Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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martedì 28 maggio 2019

Senecana (4): tutto si tiene, in salute e malattia.

Certo, se corpo e anima sono costituiti dalla stessa materia, è facile che si influenzino a vicenda. 
Già i filosofi stoici parlavano di disturbi solo fisici, solo psichici, fisici a ricaduta psichica, psichici a ricaduta fisica.
Immaginiamo che due dei quattro umori che albergano nel nostro corpo (la bile nera e la bile gialla) si infiammino: verosimilmente, il pneuma coibente, scorrendo nelle zone del corpo dove tali umori sono presenti, prenderebbe su di sé le loro pericolose alterazioni, ma farebbe qualcosa di più del solito. Facoltà delle due bili è quella infatti di far ammalare non solo il corpo, ma anche l'anima: esse riescono infatti a provocare un'anomalia nel pneuma che gonfia la psiche e allo stesso tempo la abbatte mostruosamente dopo averla gonfiata (o viceversa). Si verificano dunque due disturbi opposti eppure interconnessi, la mania (causata dalla bile gialla) e la melancolia (causata dalla bile nera), dicasi una pazzia furiosa e una depressione rabbiosa. Il maniaco ride, corre senza controllo, è violento, è colpito da allucinazioni di fuoco, il melancolico sfugge dagli uomini, non dorme, non mangia, piange e grida senza un motivo, è colpito da allucinazioni pallide.
Non sfugga che l'interpretazione pneumatica di queste malattie apre a scenari di impressionante modernità: se già risulta agevole per questi medici spiegare i disturbi psico-somatici come semplice passaggio di un male dal pneuma-corpo al pneuma-anima, nessuno stupore che essi giustifichino allo stesso modo anche il processo inverso. Come negare la possibilità che sia l'anima ad ammalarsi per prima e di conseguenza influenzare il corpo? Un forte accesso d'ira, un amore deluso, un lutto, qualsiasi evento negativo insomma si imprime sull'anima e la abbatte o al contrario la accende e tale alterazione, nuovamente, si trasmette al pneuma coibente che traduce in sintomi fisici il malessere psichico. Ecco pertanto descritte due malattie ad eziologia biunivoca, nel senso che il loro tragitto può indifferentemente partire dal corpo o dall'anima e interessare l'altro elemento. 
C'è altro, tuttavia: bile gialla e bile nera si possono infiammare, ma soprattutto possono influenzarsi a vicenda, per il semplice motivo che la bile gialla è costituita dalle qualità del caldo e del secco, quella nera dalle qualità del secco e del freddo. Il secco dunque accomuna questi due umori, la secchezza eccessiva può affliggere il pneuma sulla scorta di un doppia anomalia, sì che ci vuol poco a che il pneuma si squilibri prima nel senso del caldo e poi in quello del freddo, come se i due tipi di bile in un certo senso si contendessero la possibilità di far ammalare la nostra energia aggregante. Pertanto, è facile che chi viene afflitto da mania prima o dopo manifesti i sintomi opposti della melancolia, così come il melancolico può passare di colpo dalla depressione all'euforia folle. Parliamo in questo caso di disturbo bipolare. 
Quando però la giusta misura si sbalestra, nulla è più sotto il controllo del malato: si può partire melancolici, avere accessi di mania e ritornare melancolici; si può al contrario essere sconvolti dalla mania, cadere nella melancolia e di nuovo riaccendersi di furore. Non si può quindi parlare di mero disturbo bipolare, ma addirittura ciclotimico.    
Biunivocità bipolare ciclotimica: quale psichiatra avrebbe da ridire? 

lunedì 27 maggio 2019

Post-humanism Q&A: una ciliegia tira l'altra (1).

Il nostro ameno post sui nostri ameni dubbi sull'altrettanto ameno post-umanesimo mi ha garantito l'accensione di un ameno dibattito che merita qui ulteriore, spocchioso, approfondimento.



