Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

martedì 1 dicembre 2015

QUADERNI DI FINE OCCIDENTE - 1: IL PENSIERO CHE SI ARROCCA.

Io e la Spocchia ci rendiamo conto che, a tre anni dalla nascita del blog, il ritmo pubblicatizio latita, e non è per pigrizia: fatichiamo in realtà a trovare qualcosa di puccioso di cui parlare se bisogna pescarlo dal mondo dell'attualità: la politica italiana è quello che è, il mondo multimediale pure, mille opinioni sul nulla totale gorgheggiano argentine il loro vuoto e fatichiamo ad intercettarle e soprattutto a tenerle con noi. 
Allora potremmo trasformare il blog in una centrale operativa a difesa perpetua 24/7 della cultura umanistica, così costantemente messa sotto attacco dai più vari sacerdoti del materialismo empirico (esiste?). Potremmo, ma la cosa inizia pure a stancarci un po', non nel senso che non crediamo più nei valori che insegniamo, posto che il mondo possa essere salvato solo a colpi di Seneca, ma abbiamo maturato l'idea che ci vuole ascoltare lo farebbe comunque, senza però da parte nostra riuscire a guadagnarci fette degli 'altri', di quelli cioè sempre ostili al nostro mondo, quelli che ti chiedono, con faccia palesemente idiota e prevenuta: "Ma tutto ciò alla fine... a che serve...?",  e tu, uomo-Spocchia del 2015, ti accorgi che queste povere scimmie vestite, questi vivi già morti senza sapere di esserlo, calati in una non-cultura dell'attimo e dell'apparire fini a se stessi, hanno già smesso di ascoltarti dopo la prima sillaba della tua risposta. E allora, suvvia...
Ma anche parlare di noi, nel senso delle nostre più allegre fissazioni (i cartoni animati visti in gioventù, lo sfottò perenne ai bimbominkia, le teorie socio-estetiche già ampiamente esperite in Stella Moda) pare davvero poca cosa. Non avendo poi idea precisa della tipologia di chi segue (pare) i nostri post (esclusi quelli che sanno di essere esclusi), ci viene il dubbio che tanta fatica cada invano.
Quindi chiuderemo il  blog?

ASSOLUTAMENTE NO!!!!!

E POI LA SPOCCHIA DOVE LA METTO???

Era solo per dire, amico lettore che non hai tempo di cucinare, che volevamo fare quelli che si piangono addosso per vedere come reagivi: la realtà fa schifo e noi forse pure, ma non abbiamo cessato di pensare: a fronte delle novelle catastrofi francesi, potevamo anche ricicciare il nostro post post-Charlie Hebdo, ma a che pro? Forse, sull'onda del nuovo tsunami di opinioni che hanno ridimostrato quanto da noi osservato già a gennaio, cioè che NESSUNO è sceso nell'agorà multimediale per discutere o porsi domande, ma solo per menare la clava delle idee preconcette, di qualsiasi orientamento esse siano, morale abbiamo deciso di dire di nuovo la nostra, stavolta però mettendola decisamente più sull'apocalittico. Tanto, le posizioni placidamente paracule si sa dove portano, no?

Ebbene, a seguito dei noti eventi, dedicheremo tre post, o almeno credo, a tutto ciò che essi si portano dietro. Il primo, in realtà, sarebbe stato da pubblicare a settembre, dopo che eravamo stati al Festivàl della filosòfia di Modena: grande è stata la nostra delusione al sentire dotti dottori addottorare le solite nenie piagnose sulla crisi dell'Occidente senza fornire il benché minimo spunto per una minima via d'uscita. Poi la pubblicazione è saltata, perché volevamo rileggerci il romanzo di Hesse che ispirava parte dei nostri commenti, ma poi le solite cose, la scuola, l'inverno di Aasgard, insomma ecco.  Ma adesso, proprio perché i fatti parigini dimostrano che, mentre l'Occidente si occide (LOL), un altro mondo avanza, riprendo le osservazioni fatte allora, poiché le anime belle che discettano di crolli di civiltà col compiacimento di chi se ne sente fuori, come se loro a quella civiltà appartenessero solo per finta, ci hanno anche stancato. 

Cominciano dunque i Grandi Quaderni di fine Occidente di Eligio de Marinis (la sigla la farei così, giusto per omaggiare gli anni '80)

MACHITTEVOLE @FESTIVALFILOSOFIA, MODENA: IL GIOCO DELLE PAROLE DI VETRO

Gli amanti del bello e del buono prima o poi si incocciano con le opere di Herman Hesse. Ma non di Siddartha parleremo, né del duo Narciso e Boccadoro; c’è una terza opera, più filosofica della prima e più allegorica della seconda, e soprattutto talmente densa dal punto di vista narrativo, che al confronto La marcia di Radetzky di Joseph Roth è un tranquillo fumettino a strisce orizzontali: parliamo, come ogni essere vivente avrà capito, de Il gioco delle perle di vetro, cui a Modena, al Festival della filosofia, non si è accennato, ma che i quattro relatori che io e la Spocchia abbiamo auricolato venerdì sembravano voler rinverdire a tutti i costi.
“Ereditare” è il tema del festival di quest’anno. Poi, detto pure che io ho sentito tre cose sulle circa 200 in programma, più che l’eredità qui è sembrato prevalere il desiderio del ricamo, anche un po’ fine a se stesso.
Enigmatico, vero?
No, è che noi, consumati animali da festivàl, siano essi letterari, filosofici o mitopoietici, siamo tornati dalla ubertosa Emilia con un certo sgradevole retrogusto, piuttosto inedito peraltro, come se per la prima volta ci fosse sembrato che il festivàl suddetto, nella ridottissima porzione da noi esperita, si fosse ridotto a stanca ripetizione di se medesimo, senza il guizzo in avanti che in genere ci si aspetta quando si fanno attridere cotante capocce.
E torniamo ad Hesse (giravolta-volappie’-grand jeté): il titolo del romanzo di cui al paragrafo 1 del presente post fa riferimento ad un’immaginaria provincia pedagogica del 2200 in cui c’è una sorta di monastero ove ci si esercita non a pregare gli dèi, ma a produrre, in vista delle occasioni solenni dell’anno, composizioni di perle di vetro, ovvero [detta in modo orribile e superficiale, lo so...] ragnatele di idee elaboratissime e splendenti, di acuta allegoresi, che riflettono la struttura armonica dell’universo, sia essa legata al visibile macroscopico o all’invisibile quantico-relativistico. Di fatto, la bravura degli adepti è di tipo estetico-filosofico, e la traduzione in pratica di ciò sta nell’abilità tecnica di ridisegnare con le perle infinite variazioni sul tema dell’armonia. E siccome di monastero si parla, ci sono i novizi, gli esperti, e in cima a tutti il gran maestro, che Hesse immagina ad un certo punto preso da tal scocciatura per un esercizio così sterile e fuori dalla realtà da decidere di abbandonare monastero & burattini per vivere la sana e ruspante vita di tutti i comuni mortali: al primo bagno nel lago, il tapino schiatta.
Bene. A Modena erano tutti gran maestri nel pieno del loro esercizio. Mi rendo conto che un tema come ereditare si apra ad infiniti sbocchi, ma il problema qui è che i quattro concionanti (spalmati su tre interventi) hanno fatto esattamente come nel romanzo, dando cioè prova di un’abilità estrema nel ricesellare il tema di alcuni difetti della società occidentale 2.0, ma ridicendo di fatto ciò che ridiciamo un po’ tutti da almeno 15 anni a questa parte. Il che non sarebbe un problema in sé, se non fosse che è mancata del tutto una parte propositiva di spessore; peggio ancora, gli ultimi drammatici fatti legati all’alluvione di migranti che dal Medioriente stanno salendo su su per l’Europa sino alla Finlandia pare non aver minimamente toccato i dotti relatori. Vero è che il tema del festivàl sarà stato scelto molto prima dell’inizio del nuovo esodo, ma non credo che ciò comporti una tal rigidità da non poter infilare anche solo uno spunto di riflessione dentro relazioni già pronte. Anche i fatti drammatici di questi giorni sono pur sempre eredità di politiche pregresse, no?
Intendiamoci: il dotto francese François Hartog (Primato del contemporaneo) ha parlato da par suo del presentismo che affligge la visione delle cose qui da noi in Occidente, e quindi il culto dell’attimo fine a se stesso, la fuga dal passato, l’arresto delle speranze per il futuro, l’esistenza di città generiche in cui lo scorrere del tempo è negato dalla loro stessa architettura, e poi il dramma dell’istruzione piegata a logiche cibernetiche, nel senso che ci si illude che cliccando sul web si possa sapere ogni cosa e che questo sapere equivalga ad imparare, quando ovviamente non è così. E vabbe'.
Apprezzabile poi il duetto Ezio Mauro- Zygmunt Bauman (Solitari interconnessi), compìti e solerti nel riflettere sulla precarietà come cifra del vivere odierno in Occidente, dell’esistenza di poteri immateriali e sovranazionali in grado di sterilizzare il vissuto democratico e annichilire la più grande conquista della rivoluzione francese, ovvero la nascita dell’opinione pubblica, che a votare ormai ci va molto poco; chi non condividerebbe il tema dell’intrusione tecnologica nelle nostre vite, della prevalenza dei mezzi sui fini, del divario ricchi-poveri che rende i poveri sempre più inutili?
Complimenti anche a Remo Bodei (I paradossi del tempo), che discetta con abilità mostruosa (beh, lui può…) sul tema del tempo, sull’idea di esso che ci è stata consegnata da Aristotele, laddove Agostino era di tutt’altra opinione, e poi giù citazioni da Seneca (sì, LUI) fino ai giorni nostri per comprendere quale sia il vero significato della parola eternità, che non indica una durata ma una condizione, il tutto per concludere con la metafora stoica della gomena, ovvero per dire che il tempo ci si srotola davanti, ma noi possiamo sottrarci alla precarietà degli istanti che passano fermando gli eventi nella riflessione del nostro pensiero.
Benissimo. Quindi?
Non ci si accampi dietro la scusa che la destinazione nazional-popolare di questi festivàl impone temi di media fruizione per un pubblico medio, perché due anni fa vennero in tre a spiegare come ‘funziona’ il bosone di Higgs, e le due piazze della città erano piene, con tanto di pubblico interveniente di abbacinante competenza al momento di far domande. Stavolta davvero qualcosa non ha funzionato, nel pomeriggio modenese.
Mi spiego: non si tratta tanto della maggiore o minore già-sentitezza delle argomentazioni, e mi riferisco soprattutto ai primi due interventi (Ezio mio, ancora con la prevalenza dei mezzi sui fini? Ma sono 15 anni e più che Severino e Galimberti lo urlano ai quattro angoli del globo, e Galimberti proprio ne parlò a Carpi nel 2004, noi presenti…), ma del modo in cui sono state porte. I dotti intervenienti, assai compiaciuti di sé, davano l’impressione che proprio questo compiacimento fosse in fin dei conti il fine dell’intervento. Sapevano di muoversi con sicurezza su terreni ormai noti, né hanno fatto il minimo sforzo per ipotizzare uno scarto in avanti; simili in ciò agli oratori della Seconda Sofistica (bummmm!)(Spocchia-time!!) hanno amambilmente svolto l’ennesima variazione sul tema La crisi dell’occidente ed è finita lì. Spiace dirlo, sarà stata un’impressione causata dalla piadina, ma non pareva che la crisi evocata dalle loro stesse parole li preoccupasse sul serio; sembravano, semmai, tutti orgogliosi di far vedere che l’Occidente va da quella parte lì, ma loro no, loro hanno capito, loro censurano e disprezzano, offrono i loro slogan ad effetto mediatico (ricordate la società liquida e il secolo breve? Ecco...) e comunque loro sono immuni dalla pestilenza presentista-precarizzante. Insomma, tra Piazza Grande e Piazzale Re Astolfo si respirava un’aria terribilmente snob. Loro, le anime belle, tutte intente a teorizzare la rovina (altrui), poi di soluzioni vere e proprie alle questioni sollevate non se ne sono sentite. Solo che, giunti al punto in cui siamo, non possiamo davvero limitarci a sentire ANCORA che la società occidentale è individualista e liquida, che si sta devolvendo alla macchina l’universo della conoscenza, che si studia senza capire, che si vale nella misura in cui si produce. Ci dev’essere qualcosa OLTRE questa più o meno teatralmente sconsolata contemplazione dell’esistente. E questo qualcosa andrebbe trovato prestino: mentre gli amabili conferenzieri conferivano, il fiume migratorio Siria-Europa (giusto per semplificare) esondava imperterrito. Non penso sia possibile interrogarsi senza sbocco sulla crisi ATTUALE dell’Occidente mentre se ne sta profilando una ben più imprevedibile: forse lì a Modena non se ne sono accorti, ma sta avendo luogo nel Mediterraneo, a 2346 anni di distanza, il secondo rinculo delle imprese di Alessandro Magno (dopo l’invasione ottomana), per cui non siamo noi ad andare a prenderci l’Oriente, ma è l’Oriente che fa irruzione in casa nostra. Con quali conseguenze, è ora impossibile prevedere senza tema di smentita; è però chiaro che questi profughi, quale che sia la loro destinazione finale, finiranno per incidere significativamente su tutti gli aspetti del nostro vissuto, altro che società liquida e gomene del tempo. Se davvero crediamo che la NOSTRA filosofia possa ridursi a pochi slogan di sicuro effetto editoriale, ma di poca o nulla ricaduta sociale, probabilmente stiamo chiudendo gli occhi di fronte a qualcosa che potrà deflagrare in qualsiasi momento, portandosi via cittadini inconsapevoli e intellettuali in punta di penna. Ci si accoccola nel dire che l’Occidente fa schifino, non si propone nulla per disinfettarlo, e però intanto a crisi sta aggiungendosi crisi. Forse è davvero ora di smetterla col gioco delle perle di vetro, uscire dai monasteri dell’animabellismo e inventarsi qualcosa di nuovo. Che non siano i bagni nel lago, beninteso.   

