Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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mercoledì 19 settembre 2018

Machittevole@Festivalfilosofia (1): l'allegria del nichilismo.


Era in effetti da qualche annetto che lamentavamo come il trilocalizzato festivàl della filosofia emiliano offrisse performances piuttosto noiosette, non nel senso dei contenuti, ma per quel modo di affrontare gli argomenti da parte dei dotti convenuti. In sostanza, finite le solite tirate di rito contro l’omologazione imperante della moderna società, sulla crisi del capitalismo, sul sequestro delle libertà democratiche effettuato dalle élite(s) economiche, restava sempre l’impressione che i dotti elocutori si compiacessero più che altro per il proprio esercizio retorico da Seconda sofistica, ma non gli interessasse granché di proporre vie d’uscita. E qui sorgeva il pensiero cattivello: certo, se poi questi ti danno la soluzione alla tetraggine attuale, chi viene più ad ascoltarli, una volta che il mondo avrà preso a girare per il verso giusto? Oppure era gente che preannunciava l’annientamento dell’umanità, ma forse se ne compiaceva pure: si sa, l’intellettuale DOC odia visceralmente la società che NON lo ascolta (anche se gli costruisce attorno i festivàl), quindi non può che godere di affondare con essa.
Fatto sta che quest’anno, sicuramente per effetto anche di questo post, a Modena- Carpi- Sassuolo hanno pensato di toccarla piano, anzitutto per il tema leggerino di tutti gli incontri: la Verità. Come dire: adesso arriviamo alla radice delle cose e vi diciamo noi come stanno. Tie’.
E siccome, notoriamente, la verità è semplice da trovare e ancor più da comunicare, alcuni convenuti hanno pensato di dare la propria, intesa come verità ASSOLUTA, contestando naturalmente quelle altrui. Il che è perfettamente in linea con quanto vediamo accadere da Platone in giù (Alessandro di Afrodisia che irride gli stoici, Hegel che irride Schelling, Nietzsche che irride tutti…), ma quando al filosofo si consegnano microfono e platea adorante senza contraddittorio, possono accadere cose, diciamo così, bizzarre.




Per quanto concerne i tre incontri da me esperiti, questo il succo del primo, i prossimi ai prossimi post.

 Umberto Galimberti (fu Severino), La verità dell’inconscio.

Ecco, di inconscio si è parlato pochino, diciamo che a questo giro, perlomeno nelle cose che ho sentito io, Nietzsche e il nichilismo si portavano benissimo. Il Galimberti parte effettivamente a parlare di inconscio, definendolo come l’aggettivo che caratterizza tutto ciò che si pone in antitesi col soggetto cosciente, cioè con la soggettività dell'Io. Da qui in poi l’inconscio sparisce dall’eloquio galimbertiano, per venire sostituito da legittime lamentele del medesimo contro quelli delle prime file che parlano tra loro, evidentemente in modo inconscio (del resto ogni folla adorante necessita di una componente eretica), ma soprattutto da una lunga digressione sullo stato dell’Io nella cultura occidentale. Di fatto, dice il dotto, l’economia dell'Io è antitetica a quella della Specie. Una donna che mette al mondo un figlio per dire, deve rinunciare a molto di sé, al tempo, alla forma fisica, alle relazioni, forse pure al lavoro, insomma ci rimette parecchio MA grazie a tutte queste rinunce la specie umana guadagna nuovi membri. La Specie ci genera, ci fa generare, ma poi ha bisogno di farci schiattare onde fare spazio a nuovi nati e nuova vita. Il ciclo della vita, of course. E così, se il tempo dell’Io si configura come lineare e scopico (cioè tarato in vista di un fine, uno skopos, ah, il greco... ), la natura e la Specie hanno il tempo ciclico della nascita e della morte. Gli antichi Greci, che a questa dicotomia erano arrivati comodi comodi col loro pensiero speculativo, hanno quindi portato alla luce la dimensione tragica dell’esistenza, la quale consiste nello scontro tra la ricerca del senso, tipica dell’Io scopico, e l'assurdo della morte, che è l’implosione di ogni senso. Di qui il senso del limite tipico di tutto il pensiero greco (‘conosci te stesso’, ‘niente di troppo’, ecc.). Tanto è vero tutto ciò, e qui il dotto vira sui suoi territori preferiti, che tra pretese dell’Io scopico e sovranità della Natura i Greci optano certamente per la seconda: infatti, nel mito, Prometeo, simbolo della Tecnica che vuol modificare la Natura, viene allegramente incatenato. Noi, dice il dotto, noi sciocchi moderni abbiamo s-catenato Prometeo, come dimostra il fatto che noi non poniamo limiti alla tecnica, non essendo però in grado di gestirne le conseguenze (laddove, come è noto, pro-metheus significa colui che capisce in anticipo).





