Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 8 gennaio 2016

Visti per voi: Star Wars, episodio VII. Il risveglio dell'intertestualità (bummm!!).

La sera successiva [ricordate che i post hanno l'ordine cronologico inverso...] andammo a vederci Star Wars episodio 7, con la lieve e trafiggente sicumera di chi si avvicina al più atteso séguito della più mitica miticissima saga cinefilmica della storia umana non essendo un fan sfegatato della serie e avendo bucato tutti i primi tre capitoli, ovvero gli episodi 4, 5, 6, ovvero come uno che va a Messa senza conoscere il Vangelo. Avremmo, per verità, giochicchiato con due videogiochi ispirati alla saga, ma ciò non ci permette di dire di saperne. Ci siamo invece slurpati, tra non indifferenti sbadigli, i capitoli 1, 2, 3, su cui diremo fra breve, e su cui diciamo subito che un mattone verniciato sarebbe stato più espressivo di Hayden Christensen e che fare della Forza una questione di Midi-Chlorian nelle cellule fa molto Scuola Pneumatica.
Appunto. E’ chiaro che tutti gli ammiccamenti di SW7 alla serie storica sono per noi lettera morta, benché persino noi siamo riusciti a riconoscere al primo colpo il Millennium Falcon. Era inevitabile comunque che, essendo la serie passata in gestione Disney, il pubblico avrebbe vissuto lacerazioni orizzontali (tra estimatori storici e neofiti parziali -come noi- o totali -come i bimbominkia) e verticali (tra nostalgici commossi dal ritorno delle trame che furono e teorici dello stupro disneyano ai danni della nobile e visionaria fantasia lucasiana di 40 anni fa).  
Bene, lasciamoli lacerare e veniamo ad un sommario giudizio, che ho voglia di contatti sul blog e l’hastag #starwarsVII promette cose: il giudizio più immediatamente pancioso è quello di un film che certamente lascia attaccati alla poltrona lungo tutti i 135 minuti di proiezione, sì che è difficile dire di essersi annoiati. L’azione c’è eccome. Fin troppa, verrebbe da dire. E qui entriamo subito nel focus del problema, ovvero la gestione di casa Disney, officiante J.J. Abrams. E’ ovvio che, dopo aver lautamente emoluto 4 miliardi di dollari a Lucas per rilevarne la casa di produzione e ninnoli acclusi, i signori Disney hanno subito inserito Star Wars nella griglia-tipo delle loro realizzazioni di largo respiro, il primo comandamento delle quali è, come si sa, ‘vietato rischiare’. Che si tratti di sirenette vogliose di sgambettare sul bagnasciuga, di Aladini col naso di Tom Cruise, di belle rinchiuse in castelli a parlare con candelieri e orologi, di cinesine che indossano l’armatura, di macchinette parlanti col cervello di un bimbo di 7 anni, il bene trionfa, dall’esperienza si impara sempre qualcosa, se si è umili si vince, l’amore domina ovunque. Il che ha consentito alla Disney di sfornare lungometraggi di successo planetario, bellissimi sotto ogni punto di vista, e certamente rassicuranti nel messaggio finale rivolto agli utenti.
Ora, come disneyzzare una saga che di rassicurante ha ben poco? Anzitutto, privando il suo settimo episodio di qualsiasi minimo spazio di sollievo alla tensione narrativa, così come al bando vengono messe riflessioni che trascendano le questioni di più immediata urgenza. Tutte le alte allegorie esistenziali e filosofico-religiose che soprattutto la prima saga aveva in sé sono qui assorbite dal susseguirsi forsennato di eventi in una storia in cui l’attenzione dello spettatore non riposa mai. Se proprio non lo si può rassicurare, visto l’argomento in questione, che almeno gli si ecciti ininterrottamente il nervo ottico, si saranno detti al Castello della Bella Addormentata. Di qui il ciclone di fughe, lotte, pianeti sparanti, assalti all’arma bianca, laddove gli hints sul perché e il percome si sia giunti al punto in cui si è (cos’è il Primo Ordine? perché Rey possiede tracce non indifferenti di Forza? perché Luke si è dato irreperibile? perché Kylo Ren è così brutto?) sono ridotti a flash narrativi brevissimi o non ci sono proprio (vabbe’, restano due episodi da riempire, si capisce anche…). E così, la sete di avventura del pubblico (una parte, almeno) è saziata oltre ogni immaginazione. E’ chiaro che tutto il resto non si può pretendere, col che inevitabilmente i duri e puri del fandom 1977-1983 hanno visto appiattirsi la solennità dei capitoli primigeni in una vorticosità più vicina ad un videogame. Per noi che di quel fandom non facciamo parte valga l’osservazione che, rispetto a certe sequenze infinite e alla lunga stremanti della seconda saga (il duello tra Obi-Wan e Anakin ormai schiavo dell’oscurità… bello sì, ma dopo un po’ non se ne desiderava che la conclusione) o zone narrative di sommaria inconcludenza nel non spiegare nulla (potremmo citare pezzi e pezzi dell’episodio 2, il peggiore di tutti secondo noi), qui almeno ci si diverte senza guardare l’orologio.
Ma proprio perché a casa Disney studiano tutte le varianti del caso, c’era anche il problema di non perdere la fetta dei lucasiani della prima ora. Soluzione: ricalcare sull’episodio 4 la trama del 7, o perlomeno arricchire di attinenze reciproche i due capitoli per titillare il palato dei nostalgici. Questione di mettersi d'accordo, si capisce, e non succederà mai, stiamo ancora qui a scannarci sul vero significato di "dolce stil novo" (scuola poetica vs gruppo di amici, la definizione vale solo per Dante, sennò cosa ci fa Guinizzelli in Purgatorio vs ma non ma no, ci sta dentro almeno anche Cavalcanti!), immaginate un po'... In ogni caso, gente che ne sa scrive sul webbe che basterebbe cambiare i nomi dei protagonisti e dei pianeti, lasciando intatto tutto il resto, e i due film si sovrappongono alla perfezione (altri non la pensano proprio così, veh, ma i commenti dei lettori poi...). Risultato: grida di giubilo di chi ha risentito l’arietta del bel tempo che fu (anche per il ritorno di Leia, Han, il robottame vario…), grida di strazio di chi sostiene di aver pagato il biglietto per vedersi riproporre non il seguito della serie, ma il remake del suo primo episodio.
Qui dovremmo entrare nei meccanismi mentali di Abrams per comprendere a fondo questa scelta, e infatti lo facciamo con la spocchia del filologo classico. Cosa può aver mosso il predetto regista a ricreare struttura e contenuti del Sommo Inizio, sapendo (perché non poteva ignorarlo) di esporsi al rischio di sentirsi dare del remakatore selvaggio, quando non del plagiario? Secondo me e la Spocchia, l’approccio di Abrams a Star Wars è stato lo stesso, o molto simile, a quello di Peter Jackson con Il signore degli anelli. Il paradosso è solo apparente: Jackson ha ricavato una trilogia da un romanzo che era già trilogico – e immenso – di suo. Per contenere in tre episodi da tre ore lo sterminato materiale tolkieniano, ovviamente, il regista ha dovuto selezionare, eliminare, ridurre, adattare e alla fine è uscito un prodotto che anche in quel caso ha suscitato pareri discordanti circa il rapporto tra fedeltà al testo ed efficacia della resa cinematografica, tuttavia non ricordo di aver sentito gridare all’assassinio come nel caso di SW7. Bisognerebbe allora pensare che Abrams abbia visto l’episodio 4 (ma probabilmente tutta la saga nel suo complesso) non come un film a cui dare un seguito, ma come un pre-testo equivalente ai romanzi da cui i colleghi spremono i soggetti non originali per le loro pellicole. Nessuno accuserebbe mai Jackson di aver plagiato Tolkien, perché trarre un film da un romanzo plagio non può essere. Ebbene, Abrams ha considerato tutto il pregresso lucasiano come ‘il romanzo’ da cui partire. Una saga così innervata nella coscienza collettiva dei cinefili da aver superato la natura meramente filmica: un mito a se stante, ormai senza un vero padrone, visto pure che il creatore ha svenduto casa sua. E questo mito poteva, in simili condizioni, essere ri-raccontato con qualche variante, ma senza con ciò sentirsi colpevoli di remake in atto. Risalendo risalendo, insomma, risfociamo nelle belle abitudini del mondo classico, quando non esisteva il copyright: tanto Eschilo quanto Sofocle quanto Euripide hanno messo in scena il pezzo della saga degli Atridi in cui Oreste ed Elettra uccidono la madre Clitennestra per i noti fatti (perché sono noti, vero?). All’epoca non c’erano George Lucas che potessero dichiararsi depositari della versione originale del mito, quindi l’idea del plagio era inesistente; soprattutto però, e qui ri-balziamo arditamente alla questione Jackson-Tolkien, il pre-testo (romanzato o trasmesso oralmente che sia) è a disposizione di chiunque voglia ri-raccontarlo coi mezzi che gli sembreranno più opportuni, sia esso il teatro o il cinema. Abrams, secondo me la Spocchia, ha guardato a Star Wars in tal modo, ovvero come un mito da ri-scrivere più che da innovare profondamente o a cui dare un seguito del tutto originale (e i personaggi stessi di SW7 parlano di Luke e compagnia come di esseri la cui realtà si perde nel mito). Ciò almeno vale per l’episodio 7. E’ chiaro però che un giudizio complessivo sull’operazione si potrà dare solo quando si avrà tutta la nuova saga completa. Fin qui, la rassicurante reprise del già noto ha ottenuto riscontri comunque ragguardevoli.