Q: Eligio, quindi tu difendi a spada tratta la lezione frontale nell'anno di grazia 2019 e rifiuti a priori qualsiasi novità didattica?
A: Certamente no. Mi fa paura semmai il nuovo a tutti costi quando il presupposto è che tutta la didattica anteriore alle novità degli ultimi anni viene liquidata come 'vecchia', 'fallimentare', 'inadatta ai nuovi stili cognitivi dei ragazzi'. E' chiaro che poco o nulla mi costerebbe buttare a mare la didattica come è stata erogata a me da studente e rinnovarla da capo a pie'. Secoli fa ci dissero che, come futuri docenti, non potevamo pretendere che, siccome noi avevamo studiato in un certo modo, allo stesso modo avremmo fatto studiare i nostri alunni. Certo certo. Quello che tuttavia mi rende difficile questa rivoluzione totale non è sciocco narcisismo, come se la lezione frontale fosse il palcoscenico imprescindibile per nutrire il mio Ego; mi dà enorme fastidio, semmai, il ritornello ormai vieto & vetusto secondo cui è SOPRATTUTTO il vecchiume didattico che noi sciocchi docenti poco evoluti abbiamo ammannito in questi anni ad aver causato la crisi lavorativa del Paese. I giovani non trovano lavoro? Certo, a scuola non gli hanno insegnato  'a saper fare',  ma li hanno inzeppati di nozioni inutili. Ora, a parte che non si capisce la pretesa che fin dal liceo (perché siamo noi del liceo a finire nel mirino) la scuola professionalizzi, ma vabbe', chi ci accusa dimentica che ben altri sono i problemi del mondo del lavoro in questo Paese: il familismo amorale, la ricerca assidua della raccomandazione, il merito scavalcato dalle conoscenze, i contratti a progetto umilianti e, ovviamente, i 'cercasi apprendista con esperienza'. Casomai. Ricordate che la scuola plasma i futuri membri della società, ma se la società 'là fuori' smentisce regolarmente a suon di episodi corruttivi ed esaltazione dell'imbecille di successo quanto noi si tenta invano di inculcare (spirito di sacrificio, serietà, impegno, accettazione dell'insuccesso, duttilità intellettuale, spirito critico - QUESTE sono le competenze di livello AAA+++, le altre a seguire) allora poi è inutile lamentarsi con noi. Si smetta dunque di demonizzare la didattica 'tradizionale' come fucina di ogni fallimento delle generazioni di questo Paese e allora si potrà sperimentare qualsiasi cosa. Con un'avvertenza: 'nuovo' non è automaticamente 'meglio'.



Q: Eligio, ma non sarebbe il caso di aggiornare la didattica in funzione delle nuove strutture neuronali che i nativi digitali stanno sviluppando?  
A: Non sono io a dirlo, ma sono eminenti capoccioni da me personalmente auditi or qui or là a dire che i computer che noi abbiamo creato sono multitasking, il cervello umano no. La nuova didattica, quindi, può pure servirsi copiosamente delle tecnologie digitali come immensi database di risorse e link tra gli infiniti settori del sapere; e sì, ci sarà sicuramente chi trarrà vantaggio dall'organizzare i proprio contenuti di studio avvalendosi ANCHE degli strumenti informatici. Ma si badi, parliamo sempre di metodologie, che in quanto tali sono assolutamente soggettive: se una piccola o grande fetta di studenti impara meglio 'alla vecchia', dovremo penalizzare costoro per inseguire lo stile cognitivo degli altri? E poi: esistono dati CERTI che le nuove metodologie fanno SEMPRE imparare meglio delle vecchie, dove per 'sempre' intendo che chi studia alla vecchia diventa poi un cittadino/lavoratore meno di successo degli altri? Perché alla fine questo dobbiamo ricordarci: non  si tratta di rendere più o meno 'divertente' l'apprendimento rispetto al passato, e certo nessuno di noi rimpiange la scuola anni '50 con i suoi ritmi da accademia prussiana; nondimeno, divertente o no, lo studio deve formare i cittadini di domani, non coccolare gli adolescenti di oggi. Pertanto, a fronte di ogni pretesa facilità di immagazzinamento e organizzazione delle nozioni decantate dalle nuove metodologie, ciò a cui bisogna badare è la persistenza degli apprendimenti. Non accetterei mai una metodologia che, favorendo la rapidità dell'apprendimento di una nozione (e relativa competenza), ne causasse l'altrettanto rapido oblio (con relativa in-competenza). Si ricordi che oggi le pretese abilità multitasking favorite dalla tecnologia deriverebbero in gran parte dall'interazione del singolo studente col mondo virtuale di internet, il che vuol dire per il 90% con l'universo usa e getta dei social network. Stiamo ben attenti a non trasformare le nuove piattaforme didattiche in un magazzino di cosucce utili al momento e dimenticate subito dopo: per quello c'è già Instagram. 
                                                                                                                          
