Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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giovedì 23 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia #2: Socrate, l'anarchico e antifascista.

Premessa: di Ulisse ciascuno ha fatto l'uso che ha voluto. Dante lo ha dantizzato, Tennyson lo ha tennysonizzato, Pascoli lo ha pascolizzato, persino i giapponesi e i francesi se ne sono appropriati.

La storia è nota: personaggi che fanno da archetipo della civiltà (occidentale in questo caso) possono essere soggetti alle più varie (re-) interpretazioni. Molto soggettive of course. A volte, anche, fuorvianti rispetto ai tratti genuini del carattere originario. 

Figuriamoci Socrate, che anche se non è propriamente il fondatore della filosofia occidentale, ha svolto un ruolo talmente importante che la storia della filosofia antica distingue sotto il lemma 'presocratici' tutti i suoi predecessori, Talete incluso, che sarebbe poi il capostipite di tutta la cumpa. Lui (Socrate) che non ha lasciato mezza riga del suo pensiero. Lui che conosciamo solo per interposto autore (Platone ovviamente, poi Aristofane e Senofonte). Il che ci porterebbe a pensare (e saremmo in ottima compagnia) che già Platone abbia platonizzato Socrate, Aristofane lo abbia aristofanizzato and so on. Chissà.


 

 

Se però le cose andavano così già nel V secolo a.C., non solleveremo ciglia spocchiose a sentire la dotta conferenziera Simona Forti (Modena, 19 settembre u.s.) che reinterpreta per sua stessa ammissione Socrate alla luce di categorie certamente posteriori al filosofo greco. Forse c'è stata una certa forzatura, ma qualcuno di noi era là ad Atene a capire, mentre Platone scriveva i suoi dialoghi, quali teorie espresse da Socrate erano socratiche e quali del discepolo? No. Ciao.

Parte subito in derapata la Forti, inquadrando il problema del fascismo secondo una prospettiva che attirerebbe ipso facto i fulmini di Emilio Gentile: di fascismo si può parlare anche oggi tutte le volte (lo dice Foucault) che si verificano fenomeni di governi autoritari che sopprimono le libertà individuali. Ebbene che fare? Strutturare le nostre soggettività come anime anarchiche. Non in senso bakuniniano, sia chiaro. Anche per Platone, è noto, la città in preda all'anarchia va in rovina. Ma infatti Forti ha in mente un altro tipo di anarchia: assodato che nella parola anarchia è presente il termine archè (che vorrebbe dire 'principio', 'origine' 'comando'), si potrebbe mettere in discussione il meccanismo secondo cui il singolare è sussunto nell'universale; detto più pucciosamente: la pluralità dei singoli può sottrarsi all'egemonia dell'Uno che pretende di imporre l'identità ai molti. Si capisce cioè che l'approccio proposto non mira a chiamare alla rivoluzione permanente, ma alla rifondazione filosofica del rapporto tra etica (individuale) e politica (collettiva). 

Anarchia, anzitutto, come possibilità di libertà nelle differenze. Liberazione dalla logica dell'Identico. Seguendo Deleuze e Agamben, arriverebbe il collasso del soggetto in una nuda vita senza qualità: di fronte al soggetto de-soggettivizzato il Potere si ferma perché non ha più nulla da plasmare. E il fascismo si depotenzia.


 

Forti tuttavia si perplime circa il ticket Deleuze-Agamben, perché volenti o nolenti avremo sempre rapporti col Potere. Si può resistere in altro modo? C'è una via di mezzo tra il soggetto chiuso su se stesso e quello spersonalizzato nell'incontrollato svolazzare di libertà senza fondamento? C'è una via di mezzo tra un bisogno di norma (identità) e il bisogno di trasgredirla (abbandono della soggettività)?

Forti propone di usare in modo provocatorio il concetto di anima, superando il dualismo platonico in ambo i sensi (preplatonico e aristotelico): l'istanza è il bisogno di non farsi inchiodare in un'unica dimensione (cfr. Nietzsche: ci liberiamo dell'anima immortale per tenere l'anima mortale e duplice).

 


 

La filosofia moderna tende a separare etica e politica: nato il corpo politico, gli individui vengono isolati nella loro sfera privata (Hobbes, già), laddove Platone postulava una connessione circolare tra polis e anima del cittadino: era impensabile che l'individuo non fosse anche cittadino, anzi proprio la dimensione civile rappresentava l'inveramento dell'identità individuale.