Poi certo, questioni filologiche a parte, il film è tutto molto Disney nella scelta degli attori per i nuovi personaggi (che con le loro faccette gommose potrebbero stare tranquillamente dentro un teen-drama qualsiasi, Finn su tutti), nei diminutivi (FN-2187 diventa Finn, come Megara in Hercules diventa Meg), nella mimica facciale da cartone animato di Poe e soprattutto di Han Solo (il quale a volte sembra dire: “Dai, ma non dovrò davvero prendermi sul serio, ancora qui dopo 40 anni?"), nei siparietti vagamente comici, nell’evoluzione- lampo in direzione pucciocentrica del rapporto tra Rey e Finn. Certo, il ritmo indiavolato dei fatti rende piuttosto estemporaneo, e certo meritevole di maggiore tragicità, l’uso del cannoncino da parte dei cattivoni. Certo, per rappresentare il Cattivone Supercattivo di turno i disegnatori computergrafici potevano evitare di rifare Voldemort. Stupisce semmai la quantità di giudizi dati sulla figura di Kylo Ren, che in realtà fa molto poco e mi pare che quel poco non autorizzi ad uno screening così approfondito del suo carattere come abbiamo letto in Rete. E’ chiaro che anche da come si evolverà costui, oltre ai ruoli di Rey e Finn, dipenderà il tasso di aderenza di Abrams a Lucas, nella speranza che non diventi adesività. Staremo a vedere, come disse Polifemo dopo che Odisseo lo accecò.  

mercoledì 6 gennaio 2016

Visti per voi: io Quo Vado, e tu?

