario di Analisi superiore, oppure si negherà telefonicamente al sabato sera dicendo di essere stato impegnato in chat su Skype col rettore dell'università di Heidelberg. Timoroso tuttavia di  passare per nerd sfigato/topo di biblioteca, millanta avventure sentimentali con non meno di 40/50 damazze/studentesse/semplici passanti, perché la mano destra gli serve per scrivere.

Liceale di passaggio: figlio dei genitori di cui qui sotto, passa cinque o più anni della propria esistenza interagendo con adulti e libri che per lui hanno l'appeal di un tubo del gas. Dopo otto anni di scuola men che mediocri e conclusi con una sufficienzina stirata, viene collocato al liceo con l'inconfutabile motivazione che gli istituti tecnici sono postacci, l'utenza fa schifo e non è lustrante per i genitori avere un figlio futuro ragioniere. Di qui gli appassionanti pomeriggi di settembre/ottobre del primo anno a chiedersi che senso abbia commuoversi in latino per i marinai che guardano le stelle sulle belle spiagge, mentre le zelanti fanciulle ornano con grande cura di rose e di viole gli altari delle dee, ascoltando nel contempo con grande gioia le favole della nonna, il tutto appena dopo che gli agricoltori hanno ucciso le grandi bestie nel bosco. Non gli va meglio col greco, dove si strafoga di frasone astratte in cui la temperanza genera la verità, mentre l'empietà è causa di ingiustizia, senza scordare che nei villaggi si celebra la vittoria dell'esercito e le fanciulle cantano odi alle dee, il tutto a patto che le padrone fuggano la calunnia e curino la saggezza. Tra un sabato sera in discoteca e un aperitivo bimbominkia, gli sfilano davanti nomi di poeti, condottieri e filosofi a suo giudizio del tutto incompatibili con la vita giovanile: uscirà dalla maturità (distintosi con una tesina sul razzismo) convinto che Platone sia un idealista, Kant un ipermetrope, Dante uno strafatto, Petrarca un pipparolo, Leopardi un disabile, Simplicio del Dialogo sopra i due massimi sistemi un calciatore, Mussolini re d'Italia e Hitler un cosplayer di Freezer di Dragonball.

Madre di alunno infelice: chioccia morbosetta, assetata del sangue dei docenti del figlio, è immarcescibilmente convinta di avere in casa un genio assoluto, duttile, polivalente e, si capisce, incompreso da quella feccia professorale che si ostina a dargli le insufficienze. Tra la scuola e il figlio la ragione è ovviamente dalla parte di quest'ultimo, nel senso che ogni brutto voto è certo frutto di una giornata-no, ma più probabilmente anche dell'odio preconcetto degli insegnanti 'che ce l'hanno con lui' e 'che non lo sanno valutare'. Generalmente ignorante delle materie oggetto del contendere, si presenta ai colloqui con la pretesa di spiegare al docente come doveva valutare la verifica x, sottoponendo nel contempo fotocopia della verifica y, corretta a suo dire 'da una mia amica che è insegnante anche lei' e che invece del lurido 5 affibbiato dal professore avrebbe dato almeno (ma almeno!) 6 e mezzo. Solo in seguito si scopre che la cosiddetta 'amica che insegna' è un'ex allieva della stessa scuola che ha vaghi ricordi della disciplina. Di fronte a 6 insufficienze a dicembre, 'è colpa delle medie, non ha fatto niente'; quando le insufficienze permangono o aumentano a marzo, 'eccerto, l'avete sfiancato con tutti i recuperi del primo quadrimestre, come faceva a studiare gli argomenti del secondo?"; quando a maggio la situazione è compromessa del tutto, 'ce la può fare, si è messo sotto'; quando arriva la bocciatura, 'valuterò se fare ricorso'. La riconoscibilità idiolettica dell'essere umano in questione è semplicissima: se madre di figlio maschio, farà precedere il nome dal possessivo ('il mio Andrea', 'il mio Nicola' ecc.), se madre di femmina, quest'ultima sarà chiamata sempre 'la bambina', anche a 18 anni, anche se avrà sviluppato un fisico da lanciatrice del peso dell'ex DDR o da fotomodella di Armani.

Nichilista dell'Occidente: extended version della Dama di cultura, ritiene che il mondo occidentale sia una fucina di malvagità assoluta, con un sistema di valori corrotto e un modello sociale fallimentare. L'occidente, sostiene costui, a partire almeno dalla spedizione achea contro Troia, è una civiltà aggressiva e rapace, e il primo terrorista della storia è stato Ulisse, dato che si era rifiutato di declinare le proprie generalità a Polifemo. I greci, si capisce, non hanno scoperto nulla, perché la filosofia è stata inventata in India e in Egitto, l'America è stata scoperta dai cinesi e in fin dei conti l'uomo è nato in Africa. Pertanto l'occidente è colpevole nei confronti di tutte queste civiltà, deve ancora lavarsi la coscienza dai massacri degli indios, mentre la mercificazione del corpo della donna tipica della cultura consumista fa ritenere a costui nettamente più dignitosa la condizione femminile in Nigeria. Non si perde una festa palestinese, chiamando 'azioni di liberazione' le autobombe contro Israele e 'crimini disumani' le rappresaglie di quest'ultimo, come del resto l'attentato alle Twin Towers "eh, beh, gli Americani se la sono voluta, dai....". Allo stesso modo, egli ritiene che se un black bloc assassina un poliziotto durante un G8, si tratta di un atto di democrazia, se il poliziotto uccide per legittima difesa è un boia. Mangia etnico, se possibile vegano, è convinto che un giro di bonghi basti a portare la pace nel mondo, preferirebbe veder morire l'umanità intera di chissà quale virus piuttosto che debellarlo con la sperimentazione animale. Non ha il televisore in casa, gli basta lo smartphone. Vive in Occidente.   

