Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!
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venerdì 7 febbraio 2020

Sanremo 70 (#2): il baratro quantistico

Dunque, premesso che

  • giocare ai piccoli statistici facendosi belli del 53% di share "inferiore solo a quello dell'edizione 1995" non conta per Sanremo: si tratta di una liturgia laica e lì valgono solo i valori assoluti, e i valori assoluti sono 9 milioni ieri sera e 18 milioni nella stessa sera di 25 anni fa. Stop;
  • il look dei Ricchi e Poveri era un pugno nella retina; mai visti colori abbinati peggio;
  • Angela Brambati aveva gli occhi spaventosamente iniettati di sangue;
  • le labbra di Marina Occhiena si muovono indipendentemente dalla volontà della padrona;
  • non c'era bisogno di questa reunion in playback
  • Massimo Ranieri e Iron-T mi facevano tanto festa nonno-nipote,
singolare il fatto che lo stesso conduttore in grado di far venire giù mezza Italia di polemiche per fotomodelle che fanno passi indietro sia lo stesso che fa fare passi avanti in TV ad una che non ha altro merito tranne quello di essere, diciamo, assieme a CR7. Perché sotto sotto il messaggio sembra sempre quello: brave, intelligenti, preparate, quello che volete, ma se siete sul palco è merito di qualcosa d'altro. Infatti le magnifiche 7 manco le hanno fatte cantare, rimandando tutto all'Evento di settembre. Ma non lì.



La voluttà distruttrice che sembra alla base dello screenplay di questa edizione si dispiega in una serie di cover AGGHIACCIANTI, tutte riletture ritmico-melodiche in grado di ammazzare il fascino dell'originale, segno evidente che, proprio nel 70esimo della ricca manifestazione, l'intento è quello di fare piazza pulita del passato.  Dimenticate le passate glorie, ci stanno dicendo: prendiamo gente giovane che canta da vecchia canzoni che hanno fatto la storia del Festivàl e del costume e facciamo in modo che sembrino tutt'altro. Svuotiamole di tutto, facciamole sembrare buttate lì per caso, sganciate dalle atmosfere storico-esistenziali in cui furono concepite. Abbiniamo cantanti improbabili con testi e musiche del tutto inadatte a ciascuno e vediamo come viene.



Ebbene sì: un Festivàl volutamente random. Per dirci che non abbiamo più un orizzonte. Forse è il segno della nostra entrata definitiva nella Terza Repubblica. I Sanremi primorepubblicani (1951-1993) riproducevano ciò che il Paese voleva vedere; quelli secondorepubblicani (1994-2017) hanno cominciato a vedersi erodere il ruolo di santuario della musica dalla concorrenza prima di MTV, poi di internet poi dei talent show e tuttavia hanno provato a replicare. Con un prezzo: quando le edizioni facevano il boom, era più merito dei conduttori che delle canzoni (cfr. le edizioni 1995, 1999, 2000, 2005, 2013, 2016); adesso vediamo uno show che esibisce in ogni momento la consapevolezza della propria inutilità. Sembra davvero di vedere la vecchia signora descritta da Pirandello ne L'umorismo: truccata come un pagliaccio, forse desiderosa di mentire a se stessa sull'età per tenersi stretto il giovane amante, suscita prima un avvertimento, poi un sentimento del contrario e, più che ridere, mette tristezza. Ecco: Sanremo è uno show inzeppato di ggiovani, ma va in onda in un Paese che sta invecchiando paurosamente. Non si capisce a cosa serva, insomma.



Tutto annacquato, come il Cantico dei Cantici in bocca a Benigni, trasformato in una specie di Imagine di John Lennon di 2400 anni fa (d'altronde per Benigni Paolo e Francesca sono come Romeo e Giulietta). Arriva lui con la versione hard del testo biblico. Come no. Praticamente come trasmettere la sigla di Baywatch in un ospizio.
Del resto l'abbiamo visto anche con l'ultima, tragica trilogia di Star Wars: tre episodi che non hanno fatto che ricicciare tutto quello che si era già visto, con il risultato che i "vecchi" fan hanno avuto un travaso di bile ogni cinque inquadrature perché si vedevano macchiati i ricordi di gioventù, mentre i "nuovi" hanno assistito ad una specie di videogiochino sciapo senza particolari meriti in rapporto al bombastico battage che ha preceduto ogni release.



E' un po' quello che succede dentro ai protoni: un quark può tentare di allontanarsi dagli altri, ma appena ci prova entra in scena l'interazione forte che, come un guinzaglio, lo riporta alla base. L'odierno Sanremo, come tanti prodotti pop emanati dal sistema post-moderno, prova a spingere, ma è vincolato a tornare dove tutto iniziò. L'interazione forte del pop è la ricerca del riassicurante ripetersi dell'identico. Il problema è che, al momento, non si capisce più a chi sia destinata questa ripetizione. Il quark non ha bisogno di chiedersi cosa e perché lo agguinzagli ai suoi colleghi. Noi, simpatici esseri costituiti da 5.9 x 10^28GeV, vogliamo invece che il pop si sguinzagli. A meno che non sia arrivato al suo limite naturale e sia costretto a replicarsi senza sbocco. Come a Sanremo70.

domenica 11 febbraio 2018

Sanremo 2018: cronaca di un Festivàl metafisico.

Ad un certo punto hanno dovuto indossare delle giacche che sembravano arrivate direttamente dalle migliori boutique del mondo di Hork