(1 - continua)



martedì 21 maggio 2019

Senecana (3): tutto è pneuma

Dice il saggio stoico: "La realtà è un tutto materiale animato da un unico principio, il pneuma, che si configura come una corrente tonica di fuoco e aria che può assumere anche la consistenza della terra e dell'acqua. Dal pneuma derivano tutte le cose semplici e complesse, dal pneuma si dirama la tensione strutturale che tiene coese tutte le cose e le orienta verso la pienezza della propria funzione nel piano universale. Ogni causa produce un preciso effetto, e il senso finale del Tutto è nel suo stesso funzionamento. Non esiste un Altrove metafisico dove la realtà materiale possa tendere, forse ci sarà alla fine dei tempi - di QUESTI tempi - una gigantesca deflagrazione dopo la quale tutto ricomincerà daccapo. In ogni caso Dio - se così vogliamo chiamare il pneuma - abita nello stesso universo che ha creato, lo permea fino nelle più profonde fibre e lo fa funzionare. Qui e ora".
Certo, un conto sono le creature inanimate, pura materia senza altro obbligo che essere ciò che sono, senza evoluzione, senza coscienza: per esse il pneuma agisce unicamente come fattore (o causa) coibente, garantendo la semplice coesione strutturale degli oggetti.
Altro sono le creature viventi, nelle quali scorre il pneuma vitale, responsabile della crescita, del movimento, del nutrimento, della riproduzione, di tutto ciò insomma che contempli un processo evolutivo fintantoché il pneuma coibente garantisce la tenuta strutturale del corpo animato. 
Ed infine gli esseri umani, dotati del terzo livello del pneuma, quello psichico, strettamente connesso con gli altri due: ogni evento esterno non produce solo sensazioni che passano direttamente dal corpo all'anima (essendo corpo e anima- lo si tenga sempre presente - due aspetti della medesima sostanza), ma anche processi mentali, ovviamente razionali, che coinvolgono la capacità di giudizio, ovvero la possibilità di giudicare gli eventi dell'esperienza (materiale o spirituale) come beni assoluti, o semplicemente da preferire, o come fenomeni rispetto ai quali restare indifferenti, oppure come cose da evitare. In teoria, comunque, anche le cose da evitare non dovrebbero propriamente considerarsi come qualcosa di male in sé, perché un universo così razionalmente regolato non dovrebbe ammettere, a rigore, il male. Diciamo che, nella miriade di stimoli che il mondo offre all'uomo, alcuni andrebbero evitati per non venire distolti dal luminoso cammino che conduce alla virtù spirituale, unico obiettivo che rende la vita dell'uomo pienamente sensata. La virtù altro non è che perfetta sintonia tra il pneuma psichico individuale e quello universale, sintonia che si realizza nella condotta razionale basata a sua volta sulla comprensione dell'esistenza di un ordine intrinseco al reale e sul domino delle passioni, ovvero delle distonie pneumatiche che si verificano qualora la reazione agli eventi esterni non sia conforme a ragione per difetto di giudizio.   
Si comprende che il problema etico apre una voragine immane nel sistema stoico, poiché l'esperienza quotidiana ci dimostra che proprio noi umani, creature razionali per eccellenza, abbiamo la facoltà (o la debolezza) di assumere comportamenti contrari alla ragione e di dare al male, di per sé non consistente, la consistenza delle nostre azioni errate.  
Non meno provocante (o provocatorio) per questi pensatori era il problema della malattia del corpo: un conto, si capisce, è il 'razionale' invecchiamento fisico, molto più inquietanti sono le molteplici possibilità che un corpo anche giovane malfunzioni secondo le più varie occorrenze: febbri, dolori ai singoli organi interni, fratture, lacerazioni di ogni tipo mettevano sotto gli occhi dei filosofi-medici la realtà di un corpo sempre minacciato di disgregarsi.
Come spiegare in prospettiva stoica tutto ciò? Ripartendo, evidentemente, dai tre livelli del pneuma: un corpo umano è tenuto insieme dal pneuma coibente, si sviluppa grazie a quello vitale, desidera, ama, odia, gioisce, si rattrista per effetto di quello psichico. E' chiaro che, se di un'unica sostanza si tratta, il concetto di malattia per questi medici-filosofi è omnicomprensivo: a fianco di disturbi solo fisici o solo psichici, sarà inevitabile aspettarsi disturbi che, pur nascendo nel corpo o nell'anima, vadano poi ad estendersi dal corpo all'anima e viceversa. Parlando di due aspetti di una medesima sostanza, infatti, l'influenza reciproca è del tutto scontata. Si capisce che, affinché il transito di un disturbo dall'area fisica a quella psichica o viceversa si realizzi, è necessario comunque un elemento vettore che possa permeare tanto la solidità del corpo quanto la leggerezza dell'anima. Visto tutto quanto sin qui detto, questo ruolo veicolare spetta di necessità al pneuma coibente, responsabile della tenuta integrale e complessiva del nostro essere. E' l'energia pneumatica, scorrendo nelle ossa, nei nervi, nelle cartilagini, nelle arterie, a farci restare sani o a farci ammalare, benché la causa remota della malattia non dipenda da essa.
Qui di sicuro la medicina stoica (o pneumatica), pur germogliando da quella ippocratica, si esibisce in una svolta assai interessante: se un evento esterno, come potrebbe essere un colpo di sole (che chiameremo causa procatartica) o l'anomalia di uno dei nostri organi interni (un'infiammazione, ad esempio, che chiameremo causa antecedente) ci interessano in modo significativo, congiuntamente o disgiuntamente, potremo dirci ammalati solo se l'infiammazione, ovvero il riscaldamento eccessivo, si trasmetterà dalla singola parte del corpo a tutto il resto, complice il flusso pneumatico coibente in grado di portare ovunque lo squilibrio nel senso del caldo, essendosi evidentemente squilibrato a sua volta a causa del contatto, nel transito, con la parte infiammata. Solo quando il pneuma coibente ha compiuto il suo periplo in tutte le più minute zone del nostro corpo possiamo dirci ammalati, per esempio di febbre.  
E l'anima?

