Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!
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sabato 12 ottobre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: ipotesi di complotto

La sera Sassuolese di venerdì 13 si frizza con l'intervento dell'acuto Paolo Ercolani.

L'intervento prende le mosse da una questione che può essere ormai frusta, eppure sempre gravida di spunti: l'esperienza online è un arricchimento o una minaccia per il soggetto?
Come piace a noi, la risposta parte da dati concreti e non da fuffa. Ercolani ci dice di avere effettuato una survey con studenti delle superiori ai quali è stata posta una domandina facile facile: perché i ggiovani d'oggi si fissano ad immortalare i momenti più inutili della loro quotidianità per poi condividerli sui social? Non è una perdita di tempo? Davvero si vive nell'ansia perenne del riscontro?   Ebbene, la giovanil risposta è di quelle notevoli: noi, dicono gli studenti, sappiamo bene che la quasi totalità dei contenuti che postiamo sui social è del tutto inutile, siamo consci che nel mondo virtuale fluttuano elementi e azioni obiettivamente senza scopo, ma, caro Ercolani, "se la sera non ho condiviso parte della mia vita reale nel mondo virtuale, mi sembra di non essere esistito".




Si capisce che la frase si commenta da sé, e potremmo chiederci dove noi tutti abbiamo fallito. Di là da ciò, Ercolani nota una sorta di inversione dell'umano, in ragione della quale molti, moltissimi utenti social vomitano nella vita reale aggressività, incomunicabilità, intolleranza, ma nelle bacheche web è tutto un frullare di bellezza, pienezza di vita e attività. Al di sotto di questa dinamica tra passerella di sé e matta bestialità per le strade del mondo, giace un immenso oceano di solitudine, che produce odio e non trova autentica consolazione spolliciando sulla tastiera. Paradosso supremo, abbiamo i giovani meno capaci di relazionarsi della storia umana. Loro che oggi hanno reti relazionali potenzialmente infinite nello spazio & nel tempo. Il solipsismo è sterilità. Già la tv aveva spento i cervelli degli spettatori (ricordi Homo videns di Sartori? Adesso c'è internet...), oggi gli schermi non ci chiedono solo di guardarli, ma anche di entrarvi, dando più importanza a quel che avviene dentro di essi rispetto alla vita concreta. Risultato che ci si para davanti (cfr. J.M. Twenge, Iperconnessi, Einaudi) sono giovani che sembrano felici e sempre felicemente impegnati, poi basta una mezza indagine sociologica e ci dicono di essere soli e spaventati. La generazione più in crisi che abbiamo mai avuto.



L'identità via social si crea tramite la vetrinizzazione del sé: selfie come si deve, elenchi fluviali di musiche e film preferiti, creazione o meglio ri-produzione di un'identità preconfezionata (quindi dipendente da modelli preesistenti all'identità stessa) volta al successo, ovvero ai like. Di converso, certuni si convincono di valere poco perché hanno pochi like. Peggio ancora, gli ingenui osservatori di stories altrui si convincono dal chiuso della loro alienata cameretta che gli altri siano felicissimi, loro dei poveri sfigati (il che ovviamente non è vero). Il ragazzo diventa un prodotto stesso della realtà virtuale, si fa in certo senso 'consumare' dal suo pubblico. Certo, se il pubblico reagisce maluccio, per esempio col cyberbullismo, si verificano quei casi estremi di suicidio che non cessano di interrogarci e tormentarci. Sui social è vietato mostrarsi deboli ed erranti. Guai ad essere angosciati.


Da qui l'Ercolani parte per una ampia & desolante panoramica sul rapporto tra umanità e tecnologia: tutta la tecnologia che ci sommerge ha come effetto imprevisto, ma forse non imprevedibile, di  impoverire o addirittura eliminare il pensiero, il ragionamento, la conoscenza e il dialogo. Stiamo dunque dando l'addio al logos nell'era in cui Internet avrebbe dovuto costituire il trionfo del logos medesimo. Morale: siamo diventati una società misologa.
Seguono dati, un pochino acri verso lo zio Sam.



Primo esempio di misologia: in USA negli anni '50 girava la favola intitolata La locomotiva, in cui una locomotiva pucciosa andava a scuola per diventare un treno. Le venivano insegnate due cose: non uscire dai binari e fermarsi alla bandierina rossa. Ma la locomotiva amava i fiori che crescevano a fianco dei binari e voleva uscirne. Allora la società ferroviaria fece in modo che la locomotiva desiderasse solo restare sui binari disseminando di bandierine rosse i prati in fiore e mettendo le bandierine verdi sui binari. Così la locomotiva rientrava tutta felice sui binari. Allegoria del tutto: l'uomo moderno vive solo sulla base dell'approvazione della società. I bambini vengono allevati secondo un conformismo eterodiretto: esistono dei binari, se li segui sarai felice, perché tutti ti approveranno (cfr. La folla solitaria). Questa favola dimostra il passaggio dal divide et impera di romana memoria al conforma e dirigi. Omologate le persone il più possibile, ci dicono queste allegorie, e avrete il potere di dirigerle dove vorrete. E dove vanno dirette? Ovviamente a consumare secondo una precisa pedagogia del consumo (cfr. I persuasori occulti).




Secondo esempio: nel 1971 un giudice americano, tal Lewis Powell, scriveva al Ministero dell'istruzione che il sistema economico basato sul profitto era in crisi, si vedeva che le Università erano piene di contestatori, quindi bisognava provvedere con un'azione chirurgica nelle facoltà di Scienze sociali. Lì si sarebbe dovuta scatenare una lotta a tutto campo contro le teorie di Marcuse e compagnia, neutralizzandole con contro-conferenze di eminente gente di orientamento liberista; a fianco di ciò, tv, stampa, radio, riviste avrebbero dovuto diventare altrettanti gangli di una rete di controllo dell'opinione pubblica che sarebbe stata indottrinata ai valori del sano capitalismo. Il tutto da esportare al resto dell'Occidente. 