Alla capiente Multisala Odeon di Ascoli (3 sale, però ha vicino il liceo classico) davano Star Wars e Quo vado?. Avendo mancato l’unico spettacolo programmato del primo film, mi imbuco nella SETTIMA replica giornaliera dell’opera quarta di Zalone Checco. Nessuno snobismo: curiosità. Anche perché ormai ero lì.
Detto che a noi spocchiosi non garbano certo i cinepanettoni, ma nemmeno i drammoni cecoslovacchi monoinquadratura con sottotitoli in lituano, perché privarsi di codesto lungometraggio? Zalone Checco ha incassato sette milioni di eurini in un giorno? Non sarà la certificazione del Capolavoro Assoluto, come ci insegnarono, però è un fenomeno degno di attenzione. E attenzioniamo, esclamò l’Arciduca.
Eccoci nella capace sala con le seggiole azzurre e pop corn ovunque sul pavimento. Sono le 22.30, ma il pubblico affluisce copioso. Mi dirai che il tasso di tamarraggine/bimbominkismo di molti dei presenti sconfina oltre ogni limite, ma cosa vuol dire? La presenza di certi docenti mancini con l’erremoscia sancisce senza dubbio veruno la transdirezionalità dell’opera in proiezione.
E in effetti, a fine film, non possiamo dire di non aver ridacchiato. Esserci sganasciati no, ma lì è che siamo proprio di gusti difficili noi, visto che ridiamo alle nostre battute. Certo, rispetto ai cinepanettoni di cui sopra, qui almeno lo sforzo di buttare sul piatto qualcosa di diverso, se non di nuovo nuovo, c’è (per inciso, ci stupiamo dello stupore di quanti registrano le performance bassine al botteghino dei film di De Sica: dopo 25 anni della precisa, identica zuppa, cosa si aspettavano?); da qui a dire che 14 milioni in due giorni ci incoronano il nuovo Billy Wilder, ovviamente, ce ne passa. Però però, qualche idea per capire la travolgenza del successo zaloniano ce la siamo ben fatta. Specialmente in rapporto dialettico con i giudizi critici letti sull’internet (ahhhhh, l’articolo davanti a internet…) in questi due/tre giorni.
Che il film sia THE STRAFIGATA del XXI secolo, l’opera che segna il prima e il dopo della comicità italiana, ecco, magari no. Certo, simili giudizi sono partoriti dai critici de Il giornale, la qual cosa puzza un po’, essendo Zalone prodotto Zelig, quindi Mediaset. Del resto dall’altra parte si spellano le mani tutte le volte che Benigni dice bao, quindi ci sta. Anyway, parliamo di un film divertente, dotato di frizzante ritmo battutaro, nel quale la trama fa da lisca alle cui spine si attaccano i momenti sketcharoli gestiti da Zalone medesimo, esattamente come nei film di altri comici di radice televisiva, siano Ale e Franz o Ficarra e Picone, che però spesso steccano, a nostro giudizio. Gente abituata al ritmo serrato e compresso dello sketch ha bisogno di una trama abbastanza autoreggente per dare tessuto connettivo alla propria specialità, ovvero la situazione comica in sé conclusa. E sin qui Zalone fa, dignitosamente.
Altri accusano il film di partire a razzo con la descrizione spietata dell’universo del ‘posto fisso’, proseguendo in modo più o meno divertente nella sezione norvegese, per poi perdersi irrimediabilmente nella melassa buonista del finale africano, là dove la ‘redenzione’ zalonesca (sorry, no spoiler here…) pare frettolosa quanto forzata, giusto un contentino ai tradizionalisti dopo tanta corrosiva satira antisistema. E’ mancato, dicono, il coraggio del pugno nello stomaco finale. Brutta anche, dicono sempre, la celentanata di chiusura con lode annessa dei malvezzi della Prima repubblica. Personalmente, che una commedia possa avere un finale sin troppo semplicisticamente condensato, nel quale i rovesciamenti caratteriali e fattuali appaiono inverosimilmente rapidi, quando non logicamente problematici rispetto a quanto precede, non mi pare un problema, visto che, da Plauto in giù (Aristofane gira da solo in background), è più o meno sempre andata così. Ai fan del celluloide in bianco e nero non potrà ad esempio non piacere il film del 1961 intitolato Uno, due, tre!!, tratto appunto da una commedia, nello specifico di Molnar (sì, il signor Via Paal, lui proprio), per la cui trama vi rimando aWikipedia, e che sviluppa proprio nel finale una serie di ‘conversioni’ talmente rapide da potersi accettare solo attivando la sospensione dell’incredulità richiesta da gran parte dell’universo comico (gente che fonda città sulle nubi, del resto…). Cercare la coerenza caratteriale in questo tipo di lavori è come pretendere che in un film di guerra il capo dei buoni si sacrifichi per salvare il suo cagnolino. Il genere ha le sue leggi. Possono non piacere, si possono anche violare, ma quando uno le rispetta, c’è poco da criticare.
Non vediamo poi quale ‘pugno nello stomaco’ ci si dovesse attendere da un film simile: commedia vuole che alla fine gli angoli si smussino e il bene trionfi. Cosa che qui puntualmente succede.
Zalone Checco, insomma, fa il suo. Ciò che accalappia spettatori non è quindi certo il dato, aridamente statistico, della distribuzione numericamente mostruosa della pellicola nelle sale, ciò che a detta di alcuni avrebbe reso inevitabile l’afflusso degli spettatori, privati di valide alternative. Bubbole: il pubblico sarà tonto, ma non scemo: se un film non acchiappa, puoi diffonderlo anche in otto milioni di copie, ma avrai le sale vuote. Che poi il passaparola, il conformismo per cui se vanno tutti allora devo andarci anch’io (il cosiddetto ‘irrazional-popolare’), la banale curiosità apportino ingressi è indubbio, ma tutti questi incassi nascono anzitutto da un quid tutto interno al film che fa l’effetto che vediamo.
