Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 23 novembre 2014

Che si dibatta, finalmente...!

Contro ogni prospettiva immaginabile & sensibile, negli ultimi giorni si è sviluppato un vivace dibattito su un argomento che credevamo tutti sepolto, ovvero l'utilità del liceo classico e, contestualmente, la crisi della cultura umanistica all'interno di una società globalizzata, economicistica, scettica e soddisfatta del consumo dell'oggi a spese delle riflessioni sull'Oltre. 
Le posizioni sono davvero tante, e bisogna dire che detrattori e sostenitori dell' "imputato" hanno speso energie generose nel sostenere le proprie posizioni. Noi, con Spocchia anticipatrice, ci occupammo della cosa in occasione di un triste dibattito sul Corriere online, triste per la povertà assoluta degli argomenti che gli anti-umanisti portavano a sostegno delle proprie tesi, argomenti riassumibili in: "A me la cultura umanistica non è mai servita, quindi non serve". Rispondemmo con un post che, a seconda delle prospettive, può sembrare di delirante astrattezza o di insopportabile profondità. 
Ora il campo di battaglia si popola di umanisti che difendono l'umanesimo, umanisti che non credono più nel liceo classico, scienziati/economisti che si chiedono come sia possibile che il liceo classico non sia ancora stato raso al suolo su tutto il territorio europeo, scienziati che ringraziano l'esistenza dell'umanesimo come presupposto ineliminabile del progresso del pensiero scientifico. E poi, trasversale a tutto, l'auspicio che si abbattano una volta per tutte le barriere tra settore umanistico e settore scientifico, cadano le diffidenze reciproche tra i rappresentanti dei due àmbiti, e finalmente si possa produrre un modello culturale integrale e inclusivo. È al momento impossibile tirare le fila del dibattito, perché esso promette di durare ancora (per fortuna). Possiamo tuttavia muovere alcune discrete, sommesse, spocchiose osservazioni al'oggetto del contendere, e soprattutto alla prospettiva con cui l'oggetto viene trattato. Prospettiva, a nostro giudizio, spesso fuorviante.
Per essere immediatamente precisi, ci sta venendo il fiero sospetto che chi attacca il liceo classico e l'umanesimo in genere lo faccia spesso per motivi "altri" che non siano l'effettiva o al contrario inesistente utilità delle discipline sotto esame. Una prima catena di ragionamento, ottenibile attraverso la sintesi delle varie istanze, dice:


1a: il liceo classico così come lo conosciamo è invenzione del fascista hegeliano Giovanni Gentile;
1b: ciò comporta un impianto fortemente elitario, zeppo di materie astratte e poco "democratiche";
1c: ci sono cose molto più importanti, spendibili e soprattutto utili a tutti che si possono studiare, oggi che nel mondo l'unico fattore trainante è la tecnocrazia volta al profitto.


Poi c'è l'altro fronte:
2a: le materie umanistiche sono state sequestrate da un élite di sinistra che ha finito per considerarle cosa sua;
2b: questi professoroni non si sono mai preoccupati di rendere davvero popolare la cultura;
2c: sarebbe ora stipendiare i cattedratici per qualcosa di più fruibile, magari spingendoli ad adeguare le loro discipline alle nuove logiche di mercato globale.


Poi c'è il fronte 3, singolarmente convergente: la crisi dell'umanesimo è colpa tanto del neoliberismo e delle sue logiche utilitaristiche quanto del marxismo e del suo considerare "struttura" solo i fondamentali dell'economia. Ovviamente, chi sostiene una delle due diagnosi finisce per negare l'altra.
  
Fatta la media degli interventi, insomma, da qualsiasi parte arrivi l'attacco, il vero torto che si contesta alle discipline umanistiche prescinde dai loro contenuti. Esse sono ritenute difettose perché "proprietà" di una casta a danno di tutto il resto della collettività. Troppo difficili, esclusive, o perlomeno rese tali da una precisa politica dell'istruzione che ha reso il liceo classico un decadente museo di vecchiume assortito che non ha saputo adeguarsi al mutare dei tempi, restando pertanto drammaticamente "altro" rispetto alla realtà "vera", una realtà non più eurocentrica, realtà che impone, nella migliore tradizione del sincretismo, un'apertura e una messa in discussione di tutti i paradigmi, assiologici prima ancora che contenutistici, didattici e docimologici. Insomma: adeguate la classicità e l'umanesimo occidentale al mondo, o ne verrete spazzati via.
La qual cosa è pure legittima in linea di principio. Nondimeno, vorremmo porre noi a nostra volta alcune domande ai dotti contestatori. Avvisiamo fin d'ora che non sono domande retoriche o ironicamente socratiche. Sono questioni che inevitabilmente sorgono dal dibattito sin qui svolto e attendono ancora risposta.