                                                                                                                                      (3- continua)

domenica 19 maggio 2019

A proposito del post-umanesimo: un parere (forzatamente) di parte

Se c'è una cosa vantaggiosa del lavorare nella scuola è il fatto di intercettare all'istante il mutare delle brezzoline del sistema socio-culturale in cui ci tocca esistere. E' noto che le richieste che ci giungono insistentemente 'da fuori', specie a noi dell'ambito umanistico, consistono sostanzialmente in uno svecchiamento della didattica frontale a favore di metodologie più coinvolgenti, meno professor-centriche, sì da mettere sotto i riflettori LORO, gli alunni, veri & autentici protagonisti dell'azione didattica, nel senso che da fruitori passivi devono diventare creatori di apprendimenti, motori di ricerca & sviluppo, piccoli robottini del problem solving a cui si chiede, usciti da scuola, di sapere e saper fare ecc. ecc. ecc. 
S'intende che l'idolo polemico di quest'impostazione ha un nome che brilla sinistro nei deserti assolati: nozionismo. Declinato, si capisce, nella fattispecie dei terribili ed insopportabili contenuti, da sostituirsi entro breve con le più agili e spendibili competenze.
Il discorso sarebbe lungo né mi interessa protrarlo: il nocciolo (o mandorlo) della nouvelle théorie sposta il focus dell'azione educativa dal mero rimpinzamento di conoscenze astratte alla loro traduzione pratica, nel senso che si possono inculcare meno conoscenze, ma renderle più produttive se le si pensa sin da subito come destinate ad un qualche impiego nella realtà quotidiana. Prima di chiedersi come mai si possa spendere la spiegazione di Beatrice circa l'origine delle macchie lunari in Paradiso II e abbandonarsi a quelli che i competentisti bollerebbero subito come piagnistei da anime belle nostalgicamente legate ad un passato di scuola- caserma, scioccamente innamorati di un umanesimo superato dal tempo, scartiamo subito in avanti e prendiamo il problema dall'altra parte, come fece Scipione l'Africano quando spostò la seconda guerra punica a casa del nemico.
Sappiamo bene che in molte altre parti del mondo il problema educativo è già morto e sepolto proprio sotto la montagnola delle competenze: università straniere che sfornano ottimi studenti-manager abilissimi nella loro nicchia benché del tutto sprovvisti della visione generale ('filosofica') delle cose, che del resto nessuno chiede loro, diventeranno probabilmente un modello diffuso ai quattro angoli del globo terracqueo. Il verbo del saper fare-saper essere prenderà la forma definitiva del saper funzionare.   
Lascio perdere la questione di come si possa competere ampiamente senza ampiamente conoscere, perché sennò quelli là mi ritirano fuori i millemila esempi di gente ignorante bovino more che 'ha fatto strada' perché sapeva poco 'ma sapeva come muoversi'. E sia. Forse schiatteremo prima che tuttoavvenga. O forse assisteremo per intero al grande trapasso verso il post-umanesimo, tappa a quanto pare inevitabile dell'antropocene avanzato. Del resto i pesci sono diventati rettili e i rettili uccelli: perché dunque temere l'avvento del post-uomo, bravissimo a rispondere agli stimoli concreti della realtà empirica e risolvere ogni questione pratica con l'ausilio, più che di un pesante bagaglio di conoscenze, di una duttile cassettina di competenze? Sarà un essere genuinamente multi-tasking, inventore di macchine cibernetiche che a sua volta tenterà di cibernetizzarsi il più possibile, con una svolta ontologica che farebbe impallidire gli scrittori della Bibbia: il Creatore che si assimila alla Creatura. Altro che incarnazione.
Bene anche questo. Procediamo oltre, dunque: secondo me e la mia Spocchia l'unica cosa che rimane in dubbio circa il post-uomo sarà appunto la coscienza del post, o meglio se il post-uomo vorrà o potrà mantenere questa coscienza senza conseguenze.
Detto in breve: nessun uccello ricorda di aver avuto antenati rettili, nessun rettile ricorda di aver avuto antenati pesci. Quando però toccherà ai post-uomini misurare la distanza tra se sé e noi che li abbiamo preceduti, come si comporteranno? Noi, ai loro occhi, appariremo forse come una genìa bizzarra che non si accontentava dell'hic et nunc, ma si ostinava a cercare un senso più ampio al di sopra delle singole fattualità empiriche. Loro di sé stessi potranno dire di aver immolato l'umanesimo e i suoi tormenti sull'altare della produttività e del problem solving che tutto nobilita. Del resto, diranno i post-uomini, secoli e secoli di umanesimo non hanno fatto altro che porre domande sul reale a cui si sono date le risposte più ampie e tra loro contraddittorie; l'umanesimo, anzi, parrà a costoro un'inutile zavorra che ha ritardato a suon di sofismi il luminoso progresso dell'uomo cibernetico. Né del resto si ricorda alcun effetto dell'umanesimo nel prevenire le guerre più catastrofiche che hanno funestato la nostra storia. Si pensi a quante utopie/distopie su questo tema popolano da mo' i circuiti culturali popolari: un esempio su tutti, relativamente recente, è Il mondo di Jonas, ambientato in un futuro appunto post-umano nel quale la civiltà ha anestetizzato se stessa dalle memorie del passato per consegnarsi ad un super-tecnologico e programmatissimo presente perpetuo, datosi poi che nessuno lì dentro muore ma molto eufemisticamente si congeda. Solo a pochi è assegnato il compito di mantenere i ricordi del tempo che fu, non per diffonderli ma per circoscriverli, quasi tenendoli a bada come un fratellastro di Luigi XIV qualsiasi. Eccetera eccetera.