Terzo esempio: nel 1975, in una delle riunioni della Commissione Trilaterale, fondata dal compianto Rockfeller, si creò un pool di 200 eminenze grigie provenienti da Usa, Europa e Giappone. Tre di questi studiosi, interpellati per mappare la situazione sociale in corso, conclusero che c'erano troppe persone istruite e dotate di pensiero autonomo e critico che decidevano di uscire dai binari come la locomotiva tirocinante dell'esempio 1. Si propose dunque una pianificazione educativa per correlare gli studi scolastici agli obiettivi del potere (tipico paradigma neoliberista): punto d'arrivo di ciò, la formazione del concetto di capitale umano da contrapporre a quello di sviluppo umano. Formare individui funzionali a quello che chiede il mercato, disinteressandosi della loro umanità autentica.

Il disastro attuale verrebbe quindi da lontano, con l'attuale collaborazione dei social: in essi l'identità reale si annulla nell'omologazione, portandosi via lo spirito critico.




Si capisce che le nostre antenne insegnantizie si sono rizzate quando l'Ercolani ha aperto il confronto tra scuola e mondo virtuale. Se la scuola richiede allo studente l'apprendimento tramite la lentezza, la profondità, la selezione delle nozioni per sviluppare lo spirito critico, nel mondo virtuale è tutto l'opposto: velocità, superficialità e opulenza informativa con assenza di spirito critico. Peccato che opulenza e buon funzionamento del cervello facciano apertamente a pugni, perché un cervello sovraccarico non funziona. La sua plasticità si manifesta non nell'incamerare quintalate di dati, ma gestendo i contenuti e sviluppando strategie per il loro immagazzinamento. Sicché, ed è anche la nostra tesi da millenni fin qua, la scuola non può competere con la rete nel poter dare informazioni, ma deve insegnare ai ragazzi la selezione del sapere mostruoso che trovano ormai ovunque. Lo spirito critico deve elaborare le informazioni perché si formi un pensiero autonomo. Ercolani mi pare quindi vedere con sospetto certe derive didattico-docimologiche degli ultimi tempi. In ciò ovviamente incontrando i nostri dubbi: bisogna vagliare attentamente certe 'nuove' mode che sembrano virare più sull'apprendimento funzionale al 'fare' immediato, sulla creazione dell'alunno 'efficiente' più prono alla soluzione dei casi singoli rispetto alla considerazione generale del reale.



Ma certo l'allocuzione ercoliana, specie sulla questione del rimbecillimento sistemico della gioventù, ci ha stimolato ulteriori istanze: anni fa, su un forum di Macchianera.net, un utente sintetizzò in modo sparaflashante l'evoluzione delle tattiche di insonnolimento del pensiero critico attuate dal Sistema nei decenni che furono, arrivando più a meno a dire che (semicit.) "se negli anni '70 in Italia si anestetizzarono i giovani con lo stragismo e l'eroina, negli anni '80 fu sufficiente la programmazione pomeridiana di Italia1". Il che, essendo io fruitore di quella programmazione, mi questionò: in effetti, non posso nascondere che una certa tendenza a cartoonizzare gli aspetti dell'esistenza sia piuttosto diffusa tra noi dei gloriosi second-mid-seventies. Già altrove e altrando (=altroquando) evidenziammo che certe pose di Matteo Renzi (Rignano, Firenze, 1975- vivente) in prossimità della fine della sua esperienza di capo del Governo sembravano molto vicine all'allure cartoonesco-videoludica. Si ricordi inoltre che l'ex vicepremier Matteo Salvini (Milano 1973- vivente), appena prima di schiantare la sua esperienza vicepremieriatizia, dalle assolate spiagge di Milano marittima chiese al popolo tutto pieni poteri, ricordando a noi tutti almeno due celebri episodi dell'epica nippo- giappo (vedere il Capolavoro 1 qui e il Capolavoro 2 qui). A molti di noi, in effetti, è stato sempre ripetutamente rinfacciato "di non essere mai cresciuti", di aver vissuto troppo coi videogiochi e di aver ritardato assai assai il distacco dalla mammella per farci una vita autonoma. Ora, a parte che come sempre ci sono esempi luminosi di gente che è maturata 'normalmente' accanto a gente dai percorsi più o meno... originali, è un fatto che, rispetto ai maremoti di fiamma che agitarono la gioventù scuolafrequentante nella generazione precedente alla nostra, noi adolescenti fabulouseighties abbiamo vissuto proporzionalmente abbastanza nella bambagia. Escludendo gli scioperi di default ad ogni approvazione di legge finanziaria, quando venne giù il Muro io ero in terza media, quindi non so bene se le piazze giovanili siano esplose, ma ricordo bene che, iniziati i bombardamenti della prima guerra del Golfo, si scioperò giusto il primo giorno e poi ciao. Qualche altro scioperetto giornaliero punteggiò gli anni successivi (per la strage di Capaci, per la mancata autorizzazione a procedere contro Craxi, per la guerra nell'ex Jugoslavia...), inframmezzato da tentativi di sciopero in cui un tizio di una classe venne da un tizio della nostra e gli disse che quella mattina lì bisognava fare sciopero perché sennò lo interrogavano in greco ("aiutami con lo striscione!!"). Bene, rispose l'altro, e per cosa lo facciamo? Ma sì, disse il tizio, diciamo che facciamo sciopero contro l'attuale situazione mondiale.
Certo, questo scambio di battute è illuminante sulla fondatezza della tesi ercolanesca: qualcosa, in effetti, cambiò in quegli anni, nel senso che la generazione cosiddetta 'di carta' dei giovani superimpegnati dei tempi di Moro e Berlinguer, gente che leggeva almeno due libri a settimana e giornali vari, fu sostituita, nella proposta mass-mediatica del 'ciò che faceva figo', da una gioventù teledipendente e giocherellona. Il metro della figaggine divenne progressivamente l'abbinata bellezza&stupidità, all'impegno politico si preferì progressivamente il disimpegno gaudente.
Cose che già dissimo, ma oggi abbiamo qualche spunto in più, legato ovviamente all'esperienza insegnantizia, ma anche alla tesi ercolanesca: sappiate infatti che negli anni '80-'90 non tutti smisero di pensare e tormentarsi sul senso delle cose. Forse la prospettiva era meno legata a (leggi: inquinata da) questioni di ideologia e forse, rispetto alla carne e sangue e m***a del vissuto socio-politico quotidiano, le inquietudini prendevano una piega, per così dire, metafisica. Fatto sta che ci furono adolescenze molto più pensose di quanto la vulgata abbia fissato nell'immaginario collettivo; ebbene, pensando da grandicelli alla nostra adolescenza pensosa, forse troppo pensosa, ci siamo indotti spesso a ritenere che tra noi e i bimbominkia la differenza fondamentale fosse nello spassoso mondo di bolle di sapone in cui fluttuavano loro rispetto al barile di chiodi giù per il fianco della collina stile Attilio Regolo in cui spesso eravamo rotolati noi. Pare invece che i giovani di oggi siano infelicissimi e il paradosso è che la società che li ha coccolati in epoca bimbominkia sembrava aver predisposto tutto per togliere dal loro cammino ogni inciampo e ogni dolore. O forse era l'illusione delle gioia che doveva predisporre agli abissi della solitudine e della frustrazione online. Credo però che 'predisporre' sia errato come verbo: non penso che, nascendo internet, le sue ostetriche avrebbero immaginato che esso internet da ricettacolo della democrazia globale sarebbe diventato (anche) vasca di fermentazione di odio e ignoranza globalizzati. Allo stesso modo, chi ha inventato i social non ha secondo me immaginato le conseguenze descritte dall'Ercolani. I social erano certo parte di un sistema basato, per dirla con Bauman, sulla stimolazione perpetua dei bisogni e del senso di inadeguatezza rispetto alle novità perpetue proposte dal mercato, ma che anche sui social si sarebbero riprodotte le stesse dinamiche della circostante civiltà consumistica non poteva essere chiaro sin da subito. Da mo' ci siamo convinti che non sempre tutte le conseguenze della tecnologia siano prevedibili, come del resto ci insegna il capolavoro dell'animazione anni '90 più complesso che sia mai uscito da cervello umano (oggi ridoppiato da denuncia).
Non credo, concludendo, che tutto lo sfacelo a cui assistiamo oggi fosse programmato (se è vero il motivo per cui Zuckerberg ha inventato Facebook, si capisce): esso si è gradualmente uniformato al presunto piano di rimbambimento generale, ma solo per effetto delle leggi dell'evoluzione umana che si sono estese alla blogosfera (di fatto Facebook, Twitter & C. sono tutti blog). La casuale invenzione dei social ha manifestato caratteri adatti all'ambiente più della vecchia bloggheria (qui mi leggono in pochi, ma anche i blog storici boccheggiano): narcisismo esasperato, sete di notorietà, senso di autorealizzazione like-dipendente. Evoluzione dell'evoluzione, ecco che dagli anfibi si arriva ai rettili: gli influencer. E gli 'altri', quelli 'sfigati con pochi like' a soffrire ai margini dei social. Visto però che ogni evoluzione è più casuale che altro, pare, non perderei la speranza di qualcos'altro.
(Comunque un rituale propiziatorio lo farei...)
   
