E da dove viene a noi occidenteschi questa fiducia cieca nel progresso? Da chi abbiamo ereditato un ottimismo tale da spazzare via il sano pessimismo greco, con la sua lucida coscienza dell’assurdità inspiegabile della nostra esistenza? Chi o cosa ci ha illusi da mo’ che tutto abbia un senso? Risposta galimbert-nicciana (tutte le volte che il dotto scandiva: “Nietzsche dice…” molte anime zuccherose sollevavano il capo in quel di Sassuolo…): colpa del Cristianesimo (facile, eh, nella rossa Emilia, Galimbe’?)(ancora con questi pregiudizi, Marchesa?)(vabbè vabbè vabbè…).



Il Cristianesimo avrebbe, dice il dotto, le seguenti colpe:

-       Ha illuso l’uomo di occupare un posto speciale nel cosmo.
-      Ha introdotto il concetto di anima come lo intendiamo noi, quando in ebraico non c’è nulla di simile, né il greco psychè è apparentabile all’idea latina promossa da S. Agostino. Del resto sciocco è chi traduce il greco physis col latino natura, perché il termine latino ha in sé un'idea di esistere per un qualche fine che in greco non c'è.   
-      Ha introdotto la malsana idea di una vita dopo la morte e quindi la promessa che gli accidenti di oggi, previo intervento acconci di intermediari col divino, verranno riscattati un domani.
-      Ha influenzato TUTTO il modo di pensare occidentale, compreso quello di atei e scienziati. Qualsiasi processo epistemologico, gnoseologico, teoretico e tecnologico della nostra storia, compresa la Rivoluzione Francese, compresa la psicoanalisi (o psico-analisi)(ma NON psicanalisi, non si porta, no no) poggia sul triplice (orrendo, ovviamente) filotto  problema-intervento-riscatto.

Meglio sarebbe, dice il Galimberti, che la filosofia, prossima secondo lui a venire bannata persino dai licei, venisse insegnata fin dalle elementari per educare i piccoli al pensiero critico e indipendente (applausi dalla platea adorante). E soprattutto al sano nichilismo (perplessione della platea adorante), alla presa d’atto che nulla, in questa vita, ha veramente un senso e uno scopo, e chi a vedere lo scopo si ostina è ovviamente inquinato dal retaggio cristiano (come nei film di Don Camillo, suona la campana del Duomo a coprire la voce del Galimberti). Schopenhauer e Nietzsche avevano capito tutto, Hegel no.

Avendo dunque iniziato a sospettare, verso la fine della conferenza, che Galimberti non abbia in simpatia il Cristianesimo, non mi sono posto tanto il problema di questa sua avversione (figuriamoci se ci mettiamo a fare teologia qui...), quanto quello dell’alternativa che egli pone. Alternativa, si badi, non tanto al Cristianesimo, quanto a qualunque dottrina, razionale o fideistica, che oltre il caotico sdipanarsi degli umani e cosmici eventi vede comunque la possibilità di teorizzare un piano, un fine, un disegno, qualcosa insomma. Il punto di partenza è quanto abbiamo spocchiosamente osservato sopra: inneggiare alla lucidità del pensiero critico e poi non proporre, ma imporre come incontrovertibile la PROPRIA visione delle cose è sempre un rischio di autogol. Certo, uno deve per forza avere una sua idea. Il problema è sempre che essa idea, creduta fino in fondo senza aperture dialettiche, diventa ideologia o perlomeno così è percepita dagli altri. Per Galimberti il Cristianesimo non è, immagino, religione, ma ideologia; per un cristiano quella di Galimberti è ideologia nichilista.

