Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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lunedì 16 settembre 2013

Una grande famiglia. Ovvia.

L'ottimo Freccero (vedi sotto) ha inveito da par suo contro la stereotipitezzitudinarietà delle fiction televisive nostrane, Ecco, già che ci siamo, di norma non amiamo occuparci di serie televisive, non per altro se non perché lo fanno tutti i blog dell'umano consorzio, ma almeno per stavolta vogliamo fare un'eccezione. Abbiamo recentemente rivisto in tv una roba che era andata in onda questa primavera e di cui avevamo fatto in tempo a spizzare l'ultima sequenza dell'ultima puntata. Detta sequenza presentava una tipica cena in casa di borghesi industriali del nord Italia, provincia di Como-Inverigo-Milano-Brianza, riuniti per festeggiare qualcosa e fare i conti coi loro destini. Tutto sembra andare per il meglio, o per il meno peggio, quand'ecco che, nel silenzio generale, Stefania Rocca (che nel telefilm interpreta la vedova sfigata che se zompa l'ex, odiata nel contempo dalla suocera come nuora nullafacente) si accorge che Ernestino detto Tino, il secondo figlio seienne avuto dal marito Edoardo (Alessandro Gassman), marito nel frattempo morto ad inizio serie, insomma Tino non si trova. Scatta quindi la ricerca, ricerca che vede la Rocca visibilmente ostacolata dalla crescente panza, panza dovuta a sua volta al fatto che l'ex, Raoul, fratello del defunto, assicuratosi della defunzione definitiva ed irrevocabile del Gassman, l'ha messa incinta. Quindi, tra misteriosi brusii, frusci di merli e schiocchi di serpi, riappare Tino, attaccato a sua volta ad una manona da adulto. Prende il via a questo punto la sequenza in ralantì più lunga della storia della TV italica, roba che al confronto i dialoghi tra Delia Boccardo e Paola Pitagora in Incantesimo erano ridolini, sequenza in cui tutti gli astanti si voltano verso Tino e, meraviglia!, riconoscono il proprietario della manona. Il fatto è che, nell'esasperante ralantì di cui sopra, ciascuno degli attori esibisce un'espressione che c'entra poco o nulla con la situazione emotiva in corso. Vojo di': dopo 5 puntate vedi ricomparire tuo figlio/marito/fratello/zio/papà che tutti ti avevano assicurato essere schiattato in un incidente aereo sopra un laghetto per anatre fuori Milano e le facce che riesci a fare sono queste? Sì, perché, alla fine, la prima stagione di Una grande famiglia si chiude con la resurrezione del defunto Edoardo Rengoni/ Alessandro Gassman. "Siamo stati in pericolo... e forse lo siamo ancora...." sentenzia il Gassman, esibendo la sua faccia preferita (bocca a culo di gallina e mascellona triangolare serrata).

Ahò, ma nun se scioje più 'sta morosita...
  
Sigla. Ecco, questo vidimo (o vedemmo? o vimmo?) l'altra volta, mentre in queste feconde domeniche estive abbiamo visto anche il resto, cioè tutte le puntate prima dell'ultima. Ma ripartiamo dalla scena finale, in cui, come alla fine della Recherche di Proust, e delle migliori opere liriche, ricompaiono tutti i personaggi per la grande spadellata di chiusura. Le facce sono tutte un programma, ma sono soprattutto indicative dello spessore che ciascun attore ha dato al suo personaggio. Pour chevalerie, partiamo dalle femmine.

Eleonora detta Nora (Stefania Sandrelli).

Evviva, siamo poveri!!!!