Forti cita Vegetti: per Platone, affinché la città sia in pace, deve spegnersi il conflitto per il desiderio di potere e si arriva a ciò instillando giustizia nelle anime dei cittadini. Un uomo giusto abita in una polis giusta, una polis giusta genera anime giuste (cfr. Socrate nella Repubblica). La giustizia è una virtù di relazione: come in una polis devono andare d'accordo reggitori, guerrieri e produttori, così nell'uomo l'anima razionale deve guidare le altre due. Se le parti si dispongono in un sistema gerarchico conforme all'archè, l'anima diventa da molti a uno. Allo stesso modo i filosofi guidano gli altri due gruppi.

Oggi diremmo che la giustizia platonica sorpassa la libertà individuale, perché se quest'ultima prevale trionfa la tirannide, espressione dell'anima anarchica. Come si nota, tutto corrisponde nel micro e nel macro. Libertà è disordine, scissione, schiavitù. L'anima si sdoppia e provoca caos per sé e per gli altri. L'anima giusta unifica tutto sotto la forza del logos.

E oggi che il valore dell'unità del soggetto è stato destituito? Si può recuperare un concetto positivo di anarchia? Si può sfuggire alla gabbia della gerarchia funzionale delle parti? 

 


 

Forti fa la sua proposta riutilizzando indovinate chi? Socrate. Non solo quello platonico, ma pure quello senofonteo e oltre.

Socrate si opporrebbe a Platone nella definizione di anima: Forti sa di agire in modo arbitrario, ma dice di essere in buona compagnia (anche i Guelfi bianchi alla Lastra, del resto...).

Socrate non crede(rebbe) né all'anima immortale (quindi quello che parla nel Fedone sarà il gemello) né al dualismo anima-corpo (ripetiamo: Forti's opinion), ma concepisce un'anima anarchica che è giusta secondo criteri diversi. Non si tratta dell'obbedienza dei molti all'uno (archè, logos), ma di seguire un daimon che comanda di non seguire la doxa, ovvero l'opinione non verificata della città (ne parlano sia Platone che Senofonte, you know). Socrate promuove il potere critico del pensiero che sceglie cosa NON fare, destabilizzando norme stabilite e identità condivise e approvate dalla città. Il sé è duplice, il pensiero si lascia calare nella potenza dell'esterno ma poi sa ritirarsi per scomporre gli stimoli ricevuti e analizzarli, riplasmando i contenuti acquisiti. L'anima diventa il punto di partenza dell'essere altro da sé, l'inquietudine è incessante, identificazione e dis-identificazione si alternano incessantemente. Una dialettica perpetua, direi. L'anima non pone fine al movimento, scopre senza posa la propria duplicità, il proprio conflitto interiore, in tensione tra ciò che ci rassicura nell'appartenenza e ciò che farà venire meno appartenenza e sicurezza. Questa è la libertà, che può valere oggi come libertà dal fascismo e dal rigido determinismo. Siamo gli arbitri di noi stessi. Anarchia socratica is the new antifascismo, insomma: non farsi asfissiare dal Potere, vivendo in una mobile problematicità. Se per Platone nella Repubblica giustizia è unità, per Socrate la giustizia è l'anarchia della dualità che si sottrae al Principio.