One direction de 'sta cippa: bimbominkia del biennio, qualsiasi biennio, dotato delle sembianze di cartone animato semovente che tanto fecero bene  alla carriera di Harry Styles. Persuaso dal successo della boyband di cui all'oggetto che un'apparenza piacevole al servizio di nessuna qualità sia il lasciapassare per la gioia, si pialla in avanti i capelli, li lascia crescere fino a non vederci più, poi li raccorcia a livello "custode prescelto dei digimon", quindi cerca in tutti i modi di farsi venire gli occhi chiari, se non li ha già, magari con acconce lenti a contatto, e per finire si tappa in palestra per definire la massa magra che occasionalmente gli circonda le ossa. Ciò fatto, si bombarda di selfie e li piazza su facebook: detti selfie sono una climax ascendente (nella fase yin) di faccette buffe, linguacce, occhi strabuzzati, oppure (nella fase yang) di espressioni serie, sguardi profondi, occhi pensosi, per concludere (fase "Pollicino mannaro") con piccantisssssimi autoscatti di se medesimo davanti allo specchio del bagno, a torso scandalosamente nudo, addominali di fortuna ben tesi, sensuale orlo delle mutande dell'hard discount appena appena sporgente dai jeans, e soprattutto tazza del WC che saluta in basso a destra con la seggetta alzata. Raggiunti i 600 seguaci grazie a sì pregnanti monumenti di sé, gira per scuola e per strada con la cresta di chi aspetta solo che gli chiedano l'autografo, e gli rode assai dover dichiarare meno di 16 anni all'ingresso dei locali over 16. Superati anche lui i 16, aspetta solo la chiamata ad XFactor, convinto che aver spedito alla redazione del programma la sua migliore foto in spiaggia coi pantaloncini di Spongebob e il sorriso scemo gli farà vincere un provino (da svolgersi a casa).     

Padre di alunno infelice: generalmente marito della madre di cui sopra, si distingue per il fatto che SCOMPARE letteralmente alla presenza della suddetta, non avendo alcun diritto di intervento né replica per le questioni che ineriscono all'andamento scolastico del figlio. Si presenta raramente ai colloqui coi docenti non perché non abbia tempo, ma perché la moglie glielo impedisce al grido di ' vado io, tu non sai parlare coi professori, cosa vuoi capirne di scuola?'; ove però presente, si mette sempre difilato, quasi a cuccia, con gli occhi bassi e il capo chino, costretto all'ascolto delle concioni della consorte che discetta di 'noi siamo gente perbene', 'teniamo all'educazione di nostro figlio', 'date troppi compiti', 'siete troppo severi', annuendo in tutta umiltà con vaporosi monosillabi o timidi colpi di tosse. Non appena, in una pausa di rifiatamento muliebre, costui OSA aprir bocca per corroborare le tesi testé enunciate (giacché è del tutto IMPENSABILE che egli possa dissentire dalla dolce sposa), gli riesce di emettere giusto un abbozzo di sintagma, del tipo: "Sì, vede, professore...", "Il fatto è che...", "No, ma lui studia...", dopodiché la moglie ritorna al centro della scena, coprendo e annichilendo lo sbocciante concetto maritale a suon di 'ma sì, è quello che sto dicendo io, insomma!', 'sì, appunto, lasciami andare avanti!', eccetera. In caso di esito infausto dello scrutinio finale, costui cerca in tutti i modi di narcotizzare la moglie per potersi recare a ritirare la comunicazione di bocciatura e discutere quietamente col coordinatore della classe circa il programma recupero estivo. Ove ciò non riesca, si ricorda improvvisamente di un impegno di lavoro a 500 km di distanza e non torna a casa fino al lunedì successivo.  

Quasi-maledetto riverginato: ex- cattivo ragazzo riconvertito, da adolescente è turbolento, arrabbiato col 'sistema' che non lo ha mai capito, urla e strepita tutti i sabati sera in discoteca contro il conformismo di massa, contro le aspirazioni piccolo- borghesi perfettamente incarnate dai genitori che gli danno la paghetta, e soprattutto contro la parola 'fatica', da lui evidentemente non contemplata, poiché a lui basterebbe desiderare una cosa per averla, mica è così scemo da doversela procurare sudando. In genere di bell'aspetto, quando le esigenze ggiovanili si fanno economicamente gravose (e l'aire del narcisismo autocontemplativo non disseta più), arrotonda facendo il gigolò, e così più o meno si paga anche l'università, salvo poi mollarla in nome di superiori interessi lavorativi, ovvero quando si assicura di aver trovato un mestiere congruente con la sua specialità nel fornire servizi a pagamento. Abbrancata una che se lo sopporti (e che ovviamente è all'oscuro di tutto il suo passato), riesce non solo a sposarsi, ma pure a riprodursi, da quel momento in poi indossando i nobili paludamenti del bravo marito-padre tutto casa e lavoro, dimenticandosi di quel che è stato e riuscendo pure a impartire lezioni di vita e di etica agli altri mentre gli cade distrattamente nel tritacarte l'F24 con tutta l'IVA dell'anno appena trascorso. Pare tuttavia che l'hobby giovanile rimanga latente
   