Favino e Baglioni, cioè, hanno dovuto rendere ancor più palese ciò che noi tutti dovevamo già capire dal primissimo fotogramma di questo Festivàl pre-elettorale, quando vedemmo aprirsi la scalinata d'onore come fosse l'astronave di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ma noi non capimmo, e loro capirono che non avevamo capito. E allora vai con un look ultradimensionale per farci capire. Questo Festivàl, dato in gestione ad un uomo che con croccante soavità e felpata eleganza aveva galleggiato elegiacamente sopra i decenni, sia che si trattasse di ammannire frammenti di Io lirico (in parole casarecce: butto me e i miei sentimenti sulla pagina, il resto ciccia) come di snocciolare riflessioni più "politiche" (cfr. P. Jachia, Claudio Baglioni. Un cantastorie dei giorni nostri 1967-2018 Frilli editori, cap. 8), mai però gravate dalla melma di qualsivoglia ideologia, questo Festivàl insomma era nato per essere "al di sopra" di tutto o, come si dice per gli imperatori  giapponesi quando schiattano, "al di là delle nuvole". Tutto, in questi cinque giorni, è stato cosparso col più raffinato cinnamomo del disimpegno, anche quando i momenti parevano impegnati: la canzone anti-terroristica dei due piacioni, i Dj bolognesi stonati come un esercito di campane zoppe che esibivano i tesserini degli operai della FIAT, il pezzo pro-migranti di Favino (SUPERLATIVO) che faceva da traino al duetto Mannoia-Baglioni (finito il quale grazie a tutti, grazie a Ivano Fossati, uh come siamo stati sensibili e via dritti dietro le quinte con un "tre stronzi" che svolazzava a mezzo microfono), il veloce reminder della giornata del ricordo delle Foibe "per non dimenticare" e poi subito la pubblicità, la sontuosa praeteritio per cui "avremmo voluto ricordare i cantanti morti come Mango e altri, ma pace" e poi tutti a cantare La canzone intelligente. Encomiabile tutto, s'intende. Ma tutto, irrimediabilmente, "estetico". Al di là del qui ed ora. Senza la pesante retorica pedagogica dei Festivàl di Fabio Fazio, né il furbo sfruttamento dei precordi pietistici made in Carlo Conti, ogni attimo di Sanremo Eighteen è stato puro spettacolo, senza note a pie' di pagina o ditini alzati per svegliare le coscienze quiescenti del pubblico. Il Baglioni prima maniera era del resto quello che sbatteva in faccia alla platea E tu come stai? quando altri avevano pronto in canna Banana Republic. Claudio ha insomma impresso alla sua esperienza sanremese un certo ritmo stilistico che vorremmo definire petrarchesco; è noto che il linguaggio poetico di Francescuccio, quando Francescuccio scrive in volgare, è caratterizzato dalla cosiddetta aristocratica medietà, dicasi cioè l'effetto che si raggiunge impiegando vocaboli né troppo elevati né troppo bassi. Orbene, il collocarsi dei vocaboli scelti "in mezzo" tra gli estremi del registro espressivo dà luogo ad una lingua poetica che di fatto è sin troppo "pulita" per essere sovrapponibile a quella parlata, e risulta quindi, per puro amor di paradosso, aristocratica. Ecco: Baglioni ha disseminato per il Festivàl momenti mai troppo alti e/o pretenziosi né all'opposto pecorecci, creando una perfetta teca di cristallo, una lanterna magica in cui ogni riflesso del Reale è diventato Arte senza più veri agganci col Reale di partenza (sigla di Heidi esclusa). Da siffatto piedistallo, ecco il guizzo verticale, grazie soprattutto all'eccellenza sua (di Claudio, cioè) e di Favino, capaci di dare il meglio da soli o di moltiplicare la bravura dei co-duettanti chiunque essi fossero, si trattasse del già atomico Fiorello o pure di Gianna Nannini che non vedeva l'ora di andarsene, come di rendere decenti i meno dotati, vedasi la bionda nel remake di Despacito. Questa è la performance che vogliamo: eccellenza che però non è mai sconfinata nell'autocompiacimento spocchioso, nemmeno quando si è trattato di tenere delle note per 30 secondi. E il pubblico è stato coinvolto, ma non catechizzato né solleticato nei bassi istinti: sul podio sono andati una ballata tutta cuore (Annalisa), una clownesca satira con ballerina ottuagenaria (Lo stato sociale) e una canzone di sbriciolata attualità per cui mi rimetto al giudizio del blog Tuttofamedia: "Non parlo del plagio ma proprio di portare una canzone letteralmente oscena che mira solo alla circonvenzione di incapaci: Il Cairo, Parigi, Londra, Nizza, chiese, moschee, chi prega sui tappeti, galassie, scambiamoci la pelle in fondo siamo umani. MA CHE CAZZO DITE". Un po' di tutto, ma nulla di troppo. Al pubblico, soprattutto, si è chiesto di ammirare un palco che era contemporaneamente a Sanremo e in un Altrove in cui il Bello è andato in cerca di se stesso, rispecchiandovisi come il miglior Narciso alla fonte.
E così, tra duetti, trietti, quartetti tutti giuocati sulle SUE canzoni, intervallati dalla trascurabile presenza dei cantanti in gara, Claudione nostro ha agglutinato attorno al SUO Festivàl tre-quattro generazioni di pubblico, ricordando a noi tutti, in quest'epoca di tregenda, che in passato siamo stati capaci di sognare. O forse che abbiamo sognato troppo, o meglio ancora ci hanno fatto sognare troppo per anni, salvo poi svegliarci poveri e scemi. In ogni caso, grazie per questi cinque svolazzanti giorni, Claudio. Attento però a non pretendere gli onori divini per tutto ciò che hai fatto: l'ultimo tuo omonimo che ci ha provato è salito al cielo in forma di zucca

venerdì 9 febbraio 2018

Le grandi recensioni di Eligio De Marinis. Star Sanremo, episodio 68: gli ultimi Claudii.

Baglioni, beh si sa, la maglietta fina, le canzoni stonate urlate al cielo lassù, insomma uno che negli anni ’70 se ne sbatteva allegramente dell’impegno politico e tutti s’andava a Porta Portese. E quando ci fu il “riflusso” dei primi anni ’80, lui era già lì, col gancio in mezzo al cielo. E mentre Roberto Vecchioni si abbandonava, a giudizio di un nostro critico locale, alla micidiale retorica tardofemminista (si era nell’anno di grazia 1995 e l’ex prof. dell’Arnaldo cantava questa roba qui), lui tornava con un album dal sobrio titolo Io sono qui. Tra le ultime parole e dove va la musica (ah, i maccheroni col montarozzo...). Insomma, proprio nel cinquantenario del ’68, ecco al timone dell’Ariston un plasticato autore di elegie che il ’68 lo scavalcò d’un balzo. Claudio, ex strabico e quindi a noi gradito assai, non è ideologia, è emotività garbata e liricamente vellutata, gratinata nella migliore tornitura retorica. Quindi possiamo votare la prima serata del Festivàl (ma un po' tutto questo Festivàl, suvvia...) da lui condotto, attenendoci alla più fedele griglia di valutazione esistente, cioè quella che utilizzo io per i temi del triennio.






Attinenza alle consegne e alla traccia, schema logico (max 3 p.ti)

C’è tutto: il maxi palco che si apre come il Millennium Falcon, l’orchestra di bianco vestita, l'intruso che protesta, il pistolotto iniziale che gronda di analogie baglioniche (coriandoli, manciate di riso, cose così), i paragoni twittaroli con Renato Balestra o Lurch degli Addams del tutto ingenerosi, la valletta querula e con la ridarella tremens che saluta il marito in platea per far sapere che lei è ricca, l’attore tigrotto che occhieggia smorfie d’intesa con un punto non definito sospeso sopra la platea. Un trio che rassicura, come da tradizione, gag a volte infantili (quella della scarpa rubata alla bionda, per dire…), una scaletta che, al netto degli interventi dei superospiti, è fatta per stroncare un rinoceronte da tanto che sono noiose le canzoni, ma a Sanremo la canzone deve ingenerare noia, per illudere noi pubblico dialettico dell'esistenza di una superiore apatìa del cosmo, dal quale nulla di doloroso abbiamo da aspettarci. Il Sanremo baglionico segue dunque egregiamente, a livello di struttura, il fil rouge alla formaldeide dei predecessori (ah Nunzio Filogamo, ah Enza Sampò…) e tutti noi ci immergiamo nella bambagia dell’Identico: l’eternità è quaggiù, non altrove (2 punti).