Se qualcuno avesse concepito il dubbio che gli autori di questa fiction si siano un filino ispirati alla serie americana Brothers & Sisters, si tranquillizzi, è proprio così. Sarà perché anche in quella serie ci sono 5 fratelli, 3 maschi e due femmine come qui; sarà che pure là parliamo di ricconi con l'azienda di famiglia; sarà che qua come là vige l'imperativo che, se succede una disgrazia, nessuno deve dirlo a nessuno e alla fine lo vengono a sapere tutti; sarà che, CASUALMENTE, la matriarca della serie americana si chiama Nora: morale, una sottilissima arte allusiva di stampo ellenistico domina tutto l'impianto della sceneggiatura. In effetti, pure Nora/Sandrelli, al pari di Nora/Nora, si impiccia di tutti gli affari dei figli, ma, non essendo vedova come l'omologa americana, non le è richiesto di impicciarsi anche della conduzione dell'azienda. Certo poi Nora/Nora è comunque un vulcano di idee, laddove Nora/Sandrelli pare piuttosto gnucca, a parte la decisione di mettere all'incanto alcuni quadri di casa in vista dell'imminente messa in liquidazione dell'azienda per colpa dei presunti affari sballati del defunto, che aveva preso il posto del padre dopo che questo aveva dato di ictus. Resta l'impressione di un personaggio vittima di una complessiva abulia, blindato in un recitativo scattoso e smozzicato, incapace anche della minima perfidia nei confronti dell'odiata nuora/mantenuta/ora vedova, detto che l'unico atto di acido sarcasmo è il soprannominarla "la Trump" ogni 10 minuti. No no, in queste serie TV deve scorrere il sangue, scherziamo? Almeno i cagnotti nel letto allorché Chiara/Stefania Rocca deve abbandonare il lussuoso appartamento milanese per rientrare alla casa madre e lì venir trattata come la vedova-zavorra. Nulla: solo un malcelato disprezzo, qualche giochetto per troncare le telefonate, la preparazione di un menu' di riserva la sera che Chiara decide di cucinare per tutti. Alexis di Dinasty si rivolta nella tomba... Forse allora che Nora/Sandrelli è una brava confidente coi figli e i nipoti? Ovviamente no, visto che chiunque ricorre anche per sbaglio ai suoi consigli ne esce più confuso di prima. Il suo savoir-faire è del resto tutto nella visita a casa di Stefano, l'equivalente di Justin nella serie americana, l'ultimogenito iperprotetto perché ritenuto scemo, il quale Stefano va a vivere da solo dopo aver scoperto di essere un omicida tenuto all'oscuro del suo delitto da tutto il resto della famiglia: Sandrelli si presenta, "Mamma, cosa sei venuta a fare?", (ironica e compagnona) "A vedere se il tuo caffè è davvero una schifèzza [pronuncia obbligatoriamente lombarda] come dici!" (l'idea iniziale era quella di ricondurlo all'ovile). È ben vero che poi Stefano torna, ma per tutta ripicca riprenderà il lavoro che lo ha portato ad omicidare. Che madre, che madre... Allora, magari, moglie solida e cazzuta a sostegno del marito che vede l'azienda sbriciolarglisi in mano? Macché, appena viene a sapere che la villa è stata ipotecata, gli sbatte in faccia un sciopero del sesso-lampo e non mette più i centrotavola sul tavolo dopo cena. La faccia alla ricomparsa di Gassman: un misto tra imbarazzo intestinale e la scoperta che il cerchio non entrava nel paletto del baraccone del luna-park perché era più stretto apposta ("Te l'avevo detto, te l'avevo detto...!!!").

Chiara detta Madonna delle Lacrime (Stefania Rocca).


Maro', devo piagne ancora...?