1) Cosa vuol dire rendere più "popolari" le discipline umanistiche occidentali? Se la linea da seguire è quella dell'evento di massa, qualcosa in tal senso c'è già, si vedano manifestazioni dall'appeal torrenziale come i festival di Mantova, Carpi, Sarzana, Pordenone, ecc., per tacere, ma solo per non sembrare campanilistici, del nostro festival Filosofi lungo l'Oglio, che l'estate prossima giungerà alla decima edizione e che, per diretta esperienza, posso assicurare aggrega un pubblico assai composito e veramente trasversale. Peccato che già da tempo quella stessa stampa che lamenta l'agonia della cultura umanistica stigmatizzi senza pietà la moda dei festivàl, carrozzoni omnicomprensivi che sono solo fintamente popolari, ma alla fine coinvolgono sempre più o meno gli stessi autori, ovviamente spinti dalle case editrici o da "poteri forti" consimili. E poi, data l'eterogeneità del pubblico, non si è sicuri che chi assiste ai vari incontri ci capisca davvero qualcosa, nel senso che chi già sa continuerà a sapere, quelli arrivati al festivàl per curiosità o per sentito dire se ne andranno grattandosi la testa per i paroloni uditi o per il disgustoso parlarsi addosso dei vari intervenienti. Sono il primo a dire, perché ho assistito e visto, che succede purtroppo di trovarsi ad incontri che tradiscono spesso le attese, ma mi pare che questi oggettivi difetti dei festivàl siano esattamente la conseguenza del loro voler essere "popolari", e non può che essere così, anzi è di fatto un finto problema. Nessuno degli organizzatori, penso, ha la pretesa di acculturare integralmente gli indotti, ma piuttosto di gettare semi, spore, ami, esche, fate voi, insomma, di creare un'enorme rete a strascico che, pur con i rischi della carrozzonaggine omnicomprensiva, ha la potenzialità di lasciare un po' di limo dopo cotanta piena (troppe metafore, oggi...), ovvero di stimolare chi già sa a saperne di più e chi non sa a desiderare di sapere. Si potrebbe pensare a qualche forma meno tonitruante di popolarizzzazione della cultura: resta inteso che, qualsiasi giusto tentativo si faccia per portare i saperi umanistici fuori dal chiuso delle accademie, bisogna anche accettare senza scandalizzarsi l'eventualità che essi saperi possano ricevere scherno, incomprensione, rifiuto. Il popolo è moltitudine, c'è chi ragiona di testa chi di pancia. Spero che non si finisca col solito "armiamoci e partite,", ovvero "rendiamoci popolari, però pensaci tu, che a me la ggente fa senso". E ci si rassegni al fatto che la popolarizzazione della cultura può comportare investimenti a fondo perduto (ovvove!!).

