Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

giovedì 30 maggio 2013

Amiamo farci del male, si sa...

Siete tutti invitati a godere della pipposità trascendentale del blog gemello di latte scaduto di Machittevòle. Perché noi, come la cicoria, ci riproduciamo spontaneamente per gemmazione.

Volate dunque verso le lande dell'Ipernesigea con il magnifico, sublime, tribbitonico sito animaperta!
(Dio mio, che autoreferenzialità...)

lunedì 27 maggio 2013

Tipologia A - analisi di un testo letterario.


Per festeggiare degnamente i 5000 contatti del blog (evviva!!!, no, aspe', 200 contatti sono spam dalla Russia... Vabbe', non vorremo fare come quelli che festeggiano di domenica il compleanno se esso cade in un giorno feriale, vero? Viva Machittevòle,  nunc et semper!) ci dedichiamo all'esegesi di un pezzo di letteratura comica tra i meglio riusciti dai tempi delle Tesmoforiazuse di Aristofane. Potremmo anzi definirla commedia dei voluti equivoci, o darle proprio un titolo greco, chessò, Kenolalùsa (“Colei che ciarla a vuoto”) o Allologoplesthèisa (“Colei che è riempita dalle parole altrui”) o al limite Anaretòphoros (“La non-portatrice di virtù”), insomma vorremmo dire due parole sulla replica dell'ex, molto ex Ministro della Pubblica Istruzione MariaStellaGelmini (d'ora in poi MSG) alle dichiarazioni del fresco neoministro sempre dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, (d'ora in avanti MCC).
Noi umanamente si vorrebbe essere amici di tutti, ma non posso non provare sincero astio nei confronti di un ex Ministro dalle competenze nulle rispetto al dicastero che fu chiamato a ricoprire ormai 5 anni fa: l'azione devastante dei tagli, condita con slogan qualunquistici o falsi come: “La scuola è un ammortizzatore sociale”, “Ci sono più bidelli in Italia che carabinieri”, “Gli insegnanti sono una categoria proletarizzata DALLA SINISTRA [mai io no...!] e perciò i peggio pagati d'Europa”, “I sindacati hanno creato illusioni a tutti gli specializzati SSIS che ora si trovano a dover scoprire che i posti di ruolo che loro sognavano non sono mai esistiti”, l'impressione evidente di non sapere un cicca di ciò di cui parlava, l'aver agito come mettifaccia per un piano di vendetta storico-politica contro una categoria di privilegiati coccolati per anni DALLA SINISTRA [ma io no...!], le rispostine precotte con sorrisino di sufficienza tutte le volte che le si chiedeva un parere sulle disperate proteste degli insegnanti di tutta Italia (“Mah, cosa vuole, è gente legata a vecchi schemi DI SINISTRA [ma io no...!] che non si rassegna, poca cosa, gli insegnanti veri stanno dalla mia parte”), l'ipocrisia della qualità promessa e mai arrivata, l'indegnità, ebbene sì mi spingo a dirlo, l'indegnità rispetto al compito assegnatole, tutte queste cose fanno di MSG, e mi spiace davvero, l'individuo ad oggi più esecrato nella storia di questo blog.
Stesse almeno zitta. Macché. Donna Carrozza, in una serie di interviste, ha spiegato le sue intenzioni volte a restaurare un minimo di quiete in un mondo preso disumanamente di mira nell'ultimo lustro. E MSG ha voluto ribeccare.
Dice MCC: c'è bisogno di un esercito di insegnanti, perché la scuola deve essere rinsanguata.
Starnazza di rimando MSG: “Gli insegnanti ci sono, inutile assumerne ancora... E più che aumentare il numero di insegnanti, credo che si debba procedere lungo il percorso già tracciato: la razionalizzazione delle spese per finanziare la qualità e reimpostare il sistema educativo sulla base del merito"
Osservo io: cara MSG, non sei forse tu che hai fatto in modo di far sparire 187.000 cattedre coi tuoi tagli? Sì, ricordo benissimo quando la tua macellante riforma fu proposta all'Italia tutta nello studio di Matrix su Canale 5: non c'eri tu a parlarne, perché evidentemente non avevi memorizzato ancora tutte le cose da dire, e al tuo posto furono mandati due noti intellettuali come Roberto Cota della Lega (che continuava a chiamare al maschile le scuole di specializzazione definendole “i SSIS” - e Fioroni a correggerlo) e Roberto Bocchino, allora in quota PDL. Ricordo il sofisma bocchinesco secondo cui “con questa riforma nessuno perderà il posto, è una semplice opera di razionalizzazione che prevede dei tagli al personale”. Ora, senza scomodare la logica aristotelica, com'era possibile che una riforma razionalizzante fatta di tagli al personale non comportasse perdite di posti? Si trattò in effetti di un argomento sul tipo delle profezie ambigue di Apollo a Delfi, vere in enunciato, ma falsificabili in attuazione (Creso, si sa...): la riduzione delle ore delle singole materie e l'aumento del numero minimo degli alunni per classe avrebbero certo ridotto i posti, ma in organico di diritto, posti che spesso e volentieri sarebbero stati riassorbiti in organico di fatto. Senza stancare troppo i lettori non addentro a questi ingranaggi particolari, l'organico di fatto si sarebbe fatto paracadute dei posti persi in diritto, costringendo gente di ruolo a trovarsi di anno in anno una nuova sede di titolarità. Allora aveva ragione Bocchino? No, perché in anni non gelminiani gli organici di diritto non soffocati servivano ad immettere in ruolo i giovani insegnanti, mentre gli organici di fatto servivano, e servono, ad assegnare i cosiddetti incarichi annuali ai precari. Ebbene, strozzando a monte il diritto, e a valle il fatto, è chiaro che il grosso dei docenti di ruolo si salva, ma a prezzo di continui pellegrinaggi con tanti saluti alla continuità didattica e alla pace personale, oltre al fatto di non avere più immissioni in ruolo, o molto poche, con cui stabilizzare i precari, che si vedono pure decurtata la prospettiva di incarchi annuali. Tutto ciò per tacere di chi il posto non lo trova è più davvero e deve ripiegare su altra classe di concorso o sul sostegno (immaginate la passione che ci metterà con gli alunni portatori di handicap... grande umanità, brava MSG) o vedersi al peggio messo a disposizione del Provveditorato come tappabuchi in tutta la provincia o alla fine licenziato dopo 48 mesi di esubero.
Insomma, sofismi a parte, più dei docenti che hanno perso per sempre il posto, conta il mancato turn-over coi giovani, l'inserimento di forze fresche ed entusiaste a supportare l'esercito di 50enni che già sognerebbero la pensione. Che gli insegnanti ci siano, cara MSG, sarà pur vero dal tuo punto di vista, ma è il loro stato attuale che tu dovresti guardare, il senso diffuso di essere presi di mira indiscriminatamente, il dover temere tutte le volte qualche punizione non meritata, la squalifica sociale cui anche tu hai contribuito. Ci sono, certo, gli insegnanti, ma devono lavorare in aule sovraffollate e NON A NORMA per quanto riguarda la sicurezza nel rapporto tra alunni e metri cubi; ci sono, certo, ma o sono condannati dalla tua riforma e da quella della Fornero a un'interazione con generazioni di bimbominkia che, sia nei numeri che nell'età, risultano un macigno assurdo per loro, o, nel caso dei giovani, devono continuamente aggiornare le speranze di una stabilizzazione che d'un colpo è diventata una pretesa infantile, quasi un capriccio da aspiranti fannulloni, sì che molti di loro guardano con amarezza al loro passato studentesco fatto appunto di studi e sacrifici, di successi tramutati in una palude di attese deluse, laddove le Olgettine tanto care al tuo capo uscivano da Arcore con 2000 euro in tasca per sera e le chiavi di una Audi R8 “perché non sanno cosa fare della loro vita”. Il messaggio è quindi questo (“meglio Dallas che Pallas?”) e tu magari hai acconsentito che così passasse a noi? Ci sono gli insegnanti, come no, ma la loro miscela anagrafica è una condanna per il futuro della scuola, la motivazione è ZERO, i numeri non sono in grado di gestire le nuove situazioni didattiche ed emotive creata dal bimbominkismo.
Dice MCC: se non mi aumentano le risorse, mi dimetto.
Risponde MSG: aumentare i docenti è una logica di sinistra che ha proletarizzato gli insegnanti con stipendi più bassi d'Europa, senza carriera e riconoscimento dei meriti. Si sono vendute illusioni, posti che si sono trasformati non in posti di ruolo ma in posti di attesa in graduatorie infinite.
Osservo io: cocca, non scambiare l'effetto con la causa. I posti c'erano prima che intervenissi tu. Non eravamo illusi, ragionavamo sulla base di prospettive numeriche che TU hai stravolto. Sarebbe come se io radessi al suolo interi quartieri ALER o IACP e alle famiglie bisognose dicessi: “Scusate, vi hanno fatto credere che aveste diritto ad una casa ad affitto agevolato, ma non le vedo...”. E la storiella della razionalizzazione a beneficio della qualità è una foglia di fico, tanto che tu stessa hai dovuto uscirtene dicendo che i soldi risparmiati sono andati tutti a pagare gli scatti di anzianità dei docenti; ah, perché non lo sapevi prima? Pensavi che lo scatto di anzianità fosse una variabile indipendente? Dopo averci scassato the zebedeys dicendo che il 98% dei soldi del MIUR andava in stipendi, scopri che i risparmi vanno ancora in stipendi? Come dire che siamo un pozzo senza fondo e forse non si è tagliato abbastanza? O forse non era meglio ammettere che la scuola non è un ente a fine di lucro e che il vero risparmio in questo settore è sbarazzarsi degli insegnanti incapaci, purtroppo protetti da sindacati miopi e pronti sempre a difendere gli indifendibili? Sai che il vero risparmio sarebbe stato usare GLI STESSI soldi per pagare gli insegnanti VERI dopo aver pensionato o indirizzato ad altra amministrazione pubblica gli imbecilli, e lo spazio d'azione ci sarebbe? Quelli erano i veri tagli, non alle risorse, ma ai rami secchi dal punto di vista della capacità didattica. Ma è evidente che a te e alla tua maggioranza di panini alla Divina Commedia interessava risparmiare da qualche parte, e avete avuto buon gioco a colpire noi, nell'acquiescenza ipocrita dei sindacati, con la pancia del Paese tutta contro una categoria in cui un numero ridotto di mele marce ha mandato in malora tutti gli altri. Non ci siamo illusi: tu ci hai rovinati.

Ma la perla della replica gelminiana è questa: “Anch'io con Tremonti ho dovuto alzare la voce”. Certo, per dirgli a pranzo: “Giulio, mi passi il saleeeee?”. Ora, MSG carissima, abbi almeno la decenza di non fare la figura di quella che ci ha pure voluto difendere: tu sei forse il primo ministro della storia repubblicana che si è fatto nemico dei suoi stessi dipendenti, agendo con una esibita volontà di pulizia dietro cui si celava solo un progetto di annientamento punitivo. Come un professore che pensa solo a bocciare gli alunni. Sicché, dolcissima avvocata nostra, risparmiati i lamenti postumi, poiché NESSUNO sulla faccia della terra potrà mai credere che tu, anche solo per un millisecondo durante il tuo ministero, abbia pensato a qualcosa che fosse dalla nostra parte, anche perché, è noto, non eri tu a decidere, ma facevi le veci, e le voci, del duo Brunetta-Monti, decisi a massacrare i dipendenti pubblici a loro giudizio più indegni di tutti, cioè noi, la qual cosa fa doppiamente senso se si pensa che i due in questione sono pure docenti universitari. Ma tant'è. Tu, però, in tutta simpatia, cerca d'ora in poi di non fare più uscite come questa; non coprirti di ridicolo; hai voluto tornare alla Pubblica Istruzione, e non ti ci hanno voluto; hai tentato di pretendere la presidenza della Commissione cultura e non ti ci hanno messo, né come presidente né come membro della commissione stessa; non credi che questo voglia dire qualcosa? Non cogli il messaggio che ti sta arrivando dalla tua stessa maggioranza? Il web è strapieno di pesanti allusioni ai motivi della rapidità della tua carriera politica, ma in questo blog si ragiona sui fatti, non sui pettegolezzi. E i fatti dicono che tu sei stata sfiduciata PER INOPEROSITÀ dalla tua stessa maggioranza quando eri assessore al comune di Desenzano; eppure, nonostante ciò hai fatto il salto di qualità: sii felice di esserti trovata nel giro giusto al momento giusto; hai cambiato tre licei classici, segno forse di non completa adattezza al corso di studi: ciò spiegherebbe abbondantemente il tuo disinvolto odio nei confronti della scuola. Grazie. Hai centrato l'obiettivo. Hai rovinato al vita ad un numero imprecisato di persone, hai mandato in fumo anni di entusiastica dedizione alla cultura, hai reciso speranze legittime e sacrificate sull'altare di conti strabici rispetto ai veri sprechi del nostro mondo, hai portato disperazione, frustrazione, rabbia, e tutto col sorriso sulle labbra. A te individui e famiglie devono il peggioramento delle proprie condizioni di vita e tu glissi. Hai ucciso il futuro di un'intera generazione. Brava. Ora taci. Non osare MAI PIÙ pronunciare una sola parola su un mondo che non hai mai capito, ma solo martoriato. Rasségnati ad un oblio verso cui stai scivolando impercettibilmente. Torna nel mucchio. Lascia che la scuola riposi ferita e non infierire con parole inutili e sciocche. Datta, dayadhvam, damyata.
Shanti
Shanti
Shanti.

venerdì 24 maggio 2013

Ehi, brava gente...

Qui a fianco il modulo per indicare online i migliori siti dell'anno da far partecipare ai Macchianera Italian Awards 2013; c'è anche la categoria 'sito rivelazione' e qui si stanno per raggiungere i 5000 contatti (!!!). Fate un po' voi. LOL (ho scritto LOL? Sì, hai scritto LOL). 

Il prete scomodo che aizza le tribune.

 
Premesso che chi scrive, cioè la Spocchia, poco o nulla sa del recentemente defunto don Andrea Gallo, eccetto il fatto che piaceva a molti e stava sulle storie ad altrettanti, la sua morte ci consente di studiare in vitro le particolari movenze della nostra opinione pubblica, a dimostrare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che da noi ogni posizione ideale od ideologica si risolve sempre e solo in univoco, a-dialettico, preconcetto, sordo, sprezzante tifo. 



L'uomo, a quanto ci pare di aver capito, era nato per dividere: sin dagli anni giovanili la sua vocazione cattolica si tinge di rosso, sì che in lui, come poche altre volte è capitato nella storia dell'umanità, il matrimonio tra carità cristiana e solidarismo socialista si compie alla perfezione. Con tutte le conseguenze del caso, s'intende: presa il Gallo la tonaca, il cardinale di Genova, Giuseppe Siri, uomo di rocciose convinzioni, al confronto del quale persino il tormentato Paolo VI o l'innocuo Albino Luciani potevano passare per rivoluzionari cubani, coglie nella predicazione gallesca germi di eccessiva eterodossia e lo sposta là dove il don troverà il suo spazio ideale, la ridente località di san Benedetto al Porto, poi sede della sua comunità di recupero di tossicodipendenti, prostitute, adolescenti difficili et similia. Da lì in avanti è tutto un fiorire di dichiarazioni e prese di posizione piuttosto forti su temi caldi e ovviamente compromettenti ove si volesse non dico sganciarsi, ma perlomeno eccepirsi dalle direttive ufficiali del Vaticano: fumo di spinelli, benedizione dell'omosessualità come dono di Dio, partecipazione a comizi con tanto di “Hasta la vitoria siempre!!” finale, eccetera. Ecco dunque che don Gallo si presenta come prete degli ultimi, niente a che vedere con le goderecce gerarchie ecclesiastiche standard, buone solo a predicare a vuoto dai loro pulpiti ingioiellati per poi concedersi stili di vita tutt'altro che francescani. 



Povertà, atteggiamenti controcorrente, provocazioni scientemente attuate secondo un piano divulgativo chiarissimo nella mente del don, e che però hanno avuto, come sempre in Italia, l'effetto di dividere la platea in due schieramenti bellicosi pronti a sommergere di improperi la sua figura o al contrario a santificarla ad ogni sillaba che gli esce dalle labbra, naturalmente in contrapposizione con l'altra Chiesa, quella bombardona, lussuriosa, anacronistica e maneggiona (Wojtyla compreso) che soffoca ormai nell'aria viziata dei palazzi apostolici senza sapere nulla del mondo reale.
Non risulta pertanto stupefacente che persone anche a me vicine, la cui ortodossia romana mai avrei messo in discussione, gente vicina ad un bigottismo quasi tridentino, si spelli ieri e oggi le mani per la morte del don, appellandolo come “vero prete”, “il parroco di tutti noi”, fatta poi la somma con i radical-chic sinistresi, i quali, pur di dire “nononono” a tutto ciò che è Chiesa ufficiale, candiderebbero Papa il primo sciamano Tagiko che gli capitasse a tiro, perché dare addosso alla Chiesa (fatta pure la tara dei suoi tanti e oggettivi errori di gestione degli ultimi decenni) fa sempre fino, fa sentire à la page col mainstream, permette di essere cool, pur non avendo alcuna forma di religiosità ad innervare la propria vita, ma chi se ne frega, l'importante è cantarle a quelli là con la tonaca, noiooooosi...
Dall'altra parte, sponda cattolico-pidiellina, i primi distinguo, e ovviamente palle incatenate da parte di chi vede in don Gallo nient'altro che “il prete comunista”, agitatore di piazze come un Che Guevara qualsiasi, spinellatore pro-froci, e chissà cosa combinava in quella sua comunità piena di ragazzi... Al che il non- pidiellino risponde per le rime, obiettando che a questi qui piacciono solo i preti di CL, gli affaristi alla don Verzé e alla don Gelmini, ovvero il pretume imprenditorial-fighetto che trasforma la Fede in un brand redditizio come lo zinco; ed ecco allora questi altri replicare che a don Gallo interessavano solo certi casi umani e non altri, e che è inutile accogliere tossici nella comunità se poi sei il primo a lodare le virtù del cilum. Insomma, il solito talk-show.
Quindi? No, niente, vorremmo dire la nostra, giusto perché l'oceano è formato da tante gocce, ma soprattutto vorremmo una volta tanto metterci in atteggiamento paraculo e bacchettare gli opposti schieramenti, stando equanimemente al di sopra delle parti.
Ai radical- chic innamorati della povertà altrui diciamo senza mezze riserve né mezze maniche che devono rassegnarsi: l'espressione “prete comunista” è e sarà sempre un ossimoro radicale. Comegià ampiamente argomentato altrove, cattolicesimo e marxismo hanno punti di combaciatura (o combaciaggio?) solo empirici nell'idea che la dottrina sociale di un popolo debba garantire l'uguaglianza dei diritti e dell'accesso all'ascensore sociale, dopodiché si sa come i comunisti trattavano e trattano i cattolici. O si accetta la dimensione metafisica o la si rifiuta, ma se la si rifiuta e al suo posto si sostituisce la religione della ragione, ovvero l'ideologia, e con essa il più disumano degli addentellati, ovvero la strage di chi non si allinea, e se poi si riduce l'uomo a tubo digerente, e se poi il linguaggio dell'uguaglianza deve essere imposto con la forza del gulag, e se poi l'orizzonte umano finisce qui e non va più su, insomma, difficile mettere d'accordo queste due parrocchie. Che sul piano pratico certamente possono sembrare simili, ma posizioni sincretistiche che prendono un po' di Cristianesimo e ne correggono l'afflato ultraterreno con robuste dosi di materialismo ateo (cioè ne concretizzano le illusorie promesse ultramondane con tangibili progetti transeunti) sono pura libido frankensteiniana. È ben vero che anche al tempo dei maiores nostri c'erano due filosofie, epicureismo e stoicismo, che non andavano d'accordo su niente tranne che sull'etica: l'atomismo epicureo, col suo carico di meccanicismo necessario appena corretto dal clinamen, mal si sposava con il 'provvidenzialismo stoico' che vedeva nel cosmo l'azione perpetua e finalizzata di un fuoco pneumatico; eppure, ridotte all'osso, le etiche delle due scuole dicevano più o meno la stessa cosa, ovvero che la felicità sta nella misura, se è vero che i termini usati da Epicuro e Zenone per indicare il raggiungimento della pace psichica sono rispettivamente atarassia (assenza di turbamento) e apatheia (assenza di passione, intesa come pressione degli agenti esterni che alterano la tonicità dell'anima), ovvero due quasi (quasi!!!!) sinonimi. Semmai il bivio era tra la visione comunque a suo modo 'missionaria' del saggio stoico, la cui volontà di giovare agli altri è diretta virtualmente all'umanità tutta, e il vivere nascosti dalla folla e dalle sue seduzioni confusive, che è uno dei precetti fondanti l'epicureismo. Poi uno poteva pure stoicheggiare epicureggiando o viceversa (Seneca, per dire...), pescando un po' qui un po' lì, ma alla fine, se tali eclettismi erano possibili, ciò si doveva non tanto alla natura intimamente eclettica del pensiero ellenistico (sì, anche Roma antica è culturalmente una provincia dell'ellenismo, rassegnatevi), quanto al fatto che epicureismo e stoicismo sono, alla loro radice, due filosofie materialistiche, entrambe radicate sulla credenza in un principio materiale da cui tutto si origina, sì che nulla vi è nelle regioni metafisiche, proprio perché tutto è mondo fisico e basta. Difatti, per quanto ci si ostini a ritenere lo stoicismo una specie di pre-Cristianesimo, le differenze tra le due dottrine sono tali che il presunto epistolario tra Seneca e San Paolo va giusto bene come argomento di filologia da macchinetta del caffè: un dio-pneuma impersonale che crea e non ama ciò che crea, essendo egli stesso materia fisica che si fa mondo creato, non è il Dio metafisico cristiano, spirituale e altro rispetto al mondo da lui creato dal nulla, mondo destinatario di un amore che discende poi nell'etica dell'agàpe, laddove il freddo (in senso emotivo) pneuma stoico non poteva che produrre l'etica dell'immunità dalle passioni, sì che pure la pietà e l'amore sono pericolose distorsioni dalla virtù. E parliamo di stoici, che regimi totalitari non ne hanno mai fondati. Orbene, non dovrebbe essere difficile capire che il prete comunista è tanto logico quanto lo stoico cristiano, nel senso che per esserci ci sono (Parini, per dire...), ma è evidente che la loro militanza religiosa si tinge di caratteri molto molto laici, di un laicismo che alle volte, semplicemente e senza che ciò debba fare scandalo, confligge con l'ortodossia, perché, che piaccia o no, l'ortodossia, c'è. Altro però è trasformare l'anticonformismo in contro-religione, ovvero decidere macchinalmente di cambiare di segno tutte quelle che sono le indicazioni della Casa Madre per dimostrare di non essere corrotti dalla pestilenza vaticana e pretendere di essere sempre nel giusto. Ebbene, il Gallo senza dubbio ha indulto a ciò, la qual cosa non gli ha mai per fortuna meritato la scomunica a divinis, e però possiamo comprendere certo disagio di certuni nei confronti delle sue uscite a volte assai estreme: le coscienze individuali, in materia di religione, sono molto spesso ben più fragili e ricettive di quanto non si pensi, ovvero vogliono che qualcuno dica loro qualcosa di sufficientemente certo e persuasivo, e che questo qualcosa regga anche alla prova dei fatti; quando però si vede una fetta della gerarchia muoversi in una direzione e sacerdoti singoli agire quasi a titolo personale, è chiaro che il dubbio su dove stia la ragione è forte; se poi il prete in questione strizza l'occhiolino in modo inequivocabile a certe dottrine che la Casa Madre fulminava con la scomunica fino all'altro ieri, il disagio è più che comprensibile. Tutto ciò però è affare per credenti che hanno il diritto di avere una parola univoca e sicura sulle questioni di fede, sia teologiche che morali: stiano per favore zitti i religiosi da salotto che non vanno mai in Chiesa perché è troppo scontato, ma plaudono a don Gallo come eroe civile per puro conformismo, giusto per far vedere che anche loro ci tengono agli ultimi (mica come quei preti là), sempreché ne trovino uno disposto a lavargli la Jaguar.
Ciò detto, l'ondata di commozione alla Gallo's death, con tanto di Cardinal Bagnasco, capo dei vescovi italiani, che officerà la Messa, a definirlo “un fratello”, sì, insomma, decidetevi, voialtri. È chiaro che il personaggio, nei suoi eccessi e nelle sue a volte bizzarre riuscite, mostra una volta ancora quale sia l'intima tensione contraddittoria che da sempre azzoppa l'operato della Chiesa, scissa ab origine tra la sua dimensione verticale di emanazione di Dio tramite Cristo e quella orizzontale di Verbo incarnato e quindi soggetto alla passione e alla condivsione. Il che, tradotto in termini casarecci, sta a significare che la Chiesa ha una duplice identità, gerarchico-manageriale e missionaria, solo che spesso la prima scavalca la seconda, con le nefaste conseguenze a tutti note, così che poi c'è sempre la corsa all'uomo di Chiesa 'anomalo' in grado di incarnare quei valori di purezza primigenia che la sete di potere, legata indebitamente alla funzione spirituale, prosciuga negli animi della maggior parte dei chierici, dal più dimenticato parroco di campagna su su fino alle stanze vaticane. Si finisce cioè in quella situazione per cui il supplentino alla prima esperienza o il professore pazzo che suona la chitarra in classe riscuotono più successo dei colleghi ormai calcificati in una didattica sempre uguale a se stessa, sordi alle richieste di adeguamento, incapaci di alcuna empatia con i discepoli, anche se alla fine la 'nuova' scuola non dà poi troppo di più dell'altra. Eppure il loro successo sta nella passione che mettono nel mestiere, al di là dei diktat delle riunioni di Dipartimento o delle circolari ministeriali: essi risultano dei battitori liberi e quindi più disposti a venire incontro agli alunni. Il bivio sta allora a valle: ricordarsi che, al netto della didattica più dinamica e meno ingessata, il fine del docente è sempre quello di lasciare certe competenze, e quindi sforzarsi di farle maturare anche con i nuovi approcci; oppure fregarsene bellamente di tutto, trasformare la scuola nel proprio palcoscenico, farsi amici gli studenti accontentandoli in tutto e poi saranno fatti loro. La sete di figure come don Gallo nasce proprio dal fatto che le gerarchie 'ufficiali' riducono troppo spesso la sostanza a forma, predicano povertà e girano in elicottero, esortano a cercare il volto di Gesù anche nei disperati e poi usano le offerte dei fedeli per costruirsi casa. Eppure è chiaro che una totale de-gerarchizzazione della Chiesa porterebbe all'anarchia o alla creazione della religione fai-da-te; il modus operandi di don Gallo elevato a sistema consentirebbe a chiunque di prendere un pezzettino di Cristianesimo, ibridarlo con qualche ideologia alla moda, e tirar fuori un prodotto da piazzare ai fedeli in concorrenza con altri Cristianesimi più o meno seducenti; l'altro problema è che l'aiuto ai diseredati è ovviamente scopo precipuo della carità cristiana, basta che poi non si crei una sorta di elitarismo a rovescio per cui meritevole di compassione è l'individuo che ha alle spalle almeno un suicidio in famiglia, mentre della ragazza anoressica o del nerd alienato nessuno si cura più: voglio dire che la nostra società ha prodotto forme di “ultimaggine” anche diverse rispetto a quelle ormai consolidate, ma non meno gravi; i dolori che non sono così evidenti, le depressioni nascoste, le famiglie dilaniate dalla gelosia o dai tradimenti, l'incomunicabilità diffusa sono certo cose meno eclatanti di un giovane che si pippa di eroina un giorno sì e l'altro pure, ma non per questo meritano meno attenzione. Il rischio sennò sarebbe quello di incorrere nella “sindrome delle due Simone”, a ricordo delle due volontarie Pari e Torretta, sequestrate e poi liberate in Irak ai tempi della seconda guerra del Golfo, le quali hanno sempre lasciato intendere che il vero volontario minimo va sui teatri di guerra, altrimenti è troppo comoda. Io non direi: se so che il mio vicino di casa ha un figlio con problemi e posso aiutarlo, non mi sento diminuito perché ho la disgrazia sotto casa. Ecco, il dongallismo, se estremizzato, potrebbe portare a questo curioso algoritmo; se invece trattato coi dovuti riguardi, esso può generare il lievito concettuale di cui tutti sentiamo bisogno: la Chiesa deve ricordarsi di tutti, e sopratutto dimenticarsi una buona volta della donazione di Costantino. 



[Ma tanto, il giorno del funerale, sarà tutto un darsi del fascista e del comunista tra detrattori e agiografi del don...]

lunedì 20 maggio 2013

Le pagelle della settimana (5)

L'allegra Newteam del governo Letta. Al Quirinale, dopo un'ossessiva Holly e Benji marathon a base dei videocassette registrate a suo tempo dalla Meloni e gentilmente prestate per la bisogna, devono aver concluso che il modo migliore di trovare una squadra di governo accettabile sia quello impiegato già a suo tempo dall'Assessorato Sport e Politiche giovanili della ridente città di Fujisawa, allorché si trattò di mettere insieme una squadra di calcio da far partecipare con speranze di successo al campionato nazionale giovanile della Giapponia. Allora si fece un casting a dir poco spietato che coinvolse Newppy (o come diavolo si scrive),  Saint Francis ecc, ecc. e saltò fuori la formazione finedimondo, sostanzialmente un'accolita di fighetti che sbancò la competizione dopo l'epica finale contro la Muppet, guidata dal proletario marxista Mark Landers. I nomi, scolpiti nella nostra memoria a lettere di bronzo: Benji Price (Alan Crocker per 9/10 del torneo); Charlie Custer, Frankie Gilbert (Bruce Harper a partire dal secondo tempo del match contro la Hot Dog); Jill Taylor, Jack Morris, Bob Denver; Ted Carter, Paul Diamond, Johnny Mason, Oliver Hutton, Tom Becker. 
Ecco, più o meno siamo addivenuti ad un risultato consimile con i nostri ministri: scartati tutti coloro che in passato, nel PD nel PDL, hanno avuto vaghi o meno vaghi incarichi governativi, si è proceduto ad una spartizione delle poltrone tra i meno impresentabili che ha accontentato un po' tutti. Certo, Alfano viceministro e ministro dell'Interno è un po' come dire: "Attenti, Silviuccio vi guarda..."; certo, Saccomanni all'Economia è un po' come dire: "Cara Europa, non temere, gli unici che capiscono di finanze in Italia non sono i politici, dobbiamo appaltare il ruolo"; certo, la Lorenzin alla Sanità è un po' come dire: "Ad ogni turno ci vuole un'incapace, l'altra volta fu la Gelmini, avvocato di chiara fama incaricato di sventrare la scuola pubblica (Gelmini che, mi dicono fonti piuttosto addentro agli arcana imperii della capitale, ha davvero sgomitato fino alla sera prima del varo del governo per riavere la Pubblica istruzione, dichiarando poi che le sarebbero andate bene anche le Pari opportunità, della serie: "Basta che mi ci mettiate, sto"), oggi tocca ad una diplomata al classico che disquisirà di aoristi gnomici e frammenti di Alcmane nel firmare i protocolli per le cure con le staminali; certo, Lupi ai Lavori pubblici sa tanto di premio feudale al vassallo chiacchierino disposto a sostenere ogni sofisma pur di dare ragione al Capo; ma insomma, la zattera è partita, e al ministero che più a tutti noi sta a cuore hanno messo una che sfracelli non dovrebbe farne, la Carrozza, intendo, anche se l'unico minimo dubbio nostro è che, essendo lei donna più che altro di ambienti universitari, come l'evanescente Profumo, che davvero NON ci mancherà, le manchi un pochino il polso sui problemi concreti della scuola, sia quelli ormai storici che quelli sopravvenuti a causa della macelleria gelminiana. Ma vabbe', lasciamole tempo.
Tempo che, invece, ci pare finora usato maluccio da Oliver e Tom, alias Letta & Alfano, i quali, dopo essersi messi d'accordo sulle regole d'ingaggio per non irritare le proprie rispettive basi politiche andando a braccetto con  l'avversario, hanno esordito con la comica due giorni di ritiro pre-cresima nell'abbazia di Spineto, "per fare spogliatoio", ha detto Letta. Già l'uso di una metafora calcistica di chiara etimologia berlusconiana mostra il livello di permeabilità che una coalizione sta esibendo nei confronti dell'altra. Le conclusioni del nirvana abbaziale dello scorso weekend sono però desolanti nel loro essere un crogiuolo di buone intenzioni a cui sostanzialmente manca una cosa per essere messe in atto: i soldi. È bensì di oggi la notizia della sospensione della rata di giugno dell'IMU, ma essa sospensione sarà confermata solo se nel frattempo si escogiterà qualcosa per rimodulare o abolire proprio la tassa, sennò dal 16 settembre torneremo a pagarla as always. Così però si è dato un contentino al PDL, che ovviamente per bocca di Tom Alfano ha subito detto che con questo provvedimento "il governo ha fatto gol". Sì vabbè, un gol da rivedersi alla moviola, semmai. Ma è così, alla fine da Spineto abbiamo avuto tanto ottimismo condito con tanti "vedremo", "chissà", "speriamo". In effetti, la conferenzina tenuta dal trio Letta- Alfano- Quagliariello (il quale nell'organigramma governativo corrisponde circa a Johnny Mason, centravanti di spinta per le riforme) ha avuto una declinazione di stupidità quasi onirica: è partito Letta spiegando, con giri di parole degni di una pagina di Proust, che la situazione è quella che è, che ci sono quattro punti e che poi ci sono questi quattro punti e se non si era ancora capito hanno partorito quattro punti che consistono nell'essere questi quattro punti; poi tocca ad Alfano che ribadisce di cosa si tratta nei quattro punti e che è davvero un successo il raggiungimento di questi quattro punti, che se non avete ben capito sono questi; quindi chiude Quagliariello sottolineando le specificità dei quattro punti, rielencandoli dal basso verso l'altro, quindi riassumendo i quattro punti in modo che il pubblico da casa capisca che sono quattro. Morale? Abbiamo quattro punti da svolgere.
Letta pareva in effetti il classico professore che non ha preparato bene bene la lezione e un po' annaspa di fronte agli studenti cercando di mettere insieme i concetti, ma alla fine dice poco o nulla. In effetti non è il contenuto dei suoi discorsi che stupisce, poiché si sa che la situazione attuale dell'Italia è quella che è, quanto il giro di subordinazione, tanto tornito quanto superfluo, che non porta di fatto a niente che non si possa dire in quindici-venti parole. Dopo un po' che lo si ascolta si giunge ad uno sfinimento cosmico, perché si percepisce che la circonvoluzione dei concetti serve solo a dare spessore a qualcosa che di spessore non ne ha. Alfano, invece, lieto del suo ruolo di pupazzetto che parla per ventriloquio altrui, ammanniva i medesimi concetti del collega con la leggerezza di chi sa che qualsiasi colpa di questo governo non verrà addossata lui e quindi può promettere quel che vuole. Bel quadro. voto 8 (4 Letta + 4 Alfano).

Giuseppe 'Pippo' Civati: sarà che al PD sono in cerca di sostegni che non facciano precipitare la baracca (per quanto Epifani ieri pomeriggio abbia plasticamente ipostatizzato la reale situazione del partito), sarà che le beghe interne lasciano poco spazio alle public relations, sarà che il ritiro a Spineto ha sfinito tutti o quasi, da qualche tempo l'unico esponente piddino che gira infaticabilmente, a nome di un partito in cui peraltro si riconosce poco, per programmi radio & TV è questo allegro filosofo per fortuna senza spocchia, giovane esponente di una sinistra poco acida, una sorta di Sergio Chiamparino sottopostosi ad un'endovena di pandoro.


  

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Civati, appunto: il quale, esibendo una capigliatura fulva abbinata a curiose sopracciglia bionde, ha un modo di porsi che lo colloca in una galassia che non è né dalemiana né renziana né, tantomeno, cacciariana. Di D'Alema Civati non ha la superciliosità sprezzante e lo scherno automatico delle altrui opinioni; di Renzi gli manca l'atteggiamento da esperto di economia domestica che ti spiega per filo e per segno come si piegano le camicie dopo la stiratura, dimostrandoti che lui solo ha capito qual è il verso giusto per salvare i gomiti delle maniche dalla consunzione; di Cacciari, tecnicamente l'uomo a lui più affine, gli manca l'aire di colui che sa TUTTO, che è entrato nei meccanismi più profondi dell'Essere assoluto, che se Hegel fosse ancora vivo gli spiegherebbe dettagliatamente TUTTE le aporie della Fenomenologia dello Spirito, irridendole una per una (altro che le vacche nere di Schelling...), che, potendo usufruire della macchina del tempo, si catapulterebbe a Gerusalemme per spiegare a Gesù come officiare l'Ultima Cena in modo che i suoi atti non risultino teologicamente contraddittori nel confronto tra i vangeli sinottici e quello di Giovanni, detto che poi a quest'ultimo, o meglio alla sua comunità, farebbe presente che insistere sull'assenza di dolore del Cristo in croce è una pericolosa concessione al monofisismo. Ecco, Civati perlomeno nei suoi primi atti, è stranamente simpatico. L'occhio ceruleo sorride fiducioso di farsi capire e capire l'altrui posizione, il labbro inferiore lievemente clownesco denota, per IRREFUTABILE fisiognomica pre-lombrosiana, un animo aperto alla giocosa dialettica delle parti, l'abbinata assassina e vagamente trasandata di giacca e camicie sempre dai colori spenti o scuretti indica una totale insignificanza del look oltre l'assetto base nella sua scala valoriale. Il che, peraltro, dovrebbe essere in effetti una saggia risposta alla sinistra fighetta che professa a voce ideali ugualitari e di spartano decoro e poi non resiste alla tentazione della cabriolet. Il Civati pare invece piuttosto soddisfatto di sé intellettualmente, al punto da non aver bisogno di altri orpelli a sostegno del suo Ego. Considerando che nel suo partito c'è gente con lo yacht, gente con le figlie in appartamento a Manhattan, gente votata da gente ancora più truzza di Berlusconi che però si professa antiberlusconiana perché fa fino, insomma, lui pare aver capito perlomeno quale dev'essere il modus apparendi dell'intellettuale di sinistra, diverso ma non astratto, non integrato ma nemmeno ibernato in un idealismo senza sbocchi. Ha rifiutato di votare la fiducia a Letta e non transige, il che, visti gli agguati recenti a Marini e Prodi, è oro colato, là dentro. Ora lo aspettiamo al varco sull'unico fronte nel quale mancano ancora records di peso a lui riconducibili: le idee. Voto 7 di stima con outlook speranzoso.

Il 'comandante' Francesco Schettino. Questo idiota totale, capace di far naufragare una nave pachidermica contro gli scogli dell'Isola del Giglio solo per fare "l'inchino" nelle vicinanze della costa, si è presentato al processo per la morte di 30 passeggeri nel naufragio della Costa Concordia del gennaio 2012 con uno stupore fanciullesco che gli meriterebbe perlomeno l'assunzione di 4 o 5 secchiate di letame per via orale. La sua tesi, meravigliosamente degna del miglior Gorgia, è la seguente: non sono i 30 morti che mi dovete contestare, semmai dovete essermi grati per gli altri 4000 passeggeri CHE HO SALVATO con la mia manovra. Prego? L'ottimo Schettino dimentica forse che il naufragio l'ha causato LUI? Cioè, vuole che ringraziamo per aver portato in salvo gente dopo un guaio imputabile alla SUA personale imbecillità, dicasi che non si trattò di guasto meccanico o imponderabile errore umano, bensì di sciente e cosciente procedura dettata da puro e folle esibizionismo?
Ma non dobbiamo stupirci: questa spettacolare acrobazia dialettica, in forza della quale si potrebbe addirittura criticare Gesù che cammina sulle acque accusandolo di non saper nuotare, è figlia del clima di discolpismo che infetta la società italiana dai tempi dello scoppio di Tangentopoli. Dopo una prima fase in cui ricevere un avviso di garanzia equivaleva ad una condanna senza appello (laddove l'avviso di garanzia di per sé è solo una comunicazione della Procura dell'avvio di indagini sul tuo conto, volte appunto a 'garantirti' la ricostruzione della situazione oggetto di denuncia nel modo più oggettivo possibile, onde poi procedere all'eventuale processo con conseguente condanna o assoluzione), da quando l'accanimento magistratizio contro Berlusconi ha fatto sentire puzza di complotto a più d'uno, oggi chi riceve avvisi di indagine o addirittura viene pluri-inquisito o pure condannato, si ostina a negare gli addebiti, anche di fronte a prove appena appena schiaccianti (Franco Fiorito docet: non sono io che prendevo i soldi, erano gli altri che me li portavano); lo stile della reazione è sempre quello: negare l'evidenza fino al parossismo, ribaltare l'impianto delle accuse sulla base di un mutamento prospettico logicamente verosimile, ma inaccettabile in un contesto più ampio (ex-comunisti docent: ci rinfacciate le stragi rosse in alta Italia del triennio 1945-1948? Ah, perché, preferivate tenervi Hitler e Mussolini?), quindi si procede a discolparsi. L'antica barzelletta: "Non l'ho picchiato, è lui che è venuto addosso al mio pugno" è oggi inverata in questa serie di discorsi assurdi a cui purtroppo indulgono tutti i politici di ogni schieramento. Se vengo sorpreso con un transessuale, ovviamente gli stavo proponendo di tornare sulla retta via smettere di prostituirsi; se mi trovano con la droga in tasca, ovviamente ce l'ha messa il mio vicino di tavolo, oppure stavo conducendo una ricerca sull'uso di sostanze stupefacenti; se intasco tangenti, ci sono stato costretto dai costi della politica; se costruisco una villa abusiva da 54 stanze, dovete ringraziarmi, perché prima qui era tutta sterpaglia. E se causo la morte di 30 persone per aver manovrato un gigante da migliaia e migliaia di tonnellate come fosse un triciclo, sono un eroe per quelli che ho salvato. Bravo, Schettino. Bestia eri e bestia rimarrai. Voto: ergastolo, e gettate la chiave.   

lunedì 13 maggio 2013

Alle origini del Bimbominkismo: l'epopea di Non è la Rai

Ci sono eventi nella Storia, quella con la esse maiuscola, con i quali prima o poi bisogna fare i conti, poiché essi ci hanno sotterraneamente plasmati, e con noi l'umanità tutta, sì che una sana presa di coscienza non può che incrementare l'autocoscienza individuale e collettiva ed instradare la comunità dei viventi e pensanti su sentieri ermeneutici di sicuro spessore.
Tutto questo per dire che non saremmo quei grandi filologi che siamo se non affrontassimo uno degli snodi fondamentali che hanno traghettato la nostra generazione verso quella dei bimbominkia, giacché, è noto, ogni epoca ha in sé i germi della successiva. 
Ed è quindi con commossa sollecitudine che ci apprestiamo a scorrere, obbligatoriamente a grandi linee, i momenti salienti di un programma televisivo a cui tutti siamo un po' debitori, ovvero Non e la Rai. 


1.  La fondazione  
Estate 1991: evidentemente desideroso di esperienze al di là di ogni limite, il regista ed autore televisivo Gianni Boncompagni, scopritore di talenti a getto continuo (Lucio Battisti, Raffaella Carrà, Claudia Gerini) lascia la natìa RAI radiotelevisioneitaliana e trasporta alla corte di Berlusconi su Canale 5 la filosofia programmistica che aveva animato gli sfondi delle ultime edizioni di Domenica In: tutti lorsignori ricorderanno che il programma, condotto in quegli anni successivamente da Marisa Laurito, Edwige Fenech, Gigi Sabani, poggiava su una folta schiera di ragazze in studio (le Ragazze Pop Corn), che facevano da claque, da gruppo canoro, da coreografia, animatrici di sketch vari, caselliste del Cruciverbone et similia. L'idea fulminante di Boncompagni, che però necessitava della sponda di un intenditore di bellezze femminili come Silviuccio, è quella di trasformare la cornice in contenuto (esattamente come i video degli One Direction, ricordate?). Ecco quindi che, nel sonnacchioso autunno di quell'anno, giusto 6 mesi prima dell'inizio del crollo della prima Repubblica per via tangentizia, gli studi del centro Palatino in Roma di Canale 5 vengono affollati da una marea di ragazze e ragazzine tra i 16 e i 25 anni, gente che perlopiù non sa fare NULLA, tranne qualche discreta ballerina e un paio di cantanti di belle speranze, che però giocavano facile perché venivano appunto da Domenica In. Era stato selezionato il cast della trasmissione, il cui titolo appare già sbeffeggiante della TV pubblica, come dire che qui non ci si prende sul serio (quale preveggenza...). Boncompagni stesso fa peraltro capire che lui è arrivato lì a Fininvest (poi Mediaset) giusto per respirare aria nuova, ma certo nulla ha a che spartire col becerume medio della TV commerciale, lui legge l'Espresso e Panorama, mica Novella 2000. Dichiarazioni distensive, come si nota, che gli costano l'anatema dell'allora direttore di TV Sorrisi e Canzoni, Gigi Vesigna, la cui partigianeria pro-Fininvest è peraltro sputata (d'altronde l'editore della rivista è Silviuccio): "Attento, Gianni, Fininvest non è la Rai, l'hai detto tu...". Da paura. Gianni comunque non si lascia intimorire e, giusto per non dare l'impressione di aver creato un asilo infantile per pubblici morbosi, mette alla guida dell'asilo Enrica Bonaccorti, la quale, distintasi sia in campo musicale (suo il testo de La lontananza di Modugno) sia teatrale, sia cinematografico, più una trascurabile cover su Playboy, aveva colto l'apice del successo quando Boncompagni le aveva fatto condurre il programma pre-prandiale su Rai Due, Pronto, chi gioca? che negli anni precedenti era stato condotto da Raffaella Carrà, poi passata a Fininvest e successivamente emigrata in Spagna.  
Vabbe', l'alchimia giovinette urlanti-conduttrice di spessore dà l'idea che Non è la Rai si proponga come programma leggero ma non scemo, in grado di occhieggiare ad un pubblico di giovani e casalinghe in una prospettiva di evasione ma pure di riflessione seria. Ciò spiega certi squilibri sopratutto nelle prime settimane, allorché i giochini degli sponsor, per loro stessa natura estremamente scemi, si alternano a interviste- verità di con donne violentate fisicamente dai mariti. Non mancano poi momenti di ballo&canto, oppure giochi da casa come il 7 e mezzo umano, nel senso che le ragazze, come gli uomini-sandwich degli anni '70, 'indossano' una carta da gioco ciascuna e lo spettatore deve regolarsi come nel gioco normale (praticamente la riffa via telefono). Si tenta tuttavia di guadagnarsi anche parte del pubblico infantile con giochini pucciosi fatti con la videografica e il bambino da casa che deve aiutare la mano  del disegnatore virtuale a creare mari, alberi, fiori & tenerezze varie.
Gli è cioè che gradualmente il programma muta la sua iniziale impostazione housewives - friendly per diventare il primo, vero grande laboratorio televisivo del bimbominkismo, con ben 10 anni di anticipo sulle maestose architetture defilippiche.

2- L'esplosione del fenomeno

La prima stagione svolazza via tranquilla (a parte questo trascurabile episodio...), anche perché le iniziali due ore e passa di diretta, la prima così lunga e per così tanto tempo di fila nella storia delle tv berlusconiane, vengono, a partire dal gennaio 1992, segate di un buon 40 minuti per dare spazio al nascente Tg5 (Sposini ancora sano, Bonamici con tutti e due gli occhi funzionanti, Parodi senza quell'insulsa sorella al seguito... altre epoche...). La Bonaccorti si diverte discretamente a fare da chioccia alle aspiranti starlettes, gestendo le prime, piccine rivalità tra bionde e more, capitanate rispettivamente da Antonella Elia (poi destinata a sbroccare all'Isola dei Famosi, ma già allora palesemente insana di mente) e Yvonne Sciò, salita agli onori della cronaca per la struggente pubblicità telefonica “Mi ami? Ma quanto mi ami....?”. Mentre quindi i primi nomi di un certo peso per il futuro dell'umanità si fanno notare (Laura Freddi, Miriana Trevisan, Cristina Quaranta, Ilaria Galassi), la furbizia boncompagnica punta ad esaltare lo spirito giocoso e fanciullesco del programma, a partire appunto dalla rivalità predetta, per poi dare sempre maggior voce alle ragazze, diciamo così, più esuberanti. Nessuno sospetta ancora nulla, of course, eppure l'indirizzo semantico, vorremmo dire la sterzata assiologica, di più, l'entelechia sub-epiteliale della trasmissione sta lentamente emergendo, ed un solo nome va lentamente prendendo forma negli studi romani: cazzeggio.
Ma perché l'intima natura di tutto tracimi, sono necessari inevitabili aggiustamenti strutturali. Anzitutto, va rinsanguato il parterre delle ninfette, cosa che si ottiene mandando in onda durante l'estate una cosa chiamata Bulli & Pupe, condotta nello stesso studio di Non è la Rai da Paolo Bonolis: nel programma, alcune ragazze (tra cui Ambra Angiolini) si esibiranno in prove di canto e ballo venendo televotate dal pubblico per decretare la migliore nelle due categorie. Cosa vi ricorda?
Poi, l'autunno successivo, si riparte SENZA la Bonaccorti: si vociferò di furiosi litigi con Gianni al grido di: “Io non sacrifico la qualità all'Auditel!!”, che probabilmente è la versione ufficiale data in pasto ai giornalisti di: “Scordati che io mi metta a gestire un puttanaio di diciottenni che fanno il bagno in piscina alle due del pomeriggio!!” (Bonaccorti, comunque, resterà così frastornata dall'esperienza da sparire per un pezzo dalla TV). La conduzione è invece affidata a uno che di TV del cazzeggio (nella da lui stesso celebrata formula “Tette & Culi”) s'intende assai, Bonolis, appunto, passato dalle trasmissioni in cui parlava ad un pupazzo rosa ad una in cui gli tocca parlare con delle bamboline semoventi. La formula del programma cambia di poco, i giochi dello sponsor, specie quelli di Bilba di Cadey si fanno decisamente più complicati (“Il mio nome è Monia, ho 20 anni, sono di Casaltrombatorrione e questa che indosso non è una parrucca” vero o falso?, oppure lettura del labiale delle ragazze che dicono cose tipo: “Estasi”, “Spiaggia”, con Ambra Angiolini che dirà “Solare”, Ambra Solare, pubblicità occulta Dio mio...), ma dev'essere durante le vacanze di Natale che a Boncompagni viene l'idea super-super: Bonolis ci sa fare, per carità, ma vuoi mettere se finalmente il coro tragicomico delle ragazze, qualcuna di loro, almeno, si prendesse il proscenio, naturalmente dietro sapiente direzione della regia?
Detto fatto, il programma transita su Italia1 in nuova fascia oraria (14.30-16.00, addio compiti...) e viene suddiviso in segmenti che prevedono bensì la faccia e le parole di Bonolis all'inizio e alla fine (gioco dello sponsor e congedo dal pubblico), ma in mezzo erompono alcune ragazzine pepatissime e frizzanti che conducono giochini ad alto tasso cerebrale, roba da vietare ai minori, quasi: Ambra Angiolini, futura signora Renga [update autunno 2015: è finita...], futura musa di Ozpetek, futura madrina del Festival di Venezia (poi dici che il nostro cinema va male...), zompetta allegra sul divanetto chiedendo al pubblico da casa di indovinare dieci oggetti che ha nel suo zainetto; Francesca Gollini, cantantina di Bellaria simpatica ed estroversa, e sopratutto destinata ad un futuro di assoluta castita' & castigatezza (come no...), giochicchia con un programma di morphing sfidando il pubblico ad indovinare le facce famose che si nascondono dietro le deformazioni da photoshop proposte sullo schermo; Mary Patty (all'anagrafe Maria Patti, ma questa di anglicizzare i nomi banali è vecchia come il cucù) indugia coi telespettatori affinché, tra una riflessione sociologica e l'altra (“Essere sinceri fa male, a volte, secondo Lei?”), indovinino, una lettera per volta, il nome della nonna (che si rivelerà essere Mosqu – lo dice Wikipedia, ma me lo ricordo bene anch'io); Miriana Trevisan, futura giralettere a La ruota della Fortuna, futura moglie ed ex-moglie e poi di nuovo moglie del noto cantante sardo Pago (all'anagrafe Pacifico Settembre, un singolo orecchiabile e una partecipazione a Music Farm all'attivo), si accrocchia sullo sgabello e chiede al pubblico da casa: “Perché viviamo?”, sentendosi rispondere: “Perché tutto ha un senso”. Alla fine, una buona dozzina di ragazze, ma siamo solo all'inizio, trova il suo quarto d'ora di celebrità, esibendosi nelle situazioni più astruse, comprese le canzoni, RIGOROSAMENTE IN PLAYBACK, in genere a fine puntata, con Bonolis che presenta due ugole d'oro come Roberta Carrano e Laura Migliacci (figlia di cotanto autore...)(che comunque ha pure lui i suoi begli scheletri nell'armadio...) dicendo: “Tutti voi sapete che questo programma è un piccolo laboratorio di esperienze e di talenti...”, fly down, bro, stanno per cantare “Tua tua, tua tutta tua-a-ahh”...
Morale, Bonolis è messo all'angolo, gli studi del programma sono letteralmente assediati da frotte di adolescenti vogliosi, che mendicano autografi con la ferocia di sitibondi viaggiatori giunti in prossimità dell'oasi. In mezzo alla mandria, si segnala sempre di più, per disinvoltura davanti al mezzo, faccia tosta col pubblico, autoironia con le altre ragazze e teleguidabilità, Ambra (Boncompagni: “Come abbiamo capito di puntare su di lei? Beh, una volta l'abbiamo vista che praticava la levitazione e ci siamo convinti” - resta un paraculo meraviglioso....). La fanciulla acquista gradualmente la leadership in studio, reggendo persino ad una telefonata di fuoco di una spettatrice che, finito il giochino, le dice: “Comunque, Ambra, non ti conviene continuare a fare tanto l'arrogantella, perché le mosche sappiamo attorno a cosa volano!” (scommetto che era una dipendente della RAI....). Si moltiplicano intanto le esibizioni piscinare delle ragazze, tutte in rigoroso costume intero e tuttavia sempre dentro e fuori dalla piscina dello studio al ritmo della mai più dimenticata Please don't go, fatta girare ad exhaustionem dalla regia. Il tasso di stupidera cresce sempre più, si capisce che il programma pensato per signore prossime alla menopausa è in realtà un ormonodromo di prim'ordine per i ragazzi e un pozzo senza fondo di ispirazione per il look per le ragazze dell'italico stivale. Se è ben vero che l'età media delle giovani protagoniste di questo circo è attorno ai 20 anni, i loro comportamenti sembrano più acconci ad un segmento anagrafico anche precedente, che guarda caso è proprio l'età preferita dai creatori dei bimbominkismo. Per dire cioè che, anche se alcune di loro mostrano ormai evidenti i segni fisici di una CERTA maturazione, i comportamenti pratici sono quelli di una dodicenne. S'è tuttavia ripetuto in più sedi che l'attuazione del bimbominkismo prevede la cesura totale tra l'infanzia e l'adultità, come se la prima fosse un mondo a sé che mai e poi mai deve evolvere nella seconda. Bene, e famo fuori l'adulto, no?

3- La consacrazione

Autunno 1993, terza edizione, prima puntata. Sigla e poi direttamente Ambra che urla: “Le streghe son tornate!!!” (ciao, femminismo, ciao...). Ebbene sì, un programma di un'ora e mezza scarsa in fascia pomeridiana è affidato alle sapienti smorfie di una diciassettenne. Cioè: secondo noi bastava guardare attentamente certe sue occhiate apparentemente rivolte al cielo per capire che c'era qualcuno che le suggeriva le cose da dire tramite l'auricolare. Eppure, quando la cosa saltò fuori, tutti cascarono dalle nuvole, gridando al plagio, al regista vecchiaccio & bavoso che imboccava le battute alla ninfetta. Boh. In realtà era l'unico modo per tenere il cazzeggio nei binari della più assoluta controllabilità. E che cazzeggio: senza più l'ingombrante presenza dell'Adulto Significativo (non palesemente, perlomeno), è tutto uno scatenarsi di giochi dello sponsor senza senso, balli nella e fuori dalla piscina, canzoni playbackate con la stessa voce per 20 ragazze diverse, Ambra inclusa. Roberta Carrano e Laura Migliacci sono sempre più affiatate e sempre più scoordinate, Antonella Mosetti e Ilaria Galassi tracimano classe nel cantare The sound of Silence col trasporto di due coriste il giorno della cresima, Alessia Merz precipita dalla passerella mentre guarda con occhio languido la telecamere e la sua voce continua ad andare, Boncompagni fa miliardi coi diritti d'autore facendo cantare alla Carrano, alla Gollini e a Roberta Ghinazzi (queste due amicissime tra loro, poi separate da oceani di incomprensione e divismo) le canzoni da lui scritte a suo tempo per la Carrà (qui l'originale, qui la copia), esplode definitivamente il fenomeno Alessia Gioffi, ovvero l'Attila delle ballerine di tutti i tempi, e insomma si capisce che la mistura mediatico-spettacolare messa insieme dal duo Boncompagni- Ghergo è pronta per un salto di livello, che è poi il livello base delle operazioni bimbominkistiche. Ecco allora spiegati i contenuti di questa e della successiva edizione del programma:

a) La compilation: come gli affezionati di Amici sanno, una bella compilation con le voci dei protagonisti del programma che canticchiano in libertà è un blockbuster assicurato. È così anche in quei lontani giorni: i negozi di musica vedono affacciarsi sulle loro vetrine i CD e le musicassette delle miscellanee musicali cantate dalle ragazze, almeno di faccia, poiché la voce non sempre pare corrispondere a quella che si sente in trasmissione. Ma il pubblico non nota e gradisce.
b) La compilation di Ambra. Ecco il carico da 11. Si decide di dare ad Ambra la sua stessa voce, sapientemente aggiustata da tutti i mezzi tecnologici che hanno fatto diventare intonate anche le Spice Girls. Attingendo al giovanilismo più puro (ovvero Eros Ramazzotti sotto spirito, una pinta di rap, Gigliola Cinquetti con la verve di Cindi Lauper, Jo Squillo in sottotraccia) vengono sfornati singoli dal successo clamoroso (deh, altro che Emma, altro che Alessandra...) dai titoli mai più dimenticati, come T'appartengo (“T'appartengo e io ci tengo, se prometto poi mantengo, m'appartieni e se ci tieni tu prometti e poi mantieni, ti giuro amore un amore eterno, se non è amore me ne andrò all'inferno, ma quando ci sorprenderà l'inverno, questo amore sarà già un incendio”, ecc. ecc. ecc.) oppure L'ascensore (“Sia maledetto questo amore che sale e scende come un ascensore, vorrei fermarmi a respirare, sta già correndo su veloce, ma io spingo STOP” ecc. ecc.). Ambra è ormai assurta al livello di una santa laica, ma la cosa interessante è che il suo successo, in proporzioni infinitesimali, s'intende, dipende da fattori che sono gli stessi che caratterizzano la Grande Icona dell'Epoca Consumistica, nonché Grande Madre di ogni futuro fenomeno giovanile che finirà in bimbominkismo, ovvero Louise Veronica Ciccone, in arte Madonna. Bum. No, 'spetta che te la racconto: Ambra è senza dubbio la meno bella di tutte le figliole in studio, ha la voce meno interessante, balla meno bene, ma la sua clamorosa faccia di tolla fa premio su tutto e la porta al timone del vascello; Madonna, come è noto, bella non è, intonata neppure, balla come ballano tutti, eppure eccola là. Perché? Perché crederci è tutto.
c) L'incontro fatale (o il passaggio del testimone) con le boyband: manco a farlo apposta, giusto nel 1994, già che erano lì per Sanremi vari, passano da Roma a salutare Ambra e le altre proprio i Take That, sulla soglia del successo totale, ma non ancora del tutto esplosi (anche perché, in caso contrario, col piffero che venivano a Non è la Rai, ve li immaginate gli One Direction ospiti a La prova del cuoco?). I cinque bellocci passano qualche giorno lì a cantare le loro hit, affidando il grosso del metterci la faccia a Robbie Williams, che gode peraltro ricciosamente a vedere tutto quel ben di Dio in studio. Le reazioni delle ragazze durante i pezzi sono le solite (lacrime, urla, attacchi epilettici) e anticipano tutto ciò che sappiamo. Il matrimonio tra un programma pugnette maschili- friendly e gli idoli massimi dell'eccitazione artistico- muscolare femminile sancisce di fatto l'ingresso della civiltà italiana nell'era pre-Bimbominkia. Il vero laboratorio di tutti gli sviluppi successivi in termini di cultura consumistica di massa è lì. Dirà Boncompagni: “Non è la Rai è un programma che piace alla sinistra pur essendo di destra; registra il nuovo e anticipa le mode”. Sottoscriviamo.
d) Il talk show nulladicente, giusto per sembrare seri. Sì, perché ovviamente le critiche piovono copiose sul programma, vuoi per la leggerezza fin troppo esibita dei toni (e non era che l'inizio...), gli atteggiamenti spesso sguaiati delle ragazze (e non era che....), la proposizione di un modello lolitesco altamente diseducativo per le adolescenti dell'epoca (e non era...) ecc. ecc. (e non...). Vasco Rossi dedica addirittura una canzone al programma (qui l'originale, qui la reazione delle ragazze). Strategia delle dirette interessate per dimostrarsi tutt'altro che plasticose: scegliere una tragedia a caso e dire che ne sono al corrente. Così, mentre a Mosca l'allora presidente Boris Vodka Elstin bombardava con disinvoltura il parlamento russo reo di essersi dissociato dall'azione militare contro la Cecenia, e la cosa andava naturalmente in diretta TV, Ambra apre la trasmissione dicendo che “siamo consapevoli che in questo momento in Russia stanno succedendo COSE MOLTO BRUTTE e siamo vicine al popolo russo, non vogliamo che pensiate che siamo le  scemette che giocano e si divertono e non sanno cosa succede nel mondo”. Certo, allora bisognava fare così sempre. Ma tant'è. Poi c'è il momento serissimo, quello del talk show autoreferentesi, condotto da un'altra vecchia conoscenza boncompagnica, l'attrice Sabrina Impacciatore, che col look di Flanny di Candy Candy (qui l'originale, qui la copia) sembra giusto la maestrina cessa nella classe delle bellocce, e tuttavia gestisce con piglio i profondissimi dibattiti, cui le ragazze partecipano nel modo che potete vedere (ah, no, è sparito il video, pace...).



Erano del resto gli anni in cui la De Filippi dava vita ad Amici prima versione. Si vede che era stagione.
e) Il televoto. Ambra, cioè Boncompagni, lancia a un bel momento la votazione da casa per eleggere la ragazza più bella del programma. Votazione a cui concorrono naturalmente le varie esibizioni in studio. Vince Nicole Grimaudo, che peraltro ha tuttora una carrierina caruccia caruccia. A dde fili', ma nun c'hai proprio 'nventato gnente....

4- La hybris e il tramonto.

Registrato poi il debutto di future personcine di un certo riscontro come Lucia Ocone, Romina Mondello e... vabbe', queste due, il potere mediatico di Ambra (che si mette a dare lezioni di sanscrito attingendo all'inesistente vocabolario Nuccitelli-Pica) supera ormai ogni immaginazione, tanto da essere oggetto di sondaggi promossi dai migliori istituti di sondaggistica, istituti che un giorno telefonano anche A CASA MIA, nel 1995, per chiedermi cosa ne pensavo dell'assenza di Ambra da una puntata del programma causa svenimento, se era vera la storia dell'anoressia, se queste ragazze non venivano troppo sfruttate per la loro età. Che tempi, che tempi...
Ma restiamo al 1994: verso marzo, all'approssimarsi delle elezioni politiche, siamo tutti col fiato sospeso, perché Berlusconi è appena sceso in campo con FI alleato con Lega e AN, la DC si è sbriciolata nei tronconi PPI e CCD, il PSI va estinguendosi, il PDS, cui peraltro fa concorrenzina RC, si sente già in tasca le chiavi di Palazzo Chigi e noi, sì noi, siamo ancora troppo piccini per votare, quindi non possiamo che assistere... al numero di Ambra durante un giochino scemo col pubblico da casa. A fianco della fanciulla compare un diavoletto disegnato in sovraimpressione che assume faccine a seconda dell'esigenza, ma il fatto è che Ambra, o meglio Boncompagni tramite auricolare, un bel giorno ad un certo punto se ne esce dicendo che il diavolo vota Occhetto, Dio vota Berlusconi. Apriti cielo. Dai telegiornali RAI, ormai tutti col PDS, visto che non c'era più nessuno cui puntellarsi, partono bordate ad alzo zero contro la politicizzazione del programma e il condizionamento dell'elettorato in piena campagna elettorale. Lorenza Foschini dedica mezza puntata del Tg2 ad un'inchiesta sul mondo delle pulzelle boncompagniche, affettando una sufficienza ai limiti della compassione, chiedendosi “ma chi sono queste ragazze, come vivono, è giusto metterle sotto i riflettori così giovani, che messaggio portano, ecc. ecc.”. Scandalo sciocchino, secondo noi, perché alla fine se un maggiorenne (pochi) guardava Non è la Rai era quasi sempre già orientato verso un voto berlusconide. Forse, a passare la cosa sotto silenzio, gli avversari ci avrebbero pure guadagnato; ma fu l'ennesima esca per poter dichiarare la superiorità morale, culturale, ontologica ed esistenziale della gente di sinistra rispetto a coloro (pochi, dicevano) che avrebbero scioccamente dato se stessi in pasto al volgare miliardario di Arcore, le cui Tv ammannivano messaggi di totale bassezza, e comunque sinistra = Verità. E vinse Berlusconi.
Ora, a prescindere dalla scorrettezza o meno della trovata del diavoletto votante, va detto che, dopo quell'episodio, obiettivamente l'aura di innocenza che gravitava attorno al programma prese a sbiadire. Non perché Ambra avesse catalizzato chissà quali voti o aperto chissà quali squarci di vita vera dentro gli studi romani, ma in effetti la cretineria della trasmissione era forse per la prima volta sfuggita al controllo dei suoi creatori. E del resto, dopo due anni e mezzo di invenzioni strampalate per tener su gli indici di ascolto, ormai la lena comincia a venir meno. I volti delle ragazze sono quasi sempre gli stessi, le canzoni anche, piuttosto noiosette in quanto cantate da una o due voci prestate a chiunque, il superego di Ambra inizia pure a venire sgamo e forse lei stessa comincia a capire di essere imprigionata in un personaggio strettino.

In effetti il trapasso alla quarta e ultima edizione del programma registra una nuova volontà di rimbalzare le polemiche, volontà che si traduce nella sigla iniziale del programma con Ambra in versione don Basilio de Il barbiere di Siviglia che canta l'arietta “La calunnia è un venticello” (e chi vuol capire capisca), ovviamente in playback e con la voce non sua. Poi si fa in modo di replicare iperbolicamente alle accuse di ambrocentrismo circondando Ambra di fotografi in studio manco fosse Grace Kelly, facendole assumere pose volutamente da superdaiva, promuovendo ritornelli tipo “Ambra c'è” oppure “Ambra è pazzèsca? No, pazzésca!!”, giocando sulla diversa accentazione 'regionale' dell'aggettivo. Dall'altro lato, sembra si voglia anche tornare alle origini del programma, facendo fare ad Ambra interviste a gente saggia che parla, tanto per stare leggeri, del dramma dell'infanzia infelice nel terzo mondo (“Ad ogni battito di mani in India nasce un bambino, in Italia uno ogni 15 secondi”). Già già. Da un lato si espelle l'unico adulto rimasto in studio, ovvero la coreografa, e la si sostituisce direttamente con Pamela Petrarolo, che ogni tanto si cimenta anche a cantare Aretha Franklin, così per sport (Boncompagni: “A 19 anni, Pamela è la più giovane coreografa televisiva DEL MONDO”, anvedi che tajo...), dall'altro si procede ad introdurre lo spazio Non è la Rai cult, ovvero spezzoni delle edizioni passate mandati in onda e poi commentati da Ambra stessa. È chiaro che un programma che si mette a fare la storia di se stesso è conclamatamente sulla via della chiusura.
La traccia più evidente dei germi bimbominkieschi è poi la decisione di 'rinfrescare' il cast sbarazzandosi di alcune facce storiche (molte delle quali ormai insofferenti del ristretto ruolo loro dedicato - rispetto ovviamente ad Ambra-  e ansiose di spazi televisivi nuovi) e sostituendole con una pletora di sgallettanti 12-14enni totalmente incapaci di fare alcunché, sì che il programma, ridotto ormai ad un asilo intervallato da sfilate di moda, precipita verticalmente negli ascolti. Il coté bimbominkiesco è tutto nell'avvicendamento tra 18-25enni che facevano le sceme COME delle tredicenni e le tredicenni vere, sbattute in diretta TV ad esibire l'abisso del loro niente.
Si giunge così, tra sbadigli copiosi, all'ultima puntata del programma, in un caldo pomeriggio di giugno, con Ambra che, un po' mimando il playback, un po' piangendo mentre il playback continua ad andare, 'canta' T'appartengo in mezzo ai torrenti di lacrime delle altre ragazze che si abbracciano inconsolabili per l'ultimo addio. Il senso di un'avventura che finisce, un'epica cavalcata tra le praterie dell'Immaturità come  unico stile di vita, la parentesi di un'adolescenza vissuta in primo piano entro una dimensione giocosa ed irreale, un successo travolgente basato sulla pura visibilità televisiva (Gaia Camossi: "Probabilmente è stata la prima trasmissione che rendeva i protagonisti, noi ragazze quindi, persone più vicine al pubblico perché senza particolari doti o capacità. Semplicemente stavamo in televisione perché carine e questo ci ha reso più umane e più vicine ai desideri di fama di chiunque", ah, lo sai...!): tutto ciò veniva a compimento quel giorno, anche se molte delle ragazze ed ex-ragazze del programma erano già sul trampolino di lancio per nuove esperienze, laddove altre, dopo fugaci illusioni nell'immediato post- Non è la Rai, imboccheranno la via di un lento oblio, alcune digerendo bene la cosa, altre, ci dicono, no. Soprattutto, però, veniva in quel lontano giorno gettato il seme della rivoluzione bimbominkiesca, aprendo quello che pareva un sentierino per noi della Generazione X su cui instradarci in cerca di facili distrazioni dal nulla postideologico dei primi anni '90, laddove, deh, folli!!!, i destinatari veri di quelle impalpabili spore erano coloro che appena appena erano nati in quegli anni '90 o sarebbero nati di lì a poco: ad accoglierli avrebbero trovato non tanto un mondo fatto di robot difensori della terra o di adulti con la sindrome di Peter Pan, bensì sistemi di pubblicità e consumo pronti ad alluvionare nelle loro menti piccine il concetto di Stupidera Perenne. Così del resto il programma si era mosso in quelle quattro edizioni: l'assenza di talento elevata a sistema, la falsificabilità iperduplicata della performance canora (ah, Benjamin...), la grafichetta pucciosa, gli effetti sonori da videogioco, l'erotismo soffuso di imbecillità, tutto contribuì a creare un intermundium sganciato dal reale in cui perdersi con voluttà.

5- Un simpatico bilancio

Comunque lo si voglia considerare, questo programma ha significato molto dal punto di vista dei messaggi sociali, quelli soprattutto volti a negare fondamentalmente la serietà delle cose, sostituendovi l'idea che il cazzeggio è un diritto biologico, una volta che si sia trovato qualcuno cui delegare il funzionamento del mondo. C'è semmai un dato sincronico che lascia pensare: Non è la Rai è andato in onda in un quadriennio in cui nel nostro Paese è successo di tutto. Si noti: dal settembre 1991 al giugno 1995 abbiamo avuto:
- Tangentopoli
- assassini mafiosi di Falcone e Borsellino
- crollo dei partiti di governo della prima Repubblica
- uscita dell'Italia dallo SME
- avvisi di garanzia assortiti a Craxi ed Andreotti
- attentati eversivi mafiosi a Roma, Firenze e Milano
- discesa in campo e vittoria elettorale di Berlusconi
- caduta del primo governo Berlusconi e sua sostituzione col governo dei tecnici guidato da Lamberto Dini

Dicasi, la repubblica italiana conosceva la sua più turbolenta stagione dai tempi degli anni di piombo. Nonostante l'urgenza e la gravità degli eventi, ai giovani di allora si preferì ammannire per via massmediatica una sorta di bromuro, lasciando che la piazza, la cara vecchia piazza sede di tutte le grandi rivoluzioni mancate, provvedesse, tramite lanci di monetine, a sotterrare i mostri del passato recente. Credo in effetti che soprattutto la televisione sia rimasta disorientata, all'epoca, non avendo più i tradizionali referenti politici certi (tranne ovviamente Rai Tre, nei cui telegiornali si centellinava con trattenuto compiacimento l'elenco giornaliero degli inquisiti per tangenti appartenenti ai partiti di governo). Come leggere il fenomeno tangentopolizio nelle sue cause prossime e remote? Come spiegare a noi, che all'epoca identificavamo il massimo di cattiveria con quella degli alieni che si accanivano sempre e solo col povero Giappone, la realtà di individui e organizzazioni criminali italiane che in totale tranquillità scioglievano bambini nell'acido e facevano saltare in aria magistrati in Fiat con un carico di tritolo sufficiente a sventrare una colonna di carroarmati? Come prendere coscienza del fatto che gli assi del mondo pendevano ormai solo verso l'Atlantico, che la cultura americana coi suoi modelli era ormai inarrestabile, e tuttavia dall'estremo oriente stava per arrivare il ciclone giallo? Come avvisare che l'apparente benessere infinito che gli anni '90 sembravano aver inaugurato era una bomba ad orologeria? Alla fine la gioventù d'allora si rifugiò nelle rispettive parrocchie (religiose, politiche, consumistiche) senza che si sviluppasse un desiderio comune di capire assieme; chi si lasciava indottrinare dalle idee di lotta e di governo sentì che era giunta l'ora 'per quelli là' di pagare una volta per tutte, e non volle sentir ragioni da parte di chi chiedeva di distinguere caso per caso senza abbandonarsi a linciaggi cumulativi; chi vedeva il partito confessionale sciogliersi, provvide semmai ad autopulirsi la coscienza, separando Cesare da Dio e aspettando che il temporale passasse; chi sapeva poco e voleva forse saperne di più, restò spesso sedotto dalle luci del godereccio divertimento adolescenziale e, giusto per non perdere gli anni più belli, lasciò che le altre cose andassero per conto loro. Ed è con quest'ultimo segmento popolare che si identifica Non è la Rai, non nel senso che il programma sia servito scientificamente alla distrazione di massa, piuttosto a dimostrazione che, dopo decenni di lettura ideologica, cioè deformata & falsa, delle coordinate del reale, parte della nostra società non ne ha semplicemente più potuto, e il bisogno di leggerezza, compresso da una cappa quarantennale di minacce reciproche tra sistemi politico-ideologici, si è ad un certo punto liberato così da non potersi arrestare nemmeno nell'imminenza di nuove problematiche a livello nazionale e globale. Come dire: "Sono dieci notti che non dormo, adesso, mi esplodesse pure la casa, voglio starmene nel letto!"      
Resta così, a perenne monitor (ah, ah, ah...) di ciò che poteva essere ed effettivamente è stato, il pezzo forse più rappresentativo dell'universo psicologico che fa da brodo di coltura di Non è la Rai, ovvero il gioco delle secchiate, inizialmente proposto come gioco dello sponsor e poi impiegato come entertainment a sé: quattro ragazze sorteggiate da Ambra si posizionano dentro altrettante finte cabine da spiaggia, ciascuna dotata di una leva collegata ad un secchio più o meno pieno d'acqua. Al pubblico da casa la scelta della malcapitata da testare e, in caso di secchiata, gavettone assurdo, pianti della vittima e risate delle altre. Tutto qui. Come fosse un episodio di Tom e Jerry. Nessun senso, nessun messaggio. O forse un unico grande non-messaggio: attenti, il destino ha in serbo una secchiata per ognuno di voi. Perché? Perché di sì. O magari no. La civiltà bimbominkia, commossa da cotanto avviso, ringrazia.

domenica 12 maggio 2013

Letti per voi: P. Grossi, "Incanto"


CHI CERCA TROVA

So che molti di voi si stupiranno, ma la querella più frequente tra i nostri alunni, specie del biennio, quando andiamo a proporre i libri da leggere durante l'anno o per l'estate, è sempre che diamo titoli poco accattivanti, storie lontane nel tempo (già, è dai tempi di Medea che le madri non assassinano più i figli, né si è mai più visto un parricidio dai tempi di Dimitri Karamazov...), temi poco attuali, scritture astruse e difficili da seguire. E allora noi brava gente che facciamo? Si cerca narrativa ggiovane, o perlomeno gente suppergiù under 40 con storie di oggi, ma che trasudino universalità. La qual cosa, come ben si capisce, taglia fuori i romanzi di Moccia dal parterre.
Epperò ogni tanto qualcosa si trova, detto pure che alcuni difettucci di scrittura paiono proprio trasversali in autori tra loro lontanissimi. Cioè, difettucci. In realtà lo sono ai nostri spocchiosi occhi, anche se in realtà si tratta di scelte poetiche su cui non ci sentiamo personalmente d'accordo, ma che di fatto potrebbero essere gradite ad altrui gusti. È noto ad esempio che dell'ultimo libro di Paolo Giordano abbiamo trovato un filino prevedibile l'impostazione da prossima fiction RAI conferita al troncone principale della narrazione; così come ci scoccia all'inverosimile la fissazione del fresco premio Strega Alessandro Piperno di inzeppare tre romanzi su tre (carini, poi, nel complesso) di dettagliati resoconti su rapporti sessuali a trigonometria variabile, con grandi esibizioni di fellatio, masturbazioni, diteggiature intravaginali e annusate varie ecc. ecc. Non è, sia chiaro, bacchettonismo: più che altro non crediamo che scendere nei particolari dell'atto sessuale, compresi quelli velatamente pre-pornografici, renda più vera una storia; ma, molto più banalmente, il fatto è che roba simile data ai nostri cocchi scatenerebbe subito la levata di scudi di madri, nonne e parroci del Paese, insensibili agli altri valori del romanzo in oggetto, e pronti solo ad accusarci di corruzione della gioventù (c'è già passato lui, grazie). Non vi dico cosa ho rischiato a far leggere Acciaio (il pericolosissimo Acciaio!!!) della Avallone.
Tutto ciò per dire che il romanzo che andiamo a sbioccolarvi oggi, Incanto del 35enne Pietro Grossi, è caruccio assai, ma ci sono sempre quelle (poche) paginette un filino hot (“Ah, perché i tuoi cocchi non conoscono tutti i meandri di Internet?” - ma lo so che non ho a che fare con gli gnomi delle montagne, del resto devo pur pararmi le spalle) che poi rischierebbero di diventare la pietra dello scandalo che andrebbe ad oscurare cose interessanti. Ma questi, appunto, sono problemi insegnantizi. Veniamo al momento laico e lucido della recensione.

TOSCANA, OH, CARA...

Il Grossi, scrittore già piuttosto ben piazzato nel panorama italizio, ci regala un'opera ben scritta, scorrevole, inquietante quando tutto sembra scorrer via liscio, liscia quando l'inquietudine comincia ad irrorare copiosamente le pagine. Gli eventi ondeggiano tra la metà degli anni '80 (si cita Ivan Lendl e i protagonisti non hanno il telefonino) e i primi 2000 (si ricorda l'attentato alle Torri Gemelle). Il perno dei fatti si attorciglia sulle smerigliate esistenze di tre ragazzini toscani che abitano a San Filippo (forse quello in provincia di Siena?), Jacopo (futuro professore di Fisica in USA), Biagio (futuro campione di moto) e Greg (Gregorio, figlio della famiglia più ricca del paese e, in seguito, erede delle mostruose fortune paterne). Le mosse della vicenda sono il ritrovamento da parte di Greg di una vecchia moto Gilera, che verrà riparata e rimessa a nuovo grazie alle sapienti mani di Paolino, meccanico del paese. Di qui l'autore ci apre uno squarcio di pura provincia toscana, senza idilli, nostalgie crepuscolari né concessioni alla retorica del giovanilismo anni '80, ma semplicemente offrendoci un quadro esatto di un mondo semplice e piccino, in cui il massimo dell'eccitazione sono le corse in motorino, unico antidoto alla noia di un ambiente non più totalmente rustico e non ancora del tutto industrializzato (per dire, il grosso delle rendite della famiglia di Greg proviene dal Brasile, anche se lui fino ai 18 anni crede che tutto dipenda dai profitti di una in realtà asfittica azienda agricola da quelle parti). Simbolo di questo limbo è la Stradaccia, ovvero l'avanzo dell'antica strada che collegava San Filippo a Posta e che ora rimane come un segmento del tutto inutile, delimitato dal tracciato della nuova tangenziale, buono al massimo giusto per le gare suddette, in cui la Sandra è l'oggetto di culto, nonché il mezzo per tentare di battere record su record..
Gareggia che ti gareggia, Biagio viene notato da un tal Torcini, proprietario di un team professionistico di stanza al Mugello, che propone al ragazzo di venire una volta a fare una specie di provino. Dopo infiniti dubbi, Jacopo e Biagio partono all'avventura, viaggiando nel cuore più selvatico e meno artistico della Toscana, finché non giungono al circuito. E li per Biagio inizia un'altra avventura. Noi lo sapremo però un centinaio di pagine dopo, perché il Grossi struttura il romanzo come una serie di blocchi che si completano progressivamente, tramite attacchi di capitolo fulminanti poi completati da flashback che tuttavia non fanno perdere il senso complessivo della narrazione. Narrazione che, semmai, nel suo corpo centrale indugia fin troppo sull'iniziazione intellettuale ed erotica di Jacopo, che grazie ad una cartolina misteriosamente finitagli in un libro di scuola vince una borsa di studio in Matematica presso l'università di Glasgow, dove peraltro dopo un po' decide di passare a Fisica, che gli pare disciplina più concreta, e proprio nella nuova facoltà conosce e si zompa allegramente la giovane Trisha (ed è nel descrivere il primo approccio concreto di lui a lei che Grossi cede inevitabilmente alla quota Piperno di cui si parlava poc'anzi). Segue poi il gran viaggio in America per il post-doc e lo stabilimento definitivo a Nuova York, dove, dopo un'avventura pipernica con una tal Tara (che poi non si chiama così e nei bar non si limita a servire ai tavoli), Jacopo conosce Amanda. Dicevo che a mio giudizio, nel contesto generale della narrazione, la parte centrale tutta su Jacopo raffredda un po' quel senso di vita condivisa, semplice ma calda, che promana dalle vicende di San Filippo. Certo, l'opposizione (geografica e psicologica) Toscana-Scozia fa parte degli intenti del narratore, ma l'impressione è che si tratti più che altro di una giustapposizione, quasi una fotografia di quanto può essere imprevedibile il gioco del destino. Se di destino si tratta, of course, detto che Jacopo non manca di porsi quesiti sull'utilità dei propri studi, sia di matematica che soprattutto di Fisica, quesiti che inseguono in realtà l'interrogativo sommo su ciò che si nasconde dietro il teatro dell'Essere: giunto all'elaborazione di teorie sull'origine e il funzionamento dell'universo che aprono panorami inimmaginabili per la comprensione del nostro esistere dove siamo e come siamo, Jacopo sbatte contro una sorta di Barriera Estrema (nell'accezione fissata in questo blog da questo post, ovviamente), poiché l'approfondimento delle teorie sul come e sul quando dell'universo non soddisfa l'altra grande, devastante domanda che ci si pone appena ci si solleva dal mondo orizzontale delle beliebers: perché? Ed è qui che Jacopo si scontra con l'abisso cui nemmeno la sua scienza può portare luce. Tutto questo però dopo la ripresa delle vicende di Biagio, la cui carriera motociclistica conosce i tipici sobbalzi sinusoidi dei campioni bravi ma dannati, con un epilogo tutto sommato inevitabile, per quanto Greg, a colpi di miliardi che ormai gestisce da consumatissimo manager sempre in giro per il mondo, tenti di metterci più di una pezza. E sono altri perché: il destino aveva regalato a Biagio un' occasione eccelsa, ed ecco come va a finire. Sempre che di destino si tratti, ovviamente: da certe allusioni fatte da Greg, Jacopo capisce che il destino, per quanto riguarda loro, ha preso sembianze e soprattutto manine molto poco trascendenti e molto più umane di quanto non sembrasse, sì che alla fine del romanzo i nodi e i fili degli interrogativi paiono ricomporsi, benché il finale, dal punto di vista, diciamo così, ideologico, resti sospeso tra due opzioni: una, direi, di tipo oraziano, che incentra la vita sul piacere, inteso non come assenza di dolore o atarassia, quanto come carpe diem, godimento delle cose che la vita ci mette davanti meglio che si può finché si può, visto che dopo non si sa che c'è; l'altra, che di fronte all'ipotesi che il massimo dei piaceri sia perimetrare e plasmare al meglio la propria e l'altrui esistenza, vede prevalere la forza del dubbio che guarda al Nulla che inghiotte fatalmente qualsiasi presunto filo da noi guidato gli si butti tra le fauci. Ecco, personalmente avremmo preferito che queste riflessioni finali si mangiassero qualcuna delle pagine del momento-Glasgow.

CI PIACQUE, CERTO PIÙ QUI CHE LÀ.

Il Grossi struttura quindi una vicenda esponenziale, che parte dalla tranquilla provincia centroitalica per poi espandersi verso la Scozia, gli USA, l'Australia dove ad un certo momento Biagio va a vivere, senza contare tutte le località mondiali in cui Greg soggiorna per stare dietro ai suoi ultra-lucrosi affari. Dalla Stradaccia a New York, dove Greg e Jacopo si incontrano a fine romanzo, passano evidentemente storie di iniziazione, maturazione, fallimento, abbandoni e ritorni al nido, il tutto basato sull'idea che il motore (vero e metaforico) che porta ad evolversi le vicende dei tre protagonisti sia una forza che certo offre molto, ma dall'altra parte richiede una sorta di perdita dell'innocenza, diversa per ciascuno di loro, ma che in comune ha l'abbandono delle radici e la complicazioni dei rami dell'esistenza. Anche se Jacopo ad un certo punto torna al paesello, è chiaro che lui non è più lo stesso, né gli è possibile resettarsi su quello che era; Greg troverà ottima compagnia tra un affare e l'altro, per quanto la nevroticità del suo stile di vita sia più accennata che esibita, mentre Biagio è il classico ragazzino di provincia maciullato da un meccanismo troppo più grande di lui.
Si dirà che è tutta roba più o meno già letta. Certo. Anche I promessi sposi hanno il loro antenato nel romanzo greco del I secolo a.C., ma non per questo tacciamo Manzoni di plagio. Così il Grossi si rivela persona dalla sensibilità profonda e dalla scrittura che tien dietro a questa sensibilità, senza volersi sovrapporre a tutti i costi. Voglio dire che in troppi romanzi d'oggidì la vicenda narrata è messa semplicemente al servizio della debordanza stilistica dell'autore, sì che le pur piacevoli riflessioni ivi contenute, espresse con gran copia di compiaciuti mezzi retorici, si soffocano in una trama che alla lunga non porta da nessuna parte. Grossi invece domina le vicende, e le porta al dunque, sorretto da uno stile uniforme e sicuro, che agli occhi dei più vogliosi di slang giovanile ad ogni piè sospinto sembrerà banale e fuori tempo, mentre a mio giudizio è semplicemente e fortunatamente sottratto al tempo. Voglio dire che far parlare dei ragazzini del liceo con i congiuntivi tutti a posto, limitare il giovanilismo a qualche espressione fàtica (“Oh” disse Jacopo, “Eh” rispose Biagio), evitare i “cioè”, i “tipo”, far tornare tutti i gradi della subordinazione non vuol dire avere uno stile piatto, quanto piuttosto rispettare al punto il lettore destinatario del messaggio da volergli offrire un prodotto ad alto tasso di comprensibilità, oggi e sempre. Il che nulla toglie alla versatilità vorrei dire pittorica dei soggetti di Grossi, capace di dipingerci con vivezza da realismo ottocentesco unita a sapienti tocchi simbolici le polverose vie di San Filippo, i grigi edifici dell'Università di Glasgow, ma pure i sobborghi più pittoreschi e degradati della medesima, così come di New York vediamo sia i palazzi che i locali di lap dance, tutti credibili, tutti uniformi, ma di un'uniformità assolutamente razionale.
Se poi il pubblico volesse anche qui la Machittevòle's choice, la mia preferenza va senza dubbio al primo capitolo del romanzo, con quella capacità di evocare un'adolescenza del tutto antieroica senza un briciolo di elegia del tempo perduto, un mondo di bulletteria in fondo innocua, di eroismi legati alla presenza, accanto agli altri sghimbesci e tossicchianti motorini, della Sandra (così è ribattezzata la Gilera), prefigurazione di quell'Oltre così affascinante e tremendo che attende i protagonisti. La Stradaccia, anonima e di suo inutile, diventa un luogo di avventure in pieno stile Ragazzi di via Paal, i record sul giro stabiliti da Biagio sulla Sandra sono l'epica più credibile per quell'età e quel periodo. La storia di come Jacopo e gli altri si procurano i vari pezzi per riattare la moto, le prove, le sorprese e le delusioni tutte incentrate su quello che, alla fine dei conti, è un mezzo di trasporto, per quanto pensato anche per un uso sportivo, sono forse lo specchio più vero dei nuovi miti post-agricoli e proto-industriali di cui ci siamo nutriti negli anni '80: il mezzo meccanico, nuovo destriero fatato per cavalieri senza macchia e senza paura, è la nave Argo che traghetta simbolicamente gli adolescenti del romanzo verso una complessa e sofferta crescita. La natura di San Filippo e del Mugello mostra l'irrompere nella quiete bucolica delle forze del Progresso, la cui più remota propaggine, ovvero appunto la Sandra, diventa il totem attorno a cui la tribù dei protagonisti gioca le sue prime prove di maturità. E attorno a cui si compie, per poi lentamente incrinarsi sino alla dicotomia finale, l'incanto della giovinezza: uscire dalla Stradaccia, limitata ma sicura, vuol dire entrare in tangenziale, con tutte le uscite possibili.