Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

domenica 30 dicembre 2012

"Lacrime del tramonto", episodio 3: ti piace il mio gattino? L'ho schiacciato ieri....

(Qui l'episodio 2)

Uscita quindi dall'ospedale, Mareja cominciò a pensare a come vendicarsi della cugina. Ci voleva evidentemente un pretesto, poiché in Chachakunya vige l'obbligo di inventarsi una scusa per litigare persino con gente che non si è mai vista prima, accampando in genere una qualsiasi offesa, anche immaginaria. Mareja, per verità, di pretesti per scatenarsi contro Derrilla ne aveva assai assai, essendo state le due, fin da giovinette, in acerrima competizione per garantirsi la primazia nelle preferenze regalifere dall'ormai defunto nonno Guylastro, ricchissimo ed eccentrico petroliere, padre di Wak e Truleida, che ad ogni Natale prometteva bambole parlanti, dolciumi e fucili assortiti a quella delle nipoti che avesse cantato meglio le canzoncine tradizionali. Essendo Mareja stonata come un capodoglio violentato di fresco, Derrilla aveva buon gioco a vincere sempre, visto poi che le altre cugine erano incapaci di ricordarsi anche solo mezza strofa di una qualsiasi canzoncina, mentre lei, accortamente, aveva imparato a scriversi il testo sul palmo della mano e a leggerlo fingendo di schermarsi il volto per la timidezza di esibirsi davanti al nonno.
Ciò detto, è a tutti chiaro come Derrilla, vincendo quindici vigilie di Natale consecutive, avesse messo insieme un patrimonio di regali che Mareja non poteva che detestare. La fanciulla passò quindi circa due anni a cercare un'ingiuria, ma grossa grossa, da rinfacciare alla cugina; giusto nei giorni immediatamente antecedenti l'inizio della nostra blognovela, si era sparsa la notizia del fidanzamento di Derrilla e Faillor. Mareja, a quel punto, decise di ricordarsi che, otto anni prima, la cugina le aveva servito nel caffè zucchero di canna invece che dolcificante dietetico, in ciò contribuendo certamente al suo inquartamento, che l'aveva portata a sfiorare il quintale in più occasioni. "Maldida!!!!" pensò Mareja "Devo rrrovinarte el fidanzamiento, perlomeno...".
La ragazza mancava però di fantasia: dopo aver scartato le opzioni-standard tipiche della tradizione chachakunyese (cambio della data di tutti i calendari della città, cianuro nella torta nuziale, bomba al plasma durante la cerimonia), si risolse a chiedere aiuto alla più esperta invadente di tutta las Rooedas, la simpaticissima dama francese naturalizzata Adrianette Ciervinha Nomoromàs. Costei, fuggita dal suo resort in Costa Azzurra per un problemuccio col fisco transalpino, aveva scoperto che in Chachakunya l'evasione fiscale è conteggiata nei concorsi pubblici come titolo che dà punteggio e serve alla progressione di carriera nel corpo diplomatico. Innamorarsi del posto fu un attimo.
Mareja raggiunse dunque Adrianette nel suo villino sulle colline sopra la città. Un'innata modestia, l'adeguamento allo spirito dei tempi, ma sopratutto il desiderio di non venire avvistata dai satelliti fiscali francesi, avevano spinto Adrianette ad una scelta di basso profilo, ciò per cui il tetto del villino era tutto cosparso di pannelli solari al piombo che secondo la padrona di casa producevano un'ottima energia; all'ingresso, umilmente contrassegnato da una gigantografia dello stemma di famiglia in cartone appiccicata alla porta, vi era un maggiordomo di paglia, che si trovava in un punto dove le correnti del vento confluivano e lo facevano muovere proprio come nell'atto di introdurre gli ospiti all'interno della casa. Interno di squisita misura: l'ampio salone col pavimento in linoleum immetteva su un ancor più ampio scalone di marmo sbeccato, coperto di tenerissimo e liso tappeto rosso, salendo il quale si giungeva ad un ballatoio cosparso di ferramenta, ai cui lati stavano due grandi finestroni che davano sull'esterno, venendo alluvionati dalle 7 del mattino alle 4 di notte dalla fontana di luce dell'acciaieria confinante. Proseguendo a destra, il ballatoio immetteva nella zona notte, la più frequentata da Adrianette, perennemente insonne. Proprio nella camera da letto della donna, riccamente addobbata con tappezzeria a strappo e lampade cinesi sbruciacchiate, Mareja ebbe il suo decisivo colloquio.
"Ma chère Adrianette, c'est vraiment un grand plaisir.....", principiò la fanciulla, ottimanente educata nei migliori call center della L'Oréal
"Ahò, tte sei decisa a veni'.... Me se stavano a sfrancica' le zinne a sta' qqua seduta in 'sta posa da donna fatale daa soppòperas...!!!".     
Sì, in effetti la nanerottola con voce da ippopotamo imbarazzato che Mareja si trovò davanti non corrispondeva proprio del tutto all'idea che la ragazza si era fatta della sua ospite. Adrianette stava supina sul letto col materasso ripieno di fogli di giornale (ottimo per il freddo invernale, specie a las Rooedas, dove la temperatura più bassa mai registrata è +12°), avvolta da una vestaglia color melanzana e sfogliava avidamente un rotocalco dalla cui copertina spenzolante si potevano intuire le facce di due o tre degli One Direction. La donna ingannava l'attesa masticando un pezzetto di avocado.
"Vabbe'...." penso Mareja "A questo punto....".
"Dunque," ruggì Adrianette, voltandosi su un fianco e facendo segno alla ragazza di sedersi su un divanetto di pelle di tigre "me ddicevi ar telefono che tte devi vendica' daa tua cuggina stronza... ahò, occhio!", urlò poi, quando vide che Mareja, sedutasi sul divano (la cui pelle era ancora abitata, trattandosi di una tigre viva), aveva rischiato di farsi mangiare una mano.
Mareja, sobbalzando sconvolta, restò in piedi davanti ad Adrianette e confermò: "Sì, senhora, quiero vendicarme por el zucchero que ma engrassada... la mejor soluciòn sarebbe sabotar el fidanzamiento de Derrilla, solo que mancan poche ore all'evento e non so que hacer...".
Adrianette ruminò pensosa l'avocado, poi lo sputò ("Ammazza, na sòla de carrarmato è più tenera..."), quindi si alzò a sedere e così sentenziò: "Amica, secondo me cce vo' er diverzivo. Me ricordo, quanno in gioventù io e l'amiche mie intrattenevamo ospiti ar Testaccio...vojo di', davamo ricevimenti in Costa Azzurra, la cosa più divertente era er momento che la moje der marito de cui ce preoccupavamo de intrattene'... 'nzomma, quanno sartava fuori aa relazione extrauterina... no, come se dice, extraconiugale, allora volaveno ciavatte che nun te dico...".
Mareja ascoltava, col tipico mazzetto di punti interrogativi sulla testa in stile Hanna e Barbera.
"Taa faccio bbreve: trova un catenaccio quarziasi e fallo spunta' fòri ar momento che se fidanzeno e ffallo dichiara' a tua cuggina. Risurtato no garantito, STRA-garantito: se la cuggina fa la figura d'aa zoccola, nun z'aa filerà più nnessuno fino ar giubbileo der 3026".
"Madre de Dios, che consiglio geniale... Gracias, Adrianette, te sarò siempre grata".
"Molla er cinquantino d'aa gratitudine, sennò tte sguinzajo aa tigre...".
Mareja, lievemente intimorita, eseguì, Adrianette incassò.
La ragazza aveva ora il piano perfetto per vendicarsi, le mancava solo 'er catenaccio' da sacrificare sull'altare del suo rancore. Chi, si chiedeva Mareja rincasando, poteva essere così ricattabile da venir obbligato a dichiarare una falsa relazione con Derrilla, rischiando peraltro l'ira di Pif e Wak, che si sarebbe tradotta in immersioni forzose dentro la vasca dei piranha del loro salotto?  
Mentre l'amletico ponzare occupava le testolina della ragazza, costei era giunta ormai sulla soglia del portone d'ingresso del pezzo di villa che Truleida le aveva assegnato purché si rassegnasse al suo matrimonio con Sidròn. Toh, giusto prima che lei infilasse la chiave nella toppa, il portone si spalancò, e il suddetto Sidròn le piombò addosso senza nemmeno vederla. Il ragazzo era, come sempre, a torso nudo, ma sembrava stesse fuggendo. Dall'interno del salone d'ingresso, si udiva una voce maschile: "Guapo, cuanto me gusta giocar al birillo...".
Sidròn e Mareja si rialzarono, lui rosso in viso e palesemente affannato, lei con la tipica espressione da vedova nera al centro della ragnatela ove ormai disperato si dimena il cucciolo di scarabeo infallibilmente appiccicato e in trappola.
"Sidròn, querido... hai passato la esponda del rio por arrotondar più rapidamiente?".
"N-no, Mareja, deliciosa, ti assicuro...".
"Contro i furti? Già fatto il mese scorso....", ridacchiò lei, conscia di aver azzeccato la prima battuta sarcastica della sua vita.
"M-Mareja, stavamo solo giocando..."  (voce da dentro, dal timbro più scuro dell'altra: "Sidròòòòòn.... il perizomino....").
"Dulce lui... te gustan i lavori de gruppo?".
"Escuchame, ninha, sono amici, sai, la goliardia...".
"E la senhora madre, tua mujer, che dice?". Silenzio e occhi bassi. "Aaaahhhh, non sabe na ceppa de nada, es verdad?". Sidròn si tormentava le tasche dei jeans ottimamente sdruciti.
"Sidronito, mi amooorrr.... me avevi promesso de provar la polizza incendio....". Stavolta pareva di udire un Uruk-ai.
"Va bien... sono entrappolado...." allargò le braccia il giovane. "Sparame las tuas condiciones por tacer...".
Mareja, luminosa in volto, ma tenebrosa nella voce, prese sottobraccio l'ex marito e lo condusse nel patio: "Sai, esta tarde Derrilla se fidanza....".

giovedì 27 dicembre 2012

Jingle tweet, Monti beat.