venerdì 11 settembre 2015

Machittevòle@festivaletteratura: Salvatore Settis e Carlo Ginzburg, ovvero l'arte di NON parlarsi addosso

Lietamente ci abbluppammo alla Basilica palatina di Santa Barbara per sentire due capoccioni, Settis e Ginzburg, appunto, dialogare sull'ultimo libro del Ginzburg ("Paura, reverenza, terrore") e dell'articolo che il Settis scrisse poco fa, credo sul Sole24ore, sul libro del Ginzburg. Roba di storia dell'arte, vedremo.
Dobbiamo pur premettere, benché non avessimo dubbi, che la coppia Settis-Ginzburg è stata MAGISTRALE e non tanto e non solo per le cose dette, alcune delle quali veramente complesse, ma per il modo in cui le hanno poste all'affollata platea santabarbaresca. Per adusa consuetudine italica, come insegna il teorema di Sommersmith, quando ad un'occasione pubblica sono presenti a condurre intellettuali in numero superiore ad uno, finisce che i tizi in questione si dimentichino totalmente di chi hanno davanti ed inizino a parlarsi addosso, cantandosela e suonandosela, e come siamo bravi, e quante ne sappiamo, ma che intelligente che sei tu, no sei più figo tu, gesù, ma davvero siamo davanti a quersta platea di burini?, ecc...
Ecco. Settis- Ginzburg, dall'alto della loro altezza, potevano. Ma non hanno fatto, anzi hanno offerto un duetto spettacolare per capacità comunicativa al pubblico e interazione reciproca. I due si conoscono da mo', ci pare di aver capito, almeno dai tempi della Normale di Pisa, si stimano, ma ovviamente non sono d'accordo sempre su tutto. E si è visto e sentito. Mai, però, con l'impressione che i due avessero preso Santa Barbara come il piedistallo della loro sovrumana contezza delle cose di cultura e approfittarne per fare a gara a chi era più bravo. Di ciò va dato loro atto, perché il rischio era grosso.
Sui contenuti del duetto, molta roba, ma pochi appunti nostri, anzi nulla proprio, vista la precaria condizione in cui ci trovavamo (per il resto invece siamo di ruolo) (molto, ma molto LOL) ovvero in piedi appicciati al fonte battesimale d'ingresso assieme ad altre cinque persone (blasfemia, blasfemia_!!)
Comunque, tutto nasce da un libro di Ginzburg in cui il predetto si lancia in ardimentosi collegamenti tra opere d'arte che uno non si aspetterebbe, cogliendo analogie e memorie non così scontate e che tuttavia mettono perlomeno in discussione le categorie acquisite. Vi era che Settis, recensendo il volume, aveva parlato di qualcosa come improbabilismo, ma non certo per inficiare la qualità del lavoro del collega, quanto per ribadire che il metodo ginzburghiano di accostare opere d'arte è la prova che non bisogna mai fermarsi alla superficie dei fenomeni nell'analisi ed è necessario lasciarsi provocare dall'opera d'arte e non recepirla passivamente, anzi servirsi di tutti gli stimoli che essa ci comunica.
E il discorso vola, con le affusolate dita settisiane che fendono l'aria per collegare fisicamente concetti astratti e la parlantina ginzburghiana che gusta ogni nozione fornita col piacere di uno chef che spiega come nascono le sue creazioni, e si arriva, zompettando zompettando, alla Pathosformel, ad Aby Warburg, a Darwin che cita Reynolds, a Curtius col suo "Letteratura europea e medioevo latino", all'importanza dell'immaginario tradizionale anche in contesti nuovi (tipo statue pagane usate per le processioni religiose sudamericane nei tempi che furono)(mi spiace, sto andando a memoria) insomma a discorsoni elevatissmi, il cui sugo, volendo succingerne uno, è l'importanza del codice artistico, il fatto cioè che chiunque, anche l'artista più  originale che sembra tirar fuori le sue opere là dove prima non esisteva nulla, lavora sotto condizionamento di modelli più o meno consci e più o meno stratificati nel tessuto storico-culturale in cui vive, sì che si attesta come sempre l'esistenza di 'blocchi' testuali (siano essi letterari o visivi) da cui nessuno può prescindere, ma che solo l'artista con la A maiuscola sa rielaborare per dare vita alla bellezza irripetibile.
La prova certamente più eclatante di ciò, almeno a seguire l'ottima disamina ginzburghiana, sarebbe nientemeno che "Guernica" di Picasso, che come ogni pivello dell'Accademia sa bene è un pugno nello stomaco di opera che difficilmente sembrerebbe dipendere da qualcos'altro, visti lo svolgimento e la tecnica compositiva. Ecco, Ginzburg opina che Picasso possa invece dipendere da un quadro di Lebrun del 1797, raffigurante l'uccisione di Gaio Gracco, ma soprattutto che la disposizione delle figure segua l'andamento del fregio continuo (mi riprometto di ritrovare nel libro l'osservazione esatta, ma siamo lì).
Bum. Cioè: su cosa sia originale Picasso ci arrivano più o meno tutti, ma che egli possa dipendere ANCHE da modelli artistici così lontani, apparentemente, da lui, non è così scontato. Ma è la sfida di Ginzburg, che per il Marat morente di David risale alla statua di Pierre Legros il giovane raffigurante San Stanislao Kotska morente, custodita a Sant'Andrea al Quirinale, che per i manifesti in cui un ceffo più o meno ceffo indica lo spettatore dicendo "Vogliamo te!", oppure "Uccidete" (sottinteso gli ebrei, roba se ho capito bene della propaganda nazista in Ucraina durante l'occupazione del 1944), insomma roba simile trova alla radice il Cristo benedicente di Antonello da Messina e relativo pentimento proprio nella raffigurazione dell'indice.
Cose cosi', insomma. Certo, come ha acutamente osservato una membra del pubblico, il dialogo tra i due ha sfiorato il tema annunciato, ovvero il rapporto tra iconografia e potere. Se ne e' parlato, ma piu' che altro per naturale emanazione dal dialogo tra i due. Intendiamoci, a due cosi si perdona tutto: la padronanza della materia, la gioia nel comunicare il sapere, la disinvoltura nel semplificare il complesso senza banalizzarlo..... questo vuol dire essere gente di cultura. La pienezza di sé, ovvero la consapevolezza di quanto si sa e si può comunicare, non diventa narcisistico compiacimento, o se pure si stavano autocompiacendo, non si è notato. Difficile credere che  il Ginzburg guardasse sopra la folla per cercare il contatto con gli angeli: gli piaceva proprio discutere con Settis e condividere col pubblico.
E Settis, a metà incontro, graffia come solo lui può: Aby Warburg enucleò i primi fondamenti delle sue teorie estetiche sfogliando libri a Firenze; oggi la biblioteca nazionale fiorentina non può garantire consultazioni e prestiti fino a che non arriveranno i volontari del servizio civile. Ecco, dice Settis, in Italia, mentre si afffidano a stranieri le direzioni dei musei, si chiudono le biblioteche pubbliche. Applausi.
Applausi anche a due che hanno evitato la peste nera degli uomini di cultura dello Stivale: lo snobismo. 

venerdì 21 agosto 2015

Matia, adesso però chiudete il bazar!