Articolazione dell’indagine, motivazioni addotte a sostegno delle idee espresse, conoscenze pluridisciplinari (max 5 p.ti).

Che sarebbero i contenuti spicci della serata. Non v’è dubbio che Baglioni, fingendo di sparire dietro Fiorello, Favino e la bionda, abbia in realtà creato una cornice di prestazioni d’eccellenza a condimento di pezzi in gara mediamente noiosetti (non tutti, si capisce). È chiaro cioè che il mashup Baglioni/Morandi con lo scambio delle musiche rispetto ai testi originali delle canzoni dei due sia stato un momento alquanto bombastico, con la sfiatata finale che poteva costare uno/due arresti cardiaci a qualsiasi comune mortale. Quando, per sostituire la Pausini, Baglioni e Fiorello sversacciano E tu, riescono comunque a trascinare la solitamente ameboide platea dell’Ariston. Un plauso certo a Favino, da noi sempre ritenuto uno dei migliori attori del cinema italiano, che è stato in grado di esibirsi in un numero dimostrativo di capacità che vanno oltre quelle attoriali. Quello che facevano gli attori “completi” di una volta, insomma, duttili e versatili al di là del loro talento di base. Oggi, si sa, l’attore viene in TV, parla del suo film, sorride alle fans, rimane impiccato alla poltrona che guai a spostarlo. Se sia snobismo o incapacità non saprei. Ma ve li immaginate Riccardo Scamarcio, Alessio Boni o Stefano Accorsi a fare lo stesso sul QUEL palco?





Conduttori e ospiti di pregio quindi, che forse, paradossalmente, tolgono luce ai concorrenti. Alcuni dei quali contribuiscono ulteriormente ad auto-rabbuiarsi con pezzi più efficaci del cianuro (Nina Zilli, i due gommosi ex Pooh tutti paillette e pelle color porchetta, Mario Biondi che ha il microfono nel duodeno per ottenere un maggior subwoofer, i Decibel lucidati da poco col Sidol, Renzo Rubino che sembra reduce da una ciucca galattica). Altri riescono a scalfire il nulla con prestazioni pucciose assai (Max Gazzé che riesuma leggende bassoitaliche, la Vanoni che arriva in un pigiama palazzo di avorio in cui dev'essere stata inserita tre giorni prima), poi vabbé, la categoria piacionica ampiamente rappresentata dai The Kolors, con uno Stash dalla capigliatura scamosciatissima, e dal duo serio serio Meta-Moro, in odore di squalifica perché Sanremo è Sanremo; l'area-cazzeggio è tutta coperta da Lo stato sociale (ovvero Gabbani travestito da Geppetto e altri onesti mestieranti)  e gli Elii che si fanno il funerale da soli. E poi altra gente. No, Ron che pesca tra le reliquie di Dalla non ci piacque. No no. E no, l'altro Pooh che si butta in una specie di sigla da telefilm anni '80 non ci scaldò. No. 
Insomma, se è vero che da quando esiste il Festivàl ci si lamenta che le canzoni del Festivàl sono sempre uguali in ogni edizione del Festivàl, mi pare che gli ultimi Festivàl siano tra loro molto ma molto più uguali tra di loro di quanto accadeva nei decenni scorsi. Per quanto mi concerne, l'ultima canzone sanremica che mi ha smosso qualcosa fu Ricomincio da qui di Malika, e parliamo del 2010. Dopodiché, sarà l'effetto omologante dei talent show, sarà che gli autori sono sempre quelli, sarà che la musica pop ha detto qualcosa di nuovo finché c'erano in giro i R.E.M. (e questa la mettiamo qui così, estemporanea), sarà che anche Tiziano Ferro si è messo a fotocopiare se medesimo, morale, non c'è un'idea nuova che sia una. E le standing ovation che il pubblico generosamente regala ai grandi duetti baglionico-fiorellici non gettano luce a sufficienza per coprire il vuoto pauroso dei pezzi di quest'anno (3 punti).







Correttezza morfosintattica, ortografia, punteggiatura (max 3 p.ti).

In riferimento non ai testi, ma alle esibizioni, direi che emergono almeno due elementi: a parte la situazione sub judice dei due piacioni di cui sopra, a me è sembrato di sentire del già sentito parecchie volte (l'inizio della canzone della Vanoni, i The Kolors che auricolano vagamente i Sottotono,  i due Pooh che riciclano in modo sincretico 50 anni di carriera, i Decibel pure, Noemi anche- non 50 anni, il riciclo s'intende); in secondo loco, il numero pauroso di stecche prese dai cantanti in gara può spiegarsi o con un'epidemia di rape rosse bloccatesi in gola (direi che è il caso di Gazzé) o con frettolosi riscaldamenti vocali figli di un'indebita premura nel cacciare nell'arena gente giovane e sensibile (Caccamo è riuscito a scuoiare tutto il pentagramma, Renzo Rubino a un certo punto non riusciva nemmeno ad articolare un suono, neppure una nota) o perché ormai dormivano tutti (quando è toccato a Le vibrazioni). Vorremmo concedere anche un'attenuante strategica: timorosi che la gente registri l'esibizione o la scarichi da Youtube prima che essa svanisca dai radar, gli steccatori suddetti hanno deciso di cantare male per dissuadere il pirataggio o il semplice godimento gratuito dei pezzi, rimandando ad acquisti dei medesimi dietro venale lucro. Sta di fatto che il livello tecnico medio è bruttarello  (1 punto).






Lessico, registro (max. 4 p.ti).

Parlare questi parlano, a volte anzi si parlano addosso, sciolinatissimi (anche perché ci vuole tutta a non essere fluidi leggendo TUTTO dal gobbo: vi immaginate uno studente che prende 5 in un'interrogazione leggendo le risposte dal libro?). I picchi poetici di Baglioni che parla di musica si sposano egregiamente con la disinvoltura parlantinica di Favino. La bionda OSA cantare Mina, soggiacendo a tonnellate di ridicolo, Baglioni jr, con faccina da elfo del fantabosco, ci ammannisce una lezione sul congiuntivo (lui che insegnerebbe matematica e fisica, giustissimo), Lo stato sociale e Mirkoeilcane si lanciano addirittura a dire (o flautare) coglioni (che trasgressione, cos'era al confronto il capezzolo di Patsy Kensit ?), Pippo Baudo recita un Te deum, a se medesimo, Fiorello quando non canta si abbandona a battute fresche come una caciotta affumicata, la Liguria è bellissima, vietato parlare dell'attualità che siamo in campagna elettorale (giusto i fiori appuntati al petto per ricordare la violenza sulle donne, potevano fare qualcosa di più... flashante, visti gli ultimi eventi...), Baglioni, Baglioni e ancora Baglioni, fortuna che voleva fare il direttore artistico e basta. Altri tempi, quelli della commedia plautina, là il linguaggio pirotecnico soggiaceva a trame prevedibilissime, con Terenzio era esattamente (o quasi) l'opposto, qui invece sono prevedibili sia il linguaggio sia la trama. Né commedia, né tragedia, dunque, all'Ariston: piuttosto un meraviglioso cartoon che ricorda quel memorabile su Instagram: "Le nostre cicatrici ci dicono non da dove veniamo, ma da dove veniamo". Viva l'Italia (3 p.ti). 