I post-uomini sono dunque già all'opera dietro le apparentemente innocue didattiche rovesciate, le piattaforme clicca-e-impara come Thingling o Edmodo o clicca-gioca-e-impara come Kahoot? La riduzione a pillolina effervescente da sciogliersi secondo necessità delle nozioni più alte che hanno - secondo noi- contribuito a plasmare lo spirito umano e permesso le sue più alte conquiste, benché mai immuni da tragici risvolti, è solo l'antipasto di una civiltà in cui l'UNICA materia oggetto di studio sarà il coding? Forse esageriamo, forse no. Ma per stavolta ci limiteremo a guardare gli eventi immaginandone lo sviluppo come ineluttabile. E cosa vediamo?
Ecco, se c'è una cosa che il post-uomo, per mandare ad effetto tutte le nuove strategie educative di cui sopra, dovrà dimenticare, essa va oltre la semplice ricerca del senso ulteriore delle cose: quello sarà già compromesso (o - nella loro prospettiva - felicemente estirpato) dall'ossessione di far quadrare i conti con le proprie 'istruzioni operative' giorno per giorno, così pervasive da impedire la creazione di 'spazi di rilascio' in cui la mente possa vagare per un momento al di là dell'attimo per guardare nel suo insieme la serie degli attimi e interrogarsi sul suo verso, se  non addirittura sul suo senso. Credo che il prezzo del transito al post-uomo sarà più costoso, ma paradossalmente meno doloroso: la perdita della coscienza dell'essere.
Si badi: se le grandi domande di senso si possono ridurre sostanzialmente a "chi sono?", "perché sono qui?", "cosa sarà di me?", non ci vuole molta scienza a raccogliere a fattor comune il verbo essere e constatare che c'è un'unica condizione su cui l'uomo, anche il più tecnologico, non può intervenire, ovvero quella di venire al mondo, o se si preferisce di venire all'essere. Tutte le domande, infatti, presuppongono un esistere che è già in atto, e che ovviamente colui che esiste non ha potuto decidere, ma solo subire. Il traguardo più alto del post-uomo sarebbe ovviamente la frantumazione dell'unico limite invalicabile in questa prospettiva, ovvero poter decidere di esistere o non esistere PRIMA che il processo riproduttivo si attivi. Ma nemmeno il post-uomo arriverà a tanto, perché ciò che ancora non c'è non ha alcuna facoltà di autodeterminarsi
Ora, in una società in cui all'uomo cibernetico sarà concesso tutto, qualcosa scatterà - forse - nelle anime dei post-uomini come forma ipercompensativa: costretti solamente a funzionare, rinunciando quindi a chiedersi il senso del proprio agire, affinché quest'ansia inconscia (coraggio, figlioli, non illudetevi: quel solletichino di grigio che ogni tanto vi prende anche quando tutto vi sembra perfetto è esattamente quella cosa lì...) non li consumi segretamente per poi deflagrare quando meno la si aspetti, dovranno semplicemente dimenticarsi di essere, anche se è esattamente questa coscienza che sin qui ci ha condotti al vertice degli esseri viventi. Un essere vivente funzionante ma inconsapevole di funzionare (quindi di essere) è l'unica condizione in grado di eliminare ciò che nessuna speculazione umanistica o post-umanistica (se di ossimoro non si tratta) potrà mai mappare: non, si badi, il mistero dei destini ultimi dell'essere, né tantomeno quello dell'origine dell'essere, ma l'indisponibilità del proprio essere da parte dei singoli esseri; incapaci di decidere di venire al mondo, sottratti all'esistenza per non controllabile (suicidio escluso, ma anche lì uno non si può suicidare prima di essere) arresto delle funzioni vitali, i post-uomini non troverebbero nemmeno consolazione nella vita biologica ininterrotta promessa dal trans-umanesimo: essa, nuovamente, risolverebbe il poi ma non il prima (fingiamo ovviamente che una vita biologica resa eterna dalla tecnica non porti con sé criticità). Ecco perché la perdita della coscienza sarebbe la soluzione definitiva, prezzo alto ma necessario dell'evoluzione. Con conseguenze sulla civiltà e sul mondo impossibili da delineare.
Dice: parlavamo di flipped classroom e siamo arrivati ai cancelli dell'Essere? Certamente: questo passaggio graduale dal piccolissimo al grandissimo è la specialità dell'umanesimo, ciò che ha aperto alla civiltà le vie a quella scienza che ora sembrerebbe voler soppiantare proprio l'umanesimo dalla cui forma mentis essa è germogliata.
Paradossale, no? (certo che no: gli uccelli si nutrono di pesce...)