Ribaltista: presso altre culture conosciuto come "maallorista" o "benaltrista", costui si specializza a castrare qualsiasi discorso, specie quelli in cui i discorrenti si indignano per qualche particolare fatto di cronaca oppure spaziano su più generali eccezioni da muovere allo spirito dei tempi, facendo notare con tiepida accoratezza da impiegato del catasto che, se tu ti indigni per il fatto X, beh, allora cosa dovremmo dire del fatto Y, oppure che c'è ben altro di cui indignarsi. Costui sostanzialmente non ha interesse alla dialettica, ma gli piace solamente giocare a mettere in scacco gli altri con maallorismi che riducono tutto ad una relativistica bonaccia. Se la collettività piange il naufragio di 5-600 profughi libici nel Mediterraneo "ma allora cosa dovremmo dire di quello che succede ogni giorno nelle periferie italiane?", oppure "ma c'è ben altro di cui preoccuparsi, hai visto quanti giovani ancora si drogano?". In tal modo, si capisce, i discorsi non vanno più avanti, perché ci sarebbe sempre altro di cui parlare e per cui muovere l'empatia. Solo che al suddetto, una volta neutralizzato il discorso in essere, non interessa proseguire il proprio: egli gode, pago del fatto di aver dimostrato che tutto e niente può essere interessante; egli è insomma un inguaribile snob. Altra è la variante squisitamente politica della tipologia in oggetto, che si muove per sabotare il discorso dell'avversario sul versante rinfaccista, ovvero: "Tu accusi gli altri di fare X, ma anche tu sei colpevole di Y, quindi cosa pontifichi?".  Ecco quindi che il conduttore televisivo che osasse disquisire di episodi corruttivi all'interno di un partito si sentirebbe rispondere da un rappresentante del medesimo: "Vediamo cosa hanno quelli dell'altro partito, che hanno un consigliere di condominio inquisito per sottrazione di zerbino!". Meglio ancora se il politico X obietta al politico Y comportamenti non limpidissimi: "E tu, allora, che guidavi senza casco nel 1980 sul lungomare di Maratea?" oppure "Ah, si? E vogliamo parlare di come tuo cognato ha assunto suo cugino di quarto grado nella ditta del suocero?". In tal modo la discussione non decolla mai. Tanto c'è tutto su Wikipedia...

Splendido anni '80: aveva 20 anni nel 1985, quindi era nel pieno dell'edonismo reaganiano-craxiano che travolse la nostra penisola, scaraventando nell'oblio qualsiasi retaggio dei conflitti del decennio precedente. Cresciuto tra il luccichio dei RayBan, la morbiditudine dei Moncler, le nascenti paninoteche e l'idea che consumare è bello, non spendere è da pezzenti, compra sempre il modello più  nuovo e piu' costoso di qualsiasi cosa, anche se alla fine gli servono due o tre funzioni. Avendo trovato lavoro nell'età d'oro in cui si dava un calcio in terra e spuntavano assegni in bianco, ritiene i patrimoni al di sotto del milione di euro una poracciata, si stupisce che esistano ancora i poveri, dal momento che lui ce l'ha fatta, perché gli altri no? Non concepisce ferie al di sotto dei 5000 km dall'Italia, spedisce figli, nipoti, semplici conoscenti a fare le vacanze all'estero 'per consolidare l'inglese e poi chissà...', quando ovviamente ha già in caldo per il pargolo un posto nello studio di famiglia e l'inglese servirà al massimo ad ordinare bistecca e tabasco ad agosto a San Francisco. Se qualcosa in casa si guasta, lui butta, giacché far riparare è da pezzenti. Mette in mano l'Iphone ai figli nella culla, li vuole anticonformisti ed indipendenti, ma non gli fa saltare mezzo sabato sera  nei locali bimbominkia, perché stare a casa al sabato è da pezzenti, e a teatro ci si annoia. Iscrive i figli al liceo (classico o scientifico), esige pagelle da nerd e li obbliga a frequentare non meno di sei-sette attività pomeridiane tra sport, strumenti musicali, teatro cinese et similia. Passa più tempo a guadagnare il denaro che a spenderlo, vive per sé circa un giorno e mezzo a settimana, ma si rifà facendo shopping, reificando quindi la vita sacrificata al profitto, con l'illusione di sbeffeggiare il tempo che passa. Poi scopre che il tempo è passato comunque, e abbozza facendo jogging.

Teorico della morale altrui:  autoconvintosi di incarnare il Bene assoluto, e quindi di avere ragione a priori in qualsivoglia campo dell'etica, costui ama pontificare sulle vite e i comportamenti degli altri, specializzandosi nel prendere di mira quelli che sarebbero difetti anche suoi, ma che riferiti a lui non valgono, o nello stigmatizzare come esecrabili azioni che lui stesso compie, ma nel suo caso è tutto diverso. Egli pertanto, pur odiando visceralmente chi ha la pelle appena meno che bianca, fulmina con strali impeccabili l'amico che si è rifiutato di dare due spicci all'extracomunitario del semaforo che voleva lavargli il parabrezza. Esperto nell'arrivare sempre in ritardo a qualsiasi appuntamento, ove l'appuntamento non sia addirittura fatto saltare all'ultimo, benché pianificato da secoli, riversa tonnellate di ira e risentimento contro il primo che, involontariamente e per l'unica volta su diecimila, si permette di dare buca con il preavviso di un giorno. Predica liberalità e non presta nulla di suo, definisce gli altri permalosi quando lui si inalbera per un nonnulla. Critica il braccino corto degli amici e non offre mai mezzo aperitivo, raccomanda tolleranza e apertura mentale al nuovo, dando patenti di ottusità a destra e a manca, poi arriccia il naso alla prima zeppa verniciata o piercing al capezzolo, ama dare del viziato a chiunque ed è il primo a non farsi mancare nulla soprattutto del superfluo, pretende fedeltà ma rivendica di avere una coscienza elastica, vorrebbbe dimostrare la fondamentale incoerenza di pensiero di tutti coloro che lo circondano, e però se qualcuno gli fa notare le sue contraddizioni, "ma no, il mio è un discorso a parte". Difatti tutti, prima o poi, lo appartano.  