Ecco, secondo me e la Spocchia, il glutammato monosodico di questo film sta nella sua caricaturalità così esibita che alla fine si ride anche là dove ci si potrebbe indignare o dispiacere. I vari elementi negativi tipici dell’universo del ‘posto fisso’ statale ci sono tutti, e nessuno potrebbe mettere in dubbio che le pecche più odiose degli uffici della pubblica amministrazione siano proprio quelle lì. Il fatto è che nel film tali pecche sono messe tutte, ma proprio tutte, in una volta sola, sì che la rappresentazione, in teoria del tutto verosimile, si fa appunto caricaturale e strappa la risata istintiva, pre-razionale (l’impetus simplex, come Seneca insegna – lol) anche all’autonomo dotato di partita IVA (che subito dopo riprenderà a bestemmiare contro l’impiegato comunale o il docente di lettere), così come non fa vergognare l’impiegato statale ‘alla Zalone’, perché tanto “non esistono situazioni esattamente così, dai….”. Il mondo zaloniano è vero e finto allo stesso tempo. Sarebbe come se si volesse mettere in scena un dramma ambientato in una classe di liceo, immaginando che la storia si svolga in una sola mattina, e si buttassero dentro tutte la varianti umane e psicologiche possibili di alunno: il nerd, il bullo, quello caratterialmente problematico che a casa è picchiato, il fascistone, il comunistone, l’omosessuale fresco di coming out, l’effeminato, la lesbica, il palestrato, il depresso, l’anoressica, la bulimica, l’oca giuliva, quella politicamente impegnata ecc. ecc. Si pensi poi di far succedere in una singola mattina sia l’occupazione che la ribellione contro la medesima, il tentativo di suicidio di qualcuno e la riconciliazione di qualcun altro, aggiungendo magari scene di docenti in crisi con sé e col mondo. Chi crederebbe davvero alla concentrazione di tutto ciò in uno spazio narrativo così esiguo? Ebbene, in Quo vado? la compresenza di tutto il peggio del ‘posto fisso’ provoca una sorta di collassamento comico di sicuro effetto.
Questa ‘tuttezza’ iperconcentrata sterilizza quindi anche quelle zone della trama a detta di alcuni coraggiose e temerarie nel trattare i temi più scottanti dell’attualità (ma per piacere…): tre figli da tre uomini diversi per nazione, etnia e religione… e così imposteresti la questione della tolleranza… crediamoci, sì… Il sistema talent-show per gestire l’afflusso degli immigrati dal Mediterraneo con quasi tutti che sventolano la laurea… serissimo, certo. Sarebbe secondo noi più onesto ammettere che Zalone Checco vuole intercettare e sottoporre al comico tutto quanto gli passa sotto mano, sia il serio che il meno serio, ma la volontà di far riflettere il pubblico ci pare davvero lontanuccia. 
A condire il tutto, l’altra tipica componente comica, ovvero l’infantilismo autoreferenziale del protagonista che provoca appunto i continui ribaltamenti di stato che tanto dispiacciono ai fan della coerenza a tutti i costi: disperato al momento di perdere il posto prima, lieto di gironzolare subito poi, prontissimo a norvegesizzarsi e a incivilirsi, ma rapido pure a farsi sedurre dalla reunion di Al Bano e Romina, entusiasta nel collaborare alla raccolta di materiale per gli spermiogrammi dell’orso e dell’elefante, canaglione anche nelle trattative finali con la Bergamasco (Sonia, we’ll always appreciate you, remember…), la quale pure incarna un ruolo caricatissimo, donna che a un certo punto la prende sul personale e agisce punta solo da vaghezza vendicativa, più ancora che per svolgere la mansione ministeriale affidatale (anche lì: Zalone escluso, tutti gli altri che accettano quelle condizioni? Suvvia…). Irrealistica per eccesso di realtà (tacciamo sullo sgabuzzino dell'ufficio di lui grondante di omaggi in natura).
E va bene tutto, il pubblico aggradisce, le parolacce sono al minimo, il carattere lieve e bamboccio del protagonista garantisce che in fondo non c’è nulla di veramente serio (nemmeno 25.000 euro di vaccini in un colpo solo… fosse così davvero…), lo stesso Lino Banfi è un perfetto esemplare di relitto della Prima repubblica che altrove su facebook si glorifica acriticamente. Ecco, senza sovrapporre in modo semplicistico lo spirito di quella pagina a questo film, v’è da dire che la capacità di alleggerire il serio ha comunque degli esiti narrativi spesso stupefacenti: là vediamo foto d’archivio con dentro Fanfani, Spadolini, De Mita, Andreotti, Craxi, tutti coloro insomma che i più ricordano come artefici dello sfascio della Prima repubblica, o comunque membri di una classe politica retriva e preoccupata soprattutto di mantenersi e autoriprodursi immutabile nei decenni. Si sa, si sa. Ma lì, su facebook, non trapela nulla di tutto ciò: solo istantanee di un’epoca che fu, nel (molto) bene e nel (molto) male, decisiva per le sorti dell’Italia a livello interno e internazionale. Ma persino un Andreotti, lì riprodotto, perde tutto lo zolfo e rimane un relitto monumentale di un passato che non possiamo né dobbiamo dimenticare. Zalone Checco, a cui nulla di ciò ovviamente interessa, chiude tuttavia il film con l’inno alla Prima repubblica proprio per dirci, in tutta leggerezza, che alla fine di un ventennio (la Seconda repubblica) da cui tutti si attendevano la palingenesi dei mali della precedente, succede ciò che succede dopo tutte le rivoluzioni che si vogliono antibiotiche: i batteri che c’erano magari vanno in sonnolenza, ma sempre lì stanno, e quando il ‘nuovo a tutti i costi’ cade vittima delle debolezze strutturali di ogni nuovo che rinnega tutto il vecchio, eccoli, i batteri, che riemergono, più belli di prima. Quindi, o si agisce come i predetti admin della pagina facebook e li si chiude in un museo di scienze naturali, oppure li si respira, con effetti imprevedibili. Qui, da Zalone Checco, l’effetto è la caricaturalità di cui sopra. Data pure la 'redenzione' finale, ciò significa che il problema cessa di sussistere per tutti gli altri? 
Cinema con la C maiuscola, quindi? Certo che no, vuoi mettere Il capitale umano di Virzì? E’ semmai un segno, tangibile, dello spirito dei tempi: sorridere alla consapevolezza che nulla è mai davvero cambiato.
(D’altronde dicono che il PD sia la nuova DC, no?)