Guardo la cosa dal mio lato (mancino, peraltro): c’è, al fondo del Galimbertismo, qualcosa che ci galimberta poco: a parte l’impostazione filonicciana dell’intervento, come se la storia della filosofia si fosse fermata lì, ma non è il mio campo; a parte l’idea che l’unica educazione che si può impartire come pura e assolutamente veritiera è quella nichilista; a parte tutto ciò, chi elimina qualsiasi fine/speranza dalla prospettiva dell’umana umanità mi pare si inoltri in una strada altrettanto consolatoria rispetto a quella che lui stesso contesta agli altri: siccome nulla serve davvero a nulla, tanto vale smettere di attaccarsi ad alcunché e lasciarsi beatamente vivere in attesa di dissolversi. Cose già sentite, si dirà. Però questo tipo di abbandono oggi mi pare narcisisticamente rinunciatario, molto più che in passato, quasi un indispettito guizzo della Ragione che si schianta contro l'Assoluto e, non ricavandone nulla, non dice nondum matura est, ma proprio non est. Il nichilismo poteva andare bene (detto rozzerrimamente) come correttivo (rozzezza, rozzezza...), più che all’ottimismo religioso, a quello positivista che credeva che il mondo e l’uomo fossero misurabili (e quindi prevedibili)(e quindi manipolabili) in tutto. Ma dal momento in cui la scienza ha cessato di essere rigidamente deterministica per aprirsi all’oceano probabilistico della fisica delle particelle, credo che anche il nichilismo, e i filosofi ad esso suggenti, dovrebbero rivedere i propri bersagli, facendo molta attenzione ad ammannire certezze come antidoto ad altre certezze. Il nichilismo è comunque un modo di guardare le cose da dentro il sistema, non da fuori. E, come la fisica delle particelle insegna, osservatore e osservato formano un insieme inscindibile che si condiziona a vicenda. Detto altrimenti: a considerarlo con mente sgombra da TUTTO, il nichilismo è una modalità di interrogare il reale, ma non costituisce per ciò stesso LA verità (e comunque...).




E tuttavia, alla mia mente che già anni addietro si lanciò là da dove sarebbe meglio tenersi lontani, il verbo nichilista non suona del tutto intonato, perché mi rimane sempre enorme un quesito: toglimi il fine, toglimi il disegno, toglimi l’utilità dell’Essere; sai dirmi perché l’Essere di sarebbe dato la pena non solo di essere, sgorgando dal nulla o essendoci sempre, ma persino di esistere nella dimensione del divenire per non avere uno scopo? Di fronte a questa Barriera Estrema io preferisco sempre fermarmi. Altri si (e ci) rispondono che già solo questa domanda dimostra che l’Essere non ha senso, perché se l’avesse sarebbe evidente a tutti. Il problema diventa allora perché l’uomo ha dato battaglia alla natura da quando esiste per dominarla e per superare i limiti imposti dalla Specie. Così, dicono. Spinte evoluzionistiche senza scopo. Quindi disperiamoci pure. Notevole resta comunque il fatto che i teorici della disperazione non si suicidino mai. I disperati veri, spesso, sì.


                                                                                                                  [continua...]

domenica 11 febbraio 2018

Sanremo 2018: cronaca di un Festivàl metafisico.