domenica 12 maggio 2019

Visti per voi: Il campione (L. D'Agostini)

Dopo la fiabesca incursione nel mito pre-romano di Roma stessa, Matteo Rovere decide di produrre un film per dimostrare che esiste un solo genere più incredibile del mito: la fantascienza, declinata per l'occasione nella storia di un calciatorino ventenne viziato e superpagato che decide di mandare a picco la carriera per prendere il diploma, in ciò convinto da un professore di lettere assoldato per dargli ripetizioni private che riuscirà a fargli passare la spocchia e ricondurlo sulla via della responsabilità. Al confronto Avengers è una novella di Maupassant.
Gli osservatori più attenti hanno scomodato paralleli audaci, come Will Hunting- Genio ribelle o Scialla!, ma io non disdegnerei L'uomo senza volto per il tema del docente di ripetizioni dal passato sfigatissimo e Il discorso del re per il tema dell'insegnante lanciato nell'impresa disperata con l'alunno altamente non malleabile, ma pure da non disdegnare sono Jerry McGuire e naturalmente Cars. Dopodiché, applicando alla casareccia le funzioni di Propp, la scansione della storia è quanto di più classico (all'americana proprio) ci si possa aspettare:
a: situazione iniziale: c'è un ribelle da rieducare e chiamano il salvatore della patria.
b: prime ribellioni: il ribelle vuol rimanere tale.
c: conversione inaspettata: il maestro trova la strategia didattica per far sì che il ribelle impari e tutto inizia ad andare sul verso giusto.
d: complicazioni proprio sul più bello: il ribelle scopre cose brutte brutte sul padre e ricomincia a sbroccare, congedando a parolacce il maestro.
e: resurrezione finale. 
Sul messaggio complessivo del film, essendo io insegnante e avendo avuto a che fare con calciatori di belle speranze (rimaste purtroppo tali), avrei parecchio da dire. Ma prima un bel non-riassunto. Ricordate che siamo in piena sci-fi.