Voto finale: 9/15. Se Baglioni jr non vince, alzo di un punto.





domenica 23 ottobre 2016

L'impossibilità della gravità quantistica, ovvero del (forse) Nobel a Bob Dylan.

[vi ricordiamo che la saga dei Sommersmith è qui]


Ci piace mischiare alto e basso, pubblicare polizieschi pentadimensionali e ricicciare glorie del bel tempo che fu (Stella Moda, olè!!), ma come sottrarci al profluvio ormai inarrestabile di pareri, pareroni e parerini cui ha dato aire il Nobel per la letteratura conferito a Roberto Il Nome di Dog? Ciò che ci colpisce è, a parte il solito schierarsi del "popolo della rete" in due esatte metà pro e contro la predetta attribuzione e quindi, esattamente come ai tempi delle stragi parigine, due giorni e tutto lo spettro delle opinioni e contro-opinioni viene coperto senza lasciare spazio ad ulteriore dialettica, ebbene ciò che colpisce del presente dibattito dylaniano e dylaniante è la dimensione da talk-show della De Filippi che la discussione assume, pur essendone attori i nomi del più bel mondo delle belle lettere (Baricco, Vecchioni, Magrelli cose così)(per Magrelli magari mettiamo un link perché forse non tutti...). Perché là dove spira venticello di Nobel, e il vincitore è un soggetto, diciamo così, poco "aderente" al mondo delle lettere, figurandone semmai come cospicuo paredro, cospicuo sì, ma pur sempre paredro (te ricordi che vvor di' paredro, vero Sebbastia'?), ebbene le truppe cammellate dei tradizionalisti scendono in campo, oliando le giunture dei più agée e lustrando le guizzanti muscolature dei più giovani (dai 50 ai 60 anni, si capisce, mica come a Sparta), ma sull'altro versante i cantori del "finalmente qualcosa al passo coi tempi!" gorgheggiano giulivi, perché anche i barbogi svedesi paiono finalmente aver capito dove sta la vera Cultura, fuori dalla polvere delle biblioteche e in mezzo alla ggente.
Conseguenza della conseguenza, il dibattito si defilippizza, nel senso che si arriva alle conclusioni tipiche dei talk-show guidati da Maria: tutti danno ragione a sé medesimi e nessuno ammette il punto di vista dell'altro; che è già un brutto vedere; peggio ancora quando l'argomento è di quelli al confine tra la materia e lo spirito e allora ci si finisce per avventurare nei territori a peggior rischio banalità: se hanno dato il Nobel a Dylan [pausa con sguardo torvo e lacrimuccia nell'occhio dell'interlocutore] ALLORA CHE COS'È' LA LETTERATURA?????
Immaginatevi le conclusioni: a chi la butta sul metafisico come neanche Ungaretti con Ettore Serra ("ah, la parola, la parola, la poesia è parola, ma non sono versi quelli di Dylan, sono imbarazzanti senza musica!!") ribatte chi la ributta sul greco antico ("anche Saffo e Alceo cantavano i loro versi, embe'?") e che insomma separare le parole dalla musica, ecco no.
Bene.
Giunti a questo punto, dire qualcosa di originale e mai detto è, come sempre, impossibile. Traiamo tuttavia ispirazione da una recentissima conferenza da noi auricolata a tema: "Spazio- tempo e quanti: questo matrimonio non s'ha da fare". Il titolo manzoniano e l'argomento che sempre ci ha intrippato parecchio, pur non essendo noi del ramo, ci hanno portato a bearci delle dotte parole del dotto locutore. Il quale, dopo aver panoramizzato sulle centenarie teorie di Einstein e sulle altrettanto centenarie ponzature di Planck e Heisenberg, sul finir di chiacchierata ha detto quanto segue: se la meccanica quantistica riguarda l'infinitamente piccolo (adroni, gluoni, muoni, tauoni, bosoni, ecceteroni), che sono i mattoni di tutta la materia esistente, laddove il pacchetto completo Einstein va ad agganciare l'infinitamente grande di masse cosmiche che curvano allegramente il continuum di ciò che gli antichi credevano assoluto e invece è relativo (lo spazio-tempo, appunto), perché cercare di incollare il palcoscenico agli attori? In altre parole, perché affannarsi a cercare, teoricamente e sperimentalmente, una cosa come la 'gravità quantistica' che metta d'accordo quanti e spazio- tempo, atteso che i due sistemi (il quantistico e l'einsteiniano) funzionano così bene proprio perché hanno differenze dialettiche irriducibili, cosa peraltro confermata dai risultati letteralmente assurdi di tutte le equazioni che tentano di gettare un ponte tra essi? [comunque capoccio' non ha MAI citato Dirac, e secondo me... insomma...].
Io a quel punto ho pensato che la situazione è la stessa di chi tentasse di mangiare la minestra con la forchetta o gli spaghetti col cucchiaio: no, amico mio, ad ogni sistema il suo strumento operativo; non solo: se qualcuno mi cucina gli spaghetti in brodo, mi spieghi come faccio a usare insieme cucchiaio e forchetta? Vuoi che brodino e bucatini non mi sfuggano di continuo, obbligandomi a spatasciarmi tutte le volte per tentare di mettere insieme un decente boccone? Ma lascia perdere!
Orbene, posto pure che la rinuncia alla ricerca della gravità quantistica è a mio giudizio (filosofico, non tecnico) opinabile, il problema del Nobel a Dylan dovrebbe portarci più o meno sulle posizioni del capoccione di cui sopra: diciamocelo, certi paragoni con Saffo e Alceo, per quanto plausibili sul versante dell'esaltazione di una parola che era inscindibilmente unita alla musica, lasciano il tempo che trovano non solo e non tanto perché la sopravvivenza NEI SECOLI di costoro si deve alla sola parola, non certo alla non più recuperabile musica, ma perché non stiamo parlando di autori pop, suvvia. Nell'eteria alcaica o nel tiaso saffico non c'erano centomila persone alla volta come nei nostri concerti pop, e annamo. A parte cioè il ridicolo anacronismo ("Saffo avrebbe vinto il Nobel!". Se, vabbe', e pure gli MTV Awards... best breakthrough...), parliamo qui di versi la cui