Universitario fuoricorso: parente stretto del Giovin Signore, se poi non sono la stessa persona, inizia l'università con l'idea di doversi ambientare bene prima di cominciare a dare gli esami. Segue i corsi coi nomi più accattivanti, e possibilmente meno comprensibili, acquistando libri e dispense che rapidamente vanno a fare volume in camera sotto il letto o tra un blocco di CD e l'altro. Generalmente di bell'aspetto, costui va a conoscere in profondità ogni singola mattonella delle sale studio, poi passa a conoscere le sedie, quindi chi vi sta seduto. Le fanciulle, sedotte dall'aspetto da eterno Peter Pan del tizio e dal copioso vento di disimpegno che spira dai suoi sorrisi e soprattutto dai suoi ragionamenti, ragionamenti nei quali la parola "studio" non è mai contemplata se non a fianco della parola "domani", fanno subito amicizia, escono a pranzo, all'aperitivo, a cena, al dopocena, al dopo-dopo cena, e qui scatta l'acchiappo. Il tutto mentre gli anni passano, gli esami da superare sono sempre lì, i genitori devono venir placati con cattedrali di idiozie del tipo : "Eh, è un esame difficile, bocciano un sacco" , "No, non mi ero accorto che c'era anche quel libro da preparare, l'ho ordinato, arriva domani", "Hanno rifatto i piani di studio, c'è anche spagnolo", "Lo do al prossimo appello, non la so bene", "Mi hanno detto che è meglio se preparo quell'altro esame prima, cosi poi ho più chiari i contenuti di questo" e così cantando. Smozzicati quindi un 18 una volta, un 21 un'altra e alfine un pregiatissimo 24 in informatica, costui traccheggia fino al quinto anno, quando gli altri sono già dottori magistrali e lui deve ancora pensare a finire gli esami del secondo anno della triennale. Saggezza gli impone quindi di riguadagnare serietà e decoro, smettendola una buona volta con gli aperitivi lunghi, sostituendoli cioè con le maratone di studio in biblioteca, là dove costui entra, si toglie la giacca, mette gli occhiali scuri nella custodia, toglie dal fodero quelli da lettura, estrae il Mac dalla borsa, lo deposita sul tavolo, sistema quaderno e astuccio, tira fuori da quest'ultimo penna rossa, blu, verde, matita, gomma, bianchetto (inteso come correttore), inserisce la pendrive, si connette a Facebook, vede una che lo saluta e va con lei al bar.     

Versipensante: altresì definito come malato di delirio di interpretazione, è una tipologia di individuo che eccelle nella sgradevolissima arte di rovesciare la mimica, le affermazioni e le idee altrui, stravolgendone totalmente il pensiero. Difficile dire se la patologia annulli o meno la consapevolezza dell'azione compiuta, resta un fatto che parlare con simile soggetto diventa una fatica peggiore di un'ora di tapis roulant a 10 km/h con pendenza 8. Se costui vede qualcuno appena appena soprapensiero, gli si spalma sulla schiena gemendo: "Non stai bene? Stai male? È successo qualcosa?!?". Guardando sue le foto da piccolo e osservando pucciosamente: "Che bellino che eri!", il minimo che ci si possa attendere in risposta è: "Perché, adesso faccio schifo?"; idem a fargli i complimenti per l'outfit: "Stai benissimo, oggi!", "Ah, e ieri stavo male??"; a chiedergli se gradisce del passato di verdura, replica stizzito: "Ti dà fastidio che sia vegetariano?!?"; a confortarlo se una sera non può uscire, rassicurandolo che sarà per la volta prossima, esplode: "Scusa se ti faccio perdere tempo!!"; se a vostra volta vi sottraete ad un'uscita o a un appuntamento dicendo che avete un po' da fare, subito gli guizza il gossip: "Hai problemi a casa?"; se parlando di un conoscente vi limitate a osservare che il lavoro che fa è davvero duro e voi non lo fareste mai, conclude: "Quindi pensi che il suo sia un mestiere poco raccomandabile!". Si offende ovviamente con poco, e assume pose teatrali via messaggino, specie quando vuole fare la parte dell'escluso senza che nessuno l'abbia escluso: "Allora domani andate lo stesso [sai com'è, era una gita progettata da tre mesi...]. Io non ci sarò [E vabbe', cosa sarà un raffreddore...]. L'importante è restare se stessi [guai a fare le cose assieme senza te, intendi?]. Ciao". Di fronte a cotanto ermetismo, ove vogliate capirne di più, magari solo chiedendo: "Ti senti bene?", la risposta è di nuovo: "Ciao".   

Zompador: esemplare maschile assai diffuso per i corridoi delle scuole di ordine secondario e preferibilmente di secondo grado, benché le sue attitudini si manifestino in preclara evidenza già alla fine della terza media. Costui ha in mente solo una cosa, e ne va in cerca con sitibonda idiosincrasia durante ogni singolo giorno che il MIUR manda in terra. In genere di bell'aspetto, ma anche no, lo zompador adocchia con occhio di mosca dalle quattro alle sei femmine del branco in contemporanea, attacca bottone nei modi più impensabili (chiede l'ora pur avendo in mano il cellulare, offre una cioccolata mentre lei sta sorbendo il cappuccino, la saluta come se si conoscessero da secoli) e poi, dopo un fugace sguardo e due avverbi (in Sono poi all'ordine del giorno gli sguardi languidi ad ogni intervallo, il cercarsi, il perdersi, il trattarsi come se si stesse vivendo LA storia finedimondo, gli occhi strizzati e i silenzi dell'addio ad ogni squillar di campanella, quindi il trovarsi all'uscita per limonare selvaggiamente come se non ci fosse un domani. Il bello dello zompador è che sa gestire benissimo le crisi sentimentali multiple e arriva a concludere con le fidanzate 1-3 che "non ti merito", con la 4 e la 5 che "forse abbiamo corso troppo", mentre con la 6 "ho capito che eri tu, ma ormai è tardi"(?). La sua voglia di congresso lo porta a non disedegnare NULLA purché respiri, è bravissimo a concedere sguardi e sorrisi a tutte senza promettere nulla di definitivo a nessuna, ma quando arriva il momento supremo si lancia, prima, durante e soprattuttto dopo, in elegie dell'unicità dell'amata, della serie: "Sei tu, sei sempre più tu...", "Non sono mai stato così...", "Con te non è come con le altre", estasi in genere rovinata dal fatto che la prescelta, se dotata di un minimo di sale in zucca, si chiede quante siano (o siano state) le altre e lo strozza con i collant.
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lunedì 8 dicembre 2014

E adesso insegui l'aquila.