Ricordo sempre con friccicore certe osservazioni in materia di cinema che noi tutti ci si scambiava alle riunioni del Rotary di Puntasecca: quando il discorso cadeva sui film di Salvatores, il giudizio era unanime, ovvero che anche uno spremiagrumi automatico è più femminile di Stefania Rocca. Impressione confermata in questa ficscion (grafia lombarda). La Rocca non è malaccio come attrice, ma è un tipo troppo androgino per venir costretta entro i borghesissimi e padani confini della neoricca che, povera di qualità proprie, ha avuto il colpo di fortuna sposando il rampollo dei mobilieri brianzoli. I suoi pianti, i suoi rimorsi, le sue arrabbiature, le sue fuitine col cognato ed ex moroso, i suoi dubbi sulla liceità di farsi ingravidare a cadavere ancora caldo, benché recuperato dal fondo del lago, i suoi vani tentativi di fare la madre assertiva con la figlia aspirante zoccola, la sua incredulità nei confronti di Ernestino detto Tino che sostiene di ricevere telefonate dal padre morto sul cellulare (perché in Brianza i bambini hanno l'Iphone come regalo di fine asilo), tutto ciò non quaglia con il profilo segaligno e scolpito dal falegname del viso dell'attrice, che calza invece a pennello coi ruoli pazzoidi che le assegna Salvatores, ma cola a picco nei copioni sentimentali, sì che ci pare di avere di fronte la versione sgrassata di Belinda Carlisle. Detto poi che, a parte le zompate con Raoul, che costituiscono occasioni di gioia pura e sorrisi equivalenti, la mimica facciale della Rocca è impostata in loop sul livello "donne pietose attorno al Cristo morto", cosa che a lungo andare provoca un'inevitabile monotonia. Certo lo stereotipo della femminella dal cuoricino turbato (condiviso ex aequo con Sahrah Fehlbehrbauhm) lascia il sospetto che lo script della serie miri a una visibile polarizzazione dell'energia yang dei personaggi, ovvero, detto in parole povere, la donna o è tonta del tutto o si concede al primo sbuffar di brezza. Nel caso di Chiara/Rocca siamo nel secondo ramo: il lutto per il decesso gassmaniano dura meno di quello della madre di Amleto per il marito assassinato, i segni dell'antica fiamma per Raoul [con cui Chiara congredì già 20 anni prima dei fatti narrati, per poi mollarlo a favore del più foderato (di soldi) Edoardo] esplodono in tempi che Didone manco s'immagina, alla terza puntata la serranda con scritto: "Chiuso per lutto" va in pezzi al primo appuntamento al maneggio, poi, gulp!, un ritardino sospetto e oplà, Ernestino detto Tino e la sorella aspirante zoccola avranno un fratellastrino! Non diciamo che la psicologia del personaggio sia incoerente, visti gli illustri personaggi letterari testé citati, semmai, al contrario, la situazione ha fin troppi precedenti per non risultare standardizzata. Si fosse suicidata una volta scoperta la gravidanza, o avesse suicidato Raoul per bivedovizzare, insomma se avesse aggiunto un po' di Bree van de Kamp alla zuppa, Chiara/Rocca avrebbe reso decisamente più vivace tutta la situazione; invece no, siamo ancora fermi alla fase Brooke Logan, quella che fa la marachella da diciottenne tardiva e alla fine piange. Reazione alla ricomparsa di Gassman: faccia indefinibile, dove sollievo e coda di paglia per l'incopribile pancione si danno battaglia, vorrebbe disintegrare sé e il mondo attorno (e soprattutto gli autori della fiction che le hanno tirato addosso un personaggio pietoso), ma non può.


Nicoletta detta Nico detta Anghingò questa sera a chi mi do? (Sahrah Fehlbehrbauhm, le h sono fornite dalla Teubner).

Come ci hanno definiti? Attori?!?!?!AHAHAHAH!!!
 
Personaggio che condivide con la succitata Chiara il ruolo che, se fossimo alla posta del cuore di Cioè, toccherebbe alle lettrici giovani e sessualmente turbinose, quelle che ne combinano di ogni coi compagni di classe, tengono in piedi tre storie alla volta senza mai decidersi e poi scrivono alla redazione per ottenere consigli, firmandosi "Scorpioncina inquieta", "Orsacchiotta dubbiosa" et similia. La Felbereccetera, passata dalla chioma castana di quando conduceva Top of the Pops ad una stopposa medusa color polenta, dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che attori NON si diventa. Finché si tratta di sciorinare posizioni in classifica o di presentare Justin Timberlake, sfoggiando l'accento inglese da madrelingua, ma senza l'ironia di Victoria Cabello, bensì con il trasporto di una animatrice che porta i bambini della colonia estiva al museo, insomma, fin lì uno ci arriva anche. Quando però il parlato diventa recitativo senza alcun percepibile cambiamento, e quindi il personaggio, già drammaticamente affogato nei cliché della pura zoccolaggine bimbominkiesca, va avanti 5 puntate a gemere la sua indecisione tra il barone universitario con cui si sta addottorando e il giovane ereditiero della dinastia dei cessi, zompandosi ambedue tutti nel frattempo, lamentandosi con voce chioccia che quello sì, ma anche l'altro del resto, boh, più che una fiction sembrano i dialoghi del Grande Fratello. Nico/Felbereccetera, che riesce pure a farsi dare della putaine dalla ex francese dell'ereditiero di cui sopra, saltabecca tra le due alternative senza mai dare un guizzo, non prende mai l'iniziativa-fuori-di-melone, e voglio dire che, da Desperate Housewives in poi [ma anche a Brothers & Sisters non scherzano], l'irruzione con piazzata durante il consiglio di amministrazione della cesseria per far vergognare l'ereditiero è troppo poco. Almeno gli avesse fatto trovare una seggetta di WC insanguinata sulla soglia di casa. Il fatto poi che, tra mille ondeggiamenti, la tizia si decida alla fine per l'ereditiero è il classico scioglimento da commedia menandrea per cui tutto prima o poi s'aggiusta. L'importante, visto il mood tipicamente leghista-pidiellino su cui è impostata la sceneggiatura della serie, è far passare il messaggio che l'università è solo il luogo dei baroni puttanieri con le dottorande che però si redimono. Reazione alla ricomparsa di Gassman: disgustata, come avesse visto un cinghiale accoppiarsi con la cinghialessa lì sul tappeto del salotto.