qualità ASSOLUTA, scissa da una musica di cui non sappiamo NULLA, ha consentito, perlomeno per via frammentaria, una sopravvivenza a questi autori che Dylan, per la sola qualità dei suoi testi, può sognarsi. Eppoi, a dirla tutta, sarebbe stato più coerente citare altri esperti dell'opera in versi musicata, ovvero i tragediografi. Eschilo e compagnia, i cui drammi prevedevano notoriamente parti recitate e parti cantate, andavano in scena davanti ad un pubblico ben più folto dei ristretti cenacoli aristocratici dei lirici arcaici (se la capienza presunta di quei teatri vuol dire qualcosa): il pubblico delle grandi feste religiose ateniesi. Loro sì, per certi versi, erano pop: ad Atene c'era la democrazia, la loro democrazia, per carità, comunque situazioni ben divergenti dall'elitarietà di quegli altri (stesso discorso per il pubblico dei trovatori veh, che saranno pure stati l'embrione del cantautorato, ma, insomma, lo Stadio Olimpico mica te lo riempivano, al limite la sala da pranzo di un castello del X secolo, su...). Ma anche in questo caso bisogna guardarsi bene dal sovrapporre il passato e il presente a tutti costi, cercando appunto la gravità quantistica letteraria: i torrenziali cori dell'Agamennone eschileo, le franche divergenze tra Odisseo e Neottolemo nel Filottete di Sofocle, le riflessioni di Fedra sulla natura del pudore in Euripide... ecco, tre esempi a casaccio che dovrebbero farci capire come il pop di allora, se pop lo vogliamo chiamare, era un filino più strutturato di quello odierno, che punta all'appiattimento della complessità del reale su quattro slogan vagamente esistenzialisti. [e ve lo immaginate il Nobel a Wagner...? Dopo la premiazione, tutti a Bayreuth a sentirsi la tetralogia... tutta la tetralogia...]
Per dire cioè che il problema è a monte delle stracche dispute sulla natura della letteratura, che finiscono per risvegliare il professor Keating che c'è in ognuno di noi: più semplicemente, bisognerebbe salvare il concetto di letteratura (buona o meno buona) confinandolo, senza dubbio arbitrariamente, ma per ottime ragioni, a quel prodotto culturale la cui fruizione passa unicamente tramite il medium scritto, o al limite recitato, decidendo perciò che il contributo della musica va a creare un'altra forma d'arte che non è solo letteratura. Ciò non significa rischiare di rendere inclassificabili Saffo e Euripide, perché entrambi, per come li fruiamo noi, sono solo letteratura, quindi il problema è sterilizzato alla radice. [però però, anche Dante, forse...] Si tratta semmai di prendere atto che oggi l'incontro parola-musica vuol dire prevalentemente una cosa: cultura pop. Attenzione: non parliamo di musica pop, distinguendola dagli altri generi; intendiamo invece come cultura pop il calderone in cui far stare (a rischio di scomunica da parte degli aficionados) i Led Zeppelin e Cristina D'Avena, Peter Gabriel e gli One Direction, Bob Dylan e Shawn Mendes: tutta gente che, al netto del tipo di musica praticata, ritrova comunque una certa costante nel sottomettersi, con buona pace dei nostalgici di Woodstock, alle leggi del mercato (quelle stesse leggi cui cominciarono a fare l'occhiolino anche Balzac e Flaubert, senza dubbio, ma le proporzioni con oggi, e col tipo di pubblico di riferimento, sono incompatibili). Chi mischia parole, musica e concetti più o meno alati, nel pop, lo fa perché vuole un pubblico. Anzi, molto pubblico. Cioè molta pecunia. E quindi le idee possono volare alto, ma non troppo, sennò pubblico e pecunia scappano. Molto pubblico e molta pecunia cui tendono anche gli scrittori pop, intendiamoci. Il giorno in cui la Rowling o Camilleri vinceranno il Nobel è forse più vicino di quanto crediamo. E però se la musica pop e la logica ad essa sottesa sembrano aver inglobato nel loro perimetro un po' tutta la musica che non sia, diciamo, classica (ragionamento sintetico e imbarazzante, ne siamo consci), esistono (dovrebbero esistere) nella letteratura ancora sacche autoriali in cui la qualità possa valutarsi distintamente dalle vendite o dalla consistenza puramente numerica del fandom. Lì si può ancora cercare un certo tipo di produzione che non sarà mai del tutto svincolato dalle leggi economiche (se mi costi e non ti leggono, la prossima volta farò fatica a pubblicarti), ma che perlomeno non cerca di seguire a tutti costi le mode o i gusti più ripetitivi e 'di pancia' del pubblico. Lasciatela lì, quella letteratura, per molti o pochi, non importa. Ma non confondetela col pop musicale. L'artista pop ha tutte le equazioni che funzionano, perché sa di avere come riferimento il pubblico di massa e sa cosa propinargli; e va bene così. Il letterato 'da Nobel' (qualunque cosa ciò voglia dire, visti certi premiati e soprattutto certi non premiati), tendenzialmente, non guarda (non dovrebbe guardare) al numero di recettori effettivi del suo messaggio, ma alla universalità e irripetibile originalità del messaggio stesso, tale che esso sarà fruito anche in un futuro in cui lui, l'autore, non sarà più lì a incassare i diritti. Messaggio letterario e non anche musicale. E va bene così. Qualsiasi tentativo di gravità quantistica letteraria, per converso, diventerà quel che sta diventando il Nobel a Dylan: la fusione di ciò che va tenuto distinto. Per quanto, pare, Dylan stesso sia la prova delle teorie del capoccione di cui sopra, essendosi il Dylan appunto sin qui rifiutato di rispondere alla nomination svedese. Del resto, come diceva Lucrezio, che ne sapeva, il fatto che nulla si generi dal nulla, ma gli atomi esistano da sempre con le loro leggi intrinseche, impone che gli atomi stessi non possano dar luogo a qualsiasi combinazione, ma ad alcune sì, ad altre no.
Il Nobel a Dylan, per dire.