2. Dove portiamo il liceo classico? A mio parere, le discipline umanistiche sono già state diluite a sufficienza nel corso degli ultimi decenni, se è ben vero che latino e greco, al triennio, totalizzano sette ore settimanali su un plafond di non meno di trenta. La proporzione migliora certo se si aggiungono italiano, storia e filosofia, me resta inteso che i saperi caratterizzanti dell'indirizzo classico hanno quello spazio lì, e non mi pare davvero eccessivo. Veniamo invece allo specifico delle due materie: esse hanno delle oggettive difficoltà perché sono lingue di civiltà estinte, con una struttura diversa dalla nostra, parlano di argomenti lontani che difficilmente mandano in deliquio gli studenti (i ritratti di Agesilao, i prodigi per la nascita di Scipione) o che sfidano in modo arduo la comprensione (certi passi di filosofia o teoria della storiografia, per tacere dei testi poetici). Eppure, chiunque abbia frequentato con un minimo di giudizio il classico, e magari non ci mandera' comunque i figli, sa che dietro la fatica a volte improba e noiosa di certi pezzi di programma si trovano tesori che spalancano orizzonti metavigliosi. Cosa si può fare, allora, detto pure che il valore formativo di questi studi è riconosciuto da molti (e avversato da altrettanti, lo so bene)? È chiaro che vi sono due vie del tutto divergenti: o li si rende magnificamente accessibili a chiunque abbia un minimo di volontà di studiare, e però allora si elimina del tutto l'ostacolo della grammatica e si legge tutto in traduzione, facendo quindi cultura classica generale; oppure si decide che l'unico modo per non avere studenti addolorati dai paradigmi dei verbi politematici greci è fare in modo che gli addolorabili neanche entrino al classico; detto più crudamente, si trasforma questo liceo in un selettivissimo giardinetto di poche intelligenze con la media dell'otto che, non avendo difficoltà alcuna a transitare dal gerundivo al futuro attico, non trovandosi mai a doversi chiedere a che cosa servono discipline in cui il successo è per loro sostanzialmente agevole, apprenderanno gioiosamente e senza afflizione o complessi di anacronismo e di inutilismo, perlomeno non peggio di quelli dello scientifico alle prese con le derivate "utilissime" derivate t. Oggi si sa, la situazione è più ambigua: la grammatica si studia, i testi in lingua originale pure, le difficoltà ci sono, epperò ci sono anche ottimi salvagente costituiti dagli esami di settembre, per tacere della stagione dei debiti formativi senz'obbligo di saldo. In tal modo vanno avanti lungo i cinque anni del curricolo classi di qualità inevitabilmente eterogenea, con livelli di motivazione disuguali, oltre ad un cospicuo gruppone di gente che sta in classe perché "il classico è una tradizione di famiglia". Il che non è esattamente un bene per la didattica, come si capisce. Come non è un bene che i genitori dei classicisti, terrorizzati dalla prospettiva di avere un figlio nerd ed emarginato, gli permettano di (o lo costringano a) inzeppare i pomeriggi di attività parascolastiche che, ove in numero e/o intensità eccessiva, finiscono per danneggiare lo studio e stressare il giovine. Col che nessuno contesta il fatto che si possa studiare greco e seguire corsi di teatro o dedicarsi ad uno sport, però sinceramente, per aver provato direttamente cosa siano gli studi classici, fatico a credere alle mitologie dei superbravi e superimpegnati che tengono insieme voti altissimi e non meno di tre-quattro attività extra (Eugenia, se stai leggendo, sappi che quest'idea me la sono fatta da MOOOOLTO prima di conoscerti). È chiaro che, perché si verifichino certi mirabolanti risultati, la corda, da uno dei due lati, dev'essere meno tesa che in passato. Oppure sono nati davvero i bambini indaco e allora meglio così. Io resto dell'idea che, per avere un senso e un'utilità formativa, latino e greco (a scuola) debbano rimanere difficili ed impegnative. Altro è il loro livello divulgativo, e allora rimando al punto 1. Resta inteso che trasformare il liceo classico nella scuola di tutto un po', con latino e greco spiaccicati tra diritto, informatica, tre lingue straniere, perché sennò gli studenti non maturano le competenze vere che servono nella vita vera, è come tenersi un coltellino svizzero in una stazione spaziale "perché non si sa mai": a quel punto piuttosto buttate tutto.  