Laura, detta Non mi ero accorta (Sonia Bergamasco).                                                                                                                                
Dio mio, Felberbaum, e muovi quei muscoli facciali, ogni tanto...

Abbiamo apprezzato dal vivo la Bergamasco come splendida, sanguigna e viscerale Lady Macbeth qui a teatro da noi nel 2001 (Macbeth era invece purtroppo "interpretato" da Kim Rossi Kimono D'Oro Maestro Kimura Non Mi Viene La Mossa Stuart, vabbe', non si può avere tutto); ci siamo commossi nel vederla alle prese col drammatico e tormentato ruolo della terrorista madre di famiglia nell'ottimo La meglio gioventù di M.T. Giordana. Adesso una sola domanda ci sgorga dagl'imi precordi: Sonia, ma chi te l'ha fatto fare di accettare la parte di Laura? Premessina: in Brothers & Sisters uno dei figli di Nora, Kevin, fa l'avvocato ed è gay professo e confesso; qui, per stemperare un po' l'argomento, vista pure la salsa leghista di cui sopra, si fa in modo che Laura sia avvocato e separata dal marito (le separazioni tirano bene nel cdx, quindi...), mentre il gay risulta essere il figlio, Niccolò, interpretato da un tizio che pare appena uscito da una serata ecstasy-oriented, visto che recita con una cadenza ippopotamesca, sempre uguale, incapace di far distinguere la gioia dal dolore, la rabbia dalla rassegnazione. Un bradipo prestato alle telecamere con accento pesantemente bovino. Che si tratti di omaggio al neorealismo mi lascia dubbioso. Ebbene, declinata la traccia del modello nel modo anzidetto, il personaggio di Laura va a collocarsi sulla corsia parallela rispetto alla sorella e alla cognata, identificandosi piuttosto con la madre: vediamo agire un'avvocatessa che in famiglia ha fama di bacchettona, e infatti non vuole concedere il divorzio al marito per motivi religiosi, cosa che le crea alquanto imbarazzo allorché viene assunta da un'azienda ospedaliera il cui CEO, regolarmente sposato e già riprodottosi due volte, la corteggia spudoratamente alludendo al fatto che le convinzioni passano, ma il piacere dello zompo resta. Laura ogni tanto sembra lì lì per cedere, ma poi no! Al confronto Kiss me Licia era da vietare ai minori. Ma guai a divorziare, eh, io ho i miei valori! Certo, nel frattempo il figliolo è perculato da tutti i compagni di classe che lo chiamano "frocetto" e stanno sempre per pestarlo a sangue. Poiché Laura sembra proprio non dedurre nulla dai silenzi perpetui del figlio, dai suoi atteggiamenti inspiegabilmente scontrosi, dal suo rinfacciarle ogni colpa del genere umano, dal fatto di non parlare MAI di ragazze, insomma Niccolò decide per una linea sobria: si procura, non si sa come, un arnese d'acciaio di quelli che si usano nei cantieri, lo porta allegramente a scuola, va in bagno, attende che la banda dei bulli lo venga a cercare e schianta il capo-bullo con un colpo dell'arnese alla base della nuca. Spiace evidentemente che, in tempi in cui i ragazzi gay perseguitati e sfottuti ricorrono a gesti ben più estremi di quello di Niccolò, la fiction descriva il problema in termini di violenza che chiama violenza, visto che inevitabilmente Niccolò passa così dalla parte del torto. Difatti viene sospeso da scuola e minacciato di espulsione. E Laura che non capisce. Non chiede. Non sa. L'unica della famiglia a cui non hanno spiegato la verità sull'incidente di Stefano è lei. Niccolò chiede di andare a lavorare in ditta (tanto a fare il cassintegrato alle dipendenze del nonno mica ci perde) e lei incassa. Niccolò si innamora, ricambiato a velocità supersonica, di un pitturista di mobili della ditta, gli dà appuntamento e dà buca alla festa del suo compleanno in famiglia, e Laura subisce e ignora. Il pitturista dopo cena viene condotto, molto verosimilmente, al villone di famiglia e in giardino, sempre molto verosimilmente, Niccolò lo porta in un punto a lui molto caro (boh) e lo sbaciucchia; e chi, in una notte nebbiosa e tregendesca di un tetro novembre brianzolo, con gli sbuffi di nebbia ad altezza ginocchio, si trova a passeggiare, senza alcun apparente motivo, giusto giusto rasente i muri della villa e proprio in asse col luogo dello sbaciucchio? Ovvio, Laura! La quale per poco non sincopa. Anche noi sincoperemmo, al suo posto, ripensando a come gli autori della storia ci hanno relegati al ruolo di mezza figura. Ripetiamo la domanda: Sonia, perché? Perché farsi incoccolare nella parte della madre oppressiva e bigotta di figlio gay, roba ormai datata dopo i tormenti di Kerr Smith e Dylan Neal in Dawson's Creek (guarda, Sonia, e stupisci...)? Perché ancora la parte della madonnina infilzata che vorrebbe ma si trattiene? Gli sceneggiatori pensano davvero di poter mandare messaggi pedagogici tramite fiction come 50 anni fa? Suvvia... Reazione alla ricomparsa di Gassman: stupore contenuto, come si fosse accorta di aver esaurito la ricarica del cellulare proprio adesso che deve chiamare un taxi.