Coccodrillare le defunzioni degli artisti, specie quando tali defunzioni generano automaticamente sui social network torrenti di "Eri un grande, RIP", "Sarai sempre nel mio cuore, RIP", "Sei stato la colonna sonora della mia vita, RIP", "Non ti conoscevo, non mi piacevi, però RIP" non ci garberebbe. Facciamo un'eccezione per Mango, defunto nel modo artisticamente più epico, ovvero sul palco, di fronte al proprio pubblico, cantando per giunta la canzone di tutta una vita ("Oro"). Se ne va con lui un artista discreto, dal carattere non sempre facile per effetto di un'innata timidezza, certo non incline ai compromessi né alle prostituzioni mediatiche, quelle che portano a far sapere a tutti anche quando il proprio primogenito ha evacuato. Ciò, in connubio con un'ispirazione certamente originale e quindi non sempre facilmente intercettabile dal grande pubblico, ha fatto di lui una gemma rara nel panorama musicale italiano, rara al punto, paradossalmente, che le sue canzoni erano solo sue, nel senso che, udendo uno qualsiasi degli incisi dei suoi brani più famosi, anche l'ascoltatore più lontano da quel gusto non poteva che dire: "Ah, sì, questo è Mango", cosa che con certi complessini e solisti idoli dei bimbominkia non sempre avviene, ma la cosa vale anche per i cantanti più popolari, compresi i prodotti dei talent. Spiace pertanto che certi dizionari della musica mondiale, i cui autori non possono che sbrodolarsi in lodi e stralodi di artisti mainstream che non propongono nulla di davvero nuovo almeno da 20 anni, liquidino Mango con la dicitura: "Più musicista che cantautore". Il che, intendiamoci, può anche essere vero per chi, come il sottoscritto, non è sempre rimasto convinto dei risultati di Mango come estensore anche dei testi delle proprie canzoni, nondimeno, rispetto a cantautori con la "eeeeehhh" facile, o a robottini manovrati senza rimedio dalle case discografiche, Mango ha avuto almeno il coraggio di sfidare continuamente se stesso in primis e poi l'audience. 
Audience che avrebbe potuto tranquillamente mantenersi immutata se Mango stesso avesse continuato con le linee ritmico-melodiche esotiche e dispari che hanno caratterizzato la sua prima produzione. Ma appunto, falsetti e quinte dopo un po' devono aver saturato lui medesimo per primo, e quindi Pino ha provato altro, a volte riuscendo a volte meno. Resta comunque di lui il ricordo di una voce particolarissima, messa al servizio di musiche e testi mai banali, forse sin troppo elaborati, i testi, quando Mango ha ceduto all'abbraccio fatale con l'ermetico Pasquale Panella, già paroliere dell'ultimo Battisti. 
Un artista in ogni caso sui generis. Non mette certo conto di passare in rassegna tutta la sua discografia, anche perché la mia personale esperienza di lui comincia nel 1990, poi ho tappato il pregresso acquisendo musicassette e videoclip, poi, lo ammetto con lucida e filologica stima del defunto, l'ho un po' perso di vista, diciamo dal 2008 in avanti, quando la sua produzione mi è sembrata, per così dire, rinunciataria rispetto ai sentieri audaci degli inizi. Sono opinioni, of course, ma proprio per il bene che ho voluto a Mango sento di dover distinguere in lui sia il bello che il meno bello, con l'avvertenza che il suo "meno bello" è milioni di anni luce più avanti del presunto "bello" di moltissimi altri. 
La mia personale tassonomia mi porta a collocare l'akmé della sua produzione tra il 1988 e il 1992, ovvero in corrispondenza di "Inseguendo l'aquila", "Sirtaki" e "Come l'acqua". Seguono poi lavori caratterizzati da una unica grande leading song ("Giulietta" per l'album "Mango", "Primavera" per l'album "Credo", che di fatto creano una situazione simmetrica rispetto a "Odissea" del 1986, in cui troneggiava "Lei  verrà" e "Adesso" del 1987, l'album di "Bella d'estate" ), quindi la stagione delle raccolte + un paio di inediti (1995-1999, benché Mango stesso avesse in certo modo stigmatizzato l'abitudine ai greatest hits degli altri cantanti). Belli i live, belli i riarrangiamenti, ma certo avremmo gradito un numero maggiore di gioiellini originali come "Sospiro" o "Non dormire più". È comunque a quest'altezza che Mango prende ad allontanarsi con decisione dallo stile degli esordi e del grande successo per recuperare una dimensione acustica e vocalmente meno calligrafica e più corposa. Poi la svolta cantautorale piena, e siamo al 2002, quando il Nostro si scrive, si musica, si arrangia tutto da solo, offrendoci quindi un album in cui spigoli  ("Disincanto, "La rondine", "Mi piaci accanto") e tonde rientranze ("Non moriremo mai", "Gli angeli non volano") si alternano con coraggio: rinunciare a Mogol per le parole e a Celso Valli per gli arrangiamenti è certo una scelta ardita, tuttavia Pino ama le sfide, e questa è nel complesso vinta. Episodi più frammentari ma sempre di livello sono "Ti porto in Africa" del 2004, contenente l'etnicissima "Francesco" oltre al duetto con Lucio Dalla, e "Ti amo così" del 2005, in cui spicca il delizioso&commovente duetto con la moglie Laura Valente ("Il dicembre degli aranci"). Infine, il 2007, la partecipazione a Sanremo, il quinto posto con "Chissà se nevica" (lasciamo perdere la questione della "svolta rock"...). Ecco, per me l'ispirazione di Mango si compie qui, non dico né che si esaurisca né che si impoverisca: dico solo che il Mango che ha saputo rapire il mio gusto estetico arriva al traguardo con "L'albero delle fate". La tavolozza multicolore che ha sempre caratterizzato la sua produzione musicale tende già da un po' a privilegiare i grandi blocchi oppositivi piuttosto che il gioco delle mezze tinte e delle sfumature, come se da un bosco lussureggiante si fosse passati su un'assolata scogliera a picco sul mare. Il che funziona benissimo in rapporto alla terra natale di Mango che vive di questi contrasti paesaggistici. Tuttavia, per il mio gusto, dal 2008 qualcosa non "comunica" più, o molto meno di prima. Ma sono dettagli.   
Nulla che possa impedire il commosso ed entusiasta ricordo di melodie che hanno occupato pomeriggi, serate, notti, estati, inverni, videocassette consumate a furia di rivedere e risentire "Tu...sì..." e "Oasi", per tacere delle musicassette disintegrate e dei CD comprati e ricomprati. Quando la nostra testolina pre-spocchiosa cominciava a farsi tante domande sul mondo, a sbattere contro barriere estreme, a perdersi nel mistero dei misteri, la musica di Mango, avvolgente, suggestiva, quasi sciamanica nel suo evocare dimensioni "altre" rispetto alla piatta realtà ottanta/novantizia, ebbene quella musica ci ha sostenuto assai. Anche nei casi di canzoni più intimistiche e meno ritmate che abbiamo imparato ad apprezzare col tempo ("Terra bianca"), o nei casi di flagrante ammassamento di correlativi oggettivi che non eravamo ancora in grado di decifrare con compiutezza ("I giochi del vento sul lago salato", "Preludio incantevole"), sentivamo sempre qualcosa di non detto e non dicibile che rendeva tuttavia quei lavori irresistibili nel loro fascino evocativo. Altrove i suoi pezzi hanno rappresentato la risalita da baratri da cui credevamo di non uscire più ("Tu...sì...", "Passeggera unica", "Non moriremo mai"), in altri casi ancora la spinta a ricercare senza paura ("Mondi sommersi"), oppure a sognare in libertà ed evadere ("Ma com'è rossa la ciliegia", "Così  viaggiando", "Intime distanze", "La rondine"). Tutti i colori della psiche, ma in special modo il blu, il verde, l'arancio e il giallo, con relative sfumature, erompevano come da inesauribile cornucopia da ogni singolo pezzo, dipingendo di sé perifrastiche passive e participi predicativi, mostrandoci una sorta di mèta immanente e tuttavia agganciata in qualche modo alla trascendenza del fatto artistico, sia che con essa si intenda l'estasi metatemporale proustiana delle sensazioni che cuciono insieme tutti gli Io che si succedono in noi col tempo, sia che si intenda la superiore dimensione dell'Oceano ipercosmico di cui noi tutti siamo  alla  ricerca da tempo immemore.     
Questo è stato Mango, e la sua essenza è al principio stesso della mia conoscenza di lui, quando passò (in radio o in TV, non ricordo di preciso) il pezzo "Inseguendo l'aquila" che all'epoca, da dodicenne puccioso, ascoltai distratttamente, pur restando impressionato dalle qualità vocali di questo (per me) sconosciuto, che oltretutto si chiamava come un frutto tropicale e non riuscivo a capire perché (vabbe', eravamo scemi, che tte devo di'?). Recuperai in seguito tutto l'album (non c'era youtube, sapete...) e riascoltai quella canzone: le bianche città del mistero, gli abissi e strapiombi verdissimi, i limiti del pensiero, il punto più estremo dell'anima, l'altra metà di quel cielo, le sensazioni più intime, il tempo che ho visto già e quello che verrà in fondo al sole... In questo inseguire l'aquila, l'anima dell'artista insegue il mistero delle cose, cerca la chiave che sveli tutti gli interrogativi dell'esistenza e però poi scopre che la soluzione è già tutta dentro di noi, solo che la si sappia ascoltare, perché la nostra coscienza è un frammento dell'universo, frammento in cui pulsa la Potenza Attrice dell'Essere: "Inseguendo l'aquila, inseguendo me".
Grazie di tutto, Pino. A Laura, Filippo e Angelina, il più sentito degli abbracci.