3. Le repliche alle accuse: immaginando pure che la frase: "Sono saperi inutili, ma servono più degli altri" possa essere bollata come spocchiosa reazione "di sinistra" alle accuse neoliberiste, e per converso la replica: "Sono saperi critici" possa configurarsi come motto destrorso da sbattere in faccia all'omologazione del pensiero marxista-sessantottino (schema orribilmente orribile, ma oggi ce lo facciamo andar bene), domando: sono davvero risposte stucchevoli, come dicono alcuni? Ammettiamo pure che la prima, nella sua voluta provocatorietà, risulti controproducente ed antipatica quanto la seconda può apparire pretenziosa. Però, mi domando e chiedo, se nell'upgrade dell'umanesimo dobbiamo rinnegare il valore disinteressatamente formativo di discipline che effettivamente servono ANCHE a sviluppare il senso critico, alla fine cosa resta? Ci vuole tanto a capire che il bello degli studi umanistici è autonomo e prescinde dal colore politico? Quale definizione, quale replica politicamente neutra si potrà dare per difendere questi studi, se si rinnega la loro capacità di elevare il pensiero verso livelli superiori di comprensione della realtà? Certo, detta così sembra una chiusura recisa contro ogni prospettiva di popolarizzare queste discipline, ma non è così, perché il vero fine delle medesime non è né la popolarità né l'elitarietà. Bisogna rassegnarsi al fatto che questi saperi non sono solo estetici, critici, formativi, maieutici, dialettici, panlogistici, ecc., la verità è che, nell'attuale contesto di un mondo post-ideologico e globalizzato in cerca di nuovi equilibri e sostegni, questi saperi hanno il drammatico difetto di essere scomodi, e non c'entra lo studio della grammatica greca. Sono saperi che mettono l'uomo da un lato di fronte alle questioni ultime sul senso dell'esistere, sbattendogli in faccia concettucci come morte, eternità, non-essere, dall'altro scavano nel profondo dell'animo per indagare i conflitti, le debolezze, le altezze e le cadute della nostra specie. In entrambi i casi, il sogno di un'umanità felice, consumatrice, integrata, relativisticamente diluita in un tutto immanente e a-problematico viene infranto o perlomeno incrinato troppo pericolosamente. Il bello delle ideologie è che, essendo esse di fatto religioni della ragione, danno una risposta a tutto. Le discipline umanistiche sono piuttosto volte a porre quesiti. E questo, oggi, non è ritenuto ammissibile. Quale circuito economico reggerebbe se i suoi attori (produttori e consumatori) si fermassero a pensare alla condizione passeggera dell'uomo, se riflettessero DAVVERO sull'abisso di misteriosa essenza che fa da sostrato al nostro fugace brillare lungo la linea del tempo? L'umanesimo è il prodotto insopprimibile del nostro essere animali razionali e simbolici, ma i suoi esiti estremi, ove si prescinda dall'approdo religioso, sono di ampiezza sconcertante e mozzafiato, perché obbligano la psiche a infrangere le proprie forze contro un limite invalicabile e terribile, se interiorizzato appieno. Potrebbe quindi un modello sociale, qualsiasi modello sociale, permettere il propagarsi di sentimenti e idee così corrosivi? Certamente no: conviene semmai che lo studioso sia ridotto a passacarte stritolato dalle mediane bibliometriche, che si faccia reggere l'accusa di parrucconismo accademico per rendere antipatici e quindi inascoltabili gli umanisti, che la letteratura si neutralizzi, diventando fucina di romanzetti piatti con storie inutilmente realistiche, senza un vero messaggio o una riflessione degna di nota e piene di gente che si zompa, o cornucopia di raccoltine innocue di aforismi. Questo, temo, sarà l'orizzonte "popolare" della cultura, se si teme che il suo versante "alto" risulti addirittura eversivo per gli equilibri del pianeta. Ammettiamo che il problema è questo, mentre il resto sono corollari. Poi discutiamo.
Mea quidem sententia, scilicet.          

martedì 18 novembre 2014

I grandi ritratti di Eligio de Marinis: la biografia artistica di Cristina d'Avena (capitolo 1).