Siamo nel lontano pianeta di Trigoria, dove il sovrano locale, magistralmente interpretato dal solito grande Popolizio (l'unico veneziano che riesce a fare il romano incazzoso), custodisce in un'improbabile bacheca strani trofei vinti da una certa squadra di calcio chiamata (pare) A.S. Roma (dove A.S. sta per Aspetta e Spera): 9 coppe Italia (contro le 13 della Juve muhahahaha), due supercoppe italiane (contro le 8 della Juve muahahahaha), una Coppa delle Fiere (vabbe', non infieriamo), tre  scudetti (contro i 35 della Juve muahahahahaha), omettendo, tapino, di documentare le innumerevoli figuracce in Champions League e soprattutto L'UNICA finale persa (contro le sette della Juve, muahahahaha... ah no...).
Orbene, alla corte del Sovrano arriva un calciatore peruviano, stanco di suonare col flauto il jingle del Nescafé, che appena entra nell'atmosfera del pianeta impara subito l'accento locale.



Christian Ferro (per gli amici CR 24) è stato in realtà ottenuto per fusione dei gameti di Cassano, Balotelli e Donnarumma, ereditando dal primo l'irresistibile propensione a compiere idiozie, dal secondo l'indisciplina, dal terzo l'allergia alla scuola. Accortisi dell'errorino in fase di montaggio genomico, il Sovrano e la Segretaria decidono quindi di affidare il pischello alle sapienti arti insegnantizie di un misurato Stefano Accorsi, calato alla perfezione nella parte del docente plurisfigato MA in grado di capire che il problema di rendimento del giovine si deve ad un elemento sfuggito a GENERAZIONI di docenti: il metodo di studio. Non meno sconvolgente è la soluzione al problema: organizzare le nozioni secondo (udite udite) SCHEMI con quadratini e freccette.



Si avvia così un reciproco avvicinamento di posizioni che porta a elegiaci momenti di condivisioni di sfighe pregresse, giusto per farci capire che anche dietro un ventenne straricco per meriti pedatori può celarsi un passato infelice; quanto alle disgrazie dell'Accorsi, siamo in orbita Susanna Tamaro.
Non meno evocativa è la corte dei miracoli che ruota attorno a Christian: padre scialacquatore, agente tuttofare trentenne bimbominkia, amici parassiti, fidanzata influencer che va in deliquio orgasmico per il raggiungimento dei 500k follower(s) e, per compensazione, ex amichetta delle elementari pura e cara che rappresenta un po' la Beatrice in mezzo a tante Angeliche.
In effetti, prevedibilità assoluta della trama a parte, la cifra stilistica del film è di tipo polizianesco, ovvero la tecnica del pochino di tutto, un raffinato gioco di tessere che citano senza approfondire, ma spingono il fruitore a cogliere accenni plurimi che poi deve arrangiarsi a sviluppare. Cristian ha perso la mamma sei anni prima per un brutto male (ma la cosa scivola via), Accorsi ha perso il figlio piccolo (ma la cosa scivola via), Cristian fatica ad apprendere anche perché è un pochino dislessico (non tutto, un pochino: mi chiedo i non addetti ai lavori che idea si siano fatti della dislessia...), la Beatricetta roscia è ovviamente la brava fanciulla intelligente ma poverella che tenta la strada di Medicina (e mettiamola lì), alla cena romantica i due finiscono in un ristorante nouvelle cuisine perculato con lepidezza (adieu, Craccò) per poi sfogarsi con un paninazzo del chioschetto (e mettiamola lì); il professore sfigato, che OVVIAMENTE guida la Fiat Multipla, cioè il correlativo oggettivo più concreto della tristezza umana, riceve dal calciatorino l'omaggio di guidare la Lambo e la spara a millemila all'ora verso il sottopasso... ma non accade nulla, cambio scena.
Eccetera eccetera.