I grandi réportages di Eligio De Marinis: capodanno all'oliva

Girovagando per il centro Italia, là dove l’Appennino accoglie nel suo capiente grembo il filo sottile della ex via Salaria, si pose ad un certo la straziante istanza: “E a S. Silvestro dove mangiamo?”. Farsi accettare da ristoratori disposti a dare asilo a non meno di tre persone per sedia si sarebbe rivelata impresa ardua, se non impossibile, ma la forza della Spocchia è sempre oltre, e così anche quest’anno abbiamo rimediato.
E’ per la gioia di tutti i nostri affezionati lettori (?) che procediamo quindi a delineare in modo oggettivo, lucido e lineare quanto accaduto (e caduto nelle nostre fauci) a Capodanno.

  ATTO PRIMO

[Ascoli nel Piceno, 31 dicembre 2015, sera; acciottolato ebbro d’umidità; sbuffi di nebbia ad altezza ginocchio (vostro); fruscìo di mantelli e passi inquieti di pellegrini in cerca di ricetto per la sacra notte del trapasso dall’anno vecchio all’anno nuovo; luci e rumori dalle case, resi soffusi dall’ovattata trama di tenebra appesa ai rami spogli degli alberi; nella via centrale del borgo fanno il loro ingresso una lettiga, verosimilmente condotta dai Poteri rimasti all’Infanta di Fantàsia, e un uomo a cavallo, vestito con armatura leggera, l’elmo in testa; si avvicinano alla locanda ********; l’uomo smonta da cavallo].

ELIGIO DE MARINIS (togliendosi l’elmo) Deh, miei fidi compagni, la ruota sempiterna della Fortuna ci ha dunque condotti tra questi ingentiliti monti a salutare il nuovo ciclo di mesi che ci viene incontro a bordo del rutilante carro trainato da unicorni…
IL CAVALLO (con malcelata ironia) Padrone, se state impiegando ‘rutilante’ nel senso etimologico di ‘rosseggiante’, mi permetto farVi notare che questa notte è nera più del nero… (canticchiando) ‘Fatti grande, dolce luna…’
ELIGIO (schiaffeggiandolo)(senza schiaffeggiarlo nella versione ENPA- friendly) Taci, equino! Ho evidentemente trasferito per sinestesia futurista il colore rosso al senso di veloce e rumoroso avvicendamento di tristezza per l’anno che muore e folle gioia per quello che nasce, come queste strade potranno testimoniare di qui a poco meno di tre ore!
(voce dalla lettiga, affranta) Eli’, daje ‘n tajo, c’ho le cartilaggini che ccigolano!!
IL CAVALLO Serataccia, eh?
ELIGIO Non temete, mia Signora, l’approdo delle nostre fatiche è raggiunto! Fra breve, Voi e il Vostro illustre consorte potrete rifocillarvi al caldo di un vivace caminetto, allietati dalla compagnia degli spiriti del fuoco, del pane, del latte…
(la voce di prima, seccata) Ennò, Eli’, er teatro decadente stasera no, tte prego!!
IL CAVALLO (manducando quietamente un cespite di tarassaco che spunta da una crepa nel muro della locanda)(sbuffando dalle froge nella versione vegan) Tempi duri per l’intertestualità…
ELIGIO T’ho detto di tacere, caballus! Ti rogna farti chiamare col nome volgare, vero?
IL CAVALLO Il vocativo sarebbe caballe, casomai…
(la voce di prima, stremata) Eliiiii’!!!! Er mi’ marito c’ha le gonadi all’antipodi fra ‘n po’! Bussa a ‘sto portone!
ELIGIO (rinfoderando il pugnale precedentemente agitato davanti al naso del cavallo)(facendo gestacci nella versione ENPA- friendly) Provvedo testé, mia Signora! (bussa)
LOCANDIERA (affacciandosi da una finestra a lato del portone) Che desiderano, lorsignori?
ELIGIO Buona donna, siamo viandanti in cerca di un desco e di amichevole cibo presso codesto punto di ristoro! Io sono Eligio De Marinis…
LOCANDIERA (trasalendo) Quello del blog Machittevòle?
ELIGIO Precisamente, madama, noto con non ben celabile autocompiacimento che la mia fama è giunta sin qui, sui gioghi della valle del Tronto… (la locandiera chiude, sbattendo, la finestra; silenzio)
(la voce di prima, perplessa) Eli’, che c’hanno scaricati?     
ELIGIO Non… saprei, mia Signora… (urlando alle finestre del primo piano) Ehi, voi, del posto! E’ dunque morta la virtù della proxenia??
(la voce di prima, terrorizzata) Proxenia? Mo’ che ccentrano le malattie cutanee?
ELIGIO No, mia Signora, non adesso, La prego…
(voce dal piano di sopra) Allora, pappagalli schiamazzanti, volete volgere i vostri passi altrove? C’è gente che deve cenare, qui!
ELIGIO Cosa che aggradirebbe fare anche a noi, se qualcuno si degnasse di disserrare l’ostinata quercia che ottunde l’entrata della locanda!
IL CAVALLO (sussurrando) Metonimia… chapeau
(voce dal piano di sopra) Troppe subordinate, messere. Qui accettiamo solo viandanti dall’eloquio casareccio!
(la voce dalla lettiga) Ahò, pizzicarolo de bborgata, vòi vede’ quant’è casareccia ‘sta scarpa che tte tiro, se nun ce spalanchi er refettorio???
(voce dal piano di sopra) Ohibò, che gergo aggressivo, ma a chi appartiene?
(la voce dalla lettiga) Evvabbe’, so’ io, che tte pensavi? (una testa femminile si estroflette dalle tendine della lettiga) So’ la Spocchia!!!!
(voce dal piano di sopra, esitante) Q-quella Spocchia?
LA SPOCCHIA Ennò?? Certo, la moje dell’Arciduca, mo’ te ddecidi a ffa’ er faciolaro come se deve, che stasera me vojo abbotta’?