Cristina D'Avena (titolo originale: Awena no Koristina. Utsukushī koe puffa to shanpan no kashu = Cristina D'avena. La frizzante cantante dalla bella voce puffa) è un anime italo-giapponese che va in onda ininterrottamente sui canali privati nostrani dal 1982. Ispirato al non meno famoso manga Awena no Koristina. Izureka no kōmoku nado ni iku (= Cristina D'Avena. Una voce qualsiasi e via così), pubblicato a partire dall'edizione 1968 de Lo zecchino d'oro (titolo originale: Junkin. Taitsu de no tomariki to baka ni kodomo-tachi = Lo zecchino dorato. Bambini sul trespolo e un idiota in calzamaglia), questo prodotto della più raffinata cultura otaku ha saputo sedurre non meno di tre generazioni di giovani italici, traghettando la nostra civiltà dagli anni dell'edonismo reaganiano alla Generazione X fino alle radici del bimbominkismo. Non c'è cervello di essere vivente dello Stivale nato dopo il 1970 che non ospiti nel suo deposito mnemonico almeno uno dei micidiali ritornelli con cui la nostra eroina, prendendo di volta in volta le sembianze dei personaggi di cui cantava le sigle, ha saputo catalizzare i pensieri delle giovani generazioni, fino a rimbecillirle lepidamente. Noi tutti le siamo altamente debitori, ed è per questo che, umilmente e senza alcun merito, ci predisponiamo ad una rapida e succinta biografia, in onore del traguardo del cinquantennio che la Nostra ha da poco tagliato. Di fatto, i cinquant'anni sono solo anagrafici, poiché Cristina, vampira come tutti i cartoni animati, è in realtà ancora giovanissima, dacché si nutre del sangue contenuto nei diritti d'autore che le piovono addosso tutte le volte che in TV passano anche solo 5 secondi delle sue canzoni. Tirate le somme, Cristinuccia nostra continua, dal 1982, ad avere l'età di Yu Morisawa. Che è una delle sue molteplici reincarnazioni. Ma procediamo con ordine.

1964. Nel villaggio dei Puffi (titolo originale: Sumāfu. Tsukumo chīsana aoi ikimono to 1 burondo. Dono yōna senbō... = I  Puffi. 99 ometti blu e una sola bionda. Che invidia...) viene alla luce una timida fanciullina che, crescendo, prende l'abitudine di correre dietro ad un moscerino dell'uva, sempre lo stesso, inciampando e sbattendo tutte le volte la faccia contro i macigni che servivano per nascondere il villaggio agli occhiacci adunchi di Gargamella. Dopo la quindicesima capocciata, la moglie del Grande Puffo, Alessandra Valeri Manera (titolo originale: Aressandorabarerī Manera. Burendā tsubasa no kotoba to gainen = Alessandra Valeri Manera. La frullatrice alata di parole e concetti), la cui presenza è sempre stata censurata nelle versioni italiane del cartone, decide di intervenire e lo fa con tono da accademia prussiana: "Cristina, ma come fai a cacciarti sempre nei guai? Ah, neanche tu lo sai? Resta con me, dai, non cambiare mai! Vai!". Cristina, ipnotizzata dalla politezza di questa filastrocca, a tratti superiore per qualità anche agli esametri omerici, e che sarebbe stata il modulo base di TUTTE le sue canzoni future, si mette a ballare il valzer insieme al moscerino, convinta però di essere LEI il moscerino. Sarà la prima avvisaglia degli effetti delle capocciate di cui sopra, che a lungo andare porteranno la nostra fantasticah amicah ad avere crisi di identità a cadenza giornaliera bioraria. Quattro anni dopo, infatti, Cristina si presenterà al predetto Zecchino con la canzone Il valzer del moscerino (titolo originale:  Hae no warutsu. Kono denkyū wa mawari ijiru teishi shinai tame? = Il valzer del moscerino. Perché questa lampadina non smette di girarmi attorno?), eseguita con un numero impressionante di volappie' che portano la bambina a precipitare più e più volte sul pubblico terrorizzato. A fine esecuzione il mago Zurlì acchiappa Cristina con un corda d'oro prestatagli da Geordie e tenta di impiccarla mentre lei urla e strepita: "Lasciatemi volare, sono il moscerino canterino!!". Ed ecco, evocato dalla rima in -ino, piombare dalla Stella Piumata Pino- Pino, il quale incenerisce Zurlì con un phon e salva Cristina. Alessandra, che da sotto il palco aveva assistito a tutta la scena, comprende che quella piccola cantante è il futuro dell'umanità. E si regola di conseguenza.