Era peraltro inevitabile, viste le leggi capricciose eppure geometriche della Storia, che Berlusconi venisse un giorno fregato sul suo stesso terreno, quello della comunicazione. Tutti noi ricordiamo il suo discorso grondante di zucchero&miele col quale, a gennaio del 1994, egli annunciò la sua discesa in campo: la telecamera con la calza sull'obiettivo per dare un'atmosfera più calda alla scena, le foto dei familiari sullo sfondo, poche e semplici parole che sarebbero state il suo mantra per gli anni a venire ("Comunisti nooooooooooooohhhhhh!!!!!"). Naturalmente, dalle parti della sinistra scopertasi mai stata comunista appena due giorni prima, fioccarono ironie & facezie per 'Il cavaliere nero', altresì detto 'Ragazzo coccodè', che senza alcuna esperienza politica pretendeva di insegnare il mestiere a loro, che in Parlamento flottavano dall'inizio della storia repubblicana. Poi si sa come andò. Superfluo qui ricapitolare i dibattiti sull'effettiva incidenza della telecrazia nall'orientare il voto degli italiani. Certo, una cospicua fetta dell'elettorato, cresciuto a pane e Milan e/o pane e Fininvest poi Mediaset, ha provato un'istintiva simpatia per quest'uomo che aveva 'modernizzato' la TV, proponendo modelli di vita alternativi al rigore perbenista e forse un filino ipocrita delle reti nazionali. Poi rimangono sempre delle riserve rispetto a questa visione, non errata in generale, ma certo troppo sbrigativa: come acuti commentatori osservarono già anni addietro, per dire, non è stato certo il solo Pannella ad aver fatto trionfare in Italia leggi prima impensabili come quella sul divorzio e sull'aborto, poiché in realtà gli italiani, quelli cresciuti nell'epoca del boom economico, dell'automobile personale, dell'indipendenza sempre più precoce dalla famiglia, dell'industrializzazione, del consumismo, del femminismo, della rivoluzione studentesca, già da tempo erano aperti ad opzioni esistenziali contrarie alla morale tradizionale, cioè quella cattolica. Pannella intercettò, e gli riuscì bene, ma non creò. Così vorrei dire che anche Berlusconi ha offerto, con il suo colosso mediatico, il canale di espressione di tendenze che la società italiana aveva già imparato a conoscere, ma che grazie al pantografo fininvestiano-mediasettaro  furono centuplicate nella loro capacità attrattiva. E' pura accademia chiedersi ora se Berlusconi avrebbe ottenuto gli stessi risultati senza il megafono predetto; sta di fatto che, sia nel 1996 che nel 2006, presentandosi come capo del partito di maggioranza uscente, il Cavaliere è stato in entrambe le tornate sconfitto da Romano Prodi. E' chiaro che se gli italiani fossero stati sedotti da Mediaset sino all'anestesia critica, ciò non sarebbe mai avvenuto: nel 1996 Berlusconi ebbe le ali piombate dal fatto che la Lega si era sfilata dalla maggioranza, facendo così perdere una camionata di seggi al nord, che col meccanismo del maggioritario secco andavano al candidato del centrosinistra che approfittava dei voti disgiunti di quelli di Polo delle libertà e Lega (tipo 35-25-25, era di fatto in minoranza, ma relativamente in maggioranza); nel 2006, dopo una legislatura bruttina e inconcludente (tranne il blocco consecutivo per due anni delle immissioni ini ruolo nella scuola - quella è una battaglia che gli è andata sempre bene) egli tentò una rimonta che gli riuscì a metà, giacché la sinistra prese la Camera, ma non il Senato (ciò anche in virtù del meccanismo del famigerato 'porcellum' di cui si ciancia oggidì). Però, alla fine, se Prodi è caduto due volte miseramente a metà legislatura, ciò non si deve a chissà quale rito voodoo eseguito dai Tg Mediaset, quanto piuttosto alle fibrillazioni di maggioranze tenute insieme solo dal "Dalli al Berlusca!!", che come collante politico è in effetti poca roba.

Quelli eran giorni, sì...

Insomma, non v'è dubbio che la cifra della politica di Berlusconi sia stata l'efficacia da uomo di TV che ha saputo sedurre e 'pubblicizzare' il prodotto, ma ora quel tempo non è più; ora è il tempo dell'incontrollabile pluralità dei social network, impossibili da orientare, a meno di assumere 500.000 prezzolati che inondino facebook, twitter, youtube et similia di deliranti messaggi pro Silvio, che però avrebbero come destino unicamente quello di venir perculati con lepidezza da tutto il resto degli utenti. Questo è senza dubbio un vantaggio insito nei nuovissimi media, che in ciò battono la tv tradizionale di lunga pezza: mentre in un talk-show, per esempio, il diritto di replica c'è, ma può essere sapientemente gestito da un conduttore appena appena malizioso (ed è il caso del 101% dei nostri programmi televisivi sul tema), cosicché può finire che uno solo, agli occhi del pubblico, risulti avere ragione e gli altri zitti, nell'agorà della Rete il venditore di fumo, il troll, quello che incensa se stesso sotto mentite spoglie viene scoperto subito. Basti pensare all'ingenuità di certuni che commentano nei forum dei blog a favore di PincoPallo per tre post consecutivi con tre nickname diversi e vengono subito sgamati dal blogger che vede che l'IP da cui provengono i commenti è sempre lo stesso. Ma anche senza essere blogger, un giro veloce di tweet o commenti su youtube fa scoprire subito il furbacchione che si ripete senza neppure un briciolo di fantasia e crede che un nick diverso copra tutto, così come accade sui siti di recensioni letterarie, dove l'autore che si elogia col nomignolo finto è talmente scoperto nell'elogio medesimo da risultare falso dopo due righe. Non conta, pertanto, quante volte si riesce a dire una cosa tenendo zitti gli altri, ma quanto prima si riesce a dirla, con che originalità e con quale frequenza, ciò che sui social network è possibile a tutti, dal sottoscritto a Monti, senza che nessuno possa precludere a nessuno questa via di espressione. Tutti, alla fine, sono teoricamente sullo stesso piano
E' pertanto impossibile che uno solo arrivi a plagiare via social network un'intera nazione, semmai si può usare il nuovo strumento per incanalare potentemente lo sdegno contro il sistema, ed è ciò in cui Beppe Grillo è maestro (anche se la sua deriva politica mi lascia parecchi dubbi). Berlusconi, a questo punto, perde perché si muove su un terreno non suo: quanto profumo di aloe e formaldeide spirava dalla sua intervista domenicale col barelliere volontario di Lourdes, ancora con le battutine, il solito "ho fatto un sogno", le volgarità contro l'avversario ("Fini Ministro delle fogne"), e il "mi hanno sabotato", le giaculatorie contro la Germania (Silvio, un anno e mezzo fa c'eravate tu e Tremonti a Palazzo Chigi, allora andava tutto bene?), i "me ne vado se mi interrompete", insomma sempre l'illusione che un monologo televisivo oggi si traduca domani in centinaia di migliaia di voti sottratti alla sinistra o pescati dal bacino degli indecisi. No, Silvio, ormai i tempi sono quelli della guerriglia a colpi di tweet e lì non so quanto saprai destreggiarti.
Detto poi che Monti sta dimostrando un talento teatrale che Berlusconi stesso si sogna: altro che riprese con la calza sulla telecamera, altro che giri in nave a promuovere il proprio programma, altro che volumazzi 'Una storia italiana' recapitati nelle case degli elettori come un catalogo postalmarket, altro che 'Contratto con gli italiani', altro che intervista coscioflessa della D'Urso: come il più spettacolare dei fantasmi dell'opera, Monti si materializza con un tweet LA SERA DI NATALE, spiccicando palesi ovvietà: "Insieme abbiamo salvato l'Italia dal disastro. Ora va rinnovata la politica. Lamentarsi non serve, spendersi sì. 'Saliamo' in politica". E ciao a tutti. Ora, applicando il metodo contrastivo di cui ci serviamo a scuola per analizzare i proemi dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata, andremo a confrontare le due dichiarazioni di ingresso in politica di Berlusconi e Monti.
1) Berlusconi, già noto ai più non solo come inventore della TV commerciale in Italia, ma soprattutto come presidente del Supermilan di Arrigo Sacchi, Gullit e Van Basten, si presenta di faccia con un videomessaggio retoricamente orientato secondo pochi e semplici schemi di pensiero e con il fine di mostrare Berlusconi medesimo come l'eroe buono che salverà l'Italia dall'inferno sovietizzante di Occhetto & Co. Monti, odiato come l'olio di ricino per i suoi provvedimenti dissanguanti, eppure gradito a chi non ne poteva più di Berlusconi, noto ai più come Commissario europeo voluto da Berlusconi ancora nel 1995 e poi rettore della Bocconi, distinto per l'aplomb anglosassone del portamento e delle parole in confronto ai toni da Braveheart del Cavaliere, affida i suoi auguri di Natale all'immaterialità di Twitter, senza dire né fare nulla di più, lasciando cadere un laconico messaggio e, come Barbie Raperonzolo, attendendo che qualcuno (Casini, Montezemolo, ecc.) si attacchi alle sue trecce e scali la torre delle elezioni.
2) Berlusconi, conscio che l'irrazionalità del tifoso di calcio, anche non necessariamente milanista, può tradursi in voti sicuri, condisce sin da subito la sua retorica politica con espressioni tolte dal gergo calcistico, prima fra tutti la 'discesa in campo' e poi il nome del partito di allora, 'Forza Italia'. Monti gli replica, oltre che con 'abbiamo salvato l'Italia' (tu dicevi all'Italia di mettercela? Noi l'abbiamo già portata al traguardo...), con la 'salita in campo', espressione volutamente antifrastica rispetto all'altra e tuttavia certo meno perspicua: l'attuale premier vuol forse dire che le forze sociali e civili devono, dal basso, guidare la ripresa dell'Italia? O che la politica italiana è una mezzo alla cui guida dobbiamo provare a metterci un po' tutti? Boh. Comunque il destinatario del siluro è palese.
3) Berlusconi licenzia la classe politica della Prima Repubblica come se non ci avesse mai avuto a che fare (vabbe'...), la definisce travolta dai fatti e superata dai tempi, autoaffondata dal debito pubblico e dagli scandali del finanziamento ai partiti, sì che l'Italia è lasciata impreparata davanti alle nuove sfide del domani. E Monti che fa? Si appella ad una non meglio identificata collettività (escluderei il plurale maiestatis) e dice che insieme abbiamo salvato l'Italia dal disastro, il TUO disastro, Silvio, ben peggiore di quello che TU imputavi a quegli altri 18 anni fa.
4) Berlusconi dice che l'Italia del 1994 diffida di profeti e salvatori e necessita di persone creative, dalle qualità, si capisce, imprenditoriali, lui insomma. Il suo partito nascerà per unire e non per dividere (purtroppo non andò così) e sarà composto da uomini totalmente nuovi (Brunetta, Cicchitto e Pisanu, per dire...); Monti, più asciutto, spara: rinnoviamo la politica. E chi è che ha tenuto il boccino per più tempo nella Seconda repubblica? Ciao, Silvio, by tuo Mario.
5) Berlusconi prende a cannonate 'gli Altri' della sinistra dicendo che costoro, comunisti inside, non amano, come lui, l'individuo, la famiglia, l'impresa, la competizione, il profitto, l'efficienza, lo sviluppo, il mercato libero, la solidarietà, la libertà (certo che anche la parolina 'cultura' potevi metterla, eh, Silvio? Ma è chiaro che i provvedimenti anti-scuola erano già tutti in questa clamorosa omissione....), la giustizia e si fanno promotori di invidia sociale e odio di classe. Dice poi tutto quello che vuol fare cogli uomini e le donne che aderiranno al progetto, delineando scenari di libertà, impegno, sicurezza, ordine, efficienza. Monti taglia corto: basta lamentarsi, spendiamoci tutti.

Sì, insomma, è proprio il segno dei tempi. Un tweet e davvero i videomessaggi autoprodotti sembrano preistoria. A meno che Berlusconi non vada su youtube. Ma forse è troppo tardi.