venerdì 17 novembre 2017

LE GRANDI TELECRONACHE DI ELIGIO DE MARINIS. ITALIA-SVEZIA 0-0: "BUONASERA A ENTRAMBI".



Considerando che ormai l’italica popolazione non si indigna più per nulla, sarebbe paradossale vedere domenica curve schiumanti di rabbia per la mancata qualificazione ai mondiali. Ma ci aspettiamo di tutto.
No, ma non succederà nulla: nulla è accaduto in campo, nulla accadrà domenica, a parte la solita corsa al piagnisteo e al caprone espiatorio. Personalmente, mi ha fatto molto peggio l’uscita alle semifinali di Italia ’90: là c’era una nazionale VERA (Zenga tra i pali, Baresi, Maldini, Donadoni, ROBERTO BAGGIO, Schillaci, Vialli, Mancini, Ferrara, devo proseguire…?) che giocava convinta di difendere i colori di un popolo intero. Qui no, qui una serie di fighetti smidollati, di brocchi strapagati, di bimbominkia vestiti d’azzurro affidati ad un simpatico (?) oste pronto a mescere vino misto a fiele. Senso della maglia, no. Inutile piangere adesso. È gente che non è mai entrata nello spirito della nazionale, men che mai in partita. Occhi vitrei, facce inespressive, mai un guizzo, mai una scintilla. Basta vedere le facce di Bernardeschi e Gabbiadini nelle interviste del dopo partita, e il nulla delle loro frasi. 
Nulla in campo, nulla fuori. Questa nazionale è specchio di molte cose.

Finire fuori da un Mondiale dopo un doppio confronto con una squadra globalmente di serie C (o Lega pro) buona solo a respingere senza mai tirare in porta, chiudere una china discendente presa ancora 7 anni fa, interrotta da brevi barlumi di illusione agli Europei e ora trovarsi qui smarriti, come lo studente che ha provato con modesti mezzi a evitare la bocciatura, ma no, troppi risultati mediocri in fila e ciao: tutto il 2017 è stato una corsa al baratro, come nei migliori drammi scolastici che si consumano da marzo a giugno.

Il catino di San Siro si limita ad una coreografia tricolore coi fogli A3 verdi, bianchi e rossi, poi una bella bombardata di fischi all’inno svedese, perché da noi la sportività è di casa, quindi Bonucci con la mascherina di titanio a dirci che siamo a pezzi prima ancora di iniziare.
I tratti interessanti del match? 
• L’infinita serie di fraseggi laterali Candreva-Darmian; 
• gli affondi a vuoto di Parolo;
• le giravolte di Jorginho;
• i traversoni finiti nel niente;
• gli sciocchi fraseggi di ripiego a centrocampo;
• Bonucci che si toglie la mascherina e gioca con un ginocchio e mezzo perché crede di essere finito dentro Holly e Benji;
• la telecamera inquadra Moratti e Galliani in tribuna e Zenga dice: “Buonasera a entrambi!”.
• Darmian che finisce privato della cassa toracica dopo uno scontro con Lustig;
• El- Shaarawi con la riga di lato;
• Alberto Rimedio che, mentre siamo prossimi al naufragio, ribadisce che ci vuole pazienza;
• le interessantissime osservazioni tecniche di Zenga (“Se abbassiamo troppo Candreva e Darmian non abbiamo forza per prenderci la palla”; “Berg si abbassa su Jorginho”);
• Bernardeschi che entra e si fa il triplo segno della croce;
• “Ormai parla da solo, Gian Piero Ventura”; “Continua a guardare fisso a terra, Gian Piero Ventura” (cit. Antinelli): fidatevi, sono i segni clinici della melancolia.