Ai molti utenti del blog (!!) sarà certo di giovamento sapere che, musicalmente parlando, e parlando di musica pop, io e la Spocchia siamo cresciuti con due numi tutelari di riferimento: Mango e i Matia Bazar. Sfortuna volle che, nel giro di otto mesi, il primo ci abbia infartato a concerto in corso, mentre gli altri abbiano perso stanotte per omologo infarto l'unico membro che è SEMPRE rimasto nel gruppo in quarant'anni, facendo parte di tutte le successive lineup proposte ai fans: parliamo, si capisce, del compianto Giancarlo Golzi, sanremese di nascita, vincitore di due Sanremi col gruppo (e con le canzoni meno belle della loro storia, ma questo è un classico), da oggi appartenente ai più.
A parte il dato personale che mi vede in poco tempo sparire dall'orizzonte gente a cui, artisticamente, tenevo molto, non possiamo non vedere nella fresca ed inopinata dipartita del Golzi il segno definitivo del destino che, speriamo ardentemente, i Matia sopravvissuti sappiano cogliere con machiavellica virtù. In poche parole, ci auguriamo vivissimamente che il gruppo si sciolga.
Bum!
Sì, non amiamo simili durezze qui a Machittevòle, ma quando ce vo' ce vo'. I Matia restano nell'immaginario collettivo di noi tutti soprattutto come un gruppo di potente impatto sulla scena italiana tra la fine dei '70 e la prima metà degli '80. Non è qui il luogo per ripercorrere le tappe delle loro carriera, tanto per quello ci pensa Luzzatto-Fegiz. E' il luogo semmai per riflettere, venuto meno l'unico vero trait d'union di tutte le stagioni artistiche del gruppo, se l'avventura matiabazaresca dovesse aspettare l'infarto golziano per concludersi. Perché, lo ripetiamo, Piero Cassano, Silvia Mezzanotte e Fabio Perversi (la stima nei cui confronti da parte nostra, sia chiaro, non recede di un millimetro) DEVONO avere il coraggio di dire basta all'accanimento terapeutico su un marchio che secondo noi ha perso da mo' la sua identità. Ciò, lo ribadiamo pedantemente, a prescindere dal valore individuale che riconosciamo ad ognuno di loro: è il loro valore complessivo come Matia Bazar che secondo noi non funge.   
Farebbe già abbastanza sorridere il fatto che il gruppo, in remota teoria, avrebbe dovuto chiamarsi solo Bazar dopo l'uscita di scena di Antonella Ruggiero nell'ormai lontano 1990, visto che Matia era lei, e i ragazzi del gruppo il suo bazar. Ma tant'è. Certo, già senza Antonella, sostituita dalla comunque notevole Laura Valente futura signora Mango (è tutta una compagnia di giro, vedete?), lo spirito del gruppo era mutato profondamente, le canzoni avevano rinunciato decisamente alla spinta electro-pop promossa a inizio anni '80 da Mauro Sabbione e ricorretta da Sergio Cossu, così come ai testi onirici del povero Stellita. Il pop si era fatto molto più pop, forse annacquando i fuochi d'artificio della stagione precedente (per onestà intellettuale, già certi ultimi prodotti della stagione Ruggiero come La prima stella della sera oStringimi suonavano "poco Matia", diciamo, ma tant'è). Ma più o meno girava, nonostante tra la Valente e Carlo Marrale tirasse una certa arietta di antipatia, peraltro molto ben dissimulata. E comunque Benvenuti a Sausalito era un album che funzionava.
Poi Stellita venne a mancare nel 1998. E lì avvenne la diaspora. Rimase Golzi. Il quale recuperò Piero Cassano, uscito dal gruppo 16 anni prima per contrasti di vario genere. E i Matia, aggiuntisi Mezzanotte e Perversi, ripresero la via. Lì, secondo noi, bisognava invece interrompere il discorso. I Matia non erano più Matia da un po', ma anche il bazar esaurì presto le idee. Se canzoni come Brivido Caldo o Messaggio d'amore potevano rappresentare un più che discreto prodotto per una band con l'obiettivo di finire nelle hit dei balli da sala, dette canzoni non erano assolutamente all'altezza della storia di un gruppo che ha sfornato Cavallo bianco,Vacanze RomaneSouvenirTi sento, come pure le meno note Mi manchi ancoraVia col vento o Vaghe stelle dell'orsa. Tutto qui. Voglio cioè prescindere da quelle stucchevoli querelles che leggo nei commenti ai video di youtube, con esperti di musica e sedicenti tali che si accapigliano su chi delle quattro cantanti ha/ aveva la voce migliore, la personalità più forte, e il salto di ottava, e il bicordo, e il registro di fischio e il soprano dolce e l'intonazione più precisa. Il problema vero è che questa band si è voluta perpetuare   nel nome ben al di là della sopravvivenza dello "spirito" Matia, che a nostro spassionato giudizio, già fortemente indebolitosi nel post-Ruggiero, si è definitivamente estinto alla morte di Stellita. Non manchiamo qui di riconoscere che il compito più ingrato è toccato a Laura Valente, perché venire subito dopo la Ruggiero è equivalso a girare per sette anni con un bersaglio luminoso sempre acceso dietro la schiena. Senza dubbio Silvia Mezzanotte non ha avuto un simile peso da portare, mentre la parentesi della Faccani rappresenta la prova provata del totale disorientamento estetico cui Cassano e Golzi sono ad un certo punto soggiaciuti, pentendosene peraltro, al punto da non rinnovare il contratto alla predetta (sulla cui voce per carità nulla da dire, ma di nuovo non era "spirito Matia"), in attesa che la Mezzanotte riacquistasse senno, comprendendo cioè che fuori da quel che restava dei Matia la sua carriera equivaleva ad uno zero tondo.  
Ora però è il momento delle decisioni gravi e definitive: lo "spirito Matia" è evaporato. Meglio un'onorevole uscita di scena che lo stracco trascinamento di una mummia saponificata.
Lasciateci, Piero, Silvia, Fabio, col ricordo di un'età creativa forse irripetibile, quegli anni '80, che un'Antonella Ruggiero del 1999, ancora colpevolmente preda di ansie palingentiche, definì "plasticosa", lei che ne era stata una delle massime e più sublimi muse, lasciateci, dicevamo, riandare coi ricordi a quella voce, la voce di Matia, l'unica vera voce-Matia, che con le sue acrobazie si portava dietro le parole delle canzoni, le sparava nelle orbite più irraggiungibili e lì le faceva conflagrare, così che gli scontri semantici generassero scintille di assoluto. Sia chiaro, potremo passare anni a romperci la capoccia per decodificare il testo di Angelina, di Aristocratica o di Mosca Helzapoppin, e probabilmente non ne verremo mai a capo. Ma l'obiettivo di quelle canzoni era proprio quello di alludere, suggerire, provocare, incantare e alla fine travolgere sotto l'onda acuta e possente delle saette vocali di Antonella. Il tutto con al servizio un tappeto di note che sfuggiva ogni banalità e cercava sempre la soluzione più raffinata (chi saprebbe sfornare la parte melodica di Cercami ancora o di Da qui a..., oggi, chi?) (si chiedeva battendo la cervice sul muro).   
Credo che alla fine la canzone che riassuma tutto lo spirito Matia che noi tanto amiamo sia Noi, che non a caso è del 1987, quando cioè la supernova bazaresca era al massimo splendore perché prossima al collasso. Noi, recita il testo, siamo fragili e invadenti, fuori e dentro al fuoco, angeli da poco in cattività, noi, prosegue, siamo abili e inesperti, noi siamo con gli occhi aperti nell'oscurità, ma soprattutto noi siamo vincitori e vinti per curiosità. Eccolo qua, il core-Matia: il desiderio di avventurarsi nel mondo della contraddizione e della dialettica perpetua, alla ricerca della scintilla che nasce dalla crisi dei sistemi che tutti credono immutabili e che proprio per questo è foriera di un'energia inimmaginabile a chi sta dentro il placido recinto delle proprie certezze. Noi andiamo in cerca dell'Oltre, ci dicevano quei Matia. Questi  Matia non possono - o non sanno - più farlo. Umilmente ne prendano atto. Si seppellisca con il Golzi una storia che non  morirà mai, solo che vi siano amanti del pop intelligente pronti alla corrispondenza d'amorosi sensi.
Ciao, Giancarlo.      