EDM

giovedì 4 dicembre 2014

La biografia artistica di Cristina D'Avena (capitolo 2)


1986- 1988: il meglio deve ancora però arrivare: quei capoccioni dei giapponesi si inventano una sorta di fotoromanzo sfigato a cartoni animati con protagonista una tal Yakko (sì, femmina) che si innamora di un tal Go (probabilmente dicendogli: "Go, go!", ah, no, è giappo...), cantante frikkettone con al seguito fratellastrino  (Hashizo poi Andrea) e gatto misogino di nome Giuliano, più una certa serie di personaggi ambigui ed inquietanti, tipo tastieristi dai capelli viola, ma alla fine se zompano tutti. Sarebbe bello se questa fosse la trama della terza serie di Una grande famiglia, invece no, è l'originale giapponese del fortunatissimo Kiss me Licia, cartone premiato dalle migliori giurie internazionali per la sigla più stracciapalle del millennio. La storia in sé è molto anni '80, la cenerentola e il cenerentolo che a un bel momento scoprono di essere fatti l'uno per l'altra, la tematica sociale dei bambini soli coi gatti schizoidi, la coraggiosa denuncia di certo modo di cucinar polpettela musica, le canzoni, il gruppo, le groupie, lovvo lovvo lovmiciù, insomma, la storia di Licia e Mirko, o meglio dell'entità aliena rosso-gialla che gli si è impiantata in testa, balza subito in testa agli indici di gradimento della gioventù italica. Ma altri indici ben più perniciosi prendono a muoversi per l'occasione, più precisamente quelli dei capistruttura di Fininvest i quali, grattandosi furiosamente le cervici, concludono che il ferro va battuto finché è caldo: catturata Cristina con una trappola per nutrie sapientemente collocata nei pressi del villaggio di Memole, dove la cantante svernava in incognito, le viene proposto il transito iperspaziale: un telefilm con attori veri che interpretano il sequel di Kissmeliciahhh. Il massimo, oltre il cosplay più avventuroso mai progettato prima, al pari di cui gli imitatori del capitano Kirk diventano poveri straccioni. Cristina accetta tutta entusiasta di entrare nei panni di Licia. Il cast viene poi completato arruolando un po' di doppiatori a caso, che così provano tutto il gusto di stare dall'altra parte del video, più una certa serie di facce semoventi che più o meno quagliano con gli originali cartooneschi. Non esistendo in natura la chioma rosso-gialla, tuttavia, al compianto (artisticamente) Pasquale Finicelli viene imposta una parrucca degna della miglior serata Drag Queen oriented.
E si parte. Seguono in rapida successione quattro telefilmoni da 36 puntate l'uno che andiamo a dettagliarvi:
1) Love me Licia (titolo originale: Love me Licia. Korera no hana no sukāto wa kugi o kyōda shinaide = Love me Licia. Con quelle gonnelline a fiori non batterai chiodo). Cristina viene abbigliata in tenuta ammazza-libido e però Mirko se ne incapriccia lo stesso, nonostante la fiera avversione del padre di lei, Marrabbio, per i ciuffirossi e i cantanti in genere. La loro storia, tra alti e bassi, prosegue pucciosa, lui fa il figo e decide di iscriversi a Lettere per far vedere di non essere solo un frikkettone. Gli va di lusso: laureandosi prima dell'Era Gelmini, gli sarà possibile insegnare nelle classi di concorso A043- A050 e A051 (sì, anche latino...) senza fare un giorno di supplenza, ma passando di ruolo contemporaneamente su tutte e tre. Nel frattempo scopriamo che negli asili di Milano Due ci sono pochissimi bambini, fino ad un massimo di tre per classe (ecco perché poi la Gelmini fa i tagli...), di cui uno palesemente scemo e una palesemente futura ballerina di lapdance. Ma l'amore trionfa. E le canzoni dei Beehive riempiono l'etere. Frase topica della serie: "Oh, Licia, niente potrà mai separarci..." (Momento Glee a questo link).
2) Licia dolce Licia (titolo originale Licia dolce Licia: Mōshiwakearimasenga, teishukuna, watashi no goi no ichibude wa arimasen = Licia dolce Licia. Spiacente, "illibata" non fa parte del mio vocabolario)La nostra magica amica comincia a sospettare che Mirko meni il can per l'aia con la faccenda della laurea per rimandare il più possibile il matrimonio, lasciandola sola coi suoi desideri inconfessabili, che nemmeno le polpette del padre riescono ad estinguere. A questo punto, dotatasi di acconcio paracadute, piomba addosso a Mirko durante una jam session della band e gli canta tutto di filato "La moto vaaaaa!!!!", stordendolo senza speranza. Mirko, a quel punto, perde addirittura il plico della tesi (fine anni '80, i floppy disk erano merce rara), sviene, poi però la ritrova, mentre tutti sospettano del dispettone di Marrabbio. Dopo aver scoperto che il titolo della tesi è: "Dialettica del protestantesimo nel contesto della rivoluzione dei prezzi, con un'appendice sul rapimento di Proserpina", Licia è lì lì per mollare il promesso sposo, benché le sue voglie viscerotoniche vadano in tutt'altra direzione. Ma il bene trionfa: Andrea, che aveva già capito tutto da 43 puntate, dà il suo benestare al matrimonio, che viene celebrato in una cattedrale bretone alla presenza di quattro manichini, il tutto nonostante l'estremo tentativo di far saltare la cosa operato da Giuliano, il quale, ricordiamolo, è diventato misogino quando la mamma di Andrea è diventata pazza (?) (forse è la stessa mamma di Asuka di Evangelion....) (del resto, a conti fatti, Andrea è del 1977, Asuka del 1985, la cosa avrebbe un senso...): cintosi la panza con una cartucciera caricata a fialette puzzolenti, il gatto del secolo si avventa sulla futura matrigna del padroncino, ma sbatte contro un candelabro e rovina al suolo, ammorbato dalle sue stesse fialette. E l'amore trionfa. E le canzoni dei Beehive nell'etere. Frase topica della serie: "Oh, Licia, ce l'abbiamo fatta..." (Momento Glee a questo link)(ah, l'arte...).