Ad un certo punto hanno dovuto indossare delle giacche che sembravano arrivate direttamente dalle migliori boutique del mondo di Hork



Favino e Baglioni, cioè, hanno dovuto rendere ancor più palese ciò che noi tutti dovevamo già capire dal primissimo fotogramma di questo Festivàl pre-elettorale, quando vedemmo aprirsi la scalinata d'onore come fosse l'astronave di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ma noi non capimmo, e loro capirono che non avevamo capito. E allora vai con un look ultradimensionale per farci capire. Questo Festivàl, dato in gestione ad un uomo che con croccante soavità e felpata eleganza aveva galleggiato elegiacamente sopra i decenni, sia che si trattasse di ammannire frammenti di Io lirico (in parole casarecce: butto me e i miei sentimenti sulla pagina, il resto ciccia) come di snocciolare riflessioni più "politiche" (cfr. P. Jachia, Claudio Baglioni. Un cantastorie dei giorni nostri 1967-2018 Frilli editori, cap. 8), mai però gravate dalla melma di qualsivoglia ideologia, questo Festivàl insomma era nato per essere "al di sopra" di tutto o, come si dice per gli imperatori  giapponesi quando schiattano, "al di là delle nuvole". Tutto, in questi cinque giorni, è stato cosparso col più raffinato cinnamomo del disimpegno, anche quando i momenti parevano impegnati: la canzone anti-terroristica dei due piacioni, i Dj bolognesi stonati come un esercito di campane zoppe che esibivano i tesserini degli operai della FIAT, il pezzo pro-migranti di Favino (SUPERLATIVO) che faceva da traino al duetto Mannoia-Baglioni (finito il quale grazie a tutti, grazie a Ivano Fossati, uh come siamo stati sensibili e via dritti dietro le quinte con un "tre stronzi" che svolazzava a mezzo microfono), il veloce reminder della giornata del ricordo delle Foibe "per non dimenticare" e poi subito la pubblicità, la sontuosa praeteritio per cui "avremmo voluto ricordare i cantanti morti come Mango e altri, ma pace" e poi tutti a cantare La canzone intelligente. Encomiabile tutto, s'intende. Ma tutto, irrimediabilmente, "estetico". Al di là del qui ed ora. Senza la pesante retorica pedagogica dei Festivàl di Fabio Fazio, né il furbo sfruttamento dei precordi pietistici made in Carlo Conti, ogni attimo di Sanremo Eighteen è stato puro spettacolo, senza note a pie' di pagina o ditini alzati per svegliare le coscienze quiescenti del pubblico. Il Baglioni prima maniera era del resto quello che sbatteva in faccia alla platea E tu come stai? quando altri avevano pronto in canna Banana Republic. Claudio ha insomma impresso alla sua esperienza sanremese un certo ritmo stilistico che vorremmo definire petrarchesco; è noto che il linguaggio poetico di Francescuccio, quando Francescuccio scrive in volgare, è caratterizzato dalla cosiddetta aristocratica medietà, dicasi cioè l'effetto che si raggiunge impiegando vocaboli né troppo elevati né troppo bassi. Orbene, il collocarsi dei vocaboli scelti "in mezzo" tra gli estremi del registro espressivo dà luogo ad una lingua poetica che di fatto è sin troppo "pulita" per essere sovrapponibile a quella parlata, e risulta quindi, per puro amor di paradosso, aristocratica. Ecco: Baglioni ha disseminato per il Festivàl momenti mai troppo alti e/o pretenziosi né all'opposto pecorecci, creando una perfetta teca di cristallo, una lanterna magica in cui ogni riflesso del Reale è diventato Arte senza più veri agganci col Reale di partenza (sigla di Heidi esclusa). Da siffatto piedistallo, ecco il guizzo verticale, grazie soprattutto all'eccellenza sua (di Claudio, cioè) e di Favino, capaci di dare il meglio da soli o di moltiplicare la bravura dei co-duettanti chiunque essi fossero, si trattasse del già atomico Fiorello o pure di Gianna Nannini che non vedeva l'ora di andarsene, come di rendere decenti i meno dotati, vedasi la bionda nel remake di Despacito. Questa è la performance che vogliamo: eccellenza che però non è mai sconfinata nell'autocompiacimento spocchioso, nemmeno quando si è trattato di tenere delle note per 30 secondi. E il pubblico è stato coinvolto, ma non catechizzato né solleticato nei bassi istinti: sul podio sono andati una ballata tutta cuore (Annalisa), una clownesca satira con ballerina ottuagenaria (Lo stato sociale) e una canzone di sbriciolata attualità per cui mi rimetto al giudizio del blog Tuttofamedia: "Non parlo del plagio ma proprio di portare una canzone letteralmente oscena che mira solo alla circonvenzione di incapaci: Il Cairo, Parigi, Londra, Nizza, chiese, moschee, chi prega sui tappeti, galassie, scambiamoci la pelle in fondo siamo umani. MA CHE CAZZO DITE". Un po' di tutto, ma nulla di troppo. Al pubblico, soprattutto, si è chiesto di ammirare un palco che era contemporaneamente a Sanremo e in un Altrove in cui il Bello è andato in cerca di se stesso, rispecchiandovisi come il miglior Narciso alla fonte.
E così, tra duetti, trietti, quartetti tutti giuocati sulle SUE canzoni, intervallati dalla trascurabile presenza dei cantanti in gara, Claudione nostro ha agglutinato attorno al SUO Festivàl tre-quattro generazioni di pubblico, ricordando a noi tutti, in quest'epoca di tregenda, che in passato siamo stati capaci di sognare. O forse che abbiamo sognato troppo, o meglio ancora ci hanno fatto sognare troppo per anni, salvo poi svegliarci poveri e scemi. In ogni caso, grazie per questi cinque svolazzanti giorni, Claudio. Attento però a non pretendere gli onori divini per tutto ciò che hai fatto: l'ultimo tuo omonimo che ci ha provato è salito al cielo in forma di zucca