La super crisi finale che porta alla catarsi esaminantizia, pur in presenza di un copioso contratto col Chelsea, chiude con luminoso idealismo una trama che, per l'esperienza che ho io del fenomeno, è poco poco lisergica.
Mi spiego: ho avuto a che fare con almeno 5 studenti calciatori che, alle falde dell'adolescenza, sembravano (o li avevano convinti di essere) lanciati verso orbite che si sarebbero concluse con l'approdo, minimo, sulle poltrone Frau della panchina del Bernabeu. Premetto per correttezza intellettuale-sociologica che nessuno dei suddetti 5 ha mai avuto nei confronti del sottoscritto atteggiamenti del tipo: "Io con un mese di stipendio prendo quanto Lei in un anno" o boiate simili.
Semmai, in un caso, il problema erano le astronomiche aspettative dei genitori che erano davvero convinti di avere un fenomeno in casa, e naturalmente i cattivi eravamo noi che osavamo dare insufficienze in latino. In un altro caso credo che nemmeno il diretto interessato credesse di poter aspirare a chissaché, ma intanto ci provava. C'è chi ha mantenuto aspirazioni, ma nel frattempo ha provveduto a iniziare l'università. Uno solo era arrivato davvero vicino vicino all'Empireo, ma una (a mio parere) sciagurata preparazione fisica da rinoceronte applicata su un fisico, diciamo, esilino, ha provocato una serie di disastri a catena che hanno fatto catafrangere irreparabilmente l'ascesa (due soldini li avrà messi via, suppongo, ma ovviamente sono briciole rispetto a Crsitianferro). Alla fine, tutti costoro, tranne forse uno che ha mollato del tutto, adesso transitano nelle serie inferiori.



Si comprende che, nessuno di costoro essendo arrivato ai livelli da serie A prima squadra di Cristianferro, i paragoni valgono poco, nel senso che gli atteggiamenti da piccolo principe di quello là loro non potevano certo permetterseli. La lisergia della trama quindi dove sta? Nel fatto che il caso di Cristianferro è un tertium non datur: o abbiamo "piccoli Pirlo crescono" che veramente se ne strasbattono della scuola e prendono la maturità con la sciolina, ma non buttano certo via i contratti stellari, oppure i miei ex studenti che, finita l'ubriacatura dei 17 anni, già a 18-19 capiscono che non era cosa e più o meno realisticamente si adattano. Basta. E' vero che nel film non si può capire cosa farà Cristianferro dopo la maturità, se abbia buttato ai rovi la carriera o si sia lasciata aperta qualche occasione, ma il finale di viziofighetteria redenta è pura utopia.
Ora, sulle colpe, enormi, di genitori e società nel gonfiare la fantasia dei calciatorini adolescenti già dissimo a suo tempo quiqui. Semmai verrebbe qui da chiedersi se, vista la situazione moribonda del nostro calcio a livello di competitività internazionale, Il campione non sia, paradossalmente, ormai anacronistico, parlando di un tipo di carriera e di un tipo di calcio cui ormai non si capisce chi possa accedere. Resta il problema, secondo me e la mia Spocchia, che forse il danno provocato dall'idolatria (economica e antropologica) del tipo-calciatore ormai ha prodotto danni che meriterebbero altri film e non questo. Troppi anni abbiamo passato a vedere i giovani sottoposti al drammatico messaggio "meglio calciatore ricco e ignorante che laureato sfigato"; non era infrequente sentire damazze della buona, buonissima società sdilinquirsi per il figlio calciatorino di successo, pregustando (loro, donne in carriera sposate con altrettanti mariti di pregio, quindi gente a cui non ne mancava) un futuro con nuora velina e faccino del figlio spalmato su giornali e tivvù; genitori a colloquio tutti contenti perché, è vero che il figlio era mediocre a scuola, ma giocava a calcio e in squadra "è un piccolo idolo", lasciando intendere che QUELLA era la sua vera realizzazione (retro-spoiler: anche questo ha mollato per problemi fisici... tutti a me capitano...).



Insomma, se adesso piangiamo miseria perché mancano i medici in corsia, non dico che tutti questi potenziali medici si siano dati al calcio, ma è chiaro che certa cialtronaggine bimbominkiesca trasversale tra adulti e piccini,  soprattutto nel primo decennio di questo millennio, ha prodotto un clima gravissimo di disconferma nei confronti di chi si "abbassava" a fare sforzi e sacrifici per conseguire competenze lavorative che, pur non facendo girare l'economia ai livelli dei calciatori, sicuramente hanno una ricaduta sociale ben più utile. La cosa spesso sfugge, ma il cervello di un adolescente anche bravo ma impressionabile può maturare un enorme scoraggiamento rispetto allo spirito di sacrificio in certe direzioni, quando vede che i sacrifici che rendono in termini di 'popolarità' sono altri. Aggiungete le pretese di trasformare la scuola in un luna park e il disastro è fatto. Poi non lamentatevi se non troverete uno capace di diagnosticarvi l'ulcera anche se vi sentirete un trapano nello stomaco. Noi ve lo dicemmo.