(P.S.: Mario, ottimo rettore che tutto il mondo ci invidia, ti ripeto però che è troppo comodo fare la principessa sul pisello e vedere chi ti si fila: sporcati in qualche modo le mani anche tu, sennò la gara è ad handicap. Non è possibile lanciare proclami elettorali fantasmatici e impersonali la sera di Natale e guardare chi abbocca. Sembra davvero che tu ci stia dicendo: "Ah, se qualcuno ha bisogno, me lo faccia sapere, intanto vado a vedere se mi sono cresciute le zucchine nell'orto...". Se permetti, noi elettori non meritiamo questo trattamento. Mi ricordi quei finti amici che, quando li inviti da qualche parte, ti dicono sempre che al massimo possono passare 'per un salutino', poi però promettono di fare loro l'invito grosso, quando sarà (cioè, ovviamente, mai). A meno che tu voglia dirci che con te il risultato è assicurato comunque: è noto che in Italia le grandi stagioni riformatrici sono sempre state ostacolate dai poteri forti; tu, che a detta di molti di quei poteri sei l'espressione, potresti forse permettere queste riforme? Ma a beneficio di chi? Diccelo, prima che noi si entri in cabina a votare....).   

mercoledì 26 dicembre 2012

Congedo da un amico

Ed erano giorni nuovi, dopo un'oscura notte in un cui tutto era apparso sdoppiato. Il mondo si ricomponeva, ma le personalità multiple che avevano preso cittadinanza in me e si erano sublimate l'una nell'altra al momento dello scontro con la Barriera estrema cercavano ciascuna di primeggiare sulle altre. Il profumo di notti estive venate di lampi si affievoliva, mentre la speranza di raddrizzare ciò che un'imprecisabile congiura di Natura e Storia aveva ordito contro di noi si faceva fortissima. Anche noi, tutti noi che abitavamo questo corpo, avremmo potuto conoscere gli Altri.
Ma quanti Altri ci sfilavano davanti, non più doppi, perlomeno. Però c'era quel curioso doppione di noi, alto, altissimo, dinoccolato, stralunato, a metà tra il cartoon e il fumetto. Sì, senza dubbio non aveva uno schema, o meglio non aveva uno schema secondo la Mentalità da Schemi. Lo schema era tutto suo, lui era schema a se stesso. Non lo potevi classificare, ma sentivi un'invincibile sensazione di anomalia che lo rendeva unico, in realtà. Nella sua totale astrusità e astrattezza, era pieno di amici, simpatici, brillanti, di tutti i tipi. Visto, si diceva alla parte di noi legata alla Moda, che non è necessario essere come quegli altri là per sviluppare la funzione sociativa? Lui non aveva NULLA che si potesse anche solo lontanamente incasellare negli schemi estetici vigenti, eppure viveva normalmente, e sopratutto respingeva in automatico le complicazioni. Non era per superficialità, come quegli altri. La complicazione era parte stessa del suo essere, quindi come un polo già 'negativo' di suo, non poteva accogliere negatività dall'esterno.
Ma dentro quel polo negativo, quanta profondità, quanto senso di ironica distruzione dei costrutti mentali ordinari alla ricerca di una chiave di lettura diversa delle cose! Tutto, però, senza mai sembrare, nemmeno per un millisecondo, un nerd sfigato o peggio un intellettualucolo borioso a tal punto convinto della bontà delle proprie idee, da non volersi neanche disturbare a confrontarle con quelle degli altri. Lui faceva l'esatto contrario di quello che facevamo noi, si lasciava attraversare dal mondo e, come un capace filtro, tratteneva quegli aspetti, nobili o ripugnanti senza alcuna differenza, su cui esercitare la sua filosofia apparentemente minimalista, ma in realtà dannatamente attaccata all'esserci delle cose. Noi, i grandi Sbattibarriere, invece, avevamo sempre bisogno di creare la rete pischica preventiva prima di ogni contatto con l'esterno, come se uno uscisse di casa con lo scafandro prima di decidere se recarsi in un luogo pubblico, e quindi bruciavamo occasioni di socialità a tonnellate, ci perdevamo in ridicoli film mentali, in cui le cose andavano ovviamente come volevamo noi, ma che poi risultavano fatalmente inapplicabili fuori dalla nostra nevrotica capoccia, sprecavamo tempo a valutare algoritmicamente tutte le possibili conseguenze di un semplice 'ciao' detto con la massima faccia tosta di cui in realtà non eravamo capaci.
Lui transitava, leggero e corrosivo, originale ed imprevedibile, generoso e folle, e si tirava dietro le cose del mondo esterno, rimetabolizzandole senza timore che esse mutassero qualcosa della sua architettura mentale.
E così gli anni, la scelta comune di insegnare, i diversi destini che ci hanno spesso separato. Però poi ci si reincontrava, e sempre si imparava qualcosa da lui, che ne sapeva sempre una in più, ma non lo faceva mai pesare, perché la sua ansia era di condividere; la sua didattica, da certi colleghi, diciamo così, agée ritenuta poco fruttuosa, che invece obbligava gli studenti a mettersi in gioco su qualsiasi lettura, da 'Madame Bovary' a 'I ragazzi dello zoo di Berlino', le lezioni  di storia che aprivano mondi che gli odierni bimbominkia nemmeno sospettavano, i discorsi politici mai banali né qualunquisti.
Certo, il periodo faceva abbastanza schifo, 'coi nostri stipendi si campa appena, ci viene concessa una libertà che gli altri ci invidiano e basta' e lui la libertà la traduceva in musica con la sua band. Per quanto il mondo attorno facesse di tutto per rendersi odioso, lui amava la vita al punto da scegliere il vegetarianesimo integrale. Quel tipo di vita, quella degli esseri di carne, non gli andava di filtrarlo come invece faceva con la vita delle idee e delle persone.
Il filtro, appunto: che, come tutti i filtri, prima o dopo si incrosta troppo a causa delle contaminazioni portate dalle cose, e può anche marcire. Quella sera di giugno, finalmente un altro anno da pazzi che finiva, il primo dei tagli gelminiani, ci si guardava come sopravvissuti, riflettendo sul fatto che toccava a noi pagare per i privilegi di altri. Ma si andava sul lago, ed erano le onde azzurrine e il sole dorato dietro il monte che parevano prometterci una pausa di serenità in mezzo a tanta sconsideratezza.
'Domani vado dal medico, ho questo mal di schiena che non mi molla e mi tortura!', così si congedò quella sera lacustre mentre lo sbarcavo sotto casa. 'L'età, sai, si invecchia pure noi...' celiavo io, sapendo che noi oversize (di altezza) abbiamo sempre un rapportaccio con vertebre e articolazioni in genere.
Non era un banale mal di schiena; il midollo si era messo a farsi i fatti suoi, anarchico come il suo padrone; preso appena in tempo, operato d'urgenza, con le ossa più bucherellate di un puntaspilli, radio-chemio-di tutto terapie. Lui, che aveva bevuto intellettualmente il sangue del mondo, scopriva che il suo, di sangue, era malato.
Ma era forte, ci dicevamo, si andò a trovarlo a casa un mese dopo l'operazione, non era bello il cranio pelato, ma lo spirito c'era tutto. "Che sfiga....!" si limitò a commentare. Per passare dalla sedia al letto mi si appoggiò, perché la stanza gli girava attorno, e io sentii che c'era vigore nel modo in cui stringeva il mio braccio. Voleva vivere. Certo, da allora non sarebbe stata più vita.
Sapere di potersi infettare con un niente ogni giorno, soffrire dolori atroci, sentirsi la testa che si stacca dal collo, aspettare le analisi, sperare nell'autotrapianto. Tutta la trafila che avrebbe fatto impazzire chiunque. Lui no. Ci si rivedeva, e scoprivi che si era fatto tatuare la figura di Julian Ross di 'Holly e Benji' sull'avambraccio (l'unico caso di calciatore cardiopatico della storia mondiale), ed era il suo massimo sberleffo e il suo massimo esorcismo del destino: immedesimarsi nella sorte di un cartone animato. Parlava del suo male come 'purissima sfiga', ma non poteva né sapeva piangersi addosso, avendo per lunga consuetudine con gli studi umanistici capito che la fiamma delle nostre esistenze può esser spazzata via dal soffio del destino quando meno ce l'aspettiamo. Il discorso volava sempre alto, e oltre le sue personali vicende, visto poi che, incontratolo una volta che tornava dall'ospedale con le analisi mensili, me le sventolò annoiato davanti alla faccia dicendo: 'Sì, la solita merda'.
E venne al matrimonio di una nostra amica con un involucro-maxi che conteneva il regalo di nozze, ma in braccio a lui sembrava qualche invenzione di Archimede Pitagorico. Anche quel giorno si parlò di tutto, e il godimento gastronomico non ci distrassse un attimo dal passare da Eliot alle teorie di Adam Smith con la solita lieve familiarità. Eppure non c'era mai il puzzo paludoso dell'Accademia.
Poi deve aver capito: l'ultimo invito a tutti i suoi amici in un locale qui in città, sorta di grazie-arrivederci a chi gli era stato vicino, sempre però sui toni del più giocoso disincanto. Si dev'essere stampato bene in faccia quei visi, quella sera, e per ognuno deve aver concepito un pensiero dei suoi. Non si è però chiuso in casa a lasciarsi appassire. Ha continuato a vivere fino in fondo, poiché il breve passaggio che ci è concesso nella Storia non può essere sprecato nell'autocommiserazione, e lui lo sapeva.
Così, prima di Natale, con la prima neve dell'anno, i suoi polmoni hanno respirato qualche microbo di troppo. Forse non è stata un'eziologia nosologica casuale: lui ha saputo respirare ogni minima fibra dell'esistenza e della cultura e il suo pneuma psichico se n'è andato in una volta sola assieme al pneuma respiratorio.
Così le brume del nascente inverno lo hanno salutato, e l'aria aggricciata di un giovedì sera di nevischio si è rotta al suono triste delle campane, che riconsegnavano la sua anima al luogo extradimensionale da cui era venuta. Alunni, ex alunni, amici, la testimonianza di un affetto sincero per chi non ha mai voluto essere banale, ma ci ha pure spiegato che la sofferenza non è una condanna, ma una delle facce della vita, e forse serve pure a comprenderla più a fondo. A noi Sbattibarriere l'insegnamento che, smettendo di pensare in modo nevrotico e superfluo, gli ingranaggi della vita si allentano come d'incanto.
Ciao, Nicola. E grazie.          