venerdì 9 febbraio 2018

Le grandi recensioni di Eligio De Marinis. Star Sanremo, episodio 68: gli ultimi Claudii.

Baglioni, beh si sa, la maglietta fina, le canzoni stonate urlate al cielo lassù, insomma uno che negli anni ’70 se ne sbatteva allegramente dell’impegno politico e tutti s’andava a Porta Portese. E quando ci fu il “riflusso” dei primi anni ’80, lui era già lì, col gancio in mezzo al cielo. E mentre Roberto Vecchioni si abbandonava, a giudizio di un nostro critico locale, alla micidiale retorica tardofemminista (si era nell’anno di grazia 1995 e l’ex prof. dell’Arnaldo cantava questa roba qui), lui tornava con un album dal sobrio titolo Io sono qui. Tra le ultime parole e dove va la musica (ah, i maccheroni col montarozzo...). Insomma, proprio nel cinquantenario del ’68, ecco al timone dell’Ariston un plasticato autore di elegie che il ’68 lo scavalcò d’un balzo. Claudio, ex strabico e quindi a noi gradito assai, non è ideologia, è emotività garbata e liricamente vellutata, gratinata nella migliore tornitura retorica. Quindi possiamo votare la prima serata del Festivàl (ma un po' tutto questo Festivàl, suvvia...) da lui condotto, attenendoci alla più fedele griglia di valutazione esistente, cioè quella che utilizzo io per i temi del triennio.






Attinenza alle consegne e alla traccia, schema logico (max 3 p.ti)

C’è tutto: il maxi palco che si apre come il Millennium Falcon, l’orchestra di bianco vestita, l'intruso che protesta, il pistolotto iniziale che gronda di analogie baglioniche (coriandoli, manciate di riso, cose così), i paragoni twittaroli con Renato Balestra o Lurch degli Addams del tutto ingenerosi, la valletta querula e con la ridarella tremens che saluta il marito in platea per far sapere che lei è ricca, l’attore tigrotto che occhieggia smorfie d’intesa con un punto non definito sospeso sopra la platea. Un trio che rassicura, come da tradizione, gag a volte infantili (quella della scarpa rubata alla bionda, per dire…), una scaletta che, al netto degli interventi dei superospiti, è fatta per stroncare un rinoceronte da tanto che sono noiose le canzoni, ma a Sanremo la canzone deve ingenerare noia, per illudere noi pubblico dialettico dell'esistenza di una superiore apatìa del cosmo, dal quale nulla di doloroso abbiamo da aspettarci. Il Sanremo baglionico segue dunque egregiamente, a livello di struttura, il fil rouge alla formaldeide dei predecessori (ah Nunzio Filogamo, ah Enza Sampò…) e tutti noi ci immergiamo nella bambagia dell’Identico: l’eternità è quaggiù, non altrove (2 punti).