[Rumore di passi convulso dal piano di sopra, tonfi sordi e strepiti dall’interno della locanda, come se qualcuno stesse tirando pesanti oggetti contro qualcun altro, gemiti di pentimento, preghiere di perdono, ringhi belluini, stoviglie infrante, un concitato ciabattare e il portone che si apre con solenne lentezza. La locandiera, esanime, viene buttata sul selciato da due braccia nerborute, mentre un umile vinaio si fa avanti e si prostra davanti alla lettiga]  

VINAIO Divina Spocchia, luce del confuso consorzio umano, vogliate, Vi prego, prender assito alla tavola che io e i miei umili servitori imbandiremo per Voi nel tempo che la cinciallegra sbatte le ali la mattina del solstizio estivo…
LA SPOCCHIA Se vabbe’, cell’hai l’abbacchio ‘n forno o devo ripiega’ s’aa coratella?
VINAIO Solo l’abbacchio, Signora? Oh, no, abbiamo anche pernici al tartufo, maialino glassato, fagiano in crosta…
LA SPOCCHIA (facendo flap-flap con la manina) Se po’ ffa’, se po’ ffa’, mo’ entramo che c’ho ‘n principio de sciatica da umido!
VINAIO (rialzandosi, agli alabardieri) Il passaggio alla Spocchia! (gli alabardieri spalancano completamente il portone della locanda in modo che la lettiga vi passi agevolmente)
ELIGIO Ben fatto, buon uomo, tenete! (gli allunga due ducati)
VINAIO (intascando con rapidità) Servo Vostro, messer Eligio. Il cavallo resta qui fuori?
IL CAVALLO (iniziando ad assaggiare la locandiera)(un cavallo antropofago non offende ancora la sensibilità di nessuno, vero?) Non preoccupatevi per me, questa nebbiolina mi rende romantico…  
ELIGIO Bene, direi che possiamo entrare, allora.
VINAIO Dopo di voi, messere…                                                    (entrano)

                                                           ATTO SECONDO

(ventiquattr’ore prima…)

Tema: “Come arrangiarsi per il cenone del 31 quando si sono decise le vacanze solitarie”.

Coraggio. Poco più di un giorno a Capodanno e siamo ancora qui a decidere un luogo dove confondere la spocchiosa essenza dell’ego ipertrofico in modo che quelli là fuori percepiscano un pieno là dove usualmente si vedrebbe un vuoto. Pensa a qualcosa, su. Cenone con dodici portate? Vuoi schiattare? Tre ore a spolliciare tra un filetto e un post su Faccialibro per non guardarti attorno mentre attendi il piatto? Certo, osserveremo le facce degli avventori per trarne epicità narrativa, ma poi? E se invece ripiegassimo sul posticino cazzimmo? Qui, ad esempio. Questo frittino di verdurine all’ascolana non è davvero male… E poi, scusa, potremmo sempre spingere sul pedale del patetico, no? Vuoi che questi non abbiano un posto per un viandante che ha scoperto la sera prima che a Capodanno sarebbe stato solo? Che ne sanno loro? La buttiamo in commedia? Sì, paiono dirti questi maltagliati con pancetta croccante che si sciolgono in bocca… Ma dobbiamo essere appetibili, cioè per trovare un tavolo a noi devono convincersi che mangeremo per due, sennò ci rimettono. Che ne diresti allora di ordinargli la grigliata 100% suino da 14 euro? Col Montepulciano va giù che è un piacere… Certo, certo, allora gli dirai che hai ricevuto il pacco multiplo da gente che doveva raggiungerti il 31 e poi pluf, sai che la faccina a pietà del tenero paciocco bimetrico raccoglie sempre, no? Ecco, magari convincili prendendo anche il dolce, vedi che stanno già sistemando i tavoli per domani? Che dicono? Parlano di bimbi, otto persone qui, sei lì… ma sì ma sì, ci stiamo anche noi, comunque per sicurezza chiedi anche un caffè corretto sambuca e magari pure un bicchiere del Lysoform con cui puliscono la friggitrice. Ecco ecco, adesso che scodelli gli eurini del conto, vai col cerbiattino implume! “Domani sera sarete già al completo, suppongo… [tralla = tranqua + scialla]”, “No, no, nel turno 20-21.30 c’è ancora posto…”, “Sa, ho appena scoperto che domani farò Capodanno da solo [Hamtaro di tutto il mondo, unitevi!!], GLI AMICI MARCHIGIANI mi hanno tirato il pacco multiplo, ah che gente… [Spocchiamon digievolveeee…. Arciducamon!!!]”, lui fa tanto d’occhi manco gli avessi detto che mi devono estrarre un gremlin dal torace, “Ah!!! No, no, se viene domani alle 20 ci siamo, magari pure prima, veda Lei”, “Alle 20 va benissimo!! A domani, allora, grazie!”, e fuori all’aria aperta, tronfi di cotanta recita… A fare i personaggi di se stessi non ci si stanca mai…

                                                           ATTO TERZO

[Le mandibole lavorano, ma l’orecchio è tesissimo a cogliere quella che oggi si chiama memorabilità]

“Perché io a casa c’ho la stufa che va a carboncocco!”
“Che??”
“Si, quella roba lì, carboncocco…”
“Carbon coke?”
“Carboncocco, appunto”.
“E tiene caldo?”
“Eh, è carboncocco…”

[Immaginiamo i profumi esotici in quella casa. Tocca a voi, olive ascolane, aprire la serata, disfacendovi lentamente della sopravveste di panatura, sì che l’incarnato verdognolo del vostro corpo si conceda voluttuoso di avventurosi ripieni al palato desideroso di emozioni...]

“Guarda che ‘sto piatto è per due!”
“E che, non lo vedo?”
“Se volete, ce ne sta pure qui!”
“E chi la fa più la dieta, così?”
“E’ che ci sono i sistemi…”
“Ma poi c’è la porchetta vegana?”