domenica 23 dicembre 2012

E dopo la festa... parte 2

Non credo insomma che il tristo finale di questa legislatura abbia molto di diverso rispetto agli altri. Anche nel 1994, prima dell'avvento di Berlusconi, l'Italia si presentava con un governo tecnico guidato da Ciampi. Alla fine della legislatura successiva, nel 1996, c'era un altro governo tecnico, guidato da Lamberto Dini, cui seguì il primo governo a maggioranza sinistrese della storia repubblicana; ora abbiamo un governo tecnico guidato dal rettore della Bocconi. Dovremmo quindi aspettarci, per amor di simmetria, che anche a questo governo ne succeda uno caratterizzato da una novità impattante pari al Berlusconi edizione '94 e al Prodi sostenuto dai comunisti del '96. Di fatto, però, sarebbe interessante valutare il grado di effettiva impattanza delle due 'novità' sopracitate. Berlusconi e Prodi caddero per lo stesso motivo che aveva fatto defungere tutti i governi della Prima repubblica: il tradimento di un pezzo della maggioranza, motivato come sempre dal sentore di non essere riusciti ad ottenere la fetta di privilegio promessa alla propria base al momento delle elezioni. Sicché, sarà veramente nuovo ciò che spunterà fuori dalle urne la sera del 25 febbraio? (Silvio, ti prego di aggiornare alla nuova data il consiglio che ti diedi....)
Semmai, l'aria che si respira in questi giorni è pregna di velate ipocrisie: ricordiamo tutti che, appena insediato 13 mesi fa, Monti giurò e stragiurò che, finito il mandato, non l'avremmo più visto in politica, ma sarebbe tornato a fare il rettore bocconiano; ora, un politico italiano (Monti lo è in quanto senatore a vita) che non si rimangi nel giro di un anno quanto detto un anno prima è merce rara. Tanto per dire, l'amletico Giuliano Amato, efficiente braccio destro di Craxi negli anni d'oro, 'dimenticatosi' successivamente di essere stato craxiano, promise, all'alba del 1993, che dopo l'incarico di guidare il governo avrebbe lasciato la politica ("Non sono un uomo per tutte le stagioni", esclamò davanti al serraglio dei deputati ringhianti). Difatti fu di nuovo premier dal 2000 al 2001 ALLA GUIDA DI QUELLI CHE AVEVANO DEMONIZZATO CRAXI. Ed è giusto un esempio tra i tanti. Sarebbe dunque motivo di stupore che Monti si stia in questi giorni pavoneggiando di fronte alle ambascerie di mezzo mondo politico italiano che vengono a pregarlo di scendere in politica? Neanche Achille nella sua tenda, offeso per le note questioni di donne, faceva così il difficile con Aiace, Odisseo, Fenice e tutti quelli che provavano a farlo tornare in guerra contro Troia. "Sto decidendo...", dice. Sì, però vediamo di fare in fretta. Quale fascino ha mai trovato Monti in un anno da pazzi come questo, per tornare così clamorosamente sulle sue affermazioni di inizio mandato? La carità di patria? Il senso del dovere? Il sano narcisismo di chi con buone ragioni sa di essere l'unico jolly spendibile di fronte ai capoccioni della BCE?
Sia quel che sia, certi atteggiamenti da padre nobile non si addicono nemmeno a lui. Non so quanto gli convenga entrare in politica, ma se così dev'essere, che lo dica domani stesso, già che oggi le Camere sono state sciolte, quella cosa chiamata Legge di stabilità ha visto la luce tra doglie che neanche una balena con la gravidanza a rischio avrebbe patito, e ormai i giuochi sono fatti. Parli, però. Trovo al contrario stucchevole, ma pure irritante, l'ipotesi che Monti, restando personalmente fuori dalla bolgia elettorale in quanto senatore a vita, ammannisca a non si sa bene che lista mista riunita sotto il suo augusto nome una sorta di 'decalogo' programmatico da far sottoscrivere ai candidati, contenente cose e idee da attuarsi dopo un'eventuale vittoria alle elezioni che riporterebbe verosimilmente il rettore della Bocconi a Palazzo Chigi. Non so, c'è qualcosa che stona, e tanto. C'è ancora l'idea che, senza il prontuario stilato da un tecnico (o perlomeno un politico 'cooptato') i politici 'autentici' non sanno da che parte andare a sbattere. Di nuovo, insomma, si offre lo spettacolo di una galassia politica commissariata, poiché a questo punto Monti non è altro, a sua volta, che l'emanazione diretta della volontà dei piani alti dell'Europa che conta, la quale si trasmette tramite i paterni consigli di una persona che però non si sporca le mani nella contesa elettorale, 'accontentandosi' di cogliere il secondo alloro premieristico consecutivo coi voti conquistati dagli altri a suo nome. A me questa sembra una democrazia per procura.
Vedremo. Per ora, sempre per dire che le teorie del Gattopardo sono purtroppo esatte e valide anche oggi, accontentiamoci di rilevare che la legge di stabilità è stata infarcita dei tipici 'regalini' di fine legislatura da elargire a gruppi di potere che restituiranno il favore in termini di voti. Taglio delle province rimandato, cioé abolito; tagli alla sanità, fatti, MA in contemporanea si attua la sistemazione dei precari della CONSOB; fondamentale iniziativa per far aprire sale da poker a partire da gennaio; 8 miliardi per Finmeccanica, alla faccia degli scandali; rinvio di un anno dell'obbligo per Poste italiane di ridurre il parco auto (ma i postini non vanno in motorino?).
Eccetera eccetera.
Voglio tuttavia concentrarmi su un dato di fatto, naturalmente tornando un momento nel mio giardinetto insegnantizio.Prego i lettori di ripassare tutti, o quasi tutti i provvedimenti presi dai governi Berlusconi e Monti in questi 4 anni e passa. Ricordate le nuove norme sulle licenze ai taxisti? Tre giorni di caos a Roma e ciao riforma. Liberalizzazione della vendita dei farmaci? Giaculatorie all'olio di elleboro e ciao riforma. E così marciando. Ebbene, senza che il sottoscritto passi per la solita zia in menopausa capace solo di sordi rancori, siamo sinceri: una sola riforma è andata a segno in questa legislatura, l'unica mossa da autentico odio di categoria, l'unica in cui si sono riversati sentimenti di vendetta sociale e culturale che covavano da anni nella pancia del Paese, l'unica che non ha trovato argini anche per la disunione degli interessati. Sì, parlo della sciagurata riforma della scuola a nome Gelmini. Si potrà essere d'accordo  o meno con motivazioni e modalità della medesima, ma è un dato di fatto che nessun'altra iniziativa governativa della 16ma legislatura ha conosciuto un'applicazione così perfetta, tradotta in 187.000 licenziamenti. Ciò significa varie cose: quando si toccano i nervi scoperti dell'opinione pubblica, il successo è garantito; quando però la categoria vittima del provvedimento procede in ordine sparso ed è oggettivamente abbandonata dai suoi stessi sindacati, la rovina è assicurata. Non c'è stata finanziaria che sia riuscita, non dico ad invertire, ma almeno a smussare gli aspetti più disumani della riforma Gelmini, primo fra tutti il fatto che alcune classi di concorso si sono trasformate dalla sera alla mattina in paludi senza più speranza di assunzione in ruolo, vanificando di fatto gli sforzi di chi ha concentrato per anni i propri punteggi lì, per scoprire di essersi auto-condannato al precariato a vita. Questa è un'ingiustizia che secondo me rasenta l'incostituzionalità: il cambio in corsa delle regole non è accettabile quando si gioca con la vita e con le speranze di gente che ha lavorato sulla base di un certo obiettivo che d'un colpo è diventato più remoto di Saturno. Fosse poi che gli 8 miliardi risparmiati coi tagli siano davvero tornati alla scuola stessa in termini di aumenti stipendiali e incremento di risorse. Macché: gli stipendi sono bloccati, la cartaigienica manca nei bagni, non ci sono soldi per i corsi di recupero. Diciamolo: al precedente governo interessava risparmiare in qualche modo 8 miliardi e il modo si è trovato colpendo una categoria ritenuta politicamente nemica ('tutti meridionali, fannulloni e di sinistra', sì, proprio il mio caso, come no....) che non avrebbe avuto aiuto né comprensione da nessuno.
Eccoci dunque, passata la profezia Maya, a contemplare lo spettacolo del mondo della scuola pubblica cui non è stata riservata alcuna comprensione, alcun allentamento della sofferenza, solo vaghe promesse di organici funzionali che avrebbero almeno alleviato il disagio dei precari (e che ovviamente sono stati abortiti nel volger di un mattino) e un concorsone umiliante per la pochezza dei posti messi a ruolo e superfluo per il fatto di essere rivolto di fatto a gente che i requisiti per il ruolo li ha già. Per tacere della mostruosità dell'aumento delle ore di lezione su cui, finalmente, siamo riusciti a farci sentire. Però ci hanno provato: segno che, memori delle vittorie gelminiane sul nostro nulla, hanno davvero creduto di poterci riuscire, violando con nonchalance due articoli costituzionali. Ricordiamoci insomma di quanto odio siamo stati e saremo ancora oggetto, se non reagiamo. Ma se qualcuno oserà ancora cianciare sui privilegi di noi docenti, sappia che lo azzannerò con gusto.
So che la seconda parte del post sembra eccentrica rispetto alla prima, ma non è così. Un secondo governo Monti significherà per noi docenti tutto fuorché la correzione degli eccessi della legge Gelmini. Le classi di concorso condannate al nulla resteranno tali, si proverà a ridurre di un anno il percorso scolastico totale, ovviamente decapitando la quinta superiore, con nuovi tagli, si sottoporranno i nuovi aspiranti docenti a concorsi sempre più simili a simulazioni per piloti di shuttle. Mi duole dovermi preventivamente schierare contro queste idee, ma un autentico pensiero liberale non può agire in modo così indiscriminato e livellativo su una realtà complessa, che certo ha conosciuto storture enormi in passato, ma che non può vederle risolte semplicemente a colpi di tagli, come se i destini individuali fossero materia da disintegrare di fronte alle superiori esigenze dei Conti In Ordine. Anche perché, ri-duole dirlo, queste esigenze sono sempre esibite da coloro che alla necessità dei conti in ordine non vedono vincolata la propria carriera lavorativa: il ministro Fornero cambia in corsa le regole del pensionamento, ma lei va in pensione con quelle vecchie; il ministro Grilli elargisce IMU in allegria e poi si fa beccare con gli appartamenti ai Parioli acquistati d'occasione, e comunque le IMU a lui non asciugheranno certo la tredicesima. Spiace insomma vedere dei sedicenti liberali fare gli splendidi con la povertà degli altri.
In sostanza: state attenti tutti, perché il ragionamento gelido e ragionieristico applicato a noi della scuola un giorno potrebbe colpire tutti voi. Finché le esigenze di bilancio prevarranno sulle vite concrete delle persone, chiunque di noi sarà a rischio. L'unica 'novità impattante' che non voglio dal 2013 è la nascita di un governo per il quale le persone contino meno dei numeri.

sabato 22 dicembre 2012

"Lacrime del tramonto", episodio 2: il cavallo salì su Cesare.

(qui l'episodio 1)