Articolazione dell’indagine, motivazioni addotte a sostegno delle idee espresse, conoscenze pluridisciplinari (max 5 p.ti).

Che sarebbero i contenuti spicci della serata. Non v’è dubbio che Baglioni, fingendo di sparire dietro Fiorello, Favino e la bionda, abbia in realtà creato una cornice di prestazioni d’eccellenza a condimento di pezzi in gara mediamente noiosetti (non tutti, si capisce). È chiaro cioè che il mashup Baglioni/Morandi con lo scambio delle musiche rispetto ai testi originali delle canzoni dei due sia stato un momento alquanto bombastico, con la sfiatata finale che poteva costare uno/due arresti cardiaci a qualsiasi comune mortale. Quando, per sostituire la Pausini, Baglioni e Fiorello sversacciano E tu, riescono comunque a trascinare la solitamente ameboide platea dell’Ariston. Un plauso certo a Favino, da noi sempre ritenuto uno dei migliori attori del cinema italiano, che è stato in grado di esibirsi in un numero dimostrativo di capacità che vanno oltre quelle attoriali. Quello che facevano gli attori “completi” di una volta, insomma, duttili e versatili al di là del loro talento di base. Oggi, si sa, l’attore viene in TV, parla del suo film, sorride alle fans, rimane impiccato alla poltrona che guai a spostarlo. Se sia snobismo o incapacità non saprei. Ma ve li immaginate Riccardo Scamarcio, Alessio Boni o Stefano Accorsi a fare lo stesso sul QUEL palco?





Conduttori e ospiti di pregio quindi, che forse, paradossalmente, tolgono luce ai concorrenti. Alcuni dei quali contribuiscono ulteriormente ad auto-rabbuiarsi con pezzi più efficaci del cianuro (Nina Zilli, i due gommosi ex Pooh tutti paillette e pelle color porchetta, Mario Biondi che ha il microfono nel duodeno per ottenere un maggior subwoofer, i Decibel lucidati da poco col Sidol, Renzo Rubino che sembra reduce da una ciucca galattica). Altri riescono a scalfire il nulla con prestazioni pucciose assai (Max Gazzé che riesuma leggende bassoitaliche, la Vanoni che arriva in un pigiama palazzo di avorio in cui dev'essere stata inserita tre giorni prima), poi vabbé, la categoria piacionica ampiamente rappresentata dai The Kolors, con uno Stash dalla capigliatura scamosciatissima, e dal duo serio serio Meta-Moro, in odore di squalifica perché Sanremo è Sanremo; l'area-cazzeggio è tutta coperta da Lo stato sociale (ovvero Gabbani travestito da Geppetto e altri onesti mestieranti)  e gli Elii che si fanno il funerale da soli. E poi altra gente. No, Ron che pesca tra le reliquie di Dalla non ci piacque. No no. E no, l'altro Pooh che si butta in una specie di sigla da telefilm anni '80 non ci scaldò. No. 
Insomma, se è vero che da quando esiste il Festivàl ci si lamenta che le canzoni del Festivàl sono sempre uguali in ogni edizione del Festivàl, mi pare che gli ultimi Festivàl siano tra loro molto ma molto più uguali tra di loro di quanto accadeva nei decenni scorsi. Per quanto mi concerne, l'ultima canzone sanremica che mi ha smosso qualcosa fu Ricomincio da qui di Malika, e parliamo del 2010. Dopodiché, sarà l'effetto omologante dei talent show, sarà che gli autori sono sempre quelli, sarà che la musica pop ha detto qualcosa di nuovo finché c'erano in giro i R.E.M. (e questa la mettiamo qui così, estemporanea), sarà che anche Tiziano Ferro si è messo a fotocopiare se medesimo, morale, non c'è un'idea nuova che sia una. E le standing ovation che il pubblico generosamente regala ai grandi duetti baglionico-fiorellici non gettano luce a sufficienza per coprire il vuoto pauroso dei pezzi di quest'anno (3 punti).