C'era un rischio trappola in tutto il discorso, perché la distinzione tra un Socrate 'anarchico' e fautore della dualità dinamica contrapposto ad un Platone unitario e quasi 'reazionario' lascerebbe intendere una divergenza di pensiero tra i due, che si sarebbe potuta dimostrare solo avendo a disposizione almeno uno scritto solo socratico, cosa che notoriamente non si dà, visto che è sempre Platone la fonte. Allora si procede per incroci: il fatto che oltre a Platone ci sia anche Senofonte a parlare del daimon farebbe pensare che quest'ultimo sia un copyright socratico. Cioè: il Socrate della Repubblica parla, ma di fatto è Platone che scrive, laddove il Socrate, per esempio, dell'Apologia è quello originale, confermato indirettamente da Senofonte. C'è però sicuramente almeno un caso problematico sempre nella Repubblica VI 496C, dove Socrate dichiara: “Infine, il mio caso è difficilmente spiegabile - il mio segno demoniaco - perché oltre a me, fino ad oggi, è accaduto ad un solo ad altre poche persone”.  Epperò pare di capire da questi e altri passi che Platone non credesse così in fondo all'interiorizzazione del comando divino, perlomeno in uomini diversi dall'eccezionale Socrate. Insomma, la misteriosa forza anarchica sembra baluginare anche nell'opera in cui tutto il pensiero platonico converge verso l'unità. Dialettica sotterranea? Polarità etico- politica? Terreno scivoloso, gentlemen. Quindi prudenza. Ciò avrebbe peraltro aperto autostrade per una svolta realista (nel senso dell'interpretazione di Platone data dal compianto Giovanni Reale - mai citato da Forti), poiché il Platone-uno opposto al Socrate-due riporterebbe alle dottrine non scritte di Platone medesimo nelle quali, al vertice della gerarchia dell'essere, si trovano l'Uno metafisico e la Diade di grande - e - piccolo, dal cui ininterrotto confrontarsi derivano sia gli enti ideali che quelli concreti. Ma appunto.

Credo insomma che la proposta di Forti vada accolta come si accoglie l'Ulisse dantesco o pascoliano: il filosofo che tuonava contro i sofisti e il loro uso scaltro e spregiudicato della parola, che invitava a circoscrivere il concetto di ogni cosa di cui si parla, che concepiva la conoscenza come maieutica dell'animo sempre alla ricerca della verità oltre le apparenze, ebbene questo filosofo può dire molto ancora oggi. Bombardati come siamo da slogan usa e getta, abbarbicati ai relitti delle vecchie ideologie nel mare della post-verità, in bilico sul sottilissimo ciglio del transumanesimo, non possiamo non ricordare la lezione socratica. Però attenzione, perché il passo che porta a fare di Socrate 'uno di noi', l'anarchico antifascista, e arrivare alla brandizzazione del marchio è breve. Bauman docet.

mercoledì 22 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia2021 #1: Adelante, Pedro, con juicio (o dell'uso sapiente della maschera).

 

Relatori decisamente in forma al Festivàl tricittadino. Certo, alcune conclusioni ci perplimono, ma è il bello dello spirito critico.

 

 

A Sassuolo la prof.ssa Barbara Carnevali opina a proposito del possibile ‘uso intelligente’ della maschera in senso esistenziale (sì, Carnevali parla di maschere, non è una battuta). Parto dal fondo, cioè dal mio personale e spocchioso giudizio: la soluzione proposta dalla relatrice è certamente interessante, ma cela in sé dei rischi che secondo me non sono stati sottolineati adeguatamente.

Va però detto che, perlomeno, la dotta conferenza non è caduta nella trappola in cui spesso i conferenzieri si auto-intrappolano, ovvero spendere quattro quinti del tempo a delineare la storia del problema e tutte le sue sfaccettature, salvo poi guardarsi accuratamente dal chiudere con una propria proposta in materia. Carnevali propone. Non mi ha convinto del tutto, ma propone.

 


 

C’è la maschera ‘fisica’, indossata dagli attori di teatro nell’antichità, soppiantata poi, in epoca moderna, dalla faccia vera e propria degli attori, che quindi non affidano alla sola gestualità il messaggio (visto che la maschera è, evidentemente, a espressività fissa), ma integrano il messaggio stesso con la mimica facciale. Qui, non prima, non dopo, si colloca secondo Carnevali la svolta, in corrispondenza peraltro con l’affermarsi, nella civiltà cinque-seicentesca, del culto dell’apparenza, della sprezzatura, in una società in cui i rapporti interpersonali sono caratterizzati da tutta una serie di ritualità & convenzioni che danno vita a quello che tutti noi abbiamo imparato a chiamare il teatro del mondo. Di fatto, qui si realizza la perfetta aderenza tra il latino persona (= maschera) e l’idea moderna di persona: la persona “recita” nella sua stessa vita. Finzione e realtà non hanno più la maschera a separarle.

 


E oggi?