Derrilla dunque dormiva ancora, benché quel giorno andasse a fidanzarsi, mentre, al piano di sotto del palazzo, Wak sottoponeva a Pif uno dei suoi infallibili sillogismi che capiva solo lei.
Pif era impegnato nella sua sobria colazione: hamburger di otaria, scaglie di astice, insalatina di foglie di mangrovia; gli ordini del dietologo, purtroppo inevadibili, lo avevano costretto a rinunciare alla tartare di proboscide d'elefante, sostituita da una non meno gustosa, benché molto meno calorica, frittura di capibara. Ai suoi lati due schiavetti etiopi, vestiti con una livrea amaranto dai risvolti di madreperla, erano pronti a scattare a qualsiasi suo ordine.
Come suo solito, Wak si posizionò dinanzi al marito, con faccia contrita e sospiri elegiaci, quindi enucleò: "Ernesto, mi querido, tu sai che yo no te ho espossato per il tuo dinero, ma porqué la mia adoratissima hermanita Truleida Dikimarta Losbidia ha empalmado un hombre ricco da far esquifo e yo no potevo esser da meno..."
[Intervento redazionale: 1) non cercate mai, ripetiamo MAI, di trovare una logica nei discorsi di Wak 2) sappiate che Truleida era già vedova da un pezzo, e si era risposata con Sidròn, sedicente assicuratore con l'hobby della solidarietà sociale a pagamento per sole donne: tuttavia, come per il 99% degli eventi che riguardavano la famiglia o i parenti stretti, Wak e Derrilla facevano credere a Pif quello che volevano loro, bastava fargli trovare nel piatto quel che desiderava]
"... e pertanto, no entiendo permettere che Derrilla sfiguri en fronte a las cusinas. Dobbiamo aggiungere una fila di pini marittimi al patio della cerimonia entro esta tarde". Detto ciò, Wak allungò sotto il piatto di Pif un biscottino all'aroma di cinghiale. Pif, sedotto dalla ferrea logica della moglie, fece un gesto eloquente allo schiavetto che stava alla sua destra: costui si precipitò alla scrivania di noce afghano situata al lato opposto della sala e ne estrasse il poderoso libretto degli assegni del padrone, alto circa come l'elenco del telefono di Rio de Janeiro. Tornò quindi alla tavola e porse il malloppo a Pif. Wak sbottò: "Ma come te permietes????? No hai fatto l'enquino al tuo padrone e te sei rimieso al tuo puesto senza domandar nada! Es licenciado!!!!!", e detto ciò, estrasse dalla borsetta di pelo d'alce una verga elettrica con cui pungolò lo sventurato fino a farlo uscire dalla porta di servizio, dove le tigri bengalesi del giardino estivo si presero cura di lui.
Nel frattempo Pif stava firmando l'assegno: "Allooooooora, ecco, così va beeeeene! Sì, è bello che Derrilla si sposi, le piante fanno allegriiiiiiia. E' una cosa così beeeeelllla!" e segnò la somma di 300.000 Poppopes (la moneta corrente in Chachakunya, equivalente circa a 1 euro e 75 centesimi) da elargire al giardiniere [spoiler: metà della somma andò investita nella piastra glitterata a pannelli solari per cui Wak sbavava da tempo], quindi si reimmerse nell'astice.
Wak afferrò trionfante l'assegno e sfanculò l'altro schiavetto: "Que miras? Porqué estas solitario? Donde sta el tuo companhero? L'hai escondido? Basta, es licenciado!!!"  e ripetè l'operazione con la verga elettrica, stavolta però facendo cadere lo schiavetto nella vasca dei piranha che stava al centro della sala. Poi uscì di corsa per andare dal giardiniere, passando casualmente prima dal negozio di piastre, e sistemò la cosa.
Derrilla era ancora nel mondo dei sogni, un mondo popolato da visioni di foglie di the parlanti, mentre, in luoghi inaccessibili e sconosciuti, qualcuno tramava per mandare a monte il suo matrimonio. Tra le cugine di fronte a cui Wak non voleva che Derrilla sfigurasse c'era la secondogenita di Truleida, Mareja Noborliana Krityadesa, che era la persona che si era legata per prima (poi sostituita dalla madre) al suddetto Sidròn dopo averlo conosciuto ad un presepe vivente il Natale di due anni prima. Mareja faceva la tessitrice che preparava le bavaglie per il Bambinello, Sidròn faceva l'angelo. La parte non gli andava granché a genio, essendo lui ateo e stra-ateo, ma era stata la contropartita per il contratto di assicurazione stipulato con gli organizzatori del presepe, che si erano voluti tutelare nel caso le bestie che sfiatazzavano nella grotta si fossero imbizzarrite: mancando infatti a pronta mano il bue e l'asinello, ci si era accontentati di un toro e di un muflone. Morale, Sidròn, abituato, per i suoi precedenti ben dissimulati di spogliarellista, al precario equilibrio dei pali da lap-dance, si adattò a stare appeso ad un'imbragatura che lo teneva fermo sopra l'ingresso della grotta, esattamente a perpendicolo col filatoio dove stava seduta Mareja. Il giorno della prova generale, i due si scambiarono sguardi furtivi: Mareja, visibilmente compiaciuta del fisicaccio statuario del collega, il cui metro e settantadue era certamente ben tornito, gli chiese se, dopo le prove, gli andasse un caffè. Sidròn, pensando di poter rifilare alla ragazza una nuovissima polizza contro la caduta dei capelli, accettò.
Purtroppo, giunti al momento dell'arrivo dei Re Magi, a Sidròn, già imbragato e penzolante, squillò il cellulare. Il giovane, pensando che fosse qualcuna delle clienti a cui concedeva la sua virtù, non esitò ad estrarlo, ma così facendo provocò lo slacciamento multiplo dei tutte le cinghie che lo reggevano e precipitò addosso a Mareja, provocandole una commozione cerebrale e fratture multiple.
Nella corsa in ambulanza verso l'ospedale, Sidròn pensava affannosamente a come salvarsi dalla denuncia di tentato omicidio: gli organizzatori del presepe avevano infatti stracciato prontamente il contratto con lui, facendolo passare per un infiltrato nella manifestazione. Mentre teneva per mano la rantolante Mareja, gli sovvenne un'idea salvifica: estrasse il porta-polizze e si auto-assicurò contro le cadute dalla grotta di Betlemme per 120.000.000 di Poppopes. Fosse pure rimasta storpia, Mareja sarebbe stata adeguatamente risarcita senza rischi per il giovane. La ragazza, peraltro, ebbe un attimo di lucidità proprio mentre Sidròn compilava l'acconcia modulistica, e proprio per effetto della botta si convinse che egli stesse firmando un impegno di matrimonio riparatore con lei. "Oh, mio guapissimo ninho, que sensibilidad... sì, te espueso immediatamente....!" poi perse i sensi. Sidròn calcolò che, se Mareja fosse risultata sua moglie, il premio assicurativo si sarebbe dimezzato, con grande agio della compagnia. Non ebbe pertanto problemi a corrompere il portantino che controllava i parametri vitali della ragazza e a convincerlo a firmare l'atto di matrimonio spacciandosi per il sindaco de las Rooedas, che tanto era sempre in ferie.
Sidròn e Mareja arrivarono dunque maritati all'ospedale, la qual cosa consentì alla giovane di venir ricoverata nel reparto per degenti di un certo interesse. Dopo mezz'ora di terapia intensiva a base di sigle dei Mio-mini-pony, Mareja diede cospicui segni di ripresa e, svegliatasi, disse a Sidròn: "Oh, marido mio querido, el suenho de espossarte se ha arealizado... tu tiene un grandissimo corazon!". "Sì, sì, certo", rispondeva frettolosamente il ragazzo, tutto intento a messaggiare la cliente di cui sopra per spiegarle di dover rimandare l'appuntamento: il bello era che non poteva neanche usare la solita scusa con la quale in genere si liberava delle clienti più sfrangipalle ("Finiamola qui, fra tre giorni mi sposo"), perché stavolta si era sposato davvero. Si limitò ad un laconico: "Ho un briefing con la compagnia, dobbiamo studiare una nuova polizza contro gli scarabei molesti".
Sul più bello arrivò Truleida, avvisata dagli organizzatori del presepe, che irruppe nella stanza al grido di: "Donde esta el sinverguenza che ha atentado a la integridad de mi hija?". Mareja la placò: "Fermate, amada madre, esto ninho se ha esdebitado espuesandome... es mi marido!!!". Truleida, che dopo quattro anni di vedovanza non aveva perduto le scalmane, guardò il ragazzo e se ne incapricciò. "Guapissimo, ma chi te lo hace hacer de espuesarte con esto calorifero de ninha? Mirame, yo soy la sua madre e soy tanto caliente.... espuesa me e ritirerò la denuncia...!". Sidròn stracciò all'istante l'auto-polizza e l'atto di matrimonio e alle cinque della sera i due erano già marito e voglie, cioè, scusate, moglie. Mareja, lasciata a languire in ospedale, giurò a se stessa che si sarebbe vendicata sul primo parente che le fosse venuto in mente con gli occhi verdi, nato in un giorno pari sotto il segno della Vergine, con cui aveva giocato alla casa delle bambole prima che costui rompesse la testa alla sua preferita, ovvero Barbie Charlie Brown. Fu un attimo: sua cugina Derrilla.
                                                                                                                                                   (2- continua)                
  

E dopo la festa, restano le cartacce (analisi di un fallimento - parte prima).

Ciao, sedicesima Legislatura. NON ci sei piaciuta. Cominciasti, nell'aprile del 2008, sotto auspici anche discreti. Si diceva: "Il centrodestra ha una maggioranza-bomba sia alla Camera che al Senato, quindi.... E pure gli avversari sconfitti, che in due anni di quindicesima Legislatura ce l'avevano messa davvero tutta per farsi odiare dall'Italia tutta, sembravano rabboniti nonostante la scoppola". Ricordo che le prime dichiarazioni del dopo-voto, ma pure all'indomani della nascita del Berlusconi 3 (o 4, come ho già discusso altrove) furono sorprendentemente concilianti. Del resto, con una crisi economica appena agli inizi, quando la grana Lehman Brothers aveva ancora da scoppiare, pareva che i nostri fantastici rappresentanti parlamentari avessero compreso che era necessario un incivilimento del clima politico per far fronte alla burrasca in arrivo (perché che ci fosse una catastrofe dietro l'angolo dovevano ben saperlo, viste le torme di analisti mondial-finanziari che si tiravano dietro). Collaborare, una buona volta, pur nell'ovvia distanza delle reciproche posizioni, in modo che maggioranza e opposizione svolgessero i loro ruoli avendo in mira comunque e sempre il bene del Paese. Poi?
Ecco, il poi, anche tentando di guardare ai fatti con un certo distacco, rimane qualcosa di ancora scarsamente decifrabile. Una sola certezza: dalla super-maggioranza al governo dei tecnici. In mezzo, il caos etico e civile. Mi sembra che un po' tutti ci si senta come dopo una frenata improvvisa dell'automobile su cui si viaggiava, cui può seguire un tamponamento con annessa perdita di coscienza e risveglio improvviso in un totale altrove rispetto a quello che ci si ricordava. Prima domanda del risveglio: "Dove siamo finiti?". Seconda domanda: "Cos'è che non ha funzionato?".
Proviamo a ragionare estesamente: la Seconda Repubblica, nata sulle ceneri della Prima, anche se mai diventata tale in via ufficiale, è ora pure essa in agonia. Sì, l'agonia delle cose nate male e finite peggio. Tanto per prendere un esempio fuori di casa, i francesi sono alla Quinta repubblica. Ora, tutte le volte che in Francia è nata una repubblica, ciò si è dovuto a svolte storiche anche traumatiche: la Prima repubblica, è noto, è quella nata nel 1792 in seno alla Rivoluzione, dopo che re Luigi XVI fece di tutto per rendersi odioso ai suoi avversari, che decisero di rinunciare all'originario progetto di monarchia costituzionale e passare ad una forma di governo su cui non gravasse la minaccia di sabotaggio perenne da parte della famiglia reale. La Seconda vide la luce,  brevissima e sfigatella, coi moti rivoluzionari del 1848, alla fine dei quali i francesi elessero Presidente Luigi Napoleone, che in capo a quattro anni rinverdì i fasti dell'Impero del predecessore. La terza sbocciò sanguinolenta dopo che le armate prussiane asfaltarono quelle francesi nel 1870; la quarta si ebbe alla fine della seconda guerra mondiale e la quinta dopo la crisi dovuta ai fatti di Algeria. Cinque Repubbliche, cinque Costituzioni, cinque processi storici pesanti e radicali nei loro effetti.  
Noi? Beh, la nostra Prima Repubblica, nata naturalmente da un referendum contestato, cresciuta nel blocco del sistema che, vigente la guerra fredda, voleva la Democrazia Cristiana al governo e i comunisti all'opposizione, degenerata nel cancro della partitocrazia e della corruzione, è implosa solo per effetto indiretto dei grandi eventi del 1989. Sostanzialmente, se fino ad allora tutti sapevano della corruzione dilagante e tutti tacevano perché il sistema in vigore era il meno peggio (e c'erano i carri armati russi che rombavano appena al di là della cortina di ferro), dopo che il nemico rosso cessò di essere un problema, ci fu una sorta di ernia iniguinale della nostra vita civile che 'mollò' letteralmente l'appoggio ipocrita e omertoso ai partiti di governo, 'scoprendo' da un giorno con l'altro che, gulp, 'qui rubano tutti'. Che anni quegli anni: 17 febbraio 1992 (arresto di Mario Chiesa e inizio ufficiale del ciclone Tangentopoli)- 27-28 marzo 1994 (vittoria della coalizione di centrodestra creata da Berlusconi in due mesi stracci). Davvero in quei due anni parve che tutto sarebbe potuto cambiare. Illusione. Senza ripercorrere tutti gli sviluppi del fenomeno Berlusconi (che resterà per sempre la tag principale del file "Seconda repubblica italiana", insieme ad Amici di Maria de Filippi), credo che basti fermarsi all'origine di tutto: una Prima repubblica affondata negli scandali del malaffare, e però rimasta immutata nei suoi istituti, poteva davvero evolversi in Seconda repubblica? S'è già detto che il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario, oltre all'abolizione delle preferenze multiple sulle schede per evitare il voto di scambio, non hanno portato a granché, vista la girandola di governi che anche la Seconda repubblica ha conosciuto. Non era lì il problema: chi è sopravvissuto alla prima ondata di inchieste tangentopolizie, o era trrrrroppo giovane per rubare, non ha fatto altro che aspettare che le acque si calmassero è poi ha ripreso il malvezzo di prima. A destra come a sinistra, beninteso.
Ma appunto: forse nessuno immaginava che la legislatura nata nel 2008 sarebbe stata l'ultima della Seconda repubblica. Il fatto è che, psicologicamente, non abbiamo mai smesso di essere nella Prima: come i bambini piccoli che ammutoliscono dopo una sgridata e riprendono quasi subito a fare chiasso, i nostri governanti ci hanno regalato l'illusione del nuovo, ma tutto nasceva già irrimediabilmente vecchio. Inevitabile: dopo l'indifferenza ai maneggi politici, era venuta la stagione del 'tutti coperti, passa l'ispezione'. Ma poi era passata anche quella. E i vecchi vizi sono riemersi tutti.
Del resto, con una maggioranza schiacciante a Roma, pare proprio che i rappresentanti del centrodestra di tutta Italia si siano sentiti liberi di fare tutto quello che gli passava per la testa. A partire, duole ammetterlo, da Berlusconi, che almeno tra il 2008 e il 2010 ha vissuto un autentico delirio di onnipotenza, muovendo pedine e sistemando famuli con una sfacciataggine da satrapo. Per tacere della Lega, partito nato con vocazione anti-sistema che non ha trovato di meglio che candidare alle elezioni regionali il Figlio del Capo (che purtroppo non pare essere stato dotato dalla provvidenza di soverchio intelletto né brillantezza). Qui da noi a Tondinopoli, i consiglieri comunali si sono abbandonati a spese pazze usando la carta di credito del Comune e il sindaco ha creduto di poter risolvere tutto con il più classico dei 'pago io!' con cui i genitori dei figli viziati mettono pezze ai disastri della prole, come se ciò cancellasse il dolo commesso.
Tutta roba che avveniva anche prima; oggi però c'è un'impunità quasi esibita, un'arrogante sicumera, un individualismo sfrenato che eccedono ampiamente le misure degli scandali della Prima repubblica. Sulla scia della gaudenza berlusconiana, in un'estasi imitativa più tipica di una corte orientale, tutti, o quasi, fanno del potere politico SOLO uno strumento di guadagno personale, laddove, nel secolo scorso, un minimo di coscienza del ruolo pubblico che l'appartenenza ad un partito comportava era rimasta. Si rubava, certo. Si corrompeva, eccome. Ma ANCHE per il partito. Oggi il partito è un contenitore vuoto, meglio un cavallo di troia per entrare nei circoli del potere ed insediarvisi. Poi inizia un'altra storia, che con l'impegno politico non c'entra nulla.
E del resto, iniziato il ciclo discendente delle sue fortune nell'estate 2009 con il divorzio chiesto dalla moglie, che gli ha praticamente dato del pedofilo, proseguito il tutto con gli scandali delle escort, cilieginato lo strazio con l'uscita di Fini e dei suoi 99 puffi dal PDL, fatta una penosa compravendita di 'responsabili' dell'opposizione, che al solo profumo della cadrega sarebbero stati capaci di vendere la loro madre e dire che non le hanno mai voluto bene, ripiombato in questioni di sfruttamenti di marocchine facili, esibita al ridicolo europeo un'estate 2011 con 5 finanziarie in due mesi, cosa è diventato Berlusconi? Semplicemente una versione condensata del crollo della Prima repubblica. Solo che, all'epoca della tv a 33525 canali, di internet, di facebook, del LOL che non ti molla, il turbinoso vissuto personale del politico più potente d'Italia non ha lasciato nemmeno una zona d'ombra. Siamo venuti a sapere tutto e abbiamo visto cose dolorose quando non squallide, ma in una misura incomparabile con quella di 20 anni fa. Se allora si ebbe l'impressione di aver scoperchiato una fogna, oggi ci sentiamo tutti caduti dentro.