Correttezza morfosintattica, ortografia, punteggiatura (max 3 p.ti).

In riferimento non ai testi, ma alle esibizioni, direi che emergono almeno due elementi: a parte la situazione sub judice dei due piacioni di cui sopra, a me è sembrato di sentire del già sentito parecchie volte (l'inizio della canzone della Vanoni, i The Kolors che auricolano vagamente i Sottotono,  i due Pooh che riciclano in modo sincretico 50 anni di carriera, i Decibel pure, Noemi anche- non 50 anni, il riciclo s'intende); in secondo loco, il numero pauroso di stecche prese dai cantanti in gara può spiegarsi o con un'epidemia di rape rosse bloccatesi in gola (direi che è il caso di Gazzé) o con frettolosi riscaldamenti vocali figli di un'indebita premura nel cacciare nell'arena gente giovane e sensibile (Caccamo è riuscito a scuoiare tutto il pentagramma, Renzo Rubino a un certo punto non riusciva nemmeno ad articolare un suono, neppure una nota) o perché ormai dormivano tutti (quando è toccato a Le vibrazioni). Vorremmo concedere anche un'attenuante strategica: timorosi che la gente registri l'esibizione o la scarichi da Youtube prima che essa svanisca dai radar, gli steccatori suddetti hanno deciso di cantare male per dissuadere il pirataggio o il semplice godimento gratuito dei pezzi, rimandando ad acquisti dei medesimi dietro venale lucro. Sta di fatto che il livello tecnico medio è bruttarello  (1 punto).






Lessico, registro (max. 4 p.ti).

Parlare questi parlano, a volte anzi si parlano addosso, sciolinatissimi (anche perché ci vuole tutta a non essere fluidi leggendo TUTTO dal gobbo: vi immaginate uno studente che prende 5 in un'interrogazione leggendo le risposte dal libro?). I picchi poetici di Baglioni che parla di musica si sposano egregiamente con la disinvoltura parlantinica di Favino. La bionda OSA cantare Mina, soggiacendo a tonnellate di ridicolo, Baglioni jr, con faccina da elfo del fantabosco, ci ammannisce una lezione sul congiuntivo (lui che insegnerebbe matematica e fisica, giustissimo), Lo stato sociale e Mirkoeilcane si lanciano addirittura a dire (o flautare) coglioni (che trasgressione, cos'era al confronto il capezzolo di Patsy Kensit ?), Pippo Baudo recita un Te deum, a se medesimo, Fiorello quando non canta si abbandona a battute fresche come una caciotta affumicata, la Liguria è bellissima, vietato parlare dell'attualità che siamo in campagna elettorale (giusto i fiori appuntati al petto per ricordare la violenza sulle donne, potevano fare qualcosa di più... flashante, visti gli ultimi eventi...), Baglioni, Baglioni e ancora Baglioni, fortuna che voleva fare il direttore artistico e basta. Altri tempi, quelli della commedia plautina, là il linguaggio pirotecnico soggiaceva a trame prevedibilissime, con Terenzio era esattamente (o quasi) l'opposto, qui invece sono prevedibili sia il linguaggio sia la trama. Né commedia, né tragedia, dunque, all'Ariston: piuttosto un meraviglioso cartoon che ricorda quel memorabile su Instagram: "Le nostre cicatrici ci dicono non da dove veniamo, ma da dove veniamo". Viva l'Italia (3 p.ti). 

Voto finale: 9/15. Se Baglioni jr non vince, alzo di un punto.