EDM - LA Spocchia

giovedì 20 agosto 2015

Il pensiero s'infeltrisce

Estate ballerina, pare. Come se non ne avessimo già avuto abbastanza delle sparate sulla scuola del sempre stimato Abravanel, quello secondo cui alla fine il vero scopo dell'istruzione è la messa a punto degli algoritmi per regolare i flussi semaforici, entra in giuoco Mr. Fighetteria in persona, quello Stefano Feltri che nel recente passato frequentava con assiduità il salotto di Lilli Gruber per fare a gara di pettinature gellate e lenti a contatto glamour con Civati, sì da contendergli il ruolo di intellettuale più telegenico di La7 (bella forza competere con uno più vecchio di te di nove anni, vero, Ste?).
Il Feltri, bocconiano DOC e convinto probabilmente che il piano studi della Bocconi serva essenzialmente a diventare giornalisti, si è lanciato la settimana scorsa in un bombastico assalto all'arma bianca contro gli studi umanistici, facendo aggio su un paper (come si dice nell'ambiente) di studiosi multinazionali, ma soprattutto fraintendendone totalmente dati e conclusioni, come altri addetti ai lavori gli hanno fatto impietosamente notare.
Riassumo le tesi feltriane, rimandando al sito ROARS per l'elenco dei contro-articoli che le sbugiardano, e anticipo che non sarà qui il luogo per la difesa della cultura e dell'istruzione umanistica, da noi già attuata in altri post del blog: ci limiteremo ad un'analisi antropologica del modo di ragionare del Feltri, mostrandone punti di contatto e scarti in avanti rispetto all'Abravanel.
Dice Feltri: le facoltà umanistiche sono uno spreco assoluto, chi vi si iscrive in genere proviene con voti bassi dalle superiori (bufala CO-LO-SSA-LE, e lasciate che lo diciamo io e la Spocchia, che alla facoltà di Lettere lavoriamo davvero), le prospettive di impiego e guadagno post-lauream sono un niente rispetto ad altre facoltà e, colpo di grazia, il laureato in lettere rappresenta un costo che la società non può permettersi: si iscrivano alle facoltà umanistiche quelli ricchi che possono sostentarsi da soli gli studi. Piccatissimo poi a seguito delle repliche sbugiardanti al suo primo articolo, il Feltri, ben lungi dal fare anche solo una minima autocritica per aver del tutto travisato i dati del paper da lui citato, si lancia in acide repliche degne del peggior fighetto isterico: se volete vivere da bohémien con la laurea in lettere, accomodatevi, ma poi non lamentatevi quando sarete dei poracci.
E vabbe': gli hanno risposto in molti, dati alla mano, per dimostrargli la falsità tanto dell'assunto quanto delle argomentazioni da lui svolte per corroborarlo. Certo, vien da dire, se un giornalista laureato alla Bocconi non capisce neanche i saggi che legge e poi ci costruisce sopra articoli senza capo né coda, c'è da tremare per l'obiettività e l'accuratezza del mondo dell'informazione italiana.
Ma appunto. Necessità biologica dell'umanesimo a parte (come da noi più volte sostenuto), resta nel Feltri la convinzione, ampiamente condivisa negli ambienti più miopi dell'accademia economica (Abravanel docet), che l'istruzione, tutta, debba alla fine essere non solo professionalizzante, ma professionalizzante in senso empirico. Quale che sia la facoltà scelta dal discente, egli deve uscirne abile solo a risolvere problemi pratici, siano essi la costruzione di un ponte, l'asportazione di una cataratta o la stesura di un piano aziendale di rientro dai debiti. Basta. Feltri argomenta di fatto asserendo che dall'università deve uscire il lavoratore, poi per l'individuo vabbe' c'è tempo. Gli hanno fatto giustamente notare che simili asserti sono degni della peggior dittatura sovietica, roba da far tremare Breznev (o dare il colpo di grazia ad Andropov).
Ma appunto. Al di là del fatto che anche insegnare alle persone a esprimere correttamente il proprio pensiero o far maturare in loro il senso critico nei confronti dei fenomeni storici e sociali non mi sembrano contributi così spregevoli al mondo empirico (ove si sottintenda che il grosso degli umanisti poi fa il professore), è noto che la laurea umanistica conferisce al laureato una duttilità e una capacità critica e creativa allo stesso tempo di affrontare i problemi che altri laureati, legati a visioni un filino più schematiche delle cose, non hanno, sì che non è difficle vedere umanisti occupati in posizioni professionali che, a rigore, quaglierebbero poco con la loro laurea. Ma non è questo che interesserebbe al Feltri. Feltri, in ciò ossequendo ancora Abravanel, direbbe che il tipo di società che ormai domina ai quatto angoli del globo richiede le soft skills, il problem solving, la praticità, mica si può stare a leggere poesie per 3+2 anni.
Lasciamoglielo dire. E chiediamoci: in cosa l'ottimo Feltri riesce persino a superare il già ottimo Abravanel? Nel format antropologico tipico di moltissimi fanciulli e fanciulle nati e cresciuti negli anni '80: la convinzione che la propria esperienza personale sia il modulo di riferimento UNICO in base al quale giudicare il mondo e le scelte altrui. Ora, se io volessi feltrizzarmi, direi che TUTTI i nati negli anni '80 rispecchiano il modello anzidetto. Non lo dirò: primo perché non sono Feltri, secondo perché ho per fortuna sottomano esempi di gente che esce dallo schema. Peccato che quelli che in questo schema rientrano, Feltri tra costoro, offrano di sé uno spettacolo che con acuto eufemismo potremmo definire solo che desolante. 
Vediamo le prove di questo gommoso egotismo. Lo dice, il Feltri, nel suo accorato benché sbullonato paper: IO ho fatto la Bocconi perché gente più saggia di me mi ha distolto da filosofia, I MIEI genitori si sono accollati la non sobria retta dell'università, IO non avevo diritto alle agevolazioni perché altri evadevano il fisco, IO ho raggiunto l'obiettivo che mi ero posto, IO mi sono già ampiamente ripagato delle spese sostenute, anche perché I MIEI non hanno rivoluto nemmeno un tolino indietro.
Eccoci al punto; siccome A LUI è andata in un certo modo, allora chi sceglie diversamente è per ciò stesso in errore. Ma sono così, la generazione dei Fabolous 80's, quelli usciti male, intendiamoci. Li sentiamo e vediamo, i freschi trentenni che si beano delle app che mettono a punto e che consentono loro guadagni faraonici in poco tempo, e che parlano come se saper sviluppare app fosse l'unica attività umanamente degna; li sentiamo e li vediamo, quelli che sono convinti che la politica italiana inizi nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi e dicono "Berlusconi sì, Renzi no" (o viceversa) adducendo come prova a favore della tesi il fatto che "Berlusconi sì, Renzi no" (o viceversa); li sentiamo e li vediamo, i fortunelli che non hanno vissuto i colpi di coda culturali ed esistenziali degli anni '70 e sono cresciuti a pane, vizi e giocattoli, vedendo crollare il Muro di Berlino, ma scambiandolo per una casa di Lego; quelli, per intenderci, e in particolare i nati tra il 1980 e il 1989, che per effetto dell'abolizione degli esami di riparazione a settembre voluta dal ministro D'Onofrio hanno passato beatamente il liceo potendosi permettere di perculare i docenti delle materie a loro sgradite, evitando accuratamente di studiarle "perché tanto Lei non mi può far niente"; ce li ricordiamo bene, quelli che a 15-16 anni "prima vado in palestra, poi studio perché sennò mi vanno via gli addo", con l'assenso delle mamme già rifatte a 40 anni, orgogliose di come il figlio sapeva stare al mondo e godersi la vita invece di marcire sui libri; quelli che hanno sempre soldi in mano pur senza lavorare, o lavorando molto poco a 33 anni suonati, perché tanto paga papà, vanno in ferie 6 volte l'anno (sommando ben più degli stereotipati "tre mesi a fare un c****" che rinfacciano a noi) e però sono sempre in prima linea a denunciare l'occidente cattivo e consumista e ad appoggiare Emergency (a parole, poi pagherà qualcun altro); quelli che credono che Alessandro e Carlo Magno siano fratelli e la rivoluzione francese sia una teoria di Galileo e che però un bel free Palestine sui loro stati di Facebook non lo fanno mai mancare. Gente che ha potuto pensare esclusivamente a se stessa perché il mondo era mandato avanti dagli altri e che ha visto la perfetta coincidenza tra volere, dovere e piacere. Ha cioè sempre fatto quel che ha voluto: senza spigoli, senza contraddittorio, senza divieti, senza sanzioni. Senza un non-Io che mettesse in discussione il loro Io. 
Gente così. Quelli usciti male, si diceva. Certo, si dirà che però il buon Feltri i suoi studi li ha fatti e la sua carriera pure, non è rimasto con le mani in mano. Senza dubbio. Sarei tuttavia curioso di chiedergli chi fosse Ezio Vanoni, per vedere se magari mi risponderebbe che era un parente di Ornella e non l'inventore di quella che oggi chiamiamo IRPEF. Ma è il profilo psicologico suo che è perfettamente 80's, quello di gente cresciuta senza dialettica e quindi capace solo di porre se stessa come tesi unica di un discorso che non ammette antitesi né, per carità, sintesi. Scettici e politicamente apolidi, seguono l'idea del momento, specialmente quando è la loro. Privi di ogni prospettiva storica, non sanno trovare radici ad un fenomeno che vadano oltre l'altroieri. La loro piccola esperienza diventa l'Esperienza e guai a chi dissente.
Ed ecco scodellato un articolo a dir poco delirante, ma che svela appieno la matrice antropologica del suo estensore: non è tanto il cieco ossequio alla linea Abravanel a deprimerci, quanto l'idea che un trentunenne ha già esaurito gli spazi dialettici e non vede altro all'infuori di sé. Certo, è lo stesso difetto della generazione bimbominkia. Sì. Solo che Feltri è, diciamo così, un filino fuori età.

Dovrebbe, perlomeno.   

giovedì 7 maggio 2015

UGF 03X05: "Voglio che almeno tu mi credi".