giovedì 20 dicembre 2012

Le ricorrenze si festeggiano comunque.

                                                 Guardarsi immersi nel perenne flusso
                                               dell'Essere e del Tempo, su una retta
                                               infinitesimal punto discusso
                                               tra il Prima e il Poi, in una gola stretta
                                                  di anni di vita, non altri, ma questi...
                                               Perché qui ed ora? E guardi oltre il confine
                                               e scopri che esistere potresti
                                               oltre la Morte... ma a che cosa è affine
                                                  l'Eternità? Io coglierla non riesco
                                               e mi spaventa, sono condannato
                                               ad esser-ci per sempre...! Da me esco,
                                                  mi sdoppio e resto nel mondo insensato.
                                               Capriccetti alienati, questa bomba
                                               vi spedirebbe dritti nella tomba.
                                                                                                
(Estate 1997, quattro anni e mezzo dopo l'Evento)

Già che nel claim del blog si ciancia di gente che ha toccato la Barriera Estrema, parliamone pure, dato che oggi, esattamente alle ore 20.05, saranno passati vent'anni esatti dall'evento che senza dubbio ha dato la svolta definitiva alla vita del sottoscritto. ["Gesù, adesso si mette a parlare di sé medesimo...".  "Vabbe', sto in casa mia, che tte devo domanda' er permesso?"].
Credo che il dramma più assurdo che possa toccare a chi esiste sia accorgersi di esistere e chiedersi il perché. Siamo l'unica specie vivente la cui coscienza ci permette di uscire da noi stessi per considerarci lungo la linea del tempo da cui veniamo e di cui siamo il prodotto. E già qui, se uno ci pensa e va oltre il livello 'scimmia vestita' che caratterizza una buona percentuale dei nostri simili, un filino di angoscia viene, non perché, beninteso, la condizione attuale sia meglio o peggio di quelle passate, ma perché la catena degli eventi ci ha portati ad esitere PROPRIO QUI E ORA. Il dato di fatto non può edulcorare la sottile verità che ci costringe ad essere o meglio ancora ed esserci senza che noi lo si sia deciso [sì, Heidegger, ecc. ecc., peccato che vent'anni fa io non lo conoscessi nemmeno -- Spocchia]. L'esperienza dell'essere e dell'esserci, una volta che si prenda atto che è una sorta di moto non richiesto che non possiamo arrestare, può sconvolgerci: si tratta evidentemente di sganciarsi per qualche secondo dal pensiero che non va oltre il quotidiano rappellarsi ciò che si è fatto e ciò che si farà domani, oltre gli effimeri godimenti che si possono trarre dalla vita privata e/o professionale, un attimo solo di concentrazione per considerarsi AL DI FUORI del moto transeunte del nostro essere materiale qui ed ora. A quel punto la ruota del tempo di dimostra un meccanismo concentrico di cui la vita biologica di ciascuno di noi non è che il cerchio più interno. Ma dopo... qualunque cosa ci sia dopo, che noi ci si disintegri appena morti o si sopravviva chissà dove, o ancora ci si vada a ricongiungere con chissà quale essere supremo, ebbene, qualunque strada si possa imboccare nel Dopo, questo dopo sarà ancora Essere. Ma che essere? E fuori da quale tempo? Quando nulla sarà più misurabile e solo un eterno, incalcolabile presente sarà la nostra dimora, cos'altro saremo costretti ad essere? Possiamo accettare che ci sia una dimensione che non conosce la fine? Anche il Nulla, l'eventuale Nulla seguito alla nostra disgregazione, è di fatto inconcepibile, perché non sentire NULLA non esclude che la nostra essenza frantumata continuerà a percepire la nullificazione in ciascuno e tutti i frammenti in cui essa si sarà disgregata. Non ci sono prove che possano negare  che anche il Nulla sia una forma di percezione. Oppure ci sarà quello che gli indiani chiamano Oceano Ipercosmico, l'annullamento della coscienza individuale in un tutto luminoso e fluente, quindi la fine del suo porsi entro una scansione di tempo per non appartenere più ad alcun tempo.  Qualunque delle situazioni esposte, ove concepita, non può, anche solo per un attimo, non bruciare le comode mura dei fortini che abbiamo costruito attorno alle nostre esistenze. E' in quel momento che scopriamo la nostra invincibile piccolezza nei confronti della forza più totale del cosmo, l'Essere che è sempre stato, poiché nulla nasce dal Nulla. Al principio del tutto c'era già qualcosa, al di là del tempo cosa sarà di noi?
Se allora si concepiscono questi pensieri per almeno cinque minuti consecutivi, accelerando per via intellettuale la nostra dimensione spaziotemporale, e ci si sforza di pensare alla atemporalità che ci attende, entro una misurazione impossibile perché priva di una fine, quando si scopre che, in un modo o nell'altro, l'inspiegabile potere dell'eternità che non si controlla e dell'essere ci domina al di là del nostro volere, si va a sbattere contro la Barriera Estrema dell'Essere, barriera metafisica e metapsichica che rapppresenta lo scalvacamento di ogni dimensione puramente umana. Ecco la scossa, il limite estremo concepibile dalla razionalità ferma alla misurazione quantitativa: al di là di ogni quantificazione e di ogni senso, di ogni vita e di ogni controllo su essa, sta l'energia dell'eterno flusso dell'oceano ipercosmico, la totalità che può coincidere anche col suo opposto, ovvero il Nulla, che è totalità rovesciata. Essere, in qualche modo, per sempre. Senza alcuna fine.
Mi pare chiaro che, ritornando da lassù, posto che non si sia ancora impazziti del tutto, è impossibile ricominciare a vivere come gli altri. Una bolla sottile ma robustissima ci separerà sempre da loro. Noi abbiamo superato ogni tempo, ogni vita, ogni morte, ogni vittoria e ogni sconfitta. Quest'esistenza per noi è pari ad un giro di doppiaggio: sembriamo superati dagli altri, ma solo perché il giro più grande è già stato compiuto. Non essendoci disintegrati allora, siamo tornati nella corsa di tutti e solo in apparenza veniamo percepiti in svantaggio o ritardo, come capita ai piloti che doppiano un avversario che è davanti a loro, ma un giro indietro.
Ed è così che viviamo, stranieri a noi stessi e in perenne bilico sulle cicatrici dell'Inappartenenza, poiché le dinamiche del mondo, che sottesamente avvertono il nostro essere andati oltre, ci rifiuteranno sempre. Non siamo vincenti né perdenti, ma certo la sicumera di certuni ci fa sorridere. Noi siamo qui per non esserci del tutto, parte di noi è rimasta attaccata lassù. Applicare il potere della barriera estrema significa plasmare l'orizzonte degli eventi oltre la materialità. Il prezzo è non appartenere a nessuno, forse nemmeno del tutto a noi stessi. Forse un altro vive al nostro posto e nli lo stiamo guardando. Non abbiamo cercato questa condizione, eppure ci siamo dentro. Nulla di eroico o tragico: ci è toccato.
Buon compleanno, (mia) Barriera Estrema.     

lunedì 17 dicembre 2012

IN LOVING MEMORY OF MARY, DAWN AND VICTORIA

[Premessa generale: prima che i soliti moralisti del fallo tattico si alzino in piedi a dire che è troppo comodo indignarsi solo quando vengono massacrati dei colleghi, con tutte le cose brutte che succedono ogni giorno nel mondo, sappiamo lorsignori che in ogni invettiva l'indignazione è direttamente proporzionale al grado di vicinanza con l'evento oggetto di indignazione. E comunque nessuno vi obbliga a leggere].

Gli utenti del blog avranno ormai capito che qui si naviga abitualmente tra il serio e il faceto. Oggi siamo costretti ad essere terribilmente seri.