1982. Sbarcata a Milano, Cristina viene assunta come cottimista per cantare un certo numero di sigle di cartoni animati, scritte ovviamente da Alessandra, così da dare vita alla programmazione per bambocci dell'allora nascente Canale5 (titolo originale: Chan'neru 5. Donichi ningyō no hanashi = Canale 5. La terra dei pupazzi parlanti). Dopo aver inciso, più per affetto patrio che per altro, la sigla dei Puffi, dopo aver tenuto a battesimo la più brutta serie di Pinocchio mai inventata dai giappi, col burattino costretto ad interagire con una paperella, dopo aver provato con testi impegnati (La regina dei Mille anni), Cristina comprende che il suo personaggio merita una svolta, che 100 lire a canzone non le consentiranno mai di sbarcare il lunario, che insomma ci vuole la bomba. Si rinchiude quindi con Alessandra Valeri Manera in uno stanzino e procede allo squartamento rituale dell'incolpevole Augusto Martelli (prece), fin lì autore di parecchie musiche di anime, e tuttavia, in quella afosa estate di primi anni '80, l'odore delle viscere martelliane basterà a riattivare in Cristina la capacità di transfert che le aveva fatto credere di saper volare 14 anni prima. Dallo stanzino esce dunque una menade pazza che prende a strappare a morsi tutte le antenne delle televisioni dislocate negli studi dell'emittente per poi agitarle in aria al grido di misteriose formule magiche. Alessandra le corre dietro per evitare il peggio, ma il peggio arriva: Cristina, in pieno delirio, punta dritta una parete a specchio e vi si lancia a velocità folle gridando: "Lady Oscar, me fai 'na pippa, io sono She-Ra!!!!" e sbatte, frantumando il vetro che la dilania in più punti. Il personale del piano la raccoglie da terra mentre ancora rantola: "Allora? Mi sono trasformata?". No, evidentemente. Ma i pezzi di vetro sparsi per terra prendono vita propria e si tramutano in altrettante superheroine che iniziano a svolazzare or qui or lì. L'invasione è cominciata.     

1984-1986: Il mondo è ormai sottomesso al pesante giogo delle canzoni daveniane, la gioventù, qualunque cosa ciò voglia dire, si è convinta che l'unica rima possibile in poesia sia quella amore-cuore-buonumore, le aule scolastiche trillano dell'ameno berciare di ragazzine tutte prese a tentare di trasformarsi, mentre i maschietti seppelliscono l'alabarda spaziale e prenotano in stazione i biglietti del Galaxy express per fuggire dal pianeta ormai colonizzato.
Dal castello di Magilandia, rilevato dopo lo sfratto de I cavalieri del Re con di tutta la famiglia della piccola Chappy e trasformato in un resort per coniglietti in crisi, Cristina prende il volo ogni pomeriggio e assume canticchiando le sembianze più astruse per insinuarsi nei cervelli dei più piccini: alcuni se la vedono comparire davanti con in mano una bacchetta a forma di cuore con cui esegue mirabolanti giochi di abilità facendo roteare delle crepes sulla punta, per poi lanciarle contro il primo che passa, ustionandolo a morte; altri la vedono accompagnata da tre strani di folletti verdi che canticchiano insieme a lei: "Desiderio dici tu - e il cerchio non c'è già più!", astuta strategia pubblicitaria per imbambolare chi ascolta con la storia del cerchio, mentre vengono fatti scivolare nelle tasche dei genitori biglietti omaggio per due trattamenti total relax al centro massaggi thailandese Sogno d'Amore; v'è poi chi la vede tutta intenta a parlare con uno specchio a forma di cuore e con una ciabatta a forma di roditore che si anima di colpo per offrirle funghi allucinogeni, mangiati i quali la Nostra Cantante inizia a sparar bolle colorate dalla bocca urlando: "Gira e (s)pera!!!", segno evidente di raggiunto picco del trip: non stupisce infatti che di lì in poi Cristina si diverta a far sparire le persone o a segarle in due, riattaccando le due metà sbagliate o dimenticandosene una nell'altra dimensione; da ultimo, non è infrequente incontrarla in ameni prati fioriti a disegnare mostri umanoidi che si animano e vanno a far strage dei cantanti della concorrenza, ormai peraltro ridotti ad esibirsi sulle tv locali.

                                                                                                      (1- continua)

sabato 1 novembre 2014

Hoc quod volo me nolle (Seneca, Phaedra, vv. 604-605). Psicodramma leopoldese.