E così, il latino una volta, il congiuntivo un'altra, la nostra fiction-guida assassina i fondamentali della nostra stessa lingua madre, facendo peraltro pronunciare ai personaggi una serie di parolacce che francamente non ricordavamo così numerose in precedenza e francamente non ci paiono contribuire in nulla alla pretesa di realismo dei dialoghi e delle situazioni. Ma tant'è, schiattato il Capofamiglia, i familiari, dopo 29 giorni (29, eh? Non 30 né 28, per carità...) riprendono il loro niente, tra piccoli rancori e cazzimme assortite.

Quanti episodi ancora? Sei sicura...?

1) Sorde seduzioni: Gradisca fa capire all'allampanato ingenuo che si è rotta dei ristorantini etnici, e del karaoke con Chariot di Betty Curtis e che sarebbe il caso di passare al piatto forte. E lui non capisce. Allora lei inizia a fare le fusa; e lui non capisce. Alla fine gli si spalma addosso; e le zone australi di lui capiscono. Eccoli dunque a casa di lui, "la mia cameretta è a 5 metri...", ma lei non se ne dà per inteso e apre bottega già sul tavolino d'ingresso, cosa che convince definitivamente anche le zone boreali di lui a concedersi a piaceri proibiti. L'ingenuità della sequenza è tale che, men che mai eccitarsi, si fa fatica addirittura a ridere, se non ad avere pietà di cotanta goffaggine a 15 anni da Sex and the city.

"Dov'eri quella sera?" "Sai tenere un segreto?" "Sì" "Anch'io, come vedi"

2) Torde seduzioni: Calimero, 29 (29, eh?, attenzione...) giorni dopo essere rimasto orfano di padre, con cui peraltro non ci si era lasciati proprio benissimo, si mostra impegnato in una relazione peccaminosissima con una tizia a caso che occupa i suoi pomeriggi andando ad ascoltare l'autoradio sotto i cavalcavia della Brianza. Ed ecco che, senza sapere nulla l'uno dell'altra, nemmeno i nomi, i due gabbianelli in attesa di volare volano sui sedili non ribaltabili della comodissima Alfa Romeo di lui, che pare aver ritrovato i corpi cavernosi di sempre. Peccato, scopriamo poi, che la tizia misteriosa sia compagna dello psicologo di Calimero, il quale psicologo prende atto della rinnovata primavera testicolare dell'assistito, senza manco immaginare dove vada a finire il polline. Verosimilissima casualità...

Allora, la parte dell'uomo- sandwich la fa Niccolò...

3) Balorde seduzioni: Reggianino, che al contrario dello zio/fratello tiene ben chiusi a chiave i ninnoli pregiati, riceve in eredità dal defunto nonno un'antica edizione dei Sonetti di Shakespeare, ma guarda il caso, uno dei rari casi di liriche d'amore omosessuale della storia (tralasciando l'identità del fair friend, se era il visconte o il granduca o qualcuno degli amichetti di Will nostro). Detto pure che il Capofamiglia non immaginava di schiattare così all'improvviso, si può dire che ci abbia visto lungo. Il patrimonio di spunti viene tuttavia vanificato da una fobia con delirio di interpretazione che fa vedere a Niccolò pericoli ovunque. Nonostante la cravatta rossa ereditata dal nonno, evidente simbolo fallico dai poteri sciamanici in grado di evocare le più remote energie delle viscere della terra e non solo, baby Reggiani non crede che con Mattia possa quagliare, si è mai visto uno che, per provarci con te, ti propone di venire in piscina assieme uno di questi giorni, magari ti lascio il mio cellulare così mi avvisi? Non sarà un approccio, questo? No???? Beh, per Niccolò no. E' Mattia che vuole celiarsi di lui, nonostante sia fidanzato. L'etero che gioca al gay. Boh. E così le occasioni per Reggianino vanno tramontando una ad una.   

La ceretta? Non ti basta 'sto stacco de mascella?
4) Ingorde seduzioni: Jamal aggranca più e più volte Valentina, laddove il nerd si consola con la miniGradisca. Un tira e molla di musi, faccette, congiuntivi saltati, bugie assortite che fa sembrare uno splatter Il tempo delle mele.

5) Momento Giocafiabe: Morelli porta Rocca nella stanza degli scarti di fabbrica a sprimacciar cuscini per dimenticare il colloquio con Edo, che ha comunicato intenzioni divorziste per consentire a Chiara di continuare a cavalcare l'onda con Raoul. Così, tra svolazzi di piume degni della celeberrima fiaba, la nostra azzimata moglie del defunto che torna sempre in vita, quindi una perfetta vedova- non vedova, tenta di dimenticare il fatto di essere la prova vivente della veridicità del paradosso del Gatto di Schroedinger.

5) Momento appealing: Raoul vede Jamal pregare e dice di invidiarlo, Jamal replica che non tutti i musulmani sono integralisti, lui, per dire, ha una cugina che va all'università. E così le remote origini ideologiche leghiste della fiction sono sepolte foreverandever.  

5)  Resta il testamento di Ernesto, che alla fine premia l'ex Brooke Logan di casa, che si cucca il 25% delle azioni solo per aver tirato fuori un portaombrelli ergonomico con la stampante 3D. Ah, però. Resta la raffreddata Fehlbehrbauhm, che per fortuna schioda a metà puntata, non dopo averci regalato siparietti con Calimero che renderebbero trasgressivi i dialoghi tra Satomi e Marika (minuto 11.21). Resta Nora che dichiara odio eterno a Edo (ma scusa, lui le ha combinate lui le ha risolte, non vale più il principio della redenzione? Ma se la sono letta la Fabula Aristaei, questi?)

6) Resta, signori miei, che quest'anno UGF fa venire un latte alle ginocchia tale da farci rimpiangere Primi Baci. Il che è tutto dire. 

sabato 2 maggio 2015

Le grandi recensioni di Machittevòle: 1992- la serie.

Per consolidata (?) tradizione, a Machittevòle ci piace recensire il serio e il faceto. Il campo del faceto, almeno fino all’estate, è occupato in pianta stabile dalle Rengoneide di RAI1, fiction che riesce a riassumere tutti i cliché nostrani in modo almeno digeribile.
C’è, per il serio, la terra incognita delle programmazioni Sky, che sin qui non avevamo esperito per mancanza di tempo (e di decoder con possibilità di vedere i programmi fuori orario), e nell’ultimo mese abbiamo potuto assaggiare una minestra di sapore ben più asprigno, ovvero la serie in dieci episodi dedicata ai fattacci di Tangentopoli, 1992, appunto. Datosi che noi qui al blog di quella fatal epoca se ne parla spesso, (del resto...)(d'altronde...) e che comunque un’escursione fuori Rai male non fa, vogliamo ora procedere a scannerizzare il buono e il non buono della serie nata dalla capoccia di Stefano Accorsi in Casta.
Non abbiamo in mano elementi per giudicare il risultato complessivo in rapporto ad altre produzioni della rete come Gomorra o Romanzo Criminale, abbiamo letto pareri di chi ritiene meglio 1992 e di chi la ritiene un passo indietro rispetto alle altre due. Certo, mettere le mani in una materia incandescente nelle sue contraddizioni come l’anno che ha segnato lo sfrancicamento biscottoso di un sistema che si credeva immutabile, non è mai operazione indolore, né per gli autori, né per gli interpreti, né infine per gli spettatori, il grosso dei quali, se non tutti, quei fatti li ha visti in TV e ne ha soppesato gli effetti nelle rispettive amministrazioni locali, perlomeno quelle che furono traforate dalla grandine degli avvisi di garanzia.    
Insomma, partendo dal fondo, ovvero dal giudizio complessivo, io e la Spocchia abbiamo trovato la serie in oggetto certamente più che discreta, ma non eccelsa, coraggiosa, ma non sempre a squadro nei suoi obiettivi, al di là delle dichiarazioni degli autori e degli attori. Procederemo a guardare i risultati della fiction in sé, quindi giudicheremo il giudizio dato all’anno in oggetto.