Siamo un po’ tutti in scena, ogni giorno. Siamo attori sociali. In uno scenario decisamente dualistico. La nostra società, mercé i social network, gioca tantissimo sulla visibilità che rende gli instagram -addicted (e simili) ‘soggetti’ in due sensi, ovvero ‘attori protagonisti’ dell’identità che decidono di costruire sul social, ma anche ‘sottoposti’ alla vista di un pubblico dai cui giudizi ci si può sentire drammaticamente condizionati. In questo caso si perde del tutto, o quasi, il controllo della propria immagine (do you remember il film Birdman?). “Esporsi”, del resto, significa “porsi fuori” (ex- ponere) di sé, aprirsi, esibire il proprio profilo, ma anche “offrirsi agli altri”, “mercificarsi” (gli influencer, del resto...). La ‘visibilità’, insomma, va intesa in due sensi (vous vous souvenez du Panopticon di Foucault?): farsi vedere o essere catturati dallo sguardo altrui. Del resto la maschera stessa si presta ad un’ambiguità assai interessante: si consideri infatti che un conto è la maschera che riproduce un determinato volto (e che viene esibita sui social) un altro è la maschera che, anche nei migliori carnevali (con la minuscola) della Serenissima, serviva all’esatto proposto, ovvero a celare la propria identità. In altre parole, questa maschera non serve ad esibirsi, quanto piuttosto a proteggersi (¿Recuerdas La casa de papel?). Sta a noi scegliere quanto esporre e quanto nascondere. 

 


La maschera, Pirandello docet, è il portato necessario dell’esigenza di essere ‘riconosciuti’ dalla società: siamo artificio di noi stessi per stare al mondo, di fronte al pubblico anzitutto costituito dalla nostra sensorialità corporea (noi ci autopercepiamo come maschere, siamo attori e spettatori di noi stessi), poi a quello esterno. Il che ovviamente comporta il rischio di di moltiplicarci in una pluralità di persone diverse e il problema sarebbe “tenere il filo” di tutte queste facce. Ci vorrebbe una sorta di “maschera delle maschere” che gestisca il tutto. Una "maschera trascendentale", mi verrebbe da dire.

 


E’ a questo punto che Carnevali svolta: in luogo di prodursi in un anatema contro la società della maschere, la docente, dismettendo il concetto cristiano-romantico di identità (ovvero la capacità di distinguere sempre il volto vero e la maschera finta), propone alla tedesca la Maskenfreiheit, ovvero la “libertà della maschera” o la “libertà mascherata”. Si tratta di una sorta di ‘ritorno’ al teatro del mondo di cui sopra. Che male c’è, opina Carnevali, a ‘giocare’ con le maschere? Esse, in luogo di annullare la nostra identità, ci aiutano al contrario a non restare ‘intrappolati’ in un unico modo di essere, quello che noi riteniamo corrispondere al nostro vero io, ma che può risultare assai limitante. Perché non aprirsi a nuove esperienze ‘indossando’ maschere che ci fanno superare limiti che la nostra identità standard non saprebbe affrontare? Scegliersi un modello e imitarlo, uscire dal noto per vedere se nel meno noto si possono trovare magari nuovi stimoli che vadano ad arricchire il nostro bagaglio identitario, why not? Fuori dalle convenzioni imposte, liberi di scegliere nuove possibilità (seguono esempi presi dal mondo delle Drag queen e del Queer, con accenni alla questione della fluidità di genere). Trasgressione a parte, che bello dev’essere gettare la maschera del quotidiano e indossarne una nuova e più appagante? (Erinnern Sie sich an Thomas Manns Der Zauberberg, quando Hans Castorp ci prova con la tizia?). Il Carnevale non è del resto sospensione momentanea dell’identità? Insomma, mi permetto di interpretare il Carnevali-pensiero, senza che fischi nessun treno, fate come Belluca, scardinate per un attimo il vostro io asfittico e diventate qualcun altro. Per poco. Magari. Ma trovatevi un ruolo che vi appaghi. Che la cosa serva a conoscere persone nuove o al contrario ad essere finalmente lasciati in pace da chi è abituato alla versione standard di noi, basta che funzioni. Carnevali dissente dai pensatori cattolici & romantici che raccomandavano di gettare le maschere per mettere a nudo il vero Io. Moltiplichiamo le identità mascherate, casomai: QUESTA è libertà dai condizionamenti. Dice lei.

 

Ecco.