lunedì 8 dicembre 2014

E adesso insegui l'aquila.

Coccodrillare le defunzioni degli artisti, specie quando tali defunzioni generano automaticamente sui social network torrenti di "Eri un grande, RIP", "Sarai sempre nel mio cuore, RIP", "Sei stato la colonna sonora della mia vita, RIP", "Non ti conoscevo, non mi piacevi, però RIP" non ci garberebbe. Facciamo un'eccezione per Mango, defunto nel modo artisticamente più epico, ovvero sul palco, di fronte al proprio pubblico, cantando per giunta la canzone di tutta una vita ("Oro"). Se ne va con lui un artista discreto, dal carattere non sempre facile per effetto di un'innata timidezza, certo non incline ai compromessi né alle prostituzioni mediatiche, quelle che portano a far sapere a tutti anche quando il proprio primogenito ha evacuato. Ciò, in connubio con un'ispirazione certamente originale e quindi non sempre facilmente intercettabile dal grande pubblico, ha fatto di lui una gemma rara nel panorama musicale italiano, rara al punto, paradossalmente, che le sue canzoni erano solo sue, nel senso che, udendo uno qualsiasi degli incisi dei suoi brani più famosi, anche l'ascoltatore più lontano da quel gusto non poteva che dire: "Ah, sì, questo è Mango", cosa che con certi complessini e solisti idoli dei bimbominkia non sempre avviene, ma la cosa vale anche per i cantanti più popolari, compresi i prodotti dei talent. Spiace pertanto che certi dizionari della musica mondiale, i cui autori non possono che sbrodolarsi in lodi e stralodi di artisti mainstream che non propongono nulla di davvero nuovo almeno da 20 anni, liquidino Mango con la dicitura: "Più musicista che cantautore". Il che, intendiamoci, può anche essere vero per chi, come il sottoscritto, non è sempre rimasto convinto dei risultati di Mango come estensore anche dei testi delle proprie canzoni, nondimeno, rispetto a cantautori con la "eeeeehhh" facile, o a robottini manovrati senza rimedio dalle case discografiche, Mango ha avuto almeno il coraggio di sfidare continuamente se stesso in primis e poi l'audience. 
Audience che avrebbe potuto tranquillamente mantenersi immutata se Mango stesso avesse continuato con le linee ritmico-melodiche esotiche e dispari che hanno caratterizzato la sua prima produzione. Ma appunto, falsetti e quinte dopo un po' devono aver saturato lui medesimo per primo, e quindi Pino ha provato altro, a volte riuscendo a volte meno. Resta comunque di lui il ricordo di una voce particolarissima, messa al servizio di musiche e testi mai banali, forse sin troppo elaborati, i testi, quando Mango ha ceduto all'abbraccio fatale con l'ermetico Pasquale Panella, già paroliere dell'ultimo Battisti. 
Un artista in ogni caso sui generis. Non mette certo conto di passare in rassegna tutta la sua discografia, anche perché la mia personale esperienza di lui comincia nel 1990, poi ho tappato il pregresso acquisendo musicassette e videoclip, poi, lo ammetto con lucida e filologica stima del defunto, l'ho un po' perso di vista, diciamo dal 2008 in avanti, quando la sua produzione mi è sembrata, per così dire, rinunciataria rispetto ai sentieri audaci degli inizi. Sono opinioni, of course, ma proprio per il bene che ho voluto a Mango sento di dover distinguere in lui sia il bello che il meno bello, con l'avvertenza che il suo "meno bello" è milioni di anni luce più avanti del presunto "bello" di moltissimi altri. 
La mia personale tassonomia mi porta a collocare l'akmé della sua produzione tra il 1988 e il 1992, ovvero in corrispondenza di "Inseguendo l'aquila", "Sirtaki" e "Come l'acqua". Seguono poi lavori caratterizzati da una unica grande leading song ("Giulietta" per l'album "Mango", "Primavera" per l'album "Credo", che di fatto creano una situazione simmetrica rispetto a "Odissea" del 1986, in cui troneggiava "Lei  verrà" e "Adesso" del 1987, l'album di "Bella d'estate" ), quindi la stagione delle raccolte + un paio di inediti (1995-1999, benché Mango stesso avesse in certo modo stigmatizzato l'abitudine ai greatest hits degli altri cantanti). Belli i live, belli i riarrangiamenti, ma certo avremmo gradito un numero maggiore di gioiellini originali come "Sospiro" o "Non dormire più". È comunque a quest'altezza che Mango prende ad allontanarsi con decisione dallo stile degli esordi e del grande successo per recuperare una dimensione acustica e vocalmente meno calligrafica e più corposa. Poi la svolta cantautorale piena, e siamo al 2002, quando il Nostro si scrive, si musica, si arrangia tutto da solo, offrendoci quindi un album in cui spigoli  ("Disincanto, "La rondine", "Mi piaci accanto") e tonde rientranze ("Non moriremo mai", "Gli angeli non volano") si alternano con coraggio: rinunciare a Mogol per le parole e a Celso Valli per gli arrangiamenti è certo una scelta ardita, tuttavia Pino ama le sfide, e questa è nel complesso vinta. Episodi più frammentari ma sempre di livello sono "Ti porto in Africa" del 2004, contenente l'etnicissima "Francesco" oltre al duetto con Lucio Dalla, e "Ti amo così" del 2005, in cui spicca il delizioso&commovente duetto con la moglie Laura Valente ("Il dicembre degli aranci"). Infine, il 2007, la partecipazione a Sanremo, il quinto posto con "Chissà se nevica" (lasciamo perdere la questione della "svolta rock"...). Ecco, per me l'ispirazione di Mango si compie qui, non dico né che si esaurisca né che si impoverisca: dico solo che il Mango che ha saputo rapire il mio gusto estetico arriva al traguardo con "L'albero delle fate". La tavolozza multicolore che ha sempre caratterizzato la sua produzione musicale tende già da un po' a privilegiare i grandi blocchi oppositivi piuttosto che il gioco delle mezze tinte e delle sfumature, come se da un bosco lussureggiante si fosse passati su un'assolata scogliera a picco sul mare. Il che funziona benissimo in rapporto alla terra natale di Mango che vive di questi contrasti paesaggistici. Tuttavia, per il mio gusto, dal 2008 qualcosa non "comunica" più, o molto meno di prima. Ma sono dettagli.   
Nulla che possa impedire il commosso ed entusiasta ricordo di melodie che hanno occupato pomeriggi, serate, notti, estati, inverni, videocassette consumate a furia di rivedere e risentire "Tu...sì..." e "Oasi", per tacere delle musicassette disintegrate e dei CD comprati e ricomprati. Quando la nostra testolina pre-spocchiosa cominciava a farsi tante domande sul mondo, a sbattere contro barriere estreme, a perdersi nel mistero dei misteri, la musica di Mango, avvolgente, suggestiva, quasi sciamanica nel suo evocare dimensioni "altre" rispetto alla piatta realtà ottanta/novantizia, ebbene quella musica ci ha sostenuto assai. Anche nei casi di canzoni più intimistiche e meno ritmate che abbiamo imparato ad apprezzare col tempo ("Terra bianca"), o nei casi di flagrante ammassamento di correlativi oggettivi che non eravamo ancora in grado di decifrare con compiutezza ("I giochi del vento sul lago salato", "Preludio incantevole"), sentivamo sempre qualcosa di non detto e non dicibile che rendeva tuttavia quei lavori irresistibili nel loro fascino evocativo. Altrove i suoi pezzi hanno rappresentato la risalita da baratri da cui credevamo di non uscire più ("Tu...sì...", "Passeggera unica", "Non moriremo mai"), in altri casi ancora la spinta a ricercare senza paura ("Mondi sommersi"), oppure a sognare in libertà ed evadere ("Ma com'è rossa la ciliegia", "Così  viaggiando", "Intime distanze", "La rondine"). Tutti i colori della psiche, ma in special modo il blu, il verde, l'arancio e il giallo, con relative sfumature, erompevano come da inesauribile cornucopia da ogni singolo pezzo, dipingendo di sé perifrastiche passive e participi predicativi, mostrandoci una sorta di mèta immanente e tuttavia agganciata in qualche modo alla trascendenza del fatto artistico, sia che con essa si intenda l'estasi metatemporale proustiana delle sensazioni che cuciono insieme tutti gli Io che si succedono in noi col tempo, sia che si intenda la superiore dimensione dell'Oceano ipercosmico di cui noi tutti siamo  alla  ricerca da tempo immemore.     
Questo è stato Mango, e la sua essenza è al principio stesso della mia conoscenza di lui, quando passò (in radio o in TV, non ricordo di preciso) il pezzo "Inseguendo l'aquila" che all'epoca, da dodicenne puccioso, ascoltai distratttamente, pur restando impressionato dalle qualità vocali di questo (per me) sconosciuto, che oltretutto si chiamava come un frutto tropicale e non riuscivo a capire perché (vabbe', eravamo scemi, che tte devo di'?). Recuperai in seguito tutto l'album (non c'era youtube, sapete...) e riascoltai quella canzone: le bianche città del mistero, gli abissi e strapiombi verdissimi, i limiti del pensiero, il punto più estremo dell'anima, l'altra metà di quel cielo, le sensazioni più intime, il tempo che ho visto già e quello che verrà in fondo al sole... In questo inseguire l'aquila, l'anima dell'artista insegue il mistero delle cose, cerca la chiave che sveli tutti gli interrogativi dell'esistenza e però poi scopre che la soluzione è già tutta dentro di noi, solo che la si sappia ascoltare, perché la nostra coscienza è un frammento dell'universo, frammento in cui pulsa la Potenza Attrice dell'Essere: "Inseguendo l'aquila, inseguendo me".
Grazie di tutto, Pino. A Laura, Filippo e Angelina, il più sentito degli abbracci.