1) Si è rinunciato all’intento didattico, hanno detto: niente fredda e puntigliosa cronaca di quei mesi allucinanti in cui la politica italiana parve implodere su se stessa. Quei mesi fanno semmai da cornice ai personaggi che vi si muovono dentro. Né, del resto, storiella edificante in cui i buoni (Di Pietro e relativo pool) erano tutti da una parte e i cattivi (Craxi e relativi sgherri) dall’altra, e allora lo spettatore sarebbe stato automaticamente indotto a tifare per i primi. Prevale, pare, l’idea della rivoluzione più apparente che reale, che vide all’epoca tutti ubriachi di Nuovo senza accorgersi che il vecchio si stava solo riorganizzando sotto rinnovate spoglie. I personaggi principali transitano poi sul pericoloso crinale del giusto e dell’ingiusto, con maggiore o minore senso etico uno rispetto all’altro, ma, come nelle vere tragedie da Eschilo in giù, è difficile dire chi sia il buono e chi il cattivo.
Vediamo quindi in azione un composito sestetto (il manager senza scrupoli dal passato di ex sinistrino e morti assortite alle spalle, l’aspirante soubrette, la fighetta figlia del tangentocrate, il poliziotto assetato di vendetta per guai suoi, l’altro poliziotto che lucra sulle soffiate, il reduce di guerra attratto in orbita Lega nord) che interagisce non poco al proprio interno. Certo il personaggio più mefistofelico è Stefano Accorsi-Leonardo Notte, uno Iago in salsa Publitalia che vive sulla triade illusione-delusione-collusione e ha capito dove vanno le aspettative degli italiani, a suo giudizio un popolo di onanisti giocherelloni, vedendo in Berlusconi l’uomo in grado di occupare la piazza fatiscente dell’ex arco costituzionale, ridotta al momento a macerie fumanti e cadaveri sbrindellati. Il suo non facile passato, il rapporto quasi paterno con la quasi figlia (che fa pure la Rengoni, ah, il conflitto di interesse…), la dipendenza da sesso e droga lo rendono inequivocabilmente figlio degli eccessi e delle storture degli anni ‘80 da poco finiti: anni di cavalcate epiche lungo le corsie del mito del benessere, del successo che non impedisce di dedicarsi al fitness, delle mirabolanti opportunità di arricchimento, lecito e spesso illecito, offerte da una nazione in pieno rigoglio post-anni di piombo, decisa ad agganciarsi al treno dell’edonismo reaganiano e godere della rosa fiorita più che andare in cerca di quella tardiva (larariiii….). Credibile, certo, meno stereotipato di altri. Credibile soprattutto come uomo che, da ben altra prospettiva di quella politica, osserva il mutamento sostanziale di una società, o meglio ancora l’emergere di componenti fin lì abilmente censurate dalla cultura “ufficiale” e solo da poco abilmente titillate dalle leggi comunicative di Fininvest, con i suoi messaggi inneggianti al consumismo e alla gioia di vivere. Ne fa la prova il filmatino licenziosetto e provocatorioncello di Non è la Rai (dove Carrano-Migliacci cantano l'immortale Tutta tua...aaa...aaahh) con cui il Notte seduce il cliente “scarpe grosse e cervello fino” che pure un occhio al vestitino fasciante di Roberta Carrano non riesce proprio a non farlo cadere (sull'anacronismo del filmato, vedi oltre). Non v’è dubbio, in effetti, che una tesi di fondo, a dispetto delle dichiarazioni degli autori, ci sia in 1992, e Berlusconi ne è il protagonista negativo, per quanto nelle dieci puntate lo si intraveda appena. Ma di questo alla sezione 2.
L’altro personaggio certo ben quagliato è il poliziotto Robin Hood di se stesso Luca Pastore (Domenico Diele, con l’amichevole partecipazione del naso di Alessandro Cattelan), infettato dall’HIV per colpa di una partita di sangue sbagliato smerciata da Michele Mainaghi, in 1992 uno dei primi arrestati dell’inchiesta dipietresca e tra i primi a togliersi la vita una volta vistosi senza futuro. La pencolanza del Pastore sta appunto nel suo non saper dire a se stesso se la propria sete di giustizia sia individuale o collettiva. Pare a volte che il suo unico obiettivo sia la rivalsa sul Mainaghi e arrivederci a tutti, poi però, morto il predetto, sottili filamenti pentimentosi si insinuano nel suo cervellino, senza che ciò gli impedisca di andare a fondo nella vicenda del sangue infetto, e comunque davanti a lui come a tutti rimane la preda più ambìta il cui cognome squilla in trappola solo a fine serie: Craxi. Non ha scrupoli, il Pastore, ad inguattarsi con la figliola stronzetta ed episodicamente tossicomane del Mainaghi, a spifferare cose alla giornalista sorella dell’altra zoccola, a trafugare documenti, a minacciare con la pistola gente, a piazzare microfoni nascosti senza essere (momentaneamente) più un poliziotto, ponendosi così in bilico tra una forma di giustizia tutta personale e il dovere civico di un servitore dello Stato. Credibile, abbastanza. Che l’inguattamento con la Mainaghina gli riesca al primo colpo, e che lui sappia già dove andare a spizzettare le carte segretissime di famiglia, un po’ meno.
Detto dei due personaggi più convincenti, c’è la semi-perplimente Beatrice Bibi Mainaghi, interpretata da una controversa Tea Falco, ovvero da una attoressa di origini siciliane che ha dovuto vestire la sua dizione con l’accento milanese fighetto di una mezza scema, con altalenanti riscontri critici e piccate risposte. Personalmente, la quasi caricaturalità dell’accento non mi ha provocato sussulti: è una pesantezza che a suo modo riempie la vuotezza del personaggio, vuotezza necessaria per dirci di un’anima cresciuta nel tutto che non porta a niente, nella ricchezza fine a se stessa che non costruisce humanitas, ma si autodivora e autonutre come il Bt Raffaello, entro un orizzonte in cui l’unica morale è avere e non essere. Come lei, appunto. Che però poi mostra un certa “essenza” quando le tocca guidare il carrozzone di famiglia per sopraggiunto suicidio paterno. Certe unghiette non le mancano, a dire il vero, come pure certa predisposizione alla menzogna, visto come fa sparire i miliardi dai conti, si sbarazza del CEO e racconta balle al Pastore circa le azioni legali del padre con la ditta vendisangue che avrebbe smerciato le sacche infette. Sospesa pure lei tra Elisio e Tartaro, non le manca l’occasione di infrattarsi tanto col Pastore quanto col Notte, a mostrare che le due personaggesse femminili della serie hanno in comune certa zoccolaggine multidirezionale che francamente poteva accennarsi senza eccessivi approfondimenti, visto che sono temi di tutte le epoche. Bibi è quindi più un fumetto che un personaggio, nei suoi eccessi e nelle sue incoerenze.
E’ la seconda metà del sestetto che però necessiterebbe di adeguata revisione: una Miriam Leone insoubrettita nei panni (e anche senza i panni) di Veronica Castello, una che passa agevolmente di letto in letto, pur tentando di fare la sorellona maggiore con la quasi figlia del Notte, pur aspirando a mostrare che sì, c’è un cuore sotto quel reggicalze, che ambire al successo televisivo è una pratica lecita né più né meno che fare un concorso in magistratura, insomma la zoccola dal volto umano che tanto cinema e tanta musica ci hanno già ammannito, non è ‘sto botto atomico come si vorrebbe credere, al netto dei rapporti retroattivi con Accorsi o le notti infuocate padane coll’ex soldato. Il fatto è che il mondo dello spettacolo è da sempre, sotto quel punto di vista, un carnaio, e che quindi una Castello vogliosa di condurre di Domenica In si collochi nel 1992, nel 1980 o nel 2012 poco cambia. Questo tipo umano non è il prodotto della TV commerciale, la quale semmai ha acuito il fenomeno, perché appunto Domenica In è roba della Rai, e Boncompagni già da 5-6 anni riempiva il salotto della domenica di fanciulle alte di garrese per ingolosire il pubblico. Le puntate di 1992 ci propongono semmai una pazzerella bipolare in bilico tra santità e perversione, gravidanza e aborto, carriera e sesso astruso che non ha una ragion d’essere esclusiva nel 1992 piuttosto che altrove.
Poi i due personaggi meno riusciti, a nostro giudizio: il poliziotto spifferatore Alessandro Roja/ Rocco Venturi, sempre in cerca di soldi per mantenersi i viziucci, che tenta di inguaiare il Notte, ricevendone in cambio copiose minacce di contro-inguaiamento, che ausculta i piani di Di Pietro e li riferisce ai diretti interessati, che alla fine si fa schiattare a colpi di cric. Un tapinello che fa la controparte poliziottesca a Mario Chiesa, gente cioè che campa di briciole altrui. Non si parteggia per lui né lo si odia. Fa pena nella sua meschinità, ma soprattutto si avverte che, sottratto lui, la serie ne patirebbe ben poco.
Doveva invece essere inquadrato meglio il personaggio di Guido Caprino/Pietro Bosco, il neo-leghista assoldato dopo aver salvato la buccia ad un leghista cicciotto, tal Bortolotti, che stava per venire sfracazzato dagli albanesi (stereotipo mode on): il Bosco si fa portavoce del nord incazzoso, ma alla fine gli autori decidono di mostrarne soprattutto il côté velleitario, l’immagine del politico arrivato per caso a Montecitorio che poi non sa più da che parte sbattere e che facilmente cade nella rete del marpione esperienziato, il democristiano Nobile suo coinquilino, che lo istruisce sugli untumi del Palazzo, gli sistema la momentaneamente fidanzata Veronica in Rai e chiede però in cambio favorucci per mercantucci di armi. Salvo vedersi votare l’autorizzazione a procedere anche dal Bosco, cui pure risultava che il Nobile fosse vittima di ripicche di partito, ma i leghisti celoduristi gli hanno detto: “Voti comunque a favore, se non per questa roba, deve pagare per tutto il resto”. Peccato, e non solo per il pesante accento delle mie parti che qui sì mi ha dato un certo fastidio (che poi, si è mai sentito uno di cognome Bortolotti abbreviato in “Bòrto” con la o aperta? Suvvia…), né per l’insistita caricatura di certo leghismo sguaiato e ottuso. Si poteva, assai assai, approfondire il nocciolo delle proteste leghiste, che erano legittimissime in quegli anni: l’imprenditore che non ne poteva più di farsi uccidere dalle tasse che finivano regolarmente nel carrozzone senza fondo delle Partecipazioni statali; l’impiegato che vedeva il vicino di casa, ufficialmente impiegatino come lui a stipendio fisso, girare in Mercedes e fare le vacanze alle Maldive; il piccolo commerciante che si vedeva il dirimpettaio ottenere permessi edilizi su permessi per ampliare i locali fino a creare una reggia, mentre a lui veniva negata la rettifica di un muretto per impiantare il cancello automatico sulla base di oscure mancanti condizioni di agibilità. Eccetera. Di fatto, si è voluto retrocedere il fenomeno del grillismo al 1992, facendo della Lega l’antesignana dei 5Stelle, perlomeno di quella frangia ondivaga e inconcludente del movimento. E il tutto buttato sulle spalle di un miles ingloriosus anche abbastanza stantìo.
Per dire insomma che i personaggi, quelli principali almeno, non hanno del tutto soddisfatto le attese. Quanto alla storia in sé, credo si proponga il solito problema del rapporto tra cornice e contenuto (il solito, eh…?).
Dicasi: se chiami una serie 1992 in riferimento a quei fatti lì, devi fare il modo che ogni singolo fotogramma della storia sia impregnato di quei fatti lì e che i personaggi ne traggano alimento come frutti dai rami. Troppe volte, specie nel corpo centrale della serie, è sembrato invece che le microstorie dei singoli siano procedute in fin dei conti indipendentemente dalla cornice storica che ne faceva da premessa, cornice evocata giusto cursoriamente con le date inserite in sovrimpressione ogni tanto: c'è stato quel senso di sostanziale estraneità alla circostanza storica che già spirava da certe puntate di Un matrimonio, allorché la famiglia Parenti/Ramazzotti passava attraverso tutti i fatti cospicui del secondo '900 italiano, ma, contestazione sessantottesca a parte, come se questi fossero giusto lo sfondo lontano delle vicende private. E' cosa nota, quello del rapporto tra personaggi di invenzione e cornice storica è un problema che ci tiriamo dietro dai tempi de I promessi sposi, e Manzoni l'ha risolto come sappiamo (i tre capitoli storici, ecc. ecc.). Qui, televisivamente parlando, l’aria sovreccitata di quei mesi non sempre è traspirata dalla fiction: il Notte per certi versi sembrava più che altro uno yuppie con la carriera in crisi, il Pastore un giustiziere della notte nostrano, il Bosco un topo di campagna arrivato in città, ma come poteva essere qualunque altro personaggio in qualunque altro contesto storico a prescindere dallo scoppio di Tangentopoli. Ricordiamo tutti, tanto per mischiare il serio e il faceto, che anche un telefilm ottimerrimo e scanzonato come I ragazzi della 3C ha funzionato eccellentemente nelle prime due serie, quando ogni puntata era indissolubilmente legata al contesto anche ambientale della scuola dei protagonisti; la terza serie, con lo stesso titolo e con gli stessi ragazzi, ma all’università, ha perso sin da subito la sua ragion d’essere, e infatti è stata assai deludente. Così 1992 ha dato l’impressione di sfilacciarsi troppo nel privato dei personaggi, blurrando la grandiosa cornice pubblica delle loro vicende. Si dirà che sono equilibrismi difficili, specie se si vuole evitare il semplice resoconto storiografico. Chiaro. Si tratta di dover ovviamente romanzare la vicenda e quindi inserire elementi non immediatamente funzionali alla pura cronaca, sennò tanto basta La storia siamo noi. Epperò qualcosa, nel dosaggio, non ha sempre funzionato.