Che non ci siano parole per descrivere l'orrore della strage di Newtown in Connecticut, strage perpetrata da un 20enne pazzo, figlio di una pazza con la mania delle armi, un essere capace di uccidere bambini indifesi e maestre che si sono improvvisate scudi umani per arginare gli effetti della sua follia, ebbene dire che non ci sono parole è troppo comodo. Devono esserci eccome.
Gli americani hanno sempre avuto questo 'complesso del far west', per cui la difesa personale è cosa buona e giusta, bisogna difendersi per non venir soppressi, mors tua vita mea ecc. ecc. E' auspicabile che Obama, già che freme dalla voglia di lasciare un segno nella storia del USA, trovi il modo di arginare il fenomeno dell'armamento facile, anche a costo di mettersi contro tutte le lobby americane e non solo. D'altronde, quando si decide di gettarsi in politica, non si  è più solo se stessi, ma si diventa un tutt'uno con coloro da cui si è eletti. Obama deve agire e non essere frenato da paure legate magari pure alla salvaguardia della sua persona o di quelle dei suoi cari: egli ormai non è più un singolo individuo, è lo Stato Americano incarnato, e come tale deve agire nell'interesse dei suoi membri. Non ci sarà vero sacrificio personale, poiché la sua vita coincide ormai con quella della comunità, e quindi egli non cesserà di esistere qualora qualche ritorsione lobbystica metta fine alla sua esistenza, poiché egli vivrà nelle vite di coloro che non sono morti grazie al suo impegno anti-violenza. La vita persa per chi si decide di proteggere non è mai persa.
La morte, al contrario, quando è provocata, non solo si sconta vivendo, ma non si riscatta certo suicidandosi come ha fatto il pazzo del Connecticut: la sua fuga dalla vita dopo averne spezzate più di 30 è indice certo di un profondo disagio, ma anche dell'incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni e sopportarne il peso. Non ha provveduto di sua mano a fare giustizia delle sue stesse atrocità, no. Doveva esser preso, esibito al ludibrio del mondo intero, processato, esaminato nei lati più oscuri del suo cervello, quindi condannato all'ergastolo, poiché solo l'illanguidimento senza speranza di riscatto può macerare a sufficienza anche l'animo del più folle degli assassini. Al quale, sia chiaro, io non riconoscerò MAI l'incapacità di intendere e di volere: sono troppo senecano per non sapere che, anche nel compiere l'azione più efferata, è sempre la nostra volontà che dà l'assenso alle spinte degli istinti, istinti che peraltro, nel presente caso, non possiamo neanche definire ferini, poiché tra gli animali queste stragi di simili non avvengono. Se esiste un luogo nell'aldilà dove la coscienza si brucia fino ad annullarsi, eppure anche se annullata continua a sentire il graffio eterno della sovversione provocato all'ordine naturale della società umana, ebbene spero che l'anima di quell'essere vi sia già giunta, e che il suo perpetuo avvitarsi nel dolore sia già iniziato.
Mi si consenta però di chiudere con la memoria nient'affatto retorica e solamente commossa per le tre maestre che hanno sacrificato la loro vita per limitare al massimo i danni di quell'essere: liquidate con il mesto sorriso di chi sente i bambini parlare di escrementi le parole delle lobby delle armi, che hanno affermato che se le maestre fossero state armate pure loro, la strage non sarebbe avvenuta, voglio consegnare alla memoria telematica, per quel che si può da questa sede, i nomi di Mary Sherlack, psicologa della scuola, Dawn Hochpsrung, la preside che ha attivato l'interfono della scuola per dare l'allarme e ha tentato di fermare il mostro semplicemente gettandoglisi addosso, per finire crivellata di colpi, e Victoria Soto, la giovanissima maestra che ha messo in salvo i suoi bambini prima di venire trucidata.
Chi scrive è figlio e nipote di maestri elementari, per cui l'evento lo colpisce doppiamente. Mi si conceda dunque di alloquire, e se sembrerò retorico, fatti vostri: a tutti quelli che quotidianamente sparano a zero sulla categoria, a quelli che ci sbolognano i figli a scuola perché almeno se li tolgono di torno per un po', a quelli che pensano che il nostro sia un mestiere qualunque, vale la pena di ricordare non solo che noi abbiamo la responsabilità penale per tutto ciò che può accadere ai ragazzi in orario di lezione, ma soprattutto non interagiamo con faldoni o bulloni, ma con esseri viventi. La qual cosa, oltre a caricarci del nobile peso del compito educativo, fa sì che, a poco a poco, i ragazzi diventino parte di noi, anche se magari abbiamo figli nostri, perché la relazione insegnantizia non è burocrazia, è vita, e dare la vita significa legarsi indissolubilmente con chi riceve questa vita, sia pure vita dello spirito come quella che trasmettiamo noi. E' per questo che non mi stupisco, pur commuovendomi, del sacrificio di Victoria, poiché questa ragazza meravigliosa non ha agito per salvare gente a caso, ma sapeva che nei suoi piccoli alunni, qualunque fosse stato il suo destino, sarebbe sopravvissuta una parte di lei. Una classe di scuola non è un ufficio qualunque, è una famiglia culturale ed emotiva regolata da leggi di protezione della specie che attivano, come nal caso di Victoria, un circuito di sacrificio disinteressato, puro, totale che è una forma d'amore certo particolare, ma spiegabile col fatto che, nel momento in cui si conduce un gruppo di giovani o giovanissimi o addirittura bambini a scrivere la propria pagina sul libro della vita, non si può morire mai completamente.
Che dunque la terra NON sia lieve a quell'essere innominabile e che la memoria dei caduti della scuola, e in particolare delle tre donne ora citate, e in particolare di Victoria, resti perlomeno a perenne monito: per voi, studenti falliti, bocciati plurimi, diplomati a pagamento che trovate comodo asilo lavorativo in famiglia, e, per un anno che finalmente piegate la schiena dopo una vita di nulla assoluto, vi credete grandi imprenditori e vi permettete di insultare la nostra categoria "che insegna cose che non interessano", credendo che i vostri freschi stipendi da paraculati siano una sorta di rivalsa nei nostri confronti; per voi, sportivi di belle speranze che al primo contratto credete di aver già conquistato il mondo, e dimenticate che più di metà della vostra vità sarà impegnata a non sperperare quello che avrete guadagnato in dieci anni di carriera; a voi, ex gigolò convertiti alle polizze furto-incendio, che vi atteggiate a maestri di etica lavorativa dall'alto di una sovrana capacità di indossare maschere e recitate il ruolo degli integerrimi padri di famiglia, nascondendo il vostro passato e ciarlando sulle ferie degli insegnanti "pagati per fare niente"; a voi, scimmie vestite che credete di celare la vostra nullità sotto l'esibito benessere privo della cultura che unica ci distingue dalle bestie e cinguettate vezzose che tanto "a scuola non ho imparato niente...". A tutti voi dico: le vostre pagine si accartocceranno nella polvere riarsa dei secoli, le nostre, scritte insieme a coloro che hanno creduto in noi, resteranno per sempre, grazie all'indelebile inchiostro dell'humanitas, ovvero al riconoscimento di sé nell'altro, che spinge a nutrire tutti assieme l'anima comune che ci ha resi quelllo che siamo. Noi insegnanti siamo e saremo qui. Adesso aspettiamo voi..
  

domenica 16 dicembre 2012

La Machittevòle Productions presenta: "Lacrime del tramonto", la nuova blognovela per palati esigenti.

Episodio 1: I lamponi nel giardino.

Era una sonnecchiosa mattina laggiù in Chachakunya, ricca contea della provincia de las Rooedas. Nella tenuta dei ricchi Poraponxes, circondata da dodici ettari di bosco ceduo, due piscine oceaniche, otto maneggi per cavalli e un chioschetto di gelati al puffo, l'attività non aveva ancora preso a fervere. Mancava poco, comunque: quel giorno si sarebbe festeggiato il fidanzamento della prima delle 5 figlie del capofamiglia, Ernesto Chualam Sobierto de La Sombra de la Lira, per gli amici Pif, e di sua moglie, donna Bulinda Fabiessa Carcantea, principessa del Kostupoc, per gli amici Wak, donna ora avvenuta, ma un tempo avvenente, che aveva sposato Pif per amore, nonché per le sue delicate poesie a tema gastronomico. La figlia in questione, Derilla Markiunteira Nopejo, aveva studiato presso i migliori collegi dell'Impero, non aveva imparato nulla, ma aveva trovato l'uomo della sua vita. Cioè, a dire il vero ne aveva trovati molti, il maggior numero dei quali era stato l'uomo della vita per circa una notte, però poi, recatasi un bel dì nella biblioteca del Collegio Zuzutrefes per cercare un libro con figure che spiegasse il significato delle parole, aveva incocciato un ragazzone che leggeva al contrario una monografia su Mirò, ma non se n'era accorto. "Che simpatico!", pensò Derilla, convinta di essere un genio se confrontata con lui. Interagire fu un attimo: il ragazzo, Faillor Degunto Zaiaguamo, sfogliava perplesso la monografia borbottando tra sé e a quel punto Derilla gli si avvicinò e, con voce sussurrante, gli disse: "Hai il piede sopra il mio porta-chewingum  d'argento....", porta-chewingum che lei aveva fatto scivolare sotto la di lui estremità appena 5 secondi prima. Il rischio che l'oggetto venisse pestato e forse distrutto era notevole, anche se Derilla avrebbe saputo consolarsi comprandosi subito tre paia di calze da ballo in filo di Scozia trapuntato d'oro zecchino, ma per fortuna il tizio, trasalendo dalla sua profonda lettura, si accorse in tempo del disastro imminente e si scostò. Gli sguardi si incrociarono. Faillor restò di sasso: mai aveva visto prima una ragazza la cui altezza derivava per metà dai doni di madre natura e per l'altra da quello che aveva indosso. Derilla, infatti, aveva scelto una mise di poche pretese, poiché la biblioteca era un posto tutto sommato alla mano, anche se tutti quei libri secondo lei facevano polvere; in ogni caso, la ragazza si era avventurata in quel luogo misterioso indossando un sobrio paio di zeppe di pelle di cammello coccodrillato color ruggine, sopra le quali abitava un discreto paio di gambe fasciato da pantaloni di lino misto a platino, fermati in vita da una cintura di pelle zincata con intarsi di topazio e fibbia d'argento raffigurante Perseo che cavalca Pegaso; il busto emergeva provocante da una camicetta rosso scuro con bottoni di madreperla colorata e gusci di ostrica per tenere fermi i polsini, mentre al collo la ragazza portava un trascurato collier di smeraldi, per tacere dei due orecchini d'oro a forma di ellisse; i capelli, pudicamente raccolti in una coda di cavallo tenuta ferma da un nastro di fibra di giada, erano sormontati da un cappellino a tesa ottenuto da un particolare trattamento delle foglie di palma del Borneo ripassate in un brodo di oro e rubini che consentiva la creazione di pezzi unici, poiché le venature della palma finivano per costituire lo scheletro su cui il cappellino poteva reggersi perfettamente perpendicolare al piano della testa della cliente per cui erano pensati.
Faillor, superato il primo stupore, rispose: "Sono mortificato, mademoiselle, ero distratto dalla lettur....". Le sue parole furono interrotte da un riff di chitarra elettrica modello Dream Theater che risuonò assordante negli augusti e silenti spazi della biblioteca, facendo trasalire gli addetti e provocando un paio di infarti: era la suoneria del cellulare di Derrilla. La fanciulla, senza scomporsi, estrasse l'I-Derrilla- Phone, pezzo unico progettato per lei dalla Apple, poiché il general manager era amico del commercialista del medico della zia di suo padre, e rispose: "Chi ééééééééééééééééé?!?!?!?!?!", mentre gli utenti della biblioteca cominciavano a spazientirsi. Faillor provò con un paio di cauti gesti a far capire alla ragazza che forse era il caso di abbassare la voce, ma lei si irritò e pestò il porta-chewingum, riducendolo in poltiglia. Poi replicò a chi era in linea, presumibilmente una sua amica: "No, ti avevo detto di portarmi il libro di fiabe per mio nipote, ma lo volevo rilegato in cuoio, hai capito, in cuoiooooooooo!!!! E io con te non ci parlo piùùùùùùùùùùù!!!!! Basta, mi hai tradito....no, la rilegatura in pizzo non mi interessa....no no, non ci vieni più alle cene da Squaransito [il ristorante più caro della contea ndr].... no, anche se offri... no no, e poi mi ricordo, sei anni fa ti sei seduta sulla MIA poltrona a casa MIA e non ti sei scusata. Basta, addio!". Chiuso il telefonino con gesto robusto, Derrilla si rivolse a Faillor ringhiosa: "E tu non permetterti di dirmi di stare zitta, chiaro?!?!?", poi gettò a terra il cellulare, che andò in mille pezzi. "Tanto me ne fanno un altro, se voglio!", civettò e uscì dalla biblioteca, fendendo la folla che si era accalcata curiosa ed esasperata. Mezz'ora dopo lei e Faillor si erano fidanzati. Fatti due conti, Derrilla si era accorta che quello era un giorno pari, ma lei aveva litigato con un numero dispari di persone (le ultime erano state il lattaio, l'estetista e il fuciliere), pertanto era necessario riappacificarsi con qualcuno per evitare la sfiga. Faillor, che l'aveva inseguita fino al bar del collegio, la raggiunse mentre era seduta al tavolino più in vista della sala e, prima di sedersi, provò a dire: "Io però.....", ma Derrilla lo stoppò: "Ehi, usciamo insieme stasera? Ho proprio voglia di una Schweppes!". Le due frasi si riferivano ad eventi slegati tra loro, poiché la Schweppes le serviva subito, ma Faillor capì solo la prima ed accettò, benché assai emozionato. Poi si ricordò di aver raccolto dal pavimento della biblioteca i resti del porta-chewingum e li porse a Derrilla, che si inalberò: "Ma come, quella schifezza lì e pretendi che io me la porti a casa? Ma chi credi di essere, ma buttalo via o dallo agli oggetti smarriti, basta, mi hai offesa, ciao!" e si alzò per andarsene. Vide però, in fondo al bar, la sua acerrima nemica Plantierda Cusmafita Gorrendha, che poteva vantarsi di avere a casa i maggiordomi laccati d'oro, e la guardava con un sorrisino provocatorio. Ah, no, pensò Derrilla, davanti a lei no! Si rivoltò verso Faillor e lo slinguazzò alla francese.  
Cominciò così un pittoresco fidanzamento.(1- continua)

venerdì 14 dicembre 2012

Letti per voi: P. Giordano, 'Il corpo umano'.