EDM

domenica 3 novembre 2013

Osso, non si molla l'osso!

Delizioso titolo barocco per un post che entra nella carne viva del dibattito contemporaneo, mordendo nella più scottante e problematica attualità. Parlerò dunque del goffo barcamenarsi della nostra ministra della Giustizia che si prodiga per salvare amiche di famiglia rampolle di famiglie perlomeno chiacchierate? O della macchia d'olio dello scandalo intercettazioni made in USA-NSA, che altro non fa se non svelare il segreto di pulcinella del ficcanasismo mondiale permesso dalle nuove tecnologie? Meglio, molto meglio! L'Italia tutta è da giovedì sera esterrefatta e basita per il clamoroso dietrofront di una coppia di cantanti bresciani che ha deciso di non  ballottarsi con altrettanta concorrente bresciana per entrare di sfrusio a X Factor 7. Per tacere di un altro manipolo di bresciani che pare essersi concentrato tutto nei provini xfactoreschi di quest'anno. E poi dicono che abbiamo solo Fausto Leali.... 


Sta di fatto che il duo Osso-Mr. Rain ha detto nononono, noi a compromessi non scendiamo, c'era pronto un contratto capestro, ci siamo smazzati bootcamp, homevisit con Ventura che ci ha preferito gli One Direction del basso Lario (già sbattuti fuori, peraltro...) e adesso si vorrebbe che rientrassimo alle LORO condizioni, macché, meglio la nostra carrierina, e scusate se avete bruciato paghette e anticipi di Natale a votarci. Questo è saltato fuori da Facebook; la sera del live, invece, un laconico video in cui i due si sono detti non ancora pronti per il talent; e Ventura, aciderrima: "È proprio vero che chi ha i denti non ha il pane e chi ha il pane non ha i denti", cioè a dire che ci vuole tutta a buttare nel cesso l'occasione perlomeno di un'esibizione davanti all'Italia intiera, con peraltro prospettive non misere di ritorno di immagine e di pubblicità. Ventura che, da navigata showbiz-woman, sa bene quante orde di wannabes avrebbero venduto il rene della nonna per trovarsi al posto di loro due (c'è chi condivide).


Loro due, già. Su Mr. Rain per ora taccio, anche se penso che il cervello del gran rifiuto sia lui. Dico ciò perché conosco troppo bene Osso, al secolo Ossama Addahre from Fair Mountains, province of Brescia, Italì, e so che difficilmente avrebbe rinunciato al ballottaggio; poi con Ventura e contro Morgan sarebbe stato un inferno di litigi, capricci e piagnistei, ma l'ebbrezza del palco, quella no, non può avervi alzato bandiera bianca ancor prima di lottare senza l'azione di plagio dell'altro.
"Vabbe', tutta 'sta ossologia di dove ti viene?". Semplice, cinque anni fa le nostre Divine Maestà Insegnantizie si sono pregiate di avere Ossama come allievo in terza liceo scientifico-sportivo. Rapporto difficile, non lo nego, il soggetto in questione ha il suo caratterino polemichetto, sì sì; certo, mi si rinfaccerà che il fatto di averlo rimandato a settembre in latino (ovvove!!!!!) non lascia intuire un mio sereno giudizio su di lui; in realtà siamo rimasti in ottimi rapporti anche dopo, quando non è più stato mio alunno (perché noi Spocchiosi diamo i voti allo studente, non alla persona, imparate, cariatidi); l'ho anzi seguito via FB nella sua avventura prima alle selezioni di X Factor 2010, quando a un passo dal traguardo gli fu preferita la mai più dimenticata otaria Damiano Sardi (mestamente uscito al ballottaggio col Louis Tomlinson del Salento), poi quando varcò il canale di Sicilia per partecipare ad  una specie di Marocco's got talent, manifestazione in cui non è arrivato in fondo, e che purtroppo gli è costata la bocciatura in quinta per sforamento del tetto di assenze. Gliene parlai, osai accennare al fatto che, a mio giudizio, per inseguire quel sogno aveva perso un anno, quando il mio consiglio nelle chat notturne di FB era stato l'esatto opposto, prima diplomati, poi vedi; lui, con occhietti stupiti da cerbiattino, mi replicò che no, perché avrei perso un anno?, non penso proprio, e pazienza. L'ho ribeccato agli orali della maturità, quando io e la Spocchia scendemmo a Fair Mountains a vedere che fine avrebbero fatto alcuni ex alunni e lì lo vidi motivatissimo, diploma in tasca, a riprendere lancia in resta la carriera discografica. Ottimo, pensai, ma con la scarsa predisposizione che hai sempre dimostrato a sentirti dire dei no dritti in faccia (dal sottoscritto, per dire...), ce la farai a resistere in un mondo di squali, perennemente assetato di novità da bruciarsi nel giro di un sospiro? Avrai carattere a sufficienza per non deprimerti alla centesima porta chiusa? Poi me lo vedo lì lì per accedere all'Olimpo di Cattelania, nelle lande Morgane, al cospetto del più sopravvalutato cantante del decennio, imitatore senza faccia di Belinda Carlisle, degli Wham! e dei Culture Club, una specie di versione ristretta di Prince e Freddy Mercury in salsa bimbominkia (parlo di Mika, eh?), 


e mi dico: "Vuoi vedere che ce la fa...?". Mi resta solo un po' sgrausa l'accoppiata con Mr. Rain, non mi sembrano due voci e due stili che possano quagliare, ma del resto i gruppi a X Factor hanno sempre vita grama, chissà che magari questo anomalo duo non arrivi ben oltre i Moderni e i Frères Chaos (e non si estingua come gli Aram Quartet). Nulla. Salutano e se ne vanno. Ho seguito le reazioni degli utenti Facebook, molti delusi, altri orgogliosi che i loro beniamini non siano scesi a compromessi. Per quanto concerne me e la Spocchia, da navigati conoscitori del meccanismo televisivo, temiamo che la scelta di Ossama sia stata un semplice ed autentico suicidio. 