2) Quanto al messaggio del film, non è vero, si dica quel che si vuole, che manca la tesi nella narrazione, fatta salva la voluta liminarietà di buoni e cattivi. E’ chiaro che l’azione di Leonardo Notte si dipana lungo tutti i dieci episodi, con picchi e fallimenti, per dirci che il baratro di Mani Pulite è stato la precondizione della discesa in campo di Berlusconi, che a colpi di Publitalia predispose la creazione di un soggetto politico nuovo, vendibile come un qualsiasi prodotto di marketing, con l’obiettivo di “salvare il Paese delle banane”, o più probabilmente se stesso e le proprie aziende. Tesi, questa, non nuova, giacché già nel lontano 2001 o giù di lì l’allora vice- ammiraglio de L’Espresso, Antonio Padellaro, in una puntata di Porta a Porta disse chiaro e tondo che non era vero che dal ciclone tangentopolizio aveva tratto vantaggio il PDS, che si era visto squagliare tutti gli avversari e liberare la via verso il governo del Paese, perché il vero avvantaggiato era stato Berlusconi, che aveva riempito il vuoto lasciato dai partiti della Prima Repubblica, approfittandone per costruirsi un soggetto politico atto a ridurre l’Italia a proprio uso e consumo. Ricordo che dal pubblico della trasmissione, tradizionalmente rigido come uno stoccafisso, partirono singulti di sarcasmo, giacché, negli anni in oggetto, si era notato che il PDS, rispetto ad altri partiti, aveva subìto assai meno l’assalto dei PM, e non si trattava di gente più santa di quegli altri, ma lì c’era tutta la querelle sui magistrati rossi che avrebbero “chiuso un occhio” o forse tutti e due, su certi illecitucci delle cooperativucce, per tacere dei finanziamentucci che venivano da Mosca quando i tempi erano più floridi, e comunque la maxitangente Enimont era finita anche nelle casse rosse, insomma, la tesi padellaresca parve ai più un cesellato sofisma per rovesciare una realtà vista in ben altro modo da molti.
Questo nel 2001. E oggi, dopo circa 9 anni di Berlusconi al potere, 20 di berlusconismo come categoria politica da amare o odiare e altrettanti di trionfo delle logiche Mediaset nel tessuto culturale del Paese profondo (dicasi tronisti e talent-show litigiosi ovunque)?
Oggi diciamo che la tesi di 1992 non è inverosimile in via di principio, ma come tutte le tesi è inevitabilmente parziale. Non sappiamo, noi che all’epoca vedemmo il crollo con occhio adolescenziale e con occhio, perché negarlo?, cresciuto a pane e cartoni animati anche Fininvest, non sappiamo, dicevo, quanti davvero si aspettassero non solo il crollo predetto, ma le dimensioni del crollo. Che in Italia la corruzione e il malaffare politico prosperassero off the records era noto a parecchi, e soprattutto negli anni ’80 l’esibizionismo di certi politici, in particolare del PSI, lasciava forti dubbi che quegli stili di vita potessero finanziarsi solo con lo stipendio da parlamentare o da ministro, per tacere dei carrozzoni dei singoli partiti, coi loro uffici centrali e periferici, i responsabili nazionali e locali, i vice-responsabili locali e di quartiere, i sotto-vice delegati, tutta gente che faceva quello di mestiere e non come volontariato o attività extralavorativa.
Molti sapevano. Ma, visto che i partiti agglutinati attorno alla DC erano il baluardo contro LA paura delle paure, ovvero l’invasione sovietica, la guerra atomica ecc. ecc., si lasciò fare.
Però si sapeva. Ma c’era qualcuno che, sbriciolatosi il Muro di Berlino, avrebbe saputo prevedere, nel giro di tre anni, la polverizzazione del vecchio arco costituzionale? E a inchiesta dipietresca appena iniziata, davvero era già chiaro dove si sarebbe andati a parare, con un Dell’Utri subito in pista per cercare nuove sponde cui ancorare un altrimenti condannato impero berlusconiano? Non so. Secondo me, in quei primissimi mesi dell’Apocalisse mancata, nessuno sapeva con chi andare, per quanto e soprattutto per dove, nemmeno a casa Fininvest. O meglio, che tutto il "vecchio" fosse perduto per sempre poteva non essere così immediatamente chiaro da imporre un piano B, specie, fininvestianamente parlando, con Craxi ancora immune da inchieste. Fossimo stati un anno dopo, forse. Nel 1993 Berlusconi aveva certamente le idee più chiare. A febbraio-marzo 1992 no.
Credo insomma, e mi avvio a finire, signori della giuria, che lo scollamento registrato sopra tra personaggi e cornice storica sia figlio di uno scollamento a monte, cioè tra la tesi stessa della fiction e il periodo a cui essa si applica. Fosse stata questa la tesi del sequel promessoci, 1993 se ho capito bene, allora forse tutti i pezzi dell’impalcatura avrebbero finito per quagliare con quello che c’era dentro. La spia di questo disassamento è peraltro, a nostro spocchioso giudizio, proprio in quella sequenza che è diventata un po’ il marchio della serie, o perlomeno della psicologia del suo protagonista principale, Notte. Ne ho accennato prima: per invogliare il cliente a farsi pubblicizzare da Publitalia, il Notte gli mostra uno spezzoncino di ragazze di Non è la Rai che sgallettano e gli fa il famoso discorsino: “Lo vuole sapere un segreto? La gente là fuori è orribile. Non io, non lei. Gli altri. Sognano cose indicibili. Sono tutte magre, bambine, ma sono vestite con gli abiti delle mamme. Quando tornano a casa, vedono le figlie con le amiche che provano i balletti” e altri espliciti accenni a sculacciamenti e brugole.
Ecco. Non voglio fare il filologo a tutti i costi, men che mai di Non è la Rai, che pure tutti noi guardammo con plasticosa voluttà. Epperò bisogna pur dire che, all’epoca dei fatti, primavera 1992, appunto, il programma non era ancora diventato una fabbrica di lolite a getto continuo come poi fu negli anni successivi. Era la prima stagione, il sesto mese di programmazione, le ormoneggianti divette erano tutte gestite dal polso fermo ed esperienziato di Enrica Bonaccorti e di “fenomeno”, come fu poi con il passaggio di Ambra Angiolini alla “conduzione”, non si poteva ancora parlare. Ciò che Notte argomenta, impiegando Non è la Rai come prova a favore della tesi del saggio breve di ambito storico-politico, mi pare troppo in anticipo sui tempi effettivi. Quei bassi istinti erano, all'epoca, più latenti che palesi. Il che non esclude che certi episodici appalesamenti avessero già avuto cospicuo luogo, s'intende. Tuttavia, che già allora Non è la Rai ne fosse il veicolo o l'enzima, non è vero. Del resto, e anche qui la nota filologica è da autentici fissati, le immagini della videocassetta che Notte fa vedere al cliente non si riferiscono né al cast, né alla scenografia, né alle esibizioni tipiche della stagione ’91-’92 (la prima) del programma, giacché anche i sassi che allora guardavano Non è la Rai sanno che Tutta tua era cantata dal maggico duo Carrano-Migliacci, ma nella seconda stagione ('92-'93) (carta canta, ehhhhh???)(eeehhh???)(ma quanto siamo patetici...), quindi il filmato proposto dal Notte non è coerente (per completezza, anche il pezzo di Non è la Rai che la quasi figlia di Notte guarda in camera, con Francesca Gollini che canta Rosso, è del 1993). Ovvio, roba da bloopers. Ma significativa, in questo caso, poiché ribadisce un difetto di fondo della serie, ovvero il gioco troppo anticipatore degli eventi, qui visibile nell’aver mostrato il 1992 non come l’anno del traumatico e inatteso trapasso da un sistema certo a un magma pulviscolare di personaggi e personaggini che cercavano in tutti i modi, dignitosi o molto meno, di fuggire dalla nave che affondava, ma come l’anno di una catastrofe (politica e morale) già completamente emersa e conclusa, sì che già dal primo episodio si ha come l’impressione che Craxi sia pronto ad essere catturato di lì a due giorni, mentre il Notte si abbandona a teoremi immorali legati ad un concetto di televisione e di società che solo allora iniziavano a prendere forma (o perlomeno non l’avevano così definita come lui lascia intendere), mentre per lui pare che tutto si sia già stabilizzato e sia irreversibile. Lo sarà, forse. Ma non in quel momento. Meglio sarebbe stato dirci il disorientamento generale, la fame di giustizia di chi aveva sempre visto e (spesso anche vigliaccamente) taciuto, il rinnovarsi della sindrome di Piazzale Loreto cui noi italiani siamo predisposti, ovvero dare del demonio a chi fino all’altroieri osannavamo bellamente, e che nel 1992 si tradusse nello sfanculamento di politici ritenuti fin lì intoccabili come divinità. La fluidità inquietante di quei mesi orribilmente macchiati dalle stragi di mafia avrebbe concesso terreno più fertile per i personaggi scelti dagli autori. In ogni caso, rispetto alla totale e a volte sconfortante prevedibilità delle fiction Rai, qui siamo su un altro pianeta. La qual cosa, s’intende, non preclude la perfettibilità di qualsiasi prodotto.      