3) Teneramente Licia (titolo originale: Teneramente Licia. Andoryū wa, anata ga anata no heya ni iru to nusumigiki shinaide kudasai = Teneramente Licia. Andrea, stai in camera tua e non origliare)La vita matrimoniale dei nostri eroi scorre placida tra una carezza ad Andrea e l'altra. Il piccolo, peraltro, s'addormenta tutte le sere lancinato dalla curiosità morbosa di sapere cosa accade nella stanza accanto. Meglio per lui non aver visto l'abominevole spettacolo delle interminabili partite a Jenga che Licia e Mirko giocano per vincere l'insonnia. Pare in effetti che la passione tra i due (al di là dei soliti: "Oh, Licia, quando sono con te sento che non ci sono ostacoli", "Oh, Mirko, l'amore da solo basta per tutti...") stenti a decollare verso vette diciamo così più impegnative. Certo, la presenza del fratellino fa il suo: indimenticabile l'episodio in cui tutto il cast gira furiosamente da mane a sera per rosticcerie alla ricerca delle introvabili "fettine panate", imprudentemente promesse da Licia ad Andrea per cena, col rischio, se non trovate, di scatenare la trasformazione di quest'ultimo in scimmione spaccatutto. Il risultato è che alla fine Andrea si trova sommerso dalle predette fettine, visto che tutti sono riusciti a comprarle. Il risvolto inquietante (dal punto di vista pedagogico) della storia è la scoperta del termine "fettine panate" (ma non si chiamano cotolette?).
È chiaro però che sono tutti paraventi di un dramma: Mirko non batte chiodoNon gli resta che tentare l'approccio artistico, ovvero supplicare Licia di entrare a far parte dei Beehive (c'erano già stati abboccamenti, eh...), detto pure che casualmente ci sono già pronte 5 o 6 canzoni che sempre casualmente prevedono l'esecuzione a due voci o da voce donnesca: si va dalla fantasia boschereccia all'innovativa rima cuore-amore, fino al momento di sublimazione metafisica. Licia accetta e l'effetto cosplay si esponenzializza, visto che una cantante finisce per recitare il ruolo di una fanciulla che diventa cantante. In tal modo la lineup dei nuovi Beehive è completa, grazie anche alla sostituzione del batterista Matt (Manuel de Peppe, un Eros Ramazzoti fuori tempo utile - o un Justin Bieber in anticipo sui tempi, comunque quello del jingle dei Polaretti) e del bassista Steve (che però tornerà dopo la naja) con gente ricciola dalla bocca a forno per pizze (futuri apostati del capolavoro, peraltro...) e con fotomodelli tascabili che affondano nei pantaloni (futuri guru new age, peraltro...). Resta un  mistero come mai Licia possa presentarsi alle prove, e soprattutto agli impegnativi concerti con canzoni da 1 minuto e 40 secondi (De Filippiii...!!!), vestita esattamente come quando è a casa a spazzare la cucina. E la musica vola. E i Beehive incantano. E l'amore trionfa. Frase topica della serie: "Oh, Licia, che bello stare insieme..."(risposta: ggggrumppfff!!).
4) Balliamo e cantiamo con Licia (titolo originale: Balliamo e cantiamo con Licia. Shikashi, mite, watashi wa ninshin shi teru... Satomi no osasoi sa rete iru? = Balliamo e cantiamo con Licia. Ma guarda, sono incinta... saranno stati gli occhiolini di Satomi?). La nostra incredibile amica, ingenua peggio delle lettrici di Cioè, gode della popolarità ormai raggiunta col gruppo e si concede qualche sfizio, tipo restare incinta di Mirko... incinta????? Incinta???? SONO INCINTAAAAAA?!?!?!?!? esclama la tapinella dopo aver quasi avuto uno shock anafilattico per un'annusatina all'impasto di una torta al cioccolato. Possibile, un miracolo così d'emblé? Mentre i Beehive sono prossimi allo scioglimento e Mirko, in palese crisi d'identità per il fatto di essersi accorto di essere la controparte maschile di Cyndi Lauper, torna a casa tutte le sere con una pippa lunga così e non è più disposto a cercare fettine panate per saziare gli appetiti del sempre più rotondo fratellino... bum. Sarà stato l'effetto di Venere in Bilancia? Chissà. Comunque la magia & la simpatia che non vanno mai via investono tutti i personaggi, sì che tutti i conflitti magicamente si sciolgono, Andrea rimanda i suoi sogni di fidanzamento con la compagna di banco (del resto...) per entrare nei panni del fratello maggiore, Marrabbio, dopo vani tentativi informatici,  opta per la vedovanza perenne in luogo di anelare alla signorina Mary e convince Nonno Sam e Lauro a trasformare il Mambo in un tabarin. La gioiah sublimeh era tuttavia annunciata dal nuovo trend delle canzoni, che parlano d'amore, ma in modo, come dire, più preraffaelllita: teneri vagheggiamenti spiaggerecci, pensosi notturni chopiniani, elegie sul silenzio e sulla malinconia, fino al momento della sublimazione epica. Tutto fila finalmente liscio, anche la location dei concerti è meno poraccia di prima,  alla 144esima puntata il miracolo dell'Ammorehhh è fatto, ma.. Ohibò, se Licia si riproduce e Mirko va in maternità, i Beehive chi li manda avanti? Semplice, nessuno. Neanche gli ABBA si erano sciolti a tale velocità. Certo, rimane una discreta platea di esodati (Steve, Jim, Mike, Paul, per dire...) che qualcuno dovrà ben assorbire. Ed ecco il cosplay del cosplay del cosplay: nel bel mezzo delle gozzoviglie, chiama al Mambo CRISTINA D'AVENA, quella vera, mica Licia, però con la voce della doppiatrice di Licia (Donatella Fanfani, we love you), cercando di Steve (al Mambo?), per dire che avrebbe una mezza idea di reclutare quattro disgraziati per la sua nuova band, se magari questi qui vogliono farci un pensierino... Ciò perché Cristina D'Avena è al corrente della gravidanza di Licia prima di tutti gli altri. Bella forza, è sempre lei (s'è mai sentito di un tecnico dell'Audi che ignora i parametri di una Volkswagen?)... In tal modo si lancia l'esca per la serie a venire, ma soprattutto il processo di virtualizzazione infinita tipico del più avanzato bimbominkismo trova qui il suo definitivo battesimo. La visione a volo d'uccello sui nostri amici che guardano l'avvenire chiude l'avventura. Per esecrabili motivi di budget, si dovette rinunciare al seguito delle serie di Licia (Licia e gli antipodi palindromiClamidosauricamente LiciaScopriamo i satelliti di Giove con LiciaLicia vs Godzilla), dovendo deviare le risorse sulla genialata successiva.

(continua)