Valentina detta Oh tranqua, sono trooooppo viziata!  (Rosabell Laurenti Sellers)
 
900 euro per il Galaxy S6? Appena?


Anche qui lo stereotipo della figlia fighetta di papà ultraricco regala copiosi momenti di assuefazione. Odiosa come poche, Valentina, schiattato il padre, continua a voler uscire con le amiche; sepolto il padre, chiede e ottiene di uscire con le amiche; saputo che devono abbandonare Milano, si consola uscendo con le amiche; arrivata a Inverigo, non guarda in faccia a nessuno ed esce con delle nuove amiche; se ne strafrega di madre e fratellino, e quando non si strafrega litiga; il tutto, dice lei, come forma di elaborazione del lutto (risate dal pubblico). Non manca però anche qui il momento- tenerezza: tra una serata orgiastica in discoteca e l'altra, Valentina attira le attenzioni del nerd sfigato della scuola inverighese, un altro che recita ad alzo zero come Niccolò, e che però riesce pure a farle capire che non vuole essere preso in giro. Ricambia o non ricambia? Di scusa in scusa, lui si scoccia, ma lei non ha altri che lui da chiamare la sera in cui sta per essere decappottata dal bello del paese in discoteca e lui arriva, poi se ne va, lei lo cerca, lui che vede il suo numero sul cellulare e sbotta: "Oh, Milano, ma chi ti credi di essere?", poi la sera che Niccolò conclude il suo training iniziatico col pitturista in giardino, lei va sotto casa del nerd e lo limona imperiosamente. Sì, praticamente tutta la cinematografia giovaniloide anni '80 è stata condensata in questo succo di frutta senza zuccheri aggiunti. Reazione alla ricomparsa di Gassman: faccia come se il chiuaua le stesse finendo sotto un treno e poi l'urlo liberatorio con manina sulla bocca: "Papppppààààà!!!!".