Ci permettiamo, da senecani quali siamo (vabbe', senecani... senecani pneumatici, diciamo...)(mica si può sapere tutto, oggidì...), di citare un doppio mezzo verso della tragedia composta dal Cordovano e dedicata allo strazio di Fedra, colei che, sposata al noto seduttore di sorelle di minotauri, viene da costui (già reo di aver intortato altri - e soprattutto altre- a casa Minosse) condotta ad Atene, salvo poi sentirsi dire: "Ciao, scusa, devo scendere nell'aldilà a prendere una cosina col mio amico- amico- amico Piritòo, ma torno, eh?", detto pure che la 'cosina' è la moglie di Ade, ebbene Fedra si trova sola soletta come la sposa di un marinaio qualsiasi. E che fa? Passa di lì il protagonista di Into the Wild, ovvero Ippolito, un ragazzone belloccio, di fisico amazzonico nonché devoto a Diana, dea delle selve, della caccia, della luna, ma soprattutto della friendzone, dal momento che i Diana boys non hanno la benché minima intenzione di congredire carnalmente con chicchessia. Insomma, Ippolito odia cordialmente tutte le donne. In più, essendo il frutto della relazioncina flash del padre con la regina Ippolita, tecnicamente è figliastro di Fedra. Non c'è consanguineità, osserveranno i più acuti. Quindi, se per caso Fedra, costretta a vivere di deliqui e fantasie inappagate, si intrattenesse, magari anche solo per un caffettino, col figliastro, nulla di male, no?
No.
Com'è noto, per l'etica antica anche i rapporti tra matrigna e figliastri, benché costoro non consanguinei, erano considerati incesto. Di qui  la tensione di Fedra tra desiderio e pudore, tra spinte irrazionali e necessità di mantenere il decoro. Seneca sviluppa questa linea facendo compiere alla regina creto-ateniese tutte le tappe della tipica melancolia d'amore, che poi sfocia in un delirio maniacale spersonalizzante che la porta a desiderare di diventare un'amazzone per entrare nella inner-zone di Ippolito (poraccia...). Pazza, ma pazza da psichiatria, vedere la descrizione che di lei fa la nutrice ai versi 360-386 della tragedia.
("Maronn', che ppalle 'sta lezioncina...").
Senonchè, spalmatasi sul sagrato della reggia davanti, guarda caso, ad Ippolito che la osserva straparlare e non capisce, Fedra, come era logico attendersi, ci prova, ma si mangia le mani tutte le volte che apre bocca, appunto perché vorrebbe dire e non può, vorrebbe qualcosa che un'altra parte di lei fortemente non vuole.
Poi la cosa finisce in tragedia. Ma dai?
Orbene, il modulo- Fedra è oggi meravigliosamente incarnato dai rottami del PD, costretti a stare in un partito che hanno bensì fondato nello stesso anno in cui diventava presidente francese Sarkozy, ma che ora è in mano non a Teseo, bensì a Ippolito, ovvero Renzi. Chi sia Teseo è arduo dirlo, nel senso che di segretari del PD finiti all'inferno è piena la pur breve storia del partito: il povero Bersani ha rischiato davvero di passare ai più, mentre il peso politico di Fassino (già leggerino di suo) e Franceschini ha prodotto quel che ha prodotto, cioè niente, tant'è che dopo un anno dalla nascita del partito la maggioranza che sosteneva il governo Prodi2 si è sfriccicolata su un voto di fiducia a dinamite mastelliana e sappiamo cosa è seguito.
Ippolito Renzi, il giovane mezzosangue greco-amazzonico, invece tira parecchio, seduce filosofi e industriali, animatrici di salotti chic e azzimati statisti di inizio secolo: la sua natura democristiano-sinistresca con occhiolino a destra è del resto la miscela ideale per mandare in analisi le Fedre di turno. Il Pd mi piace, Matteo no, però cosa posso farci? Amo il mio partito, ma non voglio compromettermi a finire nel talamo elettorale con questo giovinotto peraltro così pieno di stimolanti idee...