Carnevali ha ammannito la sua proposta con un sorriso soave, certa e fiduciosa di una soluzione che va un po’ a rompere la solita polemica sulla società finta & plastificata che ci tiriamo dietro da almeno 40 anni. O meglio: non è detto che in questa società finta sia impossibile, saltabeccando di maschera in maschera, trovare più appagamento che alienazione. Certo, il fatto di appellarsi a quel rutilante carnevale perenne che era la società cinque-seicentesca può rendere, con amabile ossimoro, la sua proposta innovativamente regressiva. Ma ciò che ci perplime di più è la fiducia carnevaliana nella possibilità di giocare con le maschere senza venirne sopraffatti. Nel caso della maschera come garante dell’anonimato, credo che il fenomeno hikikomori abbia già suorpassato a destra la questione posta dalla professoressa: oggi si può scomparire al mondo semplicemente non uscendo di casa e affidando al web i contatti selezionati con l’esterno. Quanto alla maschera come ‘avventura’ fuori dalla piattezza dell’io standard, la dotta conferenziera mi è sembrata avere la certezza che, quale che sia la maschera-modello che cercheremo di assumere, saremo sempre in grado di percepire il limite tra l’imitazione e la perdita della nostra identità. E qui mi permetto di dissentire. Come la spocchiologia più avanzata ha indagato a partire dalla metà degli anni ‘90 del secolo passato, il problema in una società così morbosamente fissata nello stabilire modelli cui la massa deve adeguarsi è legato alla capacità dei singoli di interagire con la radianza dei modelli stessi. Io posso scegliere – seguo la tesi carnevaliana – un attore famoso, un cantante, uno sportivo e fare di lui un paradigma per la mia maschera. Affinché la radianza di costui non risulti dannosa per la mia identità, è necessario che il paradigma rimanga settato sulla modalità ‘generico’: io posso desiderare di essere ‘come lui’, adeguando cioè gli stimoli che da lui derivano alla mia irripetibile unicità. Un lavoro di sintesi che mi porta ad allontanarmi dalla mia comfort-zone identitaria per arricchirmi. Peccato, e qui dissento da Carnevali, che per le più varie circostanze (un momento emotivamente difficile, la scelta di un paradigma troppo arduo da imitare o al contrario un fascino paradigmatico fin eccessivo da costui esercitato) possa avvenire che il paradigma generico diventi modello specifico: io non voglio essere ‘come lui’; io voglio essere LUI. Di qui un’alienazione identitaria dalle conseguenze potenzialmente devastanti: basterebbe citare i casi di anoressia legati alla volontà irrazionale di adeguarsi ai modelli di bellezza incarnati (o in questo caso sarebbe meglio dire scarnificati) dalle modelle filiformi.

Non so quindi quanto la proposta di Carnevali sia applicabile senza rischi: anzitutto, per decidere di ‘mascherarmi’, devo provare una certa insoddisfazione per ciò che sono e un desiderio di evoluzione. Fisiologico, si direbbe. Necessario, anzi. Certo: basta che il desiderio venga più da dentro che da fuori. Più chiaramente: è difficile che un desiderio paradigmatico sorga dal niente all’interno di una qualsiasi coscienza, poiché è sempre l’interazione col mondo esterno a definirci e provocarci al cambiamento. Sarebbe però opportuno che questo stimolo esterno incontri una fase di ridefinizione interna dell’identità che sente di aver raggiunto determinati limiti e desidera ampliarsi. Io posso piacermi come sono, ma sentire che posso essere anche qualcosa di più ad integrazione di quello che già sono. Me lo sento io, me lo dice il mondo esterno e io accolgo il suggerimento. Scelgo il paradigma che mi aiuta a fare il salto e va tutto bene. Altro caso è però quello in cui il bombardamento di stimoli esterni arrivi a minare la certezza di ciò che sono stato sin qui, facendomi sentire d’un colpo inadeguato, limitato, perdente. Come se tutto il tempo passato fosse stato un gigantesco spreco, decido che ciò che sono e sono stato è un’identità insopportabile, asfittica, inutile. Di qui la disintegrazione della barriera tra me e il paradigma e il mio precipitare- annullarmi su di lui, divenuto nel frattempo modello specifico. Su questo Carnevali ha trasvolato un po’ troppo. Cambiamo pure maschere, basta che la faccia (= l’identità) sottostante non si disintegri. Sennò ti saluto “uso emancipatorio e creativo offerto dalla finzione”. Ricordate Face off con John Travolta e Nicholas Cage? Ecco.