[Certo, assieme allo champagne analcolico. Venite, pappardelle al cinghiale, annodate su volute d’oro e rubino, grazie al tocco dei pomodorini e relativo sughetto, come una cascata di appenninica selvaticità che riversa in gola la rustica modanatura delle pasta e i tocchetti di carne lieti di precipitare in movimenti peristaltici amici…]

“No, te devi sta’ attendo con la carne, perché se l’hai lasciata troppo fuori si fa… ràncica…”
“Cosa fa?”
“Eh, è ràncica, ràncita… nun è bbona, ‘nzomma…”
“Ah, intendi ràncida?”
“Ma con la d o la t?”
“Aspetta, famme pensa’… ran-ciiiiii-ta! Se dice ràncita!”
“Nun me pare, è ràncica… no, ran-ci-da…”
“Ma insomma, ràncita o ràncida?”
“Ràncida!”
“No, no, allora nun esiste in italiano!!”

[Un minuto di silenzio per tutti gli Zingarelli sanguinanti della Penisola. Filetto di scottona, tu che mi ti presenti abbellito dalla sfarinatura tartufacea, consola le mie orecchie afflitte da cotanto strazio, tu che mesci rassicurante morbidezza e intriganti aromi terrigni, e quando ti corteggian liete le patate al forno e i cavofiori sereni…]

E pensare che tutto era iniziato così easy, io che entro e: “Buonasera, ce l’avete ancora il posticino per me???” e il locandiero: “Certo, come no, aspetti che glielo preparo! Sarebbe quello lì per sei per il prossimo turno [ah, allora mi avevi già depennato, infingardo…], ma ecco, separo i due tavoli e stiamo apposto! Ah, e i Suoi amici, alla fine… niente…??”, e io: “Quali ami… [poker face!!!] Ah, no no, neanche più sentiti…”, quindi si presenta uno stuolo di camerieri pronti a servire solo me [Ciao, sono Cortana, la tua assistente. Hai raggiunto il limite massimo di verosimiglianza!]

                                                           ATTO QUARTO

Ascoli prima di mezzanotte ha il fascino amabilmente spettrale dei suoi edifici storici bianchi che, in luogo di creare inquietudini a base di albe di perla e nebbie di latte [pedanteria & esibizionismo], lascia attorno a chi cammina l’atmosfera rassicurante di una guida fantasmatica e silenziosa che non permette mai alle tenebre di prevalere. Il Duomo troneggia scultoreo, così come la nuda pietra degli edifici storici di Piazza del Popolo: il loro integro, solido e geometrico biancore si staglia contro la notte nera per testimoniare come l’arte e l’ingegno umano abbiano vinto la rude selvatichezza dell’Appennino circostante senza stuprarne la naturalezza, come altre città in altri contesti hanno fatto [spirito di Paolo Rumiz, esci da questo corpo!!]. Certo, la piazza è vuotina, del resto sono ancora tutti ad ingollarsi di cotechino. Il palco per l’esibizione della band è invece già lì pronto, malinconico nell’abbandono dei faretti che roteano qua e là, come nuotatori in una piscina vuota. Luci gialle, bianche e rosa che si lanciano verso un’inutile vuotezza di assenze, tristi nelle loro meccaniche volute senza obiettivo. E lievi al triste vento [e daje!] oscillano i palloncini appesi ai montanti del palco, così come quelli sul palco, annodati in forma di lampione e albero di Natale che vanno avanti e indietro con le cime come anziani appisolati su romite sedie a dondolo. Possiamo davvero credere che, a ventunesimo secolo abbondantemente iniziato, ci si debba ancora arrabattare con queste manifestazioni che non sono altro che scintille fugaci nella notte senza fine dell’essere?

CERTO CHE SI’!!! SENNO’ LA SPOCCHIA COME FA A RIDERE DEL MONDO?