VA ORA IN ONDA-....

Dopo la recensione di uno scrittore da seguire, ma ancora per larga parte sconosciuto, ci addentriamo ora nell'analisi del secondo romanzo del Premio Strega Paolo Giordano, il quale, grazie a La solitudine dei numeri primi, ha raggiunto il traguardo  più ambito cui uno scrittore odierno possa aspirare: essere invitato almeno due volte l'anno a Che tempo che fa da Fabio Fazio.
Giordano, lui, vabbe', torinese coll'erremoscia e lo sguardo tipico dei dottori diw3 ricerca in fisica che si sono convinti di aver scoperto leggi universali dell'esistenza che nessun altro al di fuori di loro capirà mai, ciononostante scrive bene. Questo romanzo, dal titolo Il corpo umano scorre agevolmente, non annoia, i vari 'pezzi' sono ottimamente calibrati in modo da evitare l'indugio là dove l'attenzione del lettore potrebbe sopirsi. Certo, è un romanzo in linea col gusto di oggi (come tutti i romanzi di tutte le epoche, direte voi), la qual cosa ha pure i suoi inconvenienti.

DUE PAROLE SU TRAMA E GENTE VARIA.

L'autore ci porta nel luogo più dimenticato da Dio che esista sulla terra, ovvero l'Afghanistan, terra di scontro usque ad consummationem mundi tra truppe occidentali e talebani. I protagonisti del romanzo sono i soldati italiani di una fob (forward operating base) in Gulistan, sostanzialmente un pezzo di nulla perso nelle nude ed ostili montagne afghane, circondate a loro volta dai più duri e disumani deserti di roccia e polvere che si possano immaginare. Solo Alessandro Magno poteva pensare di cavar qualcosa da questi postacci, e ci deve aver pensato a lungo, se ha disseminato in queste zone (all'epoca chiamate Bactriana) un numero impressionante quanto fatuo di città col suo nome.  Detto pure che i successori del Macedone mollarono subito questi territori e non osarono mettere il naso fuori dalla Siria.
Ma tant'è, oggi l'Afghanistan è quel che è, e Giordano  ci illustra dapprima l'arrivo dei militari alla base, poi una loro missione dai tragici risvolti, quindi il difficile ritorno a casa e la sostanziale impossibilità di riprendere la vita ordinaria. La trama si svolge pertanto ad arco gotico, nel senso che la parte centrale della storia è quella di massima tensione drammatica, laddove quella finale vede malinconicamente disperdersi le vite dei soldati sopravvissuti al Gulistan.
Già, i soldati. Se dovessimo applicare per un attimo le dottrine cosiddette di estetica della ricezione, e considerassimo l'opera non per il messaggio che l'autore vuole mandare ma per quello che il pubblico può recepire, non v'è dubbio che, dalle parti dei nostri Alti Comandi militari, qualche mal di stomaco deve pur essere venuto. Diciamo subito che Giordano, grazie ad una serie di accorgimenti stilistici di cui diremo, evita sia la retorica rambistica che quella della 'sporca guerra che qualcuno deve pur combattere', come pure lo sguardo pietistico su 'i nostri ragazzi'. La guerra in Afghanistan è descritta per quel che è, ovvero un ingrato e disumano sforzo di portare particelle di civiltà e normalità in una terra che sembra reggersi su leggi tutte sue, quasi che quelle montagne e quei deserti segnassero il confine con un'altra dimensione. Sono cose brutte, esperienze a volte ripugnanti, e l'autore non nasconde nulla né pretende di ammaestrare chicchessia.
Però, però, dicevamo.... se io mi mettessi nei panni di un militare (non posso, ho obiettato coscienza, lollone....) sarei certo a disagio di fronte alla sfilata di individui di cui Giordano popola la base in Gulistan: abbiamo Antonio René, un maresciallo che in Italia arrotonda facendo il gigolò (vabbé, certi altri, dopo una giovinezza concessa all'altrui diporto, si sono messi a fare gli assicuratori, il mondo è vario...), mette incinta una sua cliente che poi decide di abortire mentre lui è via; Francesco Cederna, il vero Rambo dell'esercito che conosce a memoria pezzi interi di Full metal jacket, duro e puro, supermacho senza pietà, su cui l'autore getta la croce del ruolo di caricatura americaneggiante del militare; Roberto Ietri, ventenne, da Cederna chiamato 'verginella' per le sue apparenti timidezze in amore e tuttavia da Cederna preso sotto l'ala come una specie di fratellino minore, non dopo diversi screzi; Alessandro Egitto, tenente nonché medico della base che ha chiesto di prolungare la sua missione, campa di psicofarmaci e deve gestire una pseudo-relazione con tal Irene Sammartino, sua ex fiamma che gli aveva pure fatto credere di essere incinta, era sparita e si ripresenta tutt'a un tratto in Gulistan come 'osservatrice' delle Nazioni Unite (e già che si rivedono....); Angelo Torsu, impegnato in una complicata relazione a distanza con tal Tersicore89, conosciuta in chat, la cui identità sessuale gli resta comunque oscura, condannato fino a metà romanzo alla diarrea cronica per essersi sfamato, come altri nella base, di una mucca del luogo che non era esattamente a norma; Salvatore Camporesi, che ha lasciato in Italia moglie e sopratutto figlio taciturno (ahi, ahi, sintomo di DSA...), moglie che, venutole a mancare il marito, se la intenderà con René; la Zampieri, donna aspirante Valchiria, in realtà molto molto imbranata e anche tanto sensibile da mettere la lingua in bocca a Ietri dopo essersi fatta Cederna, colpevole del 'disguido' da cui originerà il dramma di metà romanzo.
Tacendo di un altro con la paura dei serpenti e delle figurette un po' troppo pittoresche dei Capi Supremi Ballesio e Masiero, sublimi teorici della fatica altrui (e anch'essi un filino stereotipati, specie Masiero nelle parole da Apocalypse now con cui descrive i talebani o nel chiamare sprezzantemente 'riccioli d'oro' Zampieri), il parterre dei personaggi è, si diceva, spiazzante: l'eroismo è bandito, poiché, anche chi potrebbe incarnare il modello standard di soldato senza macchia e senza paura, in realtà affonda nel ridicolo (Cederna, dopo il fattaccio, dovrà consolarsi con una 'massaggiatrice' della base americana). L'impressione generale è quella di una Gerusalemme liberata al rovescio, nel senso che l'ipotetico Goffredo di Buglione della situazione (René/ Egitto) è affossato da dubbi e incertezze e non riesce a riportare i compagni dall'errore all'ordine, oppure anche di una versione delle Argonautiche in cui gli dèi non aiutano l'eroe imbranato, ma anzi lo lasciano in balìa del caso e delle proprie debolezze. Queste sono in effetti le matrici comuni a tutti i personaggi: o per una scelta effettuata fortuitamente piuttosto che un'altra, o per il cedimento all'istinto, i ragazzi della truppa scoprono la loro sovrana impotenza contro un ambiente e una situazione troppo più grandi di loro.

MA IL TITOLO DICE TUTTO

Certamente, di fronte alla nuda ed implacabile violenza della forma più snervante di guerra, ovvero la guerriglia, in mezzo ad un ambiente ostile e privo di qualsiasi conforto anche solo paesaggistico, costretti a vivere ogni minuto come se fosse l'ultimo, i protagonisti non fanno fatica a riscoprire ungarettianamente la propria fragilità, a retrocedere alla corporalità più basilare, poiché il Gulistan ha il potere di rendere chiunque, anche il soldato più tecnologicamente bardato, una creaturina cha la mano del destino può spappolare quando più le piaccia (e su questo l'autore andrà ben oltre la metafora). La fragilità dei nostri soldati è quindi scannerizzata sia negli aspetti piscologici che in quelli meramente fisiologici (forse anche troppo): non v'è tuttavia satira antimilitarista, quanto piuttosto la desolata constatazione che le guerre di oggi non hanno nulla di epico e i presunti eroi sono esseri di carne, sangue ed escrementi come chiunque altro. La sessualità è puro sfogo animalesco, il vissuto di alcuni ragazzi  (Egitto in primis) parla spesso di incomunicabilità familiare, il dopo Gulistan diventa una patetica ricerca di riscatto per via simbolica (René 'si scusa' a modo suo con la moglie di Camporese, vedendo nel figlio di lei quello che è mancato a lui, Egitto va a vedere che fine ha fatto Torsu e gli porta le gelatine): su tutto, l'amarezza malinconica nel vedere, di fronte alla grande Storia dell'umanità, che i singoli uomini, che della storia costituiscono la materia prima, sono appunto 'materia', corpi spesso mandati al massacro, esseri che portano su di sé il peso di esisitenze difficili che però non vengono purificate dal bagno di sangue della guerra, ma si trovano semmai proiettate su un palcoscenico più ampio che conferma come sia nel grande che nel piccolo il dolore e la solitudine non cessano mai di insidiarci.

LUI POI RACCONTA BENE,  EH...

Questo antieroismo non retorico riposa su una narrazione in cui troviamo tutti gli artifici più cool, come il passaggio dalla prima alla terza persona della narrazione a seconda delle esigenze di intensificazione lirica del dettato, i flashback con ellissi, i discorsi indiretti liberi, accenni di monologhi più o meno interiori al limite del flusso di coscienza, un intero capitolo impostato sullo scambio di email tra Camporese e la moglie, tutto insomma, e tutto al suo posto. Giordano ne sa, e conosce bene i meccanismi della narrazione non banale. Resta semmai l'impressione che questo libro nasca già per il cinema, il che non vuol dire che la cosa sia voluta (o sia un male), quanto piuttosto che un certo tipo di cultura filmica entro la quale noi si è cresciuti ha lasciato tracce nel nostro modo di strutturare la storia di cui neanche ci accorgiamo. In ogni caso non è difficile trasformare anche mentalmente il romanzo in sceneggiatura, una volta che lo si sia finito di leggere. Se pure la storia è ben condotta, c'è tutto quello che si si aspetta, ma 'solo' quello. L'argomento è di attualità, in Gulistan ai nostri soldati è successo di tutto, il taglio dato a fatti e personaggi mostra certo una sensibilità diversa, ma è una diversità che, dopo Nato il 4 luglio o La sottile linea rossa, non è più completamente originale. Il prodotto è insomma certamente godibile, ma non provoca il brivido dell'inatteso. Certo, piuttosto di Moccia....