Sembra strano, ma i vecchi arnesi del PD hanno questa miracolosa facoltà di volgere sempre la tragedia in farsa. A parte essersi mandati a casa da soli nel 2008 dopo nemmeno due anni di legislatura, abbiamo ancora tutti vivissimo il ricordo delle politiche del 2013, quando la vittoria era servita sul piatto di rodio e si finì con tre partiti alla pari. E giù i soliti psicodrammi della sinistra incapace di vincere, poco comunicativa, buona solo ad alimentare risse al proprio interno ecc.
Oggi, ci risulta, il PD ha portato a casa un sontuoso punteggio alle elezioni europee e Renzi anima meeting leopoldeschi con piglio da amico del popolo tutto che fa imbestialire i Patriarchi (Bindi, Bersani, Cuperlo, D'Alema, gente così), che si ritrovano nella fedresca situazione di vivere in partito di cui odiano selvaggiamente il nocchiero, ma che resta comunque il LORO partito, quasi che Renzi l'avesse preso in commodato d'uso fino al 2016 o giù di lì. La cosa purtroppo genera equivoci che credevamo sotterrati con la vecchia Democrazia Cristiana, ovvero la saga dei fratelli coltelli. È noto che, come ben ricorda il farfallinato Roberto Gervaso, i democristiani erano sempre tutti amici tra di loro, salvo tenere il coltello dietro la schiena per ogni evenienza. Qui a casa PD vediamo Bindi che fa un catfight epico con Serracchiani, Bersani che spara a zero su Renzi, Cuperlo che rivendica l'apporto della sinistra piddina al successo renziano, contestando costoro coralmente TUTTA la legge di stabililtà, persino gli articoli non ancora scritti, persino quelli scritti nelle finanziarie del 1976, ma alla fatal domanda: "Allora Lei, Onorevole, se non condivide la politica di Renzi, è pronto a lasciare il PD?", la risposta è sempre: "Ma per carità, il PD è il mio partito e Renzi è il mio segretario!". Ah, però. E in caso di questione di fiducia? "La voterò, che diamine!!". Quindi va o resta? E qui, razdeganianamente, "Sono fatti miei".
Lo sappiamo, manuali di medicina pneumatica alla mano, si tratta dei classici episodi di bipolarità maniaco-melancolica che portano il soggetto depresso a odiare rabbiosamente e rabbiosamente scagliarsi con intenzioni poco meno che bellicose contro l'oggetto della fissazione, salvo poi pentirsi e tornare a macinare sordo rancore.
Ora, se è ben chiaro a tutti i lettori di tragedie antiche che Fedra, in un modo o nell'altro, calunnierà il non concendentesi Ippolito accusandolo di averla violentata, e che alla fine entrambi, per i più vari espedienti narrativi messi a punto dai rispettivi autori, finiranno infilzati/impiccati/maciullati/sbriciolati, la domanda che ronza in testa a noi Osservatori Distaccati della Realtà è: "Finirà così anche nel Pd? Si disintegreranno a vicenda?". È ben vero che Ippolito disprezza le donne (e Fedra appena si dichiara), laddove Renzi non aspetta dichiarazione alcuna dalla Bindi, ma la sfancula allegramente ogni volta che può. È vero che Bersani, più che possedere Renzi, vorrebbe possedere la segreteria da lui al momento occupata. Insomma, andiamoci piano coi loci paralleli. Però la volontà equivoca dei contendenti di Renzi è tutta lì da vedere: un segreto desiderio di sbattere il giovin fiorentino fuori dai cabbasisi, pure a costo di rivedere il PD al 25%; dall'altro lato, trombe di guerra che smuoiono al solo pronunciare la parola 'scissione'. Pare dunque che la politica nostrana non si lasci alternative tra il partito a decisionismo monocratico e l'arlecchinata delle correnti plurime che si ostacolano a vicenda. Nei fatti piddini di questi giorni sembra di rivedere d'un colpo tutta la storia della repubblica, i moti più o meno percepibili che scuotevano la DC, la fase craxiana del PSI, il berlusconismo incarnato da chi ha la metà esatta degli anni di Silviuccio, l'amore e l'odio che giungono a livelli esagitati, quella sottile ed inesausta dialettica di Uno metafisico e Diade di grande-e-piccolo che tanto piaceva a Platone e da cui deriverebbero tutte le cose. Tutto l'amalgama riuscirà coerente, prima o poi? Per il bene del nostro sciagurato Paese, speriamo che almeno a sinistra qualcosa avvenga. Per la destra, attendiamo.