Vabbe', dateci 1993 e se ne riparla. 

venerdì 1 maggio 2015

UGF 03X04: "Ma tanto qui è... pro bene, veh...!"




[Ma la Ferrari che è di Piacenza perché parla come una romagnola?]
[Ma Reggianino puccia i biscotti nel lattino come uno di sei anni?]
[A Inverigo hanno il Liceo Classico dedicato A KANT???? Ah, sì, è la patria della ragion pratica...]
[Si vede che l'egizio lavora da Raoul: corre a perdifiato per tutta la puntata per niente...]
[Stavolta il rientro di Edo ha generato una sequenza meno bradipa dell'altra volta, facciamo progressi...]
[Scherzi a parte, senza Gianni Cavina non è più quella fiction...]


Gradisca Ferrari assassina volutamente il latino allo scoprire che la sorellastra lavora aggratis per difendere le giuste cause dei poveracci, cosa che per lei, cresciuta negli stenti e, pare, in molto altro, e non sempre nettissimo, risulta assolutamente lunare (seguono scambi di battute che portano Laura ad un passo dall'omicidio, ma vabbe'). Sarà allora una nemesi necessaria tentare la sorellastra a lanciarsi nel fantastico mondo delle autoreggenti. Ma non è che l'assaggio: nella puntata di questa settimana gli autori hanno deciso di far impazzire tutto il cast per poi rovinarci addosso la tragedia delle tragedie, così che Casa Vianello diventa d'un colpo Criminal Minds

Fortuna che lo seppellite a mercati chiusi...

1) Crisi Calimero: Reggiani the First cade nelle classiche depressioni a carattere cronico-melancolico, che secondo Areteo di Cappadocia, perlomeno a sentire le tesi di costui, si origina da un sovrappiù di bile nera che sale dagli ipocondri alla testa e devasta l'umore. Sì, Stefano non regge l'addio con Narici Moresche e inizia a manifestare i classici sintomi del male: ha gli incubi, è sempre musone, gira il cappuccino in senso anitorario, non ha voglia di far niente (ma questa cosa pare che gli venga da lontano, l'ultimogenito delle famiglie straricche in genere, si sa...), non mangia, rifiuta il succo di frutta offertogli da Nora, costretta a passare lo straccio perché la domestica è in ferie (particolare apparentemente peregrino, ma in realtà capitale per il prosieguo delle cose). E insomma, Stefano soffre. Raoul, memore di quanto possa la scuola di Hokuto, lo spedisce dallo psicologo che cura i tapini del suo maneggio, ma Stefano dice nonono! Mica sono matto! Ho perso l'amooore della vita e ci sto male. Punto. Salvo poi andare a ri-raccattare la nipotastra zoccola che bigia il primo giorno di scuola e si intrattiene coi soliti tamarri della locanda, ma in riva al lago: sono le dieci del mattino, che si fa? Ti riporto a casa (come qualsiasi quasi-zio avrebbe fatto)? Macché, andiamo ad occupare il tempo con un bel giro in pedalò sul lago. Ah, quanto è erotico il pedalò: ed ecco, proustianamente, tutte le immagini di quando lui e la ex pedaleggiavano allegramente come due turisti tedeschi qualsiasi a Cervia. Flash color seppia. Fitte al cuore. Potenza della memoria involontaria. Basta, retropedaliamo e chiamo il medico dei pazzi. Sono pazzo. Vado dove andavo con lei. Uffa. Tipo quel cavalcavia da passeggiatrici che, insomma... toh, una sfigata come me che piange in auto...


Avevo detto niente salsa di soia, cribbio!!!


2) Crisi Raoul: che poi uno dovrebbe guardarsi in casa. Il bel comunistone di casa Rengoni non s'arrende all'idea che la Ex, avendone mille e un diritto, voglia sparire dalla faccia della Brianza col figlio suo e di lui. Risvegli angosciosi. Dialoghi senza sbocco. Sguardi inferociti dal rancore. E allora, ecco rispolverato un grande classico della melancolia raoulesca, la corsa a cavallo in stile André di Lady Oscar dopo che è passato di lì il conte di Fersen. Via, verso prati lontani a piangersi addosso, e Chiara ad inseguirlo. Il tutto mentre l'egizio trafuga il numero di cellulare della Vale dall'ufficetto e Stefania va dalla rivale per dirle suppergiù: "Ti sei riprodotta almeno tu, e faglielo godere un po'!". Era dai tempi dell'Hecyra di Terenzio che non vedevamo tanto altruismo. E la speranza si infiamma.

"Attendo un evento dismanente" "Quei giorni lì?" "No" 

3) Crisi La Vale: bisogna ben solleticare l'ampia platea bimbominkika della fiction (?), ed ecco la Vale, ormai cotta d'Egitto, abbandona la classe in gita e da Roma e torna in Brianza. Come no. Cioè, detto che, come è noto, i bimbominkia sono talmente ripiegati sulla propria emotività da non avere altra scala di valori che non siano i propri istinti, che ciò si trasformi in un atto di indisciplina da pazzi, roba da far invecchiare di 70 anni in una notte sola i docenti per culpa in vigilando, è forse un pochino troppo. Non è inverosimile. E' semplicemente troppo. Ma si sa, bisogna preparare il terreno alla catastrofe finale, quindi... ["che bello che sei sempre sincera con me", si sbriciucchia Chiara... se vabbe'. E il nerd che piange...]


Leonard Nimoy chi? 

4) Crisi Casa Vianello gender: cosa accadrebbe se si girassero I Cesaroni in salsa "famiglia aperta con fratelli acquisiti di chiastica omosessualità"? Ecco la risposta: Reggiani the Second scopre che la sorella lesbica d'importo è più crudele di Tisifone con Pegasus, gli sposta tutte le masserizie da una camera all'altra, lo percula per scarsa iniziativa col vicino di pianerottolo. Un demonio. Ad un passo dalla fuga da casa e ciao alle colazioni di famiglia "con quella là". 

Se io volessi, gli One Direction qui, subito!!
Roarrrr...maschiaccio...!

Però però... c'è del vero in almeno una delle eccezioni di principio della sorellastra: ci vuoi provare con Mattia o no? Ecco, Reggianino vorrebbe, ma siccome quello che impersonava prima Niccolò (Luca Peracino, che scopriamo da Wikipedia essere attore comico... ah, questo spiega tutto...) aveva preso una tranvata extralong dal pitturista, vorrebbe andarci piano, pianissimo. Ed ecco che entra in scena, per un commovente canto del cigno, il Capofamiglia, che spiega a Niccolò che, a 22 anni suonati, DEVE vivere, uscire, AVERE UNA RELAZIONE. "Incontra un ragazzo e innamorati, io ti voglio vedere fidanzato!", bum!!! Roba da far infartare la povera Laura. E così colui che abitò ai tempi nella casa delle finestre che ridono (a quanto pare ben più sicura di Casa Rengoni...) si atteggia a liberal mille volte più della figlia. Gli pioveranno addosso comete?
E insomma Reggianino va in piscina, fa la nuotatina, si fodera di amianto il costumino e "Ciao, Mattia!!!!", il quale Mattia arriva tutto zompettante a bordovasca, "Ciao, non ti avevo visto!!" (grazie, era in acqua), ma giusto quando Niccolò è pronto al Grande Approccio, spunta una lei al fianco di Mattia e pluf, giù in acqua. E Niccolò abbandona l'arena (che poi salterà fuori che questa qui è la cugina o la sorella del Mattia, minimo...).  

4) Ciao, Ernesto, uillmìssiu: no, niente comete, più umanamente i ladri in casa, e forse c'entra l'avanzo di galera ex di Gradisca, che in una furiosa colluttazione a colpi di frutta candita aveva rubato le chiavi e lo schiaccino di Casa Rengoni alla ex. Chissà, sarebbe pure troppo. Certo che nella serata al ristorante del maneggio (menù vegan, pare di capire dalle foto) il povero Capofamiglia aveva preso una bella serie di pesci in faccia dai figli, ostili all'adozione di Gradisca e al riassetto azionario della fabbrica ormai prossima alla cessione. E qui il grande tema Buddenbrookiano dei figli che non sanno o non vogliono proseguire l'attività paterna. Setticemia in arrivo? No, ma l'unica pifferi di sera che non c'è la servitù in casa, ecco la devastazione a Casa Rengoni, un tempo più impenetrabile del Castello di Grayskull, oggi più violabile di un crescenzino. E il povero Ernesto schiatta, a distanza di circa tre ore dall'infortunio, nel modo più inglorioso possibile, ovvero per un colpo di ciabatta alla base del collo.

Forse perché della fatal quiete...

Ma era da tutto l'episodio che Ernesto sentiva la fine del ciclo. E voleva vendere la fabbrica alla multinazionale che gli avrebbe statccato un assegno pari al PIL semestrale del Bahrein... Eh, ma i treni passano... 
Funerale sobrio, ma ecco all'orizzonte riappare EdoGassmann (seguiamo i suoi desiderata e mettiamo la doppia enne a fine cognome), e subito la Rengoni perde due terzi del proprio valore. Ad averla venduta prima...