Brevi comunicazioni: Serafina, la segretaria sopraffina (Piera degli Esposti). Una delle migliori attrici del teatro italiano rimaste vive dopo la dipartita della Proclemer, la Piera, che non ci era affatto dispiaciuta nel ruolo autoironico della vecchia finta rimbambita in Tutti pazzi per amore (almeno nelle tre puntate che abbiamo visto), viene piegata qui al ruolo di segretaria dalla parlata smozzicata (pure lei, si vede che è esigenza di copione), depositaria di parecchie verità sulla dipartita (?) di Edoardo e sul destino dei soldi da lui perduti, che poi perduti non sono, come si evince nell'ultima puntata. È lì così, finta tonta ma senza mordente, pure lei acidella con Chiara, timida e omertosa col capofamiglia, ricattabile, pare, a motivo di certe cose che riguardano la figlia. Diciamo un personaggio da detective story assemblato a tranci.

La compagna di Raoul (Valentina Cervi): diventata, con la defunzione di Edoardo, l'Inutilità fatta donna, costei, sempre per restare ai parametri di Beautiful, è la controparte di Brooke-Chiara, ovvero Taylor Hayes, la remissiva destinata a prenderla sempre in quel posto. Come qui.



REPARTO UOMINI


Stefano detto Calimero brum brum (Primo Reggiani).


Salve, serve un tentato omicidio?

Questo personaggio passerà alla storia come inventore del lavaggio di coscienza omeopatico. Detto che, essendo il cucciolo di famiglia, ritenuto unamimemente una palla al piede da tutti in ditta e a casa, Stefano, piccolo e nero (sul serio), muore dalla voglia di far vedere che è capace pure lui di sfondare, si scopre pian piano che per sfondare ha sfondato davvero, nel senso che, durante una gara di rally su pista, alla guida di un'auto tipo Stunticon dei Transformers, il nostro perde il controllo del mezzo e impatta contro una barriera. A morire però sarà il navigatore suo amicissimo. Solo che a Stefano, cui l'incidente causa amnesia proprio per i minuti in oggetto, fanno credere che alla guida ci fosse l'altro, così, per evitare rimorsi. Ma la dura verità salta fuori e Stefano che fa? Prima scappa di casa sdegnato, rifugiandosi in un pratico pied-à-terre in paese a ubriacarsi di sambuca (comoda la vita del reietto con appartamenti ovunque, eh?)(è questo comunque il più alto momento-Justin di tutta la serie, anche se Justin ha le sue turbe in seguito alla partecipazione alla guerra in Afghanistan)(vabbe', ma l'Italia non ha tradizioni militari, su...), poi riprende gradualmente l'attività nell'officina dell'autodromo, tempestato peraltro dalle telefonate di quella cretina della sorella inquieta che non sa decidersi tra il barone e il cessivendolo. Ma il senso di colpa lo opprime, ogni mezz'ora di episodio lo vediamo portare fiori sulla tomba dell'amico morto piangendo la propria dabbenaggine. La goccia che fa traboccare il vaso è una sessione di videogiochi a tema rally con Ernestino detto Tino: sconvolto da fantasmi e allucinazioni che gli si presentano ad ogni curva virtuale, Stefano molla tutto, torna all'autodromo, infila tuta e casco, ruba un'auto a caso, si lancia in pista come un pazzo mentre sono in corso le prove di altre macchine, fa cappottare un'altra auto, con a bordo un altro suo amico, ma stavolta si lancia a salvarlo, estraendolo dall'abitacolo prima che la vettura esploda, poi tutti e due finiscono all'ospedale. E qui, il delirio: trasportato in barella verso l'uscita del pronto soccorso, con solo una spalla lussata, Stefano incrocia la barella con su l'amico e gli chiede come sta. L'altro, invece di fare ciò che qualsiasi homo sapiens sapiens farebbe, ovvero seppellire di bestemmie colui che l'ha quasi ammazzato, cita IL TALMUD e gli dice: "Grazie, Stefano, mi hai salvato la vita e hai dato un futuro ai