1) Osso caro, nessuno su questo pianeta crederà mai alla fanfaluca del "contratto all'ultimo momento". Sapevàtelo, cribbio. Pensavate di andare lì a cantare quello che piace a voi? Suvvia, Morgan ha fatto cantare a Marco Mengoni roba che il suddetto Mengoni neanche conosceva, lo ha fatto orbitare da Psycho Killer a Il nostro concerto, da Helter Skelter a Almeno tu nell'universo, e poi il Mengoni che ha fatto? Vinto X Factor, come il miglior Edipo ha sfanculato il mentore e si è buttato sul pop più lagnoso possibile, eppure spacca & sfonda. Ogni gioco ha le sue regole, ed X Factor è prima di tutto un gioco televisivo ad eliminazione, dal quale ogni tanto esce qualcuno che fa strada. Per quanto non si sa, ovviamente. Leona Lewis è già preistoria e gli One Direction, tapinelli, ignorano di avere davanti questo destino da poveri reduci.
2) Se si crede fino in fondo ad un progetto, non ci si ritira in questo modo. Per rispetto nei confronti di chi non è arrivato alle soglie del serale; ma anche per chi non ha proprio visto nemmeno la faccia della Ventura perché è stato scartato alle pre- pre- pre- selezioni. Vi hanno dato dei viziati, tra gli altri commenti, e ciò mi duole specie per te, perché ben sai quanto ho insistito in tutte le sedi per cavarti fuori dalla capoccia la malsana idea bimbominkiesca del tutto dovuto, unita alla pretesa che qualcuno si faccia carico di spianare per conto vostro la strada dagli ostacoli che vi si fanno incontro. E invece siete scappati, come se ci fosse stata una qualche lesa maestà nei vostri confronti. Non ve lo potevate permettere: ricordate che, agli occhi di un Morgan o di un Elio, voi siete degli Illustri Sconosciuti, alla faccia dei tanti o pochi contatti delle vostre pagine di Youtube e FB. 
3) Non so se "la vostra piccola carriera" crescerà; temo al contrario che vi faranno terra bruciata attorno, specie dopo le mezze frasi che vi siete lasciati sfuggire su FB. Nathalie Giannitrapani, per aver sconsideratamente sparato a zero sui talent della De Filippi, sta ancora finendo di scontare l'esilio. Vi diranno che vi siete atteggiati da divi. Che avete diviso arbitrariamente il mondo in Buoni & Cattivi. E soprattutto che avete menato insulsamente il torrone sulla questione del vostro essere "altro" rispetto alla mandria generale dei concorrenti. E allora scatta l'ormai arcinoto fattore Mara Sottocornola, in memoria di colei che agli home visit dell'anno scorso si sfilò dalla competizione perché sentiva puzza di omologazione e non si sentiva di appartenere a tutto ciò. Per poi venir messa sotto contratto a cantare le stesse canzoni di Malika. Cioè: decidetevi, gente, o si salta sul carro o si sta a terra.
4) Da ultimo, la questione dell'alterità vostra rispetto al pastone stantio che girerebbe a X Factor. Perché è questo che Mr. Rain fa tralucere nella filigrana dei suoi messaggi d'addio alla competizione. Ebbene, guardatevi un attimo: tu, Osso, ti presenti come cantante soul-R&B, che non è precisamente la proposta più spaccamondo sulla piazza; l'altro scimmiotta Eminem in ritardo di 20 anni. Insieme, per quanto mi concerne, non siete convincenti fino in fondo, ma il problema è suo, non tuo. Sai che non ho difficoltà ad andare giù diretto: ti sei messo a traino di una locomotiva senza traguardo. Sentirlo chiudere il videomessaggio col solito, stracco, inutile, stereotipato fuckin' bitches e tu dietro che cinguetti Osso! col falsetto da bimbominkia, suvvia, meriti molto ma moooolto meglio. Cosa sia questo molto, devi scoprirlo da te, e non sarà affatto facile. Il fatto è che il mercato discografico "occidentale" (qualunque cosa ciò significhi) è ormai saturo, la musica leggera, ma pure il rap e tutti gli altri generi hanno esaurito l'inventiva, restano giusto o i grandi vecchi che ormai possono permettersi di riciclarsi ad infinitum perché il loro zoccolo duro non li lascerà mai o le nuove proposte dei talent create ad usum bimbominkiarum, che durano sì e no lo spazio di un lustro. In mezzo non c'è nulla. Guardate l'Italia: nell'ultimo decennio gli unici prodotti di un certo spessore non usciti dai talent sono i Negramaro e la già menzionata Malika (mi dicono di aggiungere Arisa, vabbe'...). Per il resto è tutta una catena di show televisivi che si passano il materiale, con gente che da Io canto o Ti lascio una canzone poi approda a X Factor (i Free Boys, per dire, ma molti altri), e da X Factor o da Amici si passa a vincere Sanremo (Carta, Scanu, Marrone, Mengoni, 4 volte in cinque anni). Ma sono vittorie che non lasciano nulla di nuovo, perché le note sono 7, ma gli aspiranti cantanti di successo, riuniti ai vecchi che non cedono, sono 7 milioni al metro cubo. È un settore asfittico, che può giusto contare sulla smemoratezza che dalla nostra generazione X è transitata direttamente alla generazione bimbominkia, sì che alle bambine di oggi si propina senza tema di ridicolo la stessa zuppetta (One direction) che già fu sorbita dalle mamme quand'erano piccine (Take That). Ma chi può dirsi veramente "nuovo", come esplosivi e detonanti furono i fenomeni di Michael Jackson, Madonna, U2, R.E.M. negli anni '80? O gli Oasis e i Nirvana un po' dopo? Tutto ormai si è prosciugato, le plaghe antitpodiche del buonismo e del ribellismo sono state ormai sfruttate fino all'inaridimento, Lady Gaga altro non è che una Madona reloaded, le cantanti-chewingum, da Katy Perry a Violetta, decantano per autocombustione, le finte cattive come Avril Lavigne hanno smesso da mo' di essere patetiche per diventare inutili. Un nuovo, convincente interprete maschile latita, al femminile Adele macina vendite, ma non rompe alcuno schema. Beyoncé non esce dal seminato del suo genere, e fa bene, ma non ha certo impresso svolte ad alcunché. Insomma: in tutto 'sto paludume, Osso mio, tu e Mr. Rain volevate pure smarcarvi? Quella sì era una partita persa in partenza. Ma voi ne avete persa un'altra, ed è più grave in quanto doppia: quella con la coerenza e con l'accettazione del principio di realtà. Osso, da Spocchia ad ex- alunno, scegliti meglio i compagni di strada, la prossima volta. 

P.S.: se poi tutta la manfrina cela il fatto che qualcuno vi ha già messi sotto contratto, speriamo che non vi brucino.
P.P.S.: e comunque consolati guardando come stanno messi male questi altri.