Ed ecco puntuali, alle 23.00, due tizi, lui vestito da Conte Dracula, lei da abat-jour di Palazzo Spada, salgono sul palco e, presi da galoppante originalità, iniziano, orchestra in sottofondo, a declamare alcuni passi de L’anno che verrà di Lucio Dalla. Originale, sì sì, due versi lui, due lei, una ragliata di chitarra a suggellare il tutto e poi...
“Buonasera, amici, dopo il successo della notte bianca di quest’estate, rieccoci qui, con la stessa temperatura [unghie di gatto sulla lavagna]… Grazie della vostra presenza…” segue presentazione dell’altra tipa, ma corriamo che sono già le 23.15 e si deve esibire LA BAND, gente del posto, ma forte, eh?
La presentazione non lascia adito a dubbi: “Si sono fatti già un nome facendo da band di supporto ai Nerkias [benaugurante, certo…], si sono specializzati nel groove, ma poi non disdegnano di transitare al funky pop con tendenze al mashup [quindi quei funghetti verdi che spuntavano tra le rovine del teatro romano…] e hanno cambiato un po’ la loro lineup: hanno un nuovo bassista, un nuovo batterista che stasera è ammalato, un nuovo chitarrista [e ci lamentavamo dei Pooh e dei Matia Bazar…], ma vi presento il cantante!!”, e sale sul palco uno studentello con capello fluente, boccuccia sporgente e pretenziosa, tasso di fighetteria a livelli “figlio di papà che se la sente caldissima e infatti canta al concerto di mezzanotte, ma come avrà fatto a ottenere l’ambìto privilegio?”, per tacere di un filmato sul suo profilo FB in cui si fa un selfie con Ignazio Marino. Certo, certo, sono io che ce l’ho sempre coi bimbominkia, lo so, magari costui invece lavora in fabbrica di notte per mantenersi gli studi e guarisce gli storpi sputandogli sulle caviglie, ma l’impressione a prima botta è quella che ho detto e poi che ‘mme frega?
Detto ciò, Capello Fluente saluta la folla, “fatevi sentireeeeee!!!” e come di consueto nessuno di scompone.
Vabbe’, partiamo che si scuoce il pandoro: Capello Fluente, gli va dato atto, ci crede assai, la sporgenza boccale da bulletto sembra in effetti arringare gli astanti come a dire: “Allora, volete dirlo che siamo li mejo o no???”. E poi, ricordiamolo, come ha sempre sostenuto anche Pasquale Finicelli quando interpretava Mirko nei film con Cristina D’Avena, il groove è una scelta esistenziale, come l’elegia ai tempi di Ottaviano Augusto: in altre parole, tu non puoi solo suonare il groove, ma devi anche viverlo, essere dentro al groove in ogni momento della tua vita, anche quando fai altro, anche quando sei all’autolavaggio e si mette a piovere. Poi, se mashuppi il funky e il pop, magari rischi di perdere la direzione, ma il groove, una volta scelto, ti vive dentro.
Tutto ciò per dire che la band parte con un manifesto programmatico inequivocabile: Il tempo di morire mashuppato con Bohemian like you. Eh, beh… E mentre Capello Fluente cerca le note che non trova, e ogni tanto pare latrare più che cantare, il chitarrista, accortosi della scarsa reattività della folla al mashup in corso, sferza il pubblico dal microfono invitandolo a battere le mani, su le mani, dai con le mani, e in tal modo consente a Capello Fluente di arrampicarsi sulla torre campanaria del palazzo comunale per recuperare le tonsille.
Ma il groove, dèi dell’Olimpo, il groove non muore: nemmeno quando, ripreso il microfono, Capello Fluente attacca con Treasure di Bruno Mars, conosciuto anche come il gemello mulatto di Stash dei The Kolors. Tra un giro di basso, una rullata di batteria e pentolame vario che ciangotta sul palco, fatichiamo in realtà a capire in che tonalità il nostro cantantino abbia preso la canzone, specie in rapporto all’originale. Sì, ma tanto si sa che il groove è come una seconda pelle, basta viverlo e ti si adatta addosso. Ecco perché, presumibilmente, la band, gettato alle ortiche Bruno Mars, attacca con Kiss di Prince. E qui, il feroce sospetto: Capello Fluente, le cui corde vocali di latta stanno dimostrando, diciamo così, poca duttilità, non vorrà partire coi falsetti, vero? Neanche il tempo di chiedercelo, ed ecco che sul palco iniziano strani miagolii, tutti col groove, specie quando c’è da dire be rich to be my girl. Lo scarto tra il pestar duro di basso - chitarra - batteria e i contorcimenti duodenali di Capello Fluente crea in effetti un curioso straniamento, giusto mentre sotto i nostri occhi passa una coppia di ubriachi strafatti, lei con birrozza in mano e orecchiette da coniglietta sberluccicanti, lui tostissimo in bomber, orecchino e capello autoreggente per le mancate docce.
Il massacro di Prince continua, ma Capello Fluente ci crede e i suoi sguardi alla folla eloquono alquanto; ed ecco nuove richieste di su le mani, vai con le mani, quanto sono figooooo!!!! Peccato che, proprio in quel momento, il maxischermo alle sue spalle, fin lì occupato dal nome della band, faccia scorrere i nomi degli sponsor, a partire dalla Conad… ah, anche il groove, il puro ed immacolato groove deve piegarsi alle logiche di mercato…
E siccome simile chiama simile… ecco arrivare Everytime dei predetti The Kolors mashuppato con Get Lucky dei Daft punk, con una serie di stecche che trafiggono senza pietà gli spettatori appollaiati sulle terrazze tutt’attorno alla piazza, facendoli cadere sui funghi scaldanti attorno ai quali si radunavano passanti infreddoliti, travolgendo questi & quelli in un tripudio di bruciaticcio e scintille dovute ai piumini sintetici. No groove, no groove
Ma tant’è, ogni uo-o-o-oh viene silurato nell’aria come se non ci fosse un domani, visto pure che fa un certo freschino, e infatti Capello Fluente arringa la folla chiedendo: “Siete caldiiiii???” e qualcuno si sbraccia, poi si comincia col giochino dell’eco, lui fa “o-ooooh” in attesa di rimando dall’assise, che invece tace. E’ qui che la boccuccia protrusa del nostro eroe inizia a deformarsi nel dubbio di non avere proprio tutto il polso della situazione, mostrando un imbarazzo più o meno simile a quello di Lutero nei confronti delle distorsioni politiche della sua dottrina attuate dai contadini di Svevia. A differenza del pensoso predicatore teutonico, però, il nostro artista capodannizio la butta in caciara, rinnegando il groove, o meglio convertendolo a più pascolabili praterie: “Tutti con me: ollellè-ollallà – faccela vede’-faccela tocca’!! Di nuovooooo!!!”. La folla gradisce. E a ciccia i mashup.  
Del resto mezzanotte s’avvicina, bisogna pure abbassare le pretese: “Dai, ditemi cosa volete… Ancora una? Cosa… Alba chiara? Come? Gelato al cioccolato? Davvero? [che groove, che groove!] Va bene, allora un’altra di Bruno Mars!!”. E giù a distruggere Locked out of heaven, si vede che gli piacciono quelle dove si sparano le o.
Ma arriva il sindaco, quindi ci siamo, almeno la biondina tappa, che ha tentato tutta sera di rompere col suo boy tamarro e tatuato sulla coccia passando da una colonna all’altra della piazza, potrà trovare requie: e così, mentre i due presentatori ricompaiono dal nulla a zittire Capello Fluente, parte il countdown e poi bum, spettacolo spettacolissimo con la torre della piazza coronata da fuochi artificiali festosi & benauguranti. Gente che stappa bottiglie, gente che apre capaci tupperware grondanti di pandoro e ne offre al primo che passa (io), gente che si bacia, si abbraccia, bimbominkia con cosce da lottatrici di sumo che si selfano, fidanzati che giocano a cercarsi la boccuccia, e Capello Fluente, conscio della forza del groove, che parte con Born to be alive, a seguire tutti i soliti pezzi di queste occasioni, tutti groove, e difatti ad un bel momento mezza piazza fa il trenino con Ay ay caramba, tutto declinato in groove, si capisce, come è allo stesso modo groove il caldarrostaio che nessuno si fila, laddove altri fortunelli sgranocchiano mozzarelline groovissime.

E così, con il biancore ascolano che si colora di trine scintillanti, come olive fritte nel buio del cielo, se ne va un anno carico di [fast forward] e allora buon anno a tutti e viva il groove