E così un movimento celebra il suo fallimento. Del resto la nazionale è un intervallo tra due partite di club: l’Italia guicciardiniana, dove chiunque bada solo al proprio particulare, è tutta in questa catastrofe. Possibile, ci chiedevamo, che i nostri teneri under 21 della nazionale olimpica non riuscissero mai a combinare un tubo alle Olimpiadi, Olimpiadi che certo avevano il difetto di coincidere con l’inizio del nostro campionato? Vabbe’, lasciamola lì.
Forse che la visibilità e i rientri economici in termini di sponsor che dà la nazionale non sono poi così un grande incremento rispetto a quando si guadagna nei club, laddove un infortunio in nazionale può compromettere un’intera stagione (e relativi contratti) e allora evitiamo di darci troppo dentro? Vabbe’, lasciamola lì.

Sì, perché è anche ora di smontare il mito del calciatore-eroe che incarna i valori di una civiltà. Il calciatore, oggi, è una macchina da soldi, manager di se stesso, e il gioco del calcio è una fonte di reddito, lecita finché si vuole, ma da lì a dire che dal calcio si possono ancora estrarre nobili esempi di virtù ce ne passa.
Diciamo ciò, perché nella stagnante aria milanese aleggia già l’interrogativo: “E adesso? Da dove ripartire?”. E avanti con la solita litanìa: “Ripartiamo dai vivai”, “Valorizziamo i giovani” e via ciarlando.
Sarebbe ora di prendere atto che ci vuole una rivoluzione ben maggiore, ed è qualcosa che riguarda il modo stesso di concepire questo sport, almeno da noi:
1) La si smetta di considerare il calciatore come un dio in terra: li vediamo, alla prova delle grandi competizioni, i nostri “atleti”, onesti broccherelli che tirano insieme un campionato nazionale ormai asfittico, ma che di più non danno. La loro vera specialità è tirare sul prezzo del contratto, come squallidamente abbiamo visto fare Donnarumma l’estate scorsa. Basta con le mammine che vengono a colloquio a scuola ribadendo e tribadendo che “Sì, il mio [aggiungere nome a piacere] ci tiene tanto allo studio, però il calcio, sa, professore, è una scommessa importante…”. Se vabbe’, salutami il Bernabeu. Poi finiscono in serie D (se va bene) ed è colpa nostra che gli abbiamo tarpato le ali col latino.
2) La si smetta, di conseguenza, di perdonare qualsiasi disastro piccolo o grande costoro combinino, perché poi è inutile gridare e stracciarsi le vesti quando “i nostri giovani” si abbandonano ai peggiori comportamenti, perché i loro esempi sono quelli lì: quando si schiantano a 120 all’ora con i loro bolidi fiammanti, “ma sono ragazzate”, tanto per dire, non si pretenda poi che un pubblico facilmente impressionabile come quello dei giovani tifosi non si lasci traviare, “perché quelli alla fine c’hanno i soldi, tu chi sei per criticarli? Sei invidioso!!”. 
3) Si prenda atto, una volta per tutte, che il rapporto tra i “successi” di questa gente e i loro guadagni è una follia etica. Discorso, beninteso, che non è né di sinistra né di destra, perché l’Etica non ha bandiere. E non si venga a ciarlare che i calciatori “fanno girare l’economia, quindi prendono il giusto per gli introiti che generano”. Non sono questi miliardari in mutande a cambiare le sorti del mondo, né la loro attività genera alcun contenuto valoriale: la loro forza economica sta nella forza irrazionale del tifo che generano, e non è con l’irrazionalità che si fa progredire la civiltà, più semplicemente si fanno lievitare i guadagni di chi questa irrazionalità sa convertirla in merchandising. E se anche dalle loro pedate dipendono stipendi e pagnotte di giornalisti, cronisti, tecnici audio e video delle relative trasmissioni dedicate, venditori di sciarpe e famiglie al seguito, ciò non giustifica che essi guadagnino quanto i predetti lavoratori non guadagneranno neanche vivendo 30 vite consecutive. La retorica del gesto atletico, del campione che parte dal polveroso campetto di provincia e si trova sul grande palcoscenico magari riscattandosi da una vita difficile o anche solo anonima, dell’emozionante azione da gol che rende felici i tifosi che nello spettacolo sportivo scaricano ed esorcizzano le proprie frustrazioni quotidiane… bei quadretti del tempo che fu: la storia dice di gente che, facciamo l’esempio di Cassano, seppure in gioventù può trovarsi economicamente e socialmente svantaggiata, raggiunge grazie al calcio vertici di benessere economico non meno scandalosi della precedente miseria, se si pensa ad altri che poveracci restano solo perché non sanno fare gol. Attenzione, cioè, all’idea “democratica” del grande campione che fa strada solo grazie alla sua virtù e si riscatta dal triste passato: il fatto che lui abbia la virtù, e altri no, e che questa virtù lo renda un nababbo, rende nuovamente “aristocratica” tutta la situazione, perché alle vecchie ingiustizie basate su antichi privilegi se ne sostituiscono semplicemente di nuove. Se era ingiusto che uno fosse nobile (e ricco) per nascita, guadagnare da calciatore certe cifre per virtù pedatoria “innata” è tanto uguale. E alla fine questi idoli non educano in nulla le masse: sanno che, vincano o perdano, i loro portafogli si gonfieranno. Dove sta il merito? Credete che anche il più ingrifato dei tifosi non senta dentro di sé quest’assurdità? Credete che certe barbarie che vediamo svolgersi sugli spalti dei nostri stadi non dipendano anche da questi fattori inconsci che si celano dietro l’esibita idolatria dell’eroe? Altro che sfogo esorcistico delle frustrazioni. 
4) Per dire, insomma, che oggi il calcio è business. E non c’è nulla di male. Ma il business, di suo, non è buono né cattivo: dipende da chi lo gestisce e come. E se davvero vogliamo applicare certe regole, proprio quelle del business, questi bambolotti devono prendere quanto meritano e venire considerati quanto meritano, e oggi sono tutti sopravvalutati, come certi pacchetti azionari che fanno la bolla per poi esplodere. A cascata, i giovani e giovanissimi (e i loro genitori) devono crescere senza concepire la carriera calcistica come l’investimento della vita, il biglietto milionario della lotteria, l’attività più desiderabile perché assai più redditizia di molte altre. Se fossimo tutti calciatori, ci saremmo estinti da un pezzo. Si ricordi che alla base della passione sportiva e relativa motivazione esistono anche elementi immateriali. Quando si difendono i colori della propria patria, non è una questione di contratti che si ritoccano verso l’alto: è lo spirito di un popolo che trasmigra nell’azione dell’atleta. Ma l’atleta, per incarnare questo mondo emotivo, deve svuotarsi dei suoi egoismi individuali e farsi simbolo dei valori che tengono incollato il pubblico alla bandiera. Valori, di necessità, non quantificabili né “pagabili”. Questa è la nazionale come dovrebbe essere vissuta. Bisognerebbe però partire dai club, eliminando dalla prospettiva del calciatore italico le condizioni di vita di un monarca ellenistico: quando tutto il movimento finirà di viaggiare su scale quantitative di fatto insostenibili, e si recupererà il valore anche simbolico del gesto sportivo, allora forse crescerà una generazione di atleti veri e non di affaristi di se medesimi. Direi che per il 2300, quando i mondiali di calcio si giocheranno su Aldebaran, dovremmo essere pronti. Chi vivrà vedrà.

[Potremmo evidentemente aggiungere che lo sfacelo tecnico ed etico del nostro calcio si inserisce nel più generale sfacelo culturale di un Paese che ha deciso di buttare a mare la cultura, sia perché certe élites l’hanno considerata cosa loro e ne hanno fatto un balocco per parlarsi addosso alla faccia delle masse, sia perché altre contro-élites, in nome di una non meglio identificata ideologia pop-consumista, hanno demonizzato l’umanesimo e tutto ciò che consente lo sviluppo dello spirito critico e del pensiero indipendente: di qui la creazione di tutta una generazione di eroi a due dimensioni, calciatori compresi, che nell’infantilismo, nel vizio e nell’ignoranza, sempre perdonati in nome dei guadagni generati, sono assurti a nuovi simboli dell’individuo vincente; potremmo aggiungere che, esaltando il tipo del belloccio che fa ascolti o dello sportivo che fa soldi in opposizione allo sfigato che, poveretto, studia per diventare qualcuno di forse meno mediatico ma di gran lunga più utile alla società, certi media hanno gettato intere generazioni di gente ‘normale’ in oceani di frustrazione (o peggio) per il senso di incapacità di aderire alla figaggine e per quello di inutilità connesso coi propri sforzi, ridicolizzati da chi predicava il successo facile basato sull’estetica o sulla pedata: di qui la crescita di una generazione di montati sbruffoni, convinti di essere tanti piccoli cristianironaldi e bravi a prendersi gioco degli ‘sfigati’, tutta gente alla prova dei fatti che si è sgonfiata nei tornei sponsorizzati dalla macelleria all’angolo, ovvero tutta gente che nel mondo del lavoro VERO darà un contributo risibile, altro che far girare l’economia; potremmo aggiungere che una nazionale di nullità sopravvalutate è la propaggine estrema di un sistema educativo che non ha più il coraggio di dire alle persone quanto valgono e se si possono permettere certe aspirazioni o è meglio ripiegare su obiettivi più modesti, perché ormai alla scuola si chiede il todos caballeros, tutti bravi perché questa è (sarebbe) l’essenza della democrazia: di qui la nascita di una generazione di gente che fatica nella vita perché non è mai stata educata alla gestione dell’insuccesso e alla considerazione consapevole dei propri pregi e limiti. Potremmo. Ma evitiamo, poi direbbero che stiamo strumentalizzando…]

domenica 18 dicembre 2016

DE BIMBOMNKIBUS (-2-) XY ANNI E NON SENTIRLI

[Narratore: omodiegetico.
Focalizzazione: interna.
Tecnica narrativa: monologo interiore complesso, con effetti di straniamento.
Opzioni linguistiche: la mentalità bimbominkia è resa con un linguaggio normalizzato, scevro da volgarità ed abbreviazioni per una migliore comprensione del contenuto della storia. In tal modo l'autore non regredisce del tutto al livello del narratore. La qual cosa potrà certo peccare sul versante veristico, ma conferisce al dettato un'aria deliziosamente ucronica. ]

Non manca molto, arriveranno. Ma sì, ma sì, adesso ti rispondo, 'sto jingle di whatsapp... E' andata bene fin qui, andrà anche meglio. Non è importante. Però che emozione, se solo sei anni fa uscivo dal Liceo, cioè quella specie di Liceo di sfigati, dopo quello di prima, poi, e adesso eccomi qui. Sì, arrivo. Ti rispondo dopo, ma ti rispondo. Poi usciremo insieme, ci sei anche tu, come ci siete tutti. I soci di una vita. Anche quelli che non sentivo da un pezzo. Adesso tutti qui, un iperparty che Orange County levati. 
Non era stato male, là all'estero. Sì, voglio dire, ci vuole un'esperienza di quel tipo: lo diceva anche il vecchio mentre firmavo per la carta di credito, guarda che ti apre la mente, mica quelle quattro cretinate che ti hanno spiegato a scuola quelli là, ma figurati se dovevo perdere tempo a leggere le poesie, che poi al 70% è roba che non interessa a nessuno. 
Diranno che sto bene così vestito. 
Sì, già all'aeroporto era tutto dinamico, finalmente solo a pensare a me stesso e arrangiarmi. Che poi ricordarsi la conversione in euro, vabbe', bastava tenere il conto. Tremila al mese di plafond. Ricordarsi quello.
Però che bello l'appartamento. Non c'era praticamente niente, ma tanto mi serviva per dormirci, poi era tutta vita sociale e cercarsi il lavoro, il MIO lavoro.
Che poi, imparavo un po' l'inglese, no? Si va là per quello. Tanto a scuola non facevo niente. Insomma, le cose si imparano nella vita reale, quelle sui libri sono morte. Anche l'inglese delle regole di grammatica è morto, come il latino. Se avessero fatto qualcosa di più nuovo, di più interessante, tipo... insomma i film, ecco. Tutti i film in lingua originale e poi parlarne in classe tutti in inglese, vedi come le impari le regole. 
Invece studia.
Come se i libri contenessero la Verità. Di gente che fa le vacanze di tre mesi. Non come faccio io che sto a sgobbo adesso.
Anche là sgobbavo, è vero. Quando mi chiedevano di stare su dalle 13 alle 18, oh, io non mi ribellavo, anche se a fargli capire che fino alle 19 era troppo, e arricciava il naso, ma mollami zio. Sì, era un po' una palla girare per i tavoli con quella gente che parlava tutta veloce, ma dovevo pur cominciare da qualche parte (a parte gli indiani che boh, sarà stato inglese?). Certo, poi qualche volta capivo trenta invece di tredici, ma anche il capo sempre a prendersela, fai su i soldi dando alla gente il pesce fritto, non muori di fame anche se io sbaglio il resto. Solo che si irritava se alle 17.45 cominciavo a guardare l'orologio. Ma ero lì anche per fare vita sociale, va bene a sgobbo, ma i regali per quando tornavo non li compravo mica alle 10 del mattino. 
Fai i conti, brutto bestione.
Se esco dalla tua tana alle 18, metro, casa, doccia, dire all'altro che se esce, esco, apericena all'inglese, giro, locali, foto, ballo, foto, ne troviamo un paio e me le porto, foto, dormo (insomma, dormirei), sveglio, selfie, colazione, saluto, selfie, colazione, altro saluto, doccia, chat, instagram, non è mica già finita la mattina? 
I regali dalle 19 alle 20. Entro i tremila ci resto. Poi le mance e quei quattro soldi del bar, ma sì, la smetteranno di dire che non so organizzarmi. Vorrei vedere qui quelli della mia classe, che studiavano. I bei voti, ma poi? Università, disoccupati. Perché non si vengono a fare un po' di vita vera qui come me? 
Lo pensavo mentre mandavo giù quello. Vedi qui che la gente gira con le magliette di Emergency e nessuno gli dà dei comunisti? Più giustizia nel mondo, gridava il mio socio, anzi una bella foto con quei due lì e la loro amica dei campi profughi, guarda, quelle 5 sterline che mi avanzavano dalle sigarette gliele ho proprio date volentieri. Di cuore. Ha ragione Papa Francesco, troppe ingiustizie. Lo vedo anch'io, fannulloni che ciucciano i vecchi dalla mattina alla sera. No, il mondo non va proprio bene. Vi porto io dalla la gente che sta male.
Devo vedere il Tibet, poveretti. Ma ce la farò. Dopo. Adesso arriveranno.
Poi però, quant'era? Due mesi? Tipo, sì, insomma anche basta lavorare per non mettere via niente. E quelle tre parole di inglese, imparate quelle anche basta. 
Mancavo ai miei vecchi, vero?
Via da casa, perduto nel niente, una noia a stare in mezzo a gente che un po' capivi e un po' no. E diciamocelo, vivere per lavorare, insomma... io non so quelli che dicono che sono partiti da zero... ma zero coooosa? Io ho fatto DUE mesi e niente... Ma va', sono tutte storie: quella è fatica sprecata, lo sfigato nasce sfigato e ci resta.   
Adesso invece imparo il mestiere. Bello che poi non rischio il licenziamento e sono più sereno, in effetti. Il vecchio mi ha messo là all'ufficio spedizioni, basta stampare e poi fa tutto il computer. Dico, per i tre calcoli che bisogna fare, e quella là che mi diceva dei seni, dei coseni, delle funzioni. Se ho due mele, dammene ancora tre e sono cinque. E piantala.
Come quella volta con la X5: se ho fatto 600 km con un pieno, e il pieno è di 85 litri, ecco il costo. Consuma, però. Ma non hai bisogno dei seni, insomma. E poi il pieno lo fa il vecchio. Perché se no non riesco a sbocciare col Krug al sabato in disco. 
E' orgoglioso di me perché lavoro. Sotto padrone va bene, ma fino a un certo punto. Uno che non ti conosce, magari sbagli e ti caccia senza lasciarti spiegare. Col vecchio ci si capisce, sono io insomma, anche lui che figura ci farebbe a mandarmi a lavorare da un altro? 
Comunque dopo tre mesi che ho iniziato, sto bene. Infatti sono andato in ferie sereno. Così, tre mesi a sgobbo che tanto in giro c'è la nebbia, poi però la Nuova Zelanda davvero, eh? Sarà bassa stagione, vabbe', però le onde sono quelle belle belle. 
Chissà se stasera vengono anche i soci della band? Ussignur, due mesi che non gli ho riarrangiato il pezzo nuovo, ma dovevo lavorare. La chitarra sarà arrugginita, domani mattina controllo. Il video da caricare. E' che non riesco a trovare il ritmo dopo il primo foglio, mi chiedono il groove, ma insomma il prog.
Chiamava quel cliente scassaminchia, l'ho girato a Mario, sono cinquant'anni che è qui, lui li conosce e sa parlarci. La band. Dobbiamo trovarci prima o poi. Certo poi finire per suonare gli stessi pezzi sei volte perché quello col basso si dimentica la sua parte... 'sto album lo finiremo mai...
Ma la Nuova Zelanda, sì che sanno vivere: il mare, le onde, il cielo, la sabbia, il surf, basta con le regole, basta con il 'tu devi', ma che devi, puoi se vuoi.
Credo che andrò a vivere lì, via dalla noia, dalla gente, da questa vita di... va be', però stasera i soci sono arrivati tutti, laggiù chi mi porterei?
Perché poi settimana prossima Barcellona, poi fra due mesi visto Ryanair che pacco? Con la Emirates subito in Cambogia. Quattro giorni di differenza e mi salvo 2000 euro... La gita ai templi. E i bambini africani nella foto, gli piaceva il mio Ipad.
Lavoro, sempre lavoro. Anche oggi. E' sbagliato Excel. E io cosa c'entro? Che però è bello avere lo stipendio. Fa bene a fare l'accredito, poi coi soldi in mano non si sa mai, vanno via come niente. 
Così adesso ho capito come vanno le cose, se aspettavo quelli là col loro latino... Faccio il file, mi realizzo, sono cose utili. E quei cretini che hanno fatto Economia e adesso nel call center o a dare via i volantini. Perché a scuola vi serve quello che imparate, come no.  
Io ho imparato che tanto negli uffici tipo là dai promotori lavorano i paraculati, arrivano lì con le giacchette del primo giorno tutti tirati a fingere, ma la mamma è amica (amica!!) del capo, immagina che colloquio che avranno fatto con le risorse umane... ti va questo lavoro? Cosa ti aspetti? Come reagisci alle situazioni di tensione? Sai lavorare in équipe? Sì, ma tranquillo, tanto prendiamo te... bella la vita così, eh? Comodo, vero? Finisce che le conoscenze servono più del talento.
Vedi che io invece imparo qualcosa che serve? E' bastato darmi l'occasione e voilà! Se mancava giusto uno di spalla ai preventivi, perché Mario è lento col mouse e chiude le finestre prima di salvare. Ma sì, sono cose per giovani, poveretto. Ma se arrivava il laureato spocchioso, invece me mi conosce da sempre, accetta i miei consigli. No, davvero, fortuna che sono arrivato io qui in quest'ufficio. Cinque minuti e avevo già risolto quella cosa del modem: metti on e imposta la password. Erano là a guardarsi. E aspettavano me. 
Ma quanto tornerei volentieri a scuola da loro a dirgli: "Visto che ce l'ho fatta?". Adesso mi sono fatto una posizione con le mie forze e prendo anche casa. Bella l'idea della vecchia dell'appartamento della zia, non cambio neanche i mobili e il parquet facciamo a metà col vecchio.
Da solo. In casa mia. Quelli che mi dicevano che non sapevo neanche da che parte ero girato. Perché a stare sempre sui libri e a insegnare le cose inutili poi uno non vede più la realtà, che pena, peggio degli spazzini. 
E adesso gli sbatto in faccia una bella triennale in Scienze della comunicazione, come ci godo... fi', stasera festona al ristorante, poi la disco al piano di sotto, tutto pesce, il vecchio ha scelto bene. I tavoli da sei, voglio diecimila foto, le posto TUTTE così i professori del Liceo le vedono e capiscono, poveri, ecco come ci si crea una posizione senza la loro scuola. Ho fatto tutto da solo e senza latino. Bastava darmi tempo, mica loro che ogni settimana "sei pronto, oggi?", oh, bello, pago pure per venire in questa scuola per fare tre anni in uno, pronto cosa? Adesso hai visto? Un esame ogni sessione, ben fatto, studiato due ore al giorno finito il lavoro, anche se dopo sgobbo tutti i giorni dalle 10 alle 14 (e mezz'ora per il pranzo, va vaff...) a stampare bolle di accompagnamento certo è dura, ma insomma. Poi anche lì, dipende se uno è fissato con la perfezione: io, qualche 19, un paio di 20 e un 18 perché quello scritto di inglese, uffa, i test a completamento, fortuna che ho parlato e hanno sentito che ero stato in Inghilterra.
E però alla fine una bella tesina di 25 pagine sugli youtubers e basta. Quest'estate al lago se stavamo bene al ristorante e i vini bianchi, mi è venuto in mente Favij, ce l'ho la foto della catalana? 
Sono stato bravissimo, non ho neanche rinunciato ai tornei di softair, ed eccola lì, la foto sotto i Beatles ad Abbey Road, io con la chitarra sul letto, bella bella. Suonano? No.
E qui, ecco che devo ancora fotografare il biglietto dell'aereo... destinazione San Francisco, regalo di laurea. Beh, lo sgobbo viene riconosciuto, alla fine. 
Adesso suonano.
   

domenica 28 aprile 2013

I grandi ultimatum di Machittevòle - extended version.

Tra ieri e oggi abbiamo avuto la netta percezione, quasi fisica, direi, dei diversi gradi di esasperazione che possono manifestarsi nel popolo- noi compresi - di fronte a situazioni al limite del sopportabile.

Verso le 13 e qualcosa, nell'imminenza del colloquio del Presidente del Consiglio incaricato Enrico Letta con Napolitano, colloquio con lista dei nuovi ministri del Governo acclusa, si ventilavano i nomi di Gelmini o Lupi all'Istruzione. Si sanno le mie idee sulla prima e la mia antipatia per il secondo. Così scrivemmo (o scrissimo, o scrimmo):

"Scriviamo da una postazione di fortuna dotata di wireless, quassù, all'estrema balconata dal Cosmo esterno, trepidanti d'attesa per il passaggio dell'ultima carovana di comete che probabilmente ci porterà in una galassia diversa da questa. Orbene, laggiù a Chigi's Palace si stanno rimesclando le carte per far uscire una squadra di governo che ci porti fuori dalle secche politiche in cui versiamo ormai da tempo immemore. Tra i nomi che circolano, al Ministero dell'Istruzione rischiano di andare o la nota esperta di didatttica Mariastella Gelmini, o il simpatico chiacchierino Maurizio Lupi, bravo a ripetere i copioni che gli fanno mandare a memoria e nulla più.
Ora, con tutto il rispetto che NON abbiamo per questi due, io, i fan di Machittevòle, l'universo tutto INTIMIAMO al neo premier di non provare nemmeno per un istante a pensare di inserire in un dicastero chiave per il futuro di questo sciagurato Paese una delle due persone anzidette. Si tratterebbe del colpo di grazia alla scuola pubblica. E si badi che lo scrivente, pur lavorandoci da più di dieci anni, non ha mai difeso acriticamente questa istituzione, oggettivamente lasciata per anni in mano alla sinistra per farne un serbatoio di posti di lavoro e voti conseguenti, senza MAI provare lontanamente a ripulire gli organici dai docenti obiettivamente INCAPACI, quelli che entravano in classe a leggere il giornale, spiegavano leggendo dal manuale e davano i voti a caso, avendo invece cura di bandire concorsi su concorsi per immettere in ruolo a più non posso, indipendentemente dalle capacità; nondimeno le terapie gelminiane, emanazione diretta delle direttive anticulturali e delle rappresaglie politiche progettate dai capi del Ministro medesimo, non hanno fatto il bene della scuola, ma hanno solo scatenato una campagna di odio, favorendo l'attuazione di un piano di tagli all'organico che non ha portato NESSUNA progressione qualitativa nela didattica, ma solo l'invecchiamento del corpo docenti e la contemporanea DEVASTAZIONE delle speranze di tanti giovani insegnanti che hanno scelto questo lavoro per passione e non per far propaganda politica travestita da insegnamento, che hanno creduto nel valore della cultura e che si sono visti sbattere in faccia glaciali affermazioni di disprezzo, irridenti battute del tipo: "Dovevate saperlo che con questo mestiere non si guadagna...", accuse di aver voluto cercare il lavoro facile e ben pagato, un part-time di 5-6 giorni, anzi mattine a settimana con le ferie di 3 mesi pagate per non far nulla eccetera eccetera.
No. Noi abbiamo scelto questo mestiere senza pretendere chissà quale favoritismo e ora ci troviamo davanti speranze di carriera sempre in bilico, come fossimo dipendenti di un'impresa in bancarotta. Ma noi dipendiamo dal Ministero, dallo Stato che i soldi per riprendere il circolo virtuoso del turn over generazionale li saprebbe trovare, SE VOLESSE. E oggi ci sbatte in faccia l'ipotesi di rivederci a viale Trastevere un Ministro che agisce per eterodirezione, oppure un uomo di partito fermamente fedele ai sogni di privatizzazione della scuola, di managerializzazione aziendalizzante degli istituti e sopratutto di chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi, idea che io sposerei subito in qualunque altro Paese che non fosse il nostro, perché qui e solo qui questo sistema diventerebbe la fiera del clientelismo e della raccomandazione. Detto poi che questa legge regionale fortemente voluta dalla Lombardia è stata già dichiarata incostituzionale, per dire.
Noi qui a Machittevòle non abbiamo mai creduto alla trimurti concettuale della scuola laica, democratica e antifacista, poiché i tre aggettivi sono sempre stati usati a sproposito solo per dire: "Scuola di sinistra in cui il merito non vale e tutti devono essere uguali per forza". I bei risultati di tutto ciò sono sotto gli occhi di chiunque veda lo sfascio logistico e amministrativo dell'Italia. Ma che la soluzione a tutto siano i tagli, le demonizzazioni, il blocco delle immissioni in ruolo, la martirizzazione degli insegnamenti di lettere, poiché le coscienze è sempre più bello plagiarle che educarle, ebbene tutto ciò è solo che inaccettabile. E non è (ri-?)chiamando all'Istruzione certa gente che i problemi si saneranno. Guardate al futuro del Paese, e ricordate che la scuola è la radice di tutto, senza la quale ogni albero, anche il più fronzuto, decadrà miseramente.
Ciò detto, sarà nostra cura prendere OGNI E QUALSIASI PROVVEDIMENTO necessario a manifestare il nostro totale dissenso ove uno dei due succitati diventasse Ministro dell'Istruzione. Ossequi".


Sarebbe puerile sottolineare che i provvedimenti minacciati erano ovviamente di tipo didattico: se Gelmini fosse davvero ritornata a Viale Trastevere, dal giorno successivo io sarei probabilmente entrato in classe a leggere il giornale da qui alla fine dell'anno. Quindi avrei presumibilmente disertato gli scrutini. Epperò oggi mi salta fuori una sparatoria davanti a Palazzo Chigi, colpevole uno squilibrato non tanto pazzo, pare, tal Luigi Preiti, che ha aperto il fuoco sui carabinieri. Il tizio avrebbe perso da poco il lavoro e si sarebbe separato dalla moglie, di qui la sofferenza ecc. ecc. e quindi la scelta di un'occasione di grande visibilità come il giuramento dei Ministri, la qual cosa ovviamente ha riportato a galla la memoria di un altro attentato durante un altro varo di Governo, ovvero i tragici fatti del sequestro Moro del 1978, avvenuto la mattina del giuramento del Governo guidato da Andreotti e sostenuto in modo, come dire, originale dal PCI. Niente a che vedere coi fatti di oggi, s'intende, qui pare proprio che il Preiti abbia fatto tutto da sé, benché, non avendo egli il porto d'armi, qualcuno debba avergli procurato la pistola.
Resta certo l'amarezza per gesti che sono frutto di una situazione evidentemente al limite, come al limite, se non l'avessimo scritto noi stessi, ci parrebbero certi toni del nostro post, che si potrebbero fraintendere al di là dell'intenzione dello scrivente. 
Che vogliamo dire? Che in ciascuno di noi può covare una rabbia più o meno sorda verso le istituzioni quando da esse ci sentiamo danneggiati (perché ovviamente il Preiti si sentirà vittima della crisi, dell'IMU, delle spese pazze della Casta, ecc.), ma la gradazione di essa rabbia è vastissima, visto che c'è chi minaccia cose innocue, chi le minaccia non innocue e chi le fa sul serio. Eppure, eppure, non so, alla fine non si può provare un lieve o meno lieve moto di spavento nel pensare che la nostra presunta società perfetta non riesce a sopprimere del tutto certi istinti, anzi alle volte l'incontro tra un'educazione non sufficientemente nutrita di senso civico, la miopia, per non dire cecità di certe scelte politiche, la debolezza MAI SCUSABILE dei singoli portano a certi esiti. Chi più chi meno sente un'ingiustizia, a volte esasperante, e manifesta il suo malessere in modi più o meno civili. Ma siamo tutti noi, animali razionali, prima animali e poi razionali. Molto poi. Ne abbiamo di strada davanti...
   
(Ciò detto, Ministro Carrozza, La invitiamo caldamente a salvare la baracca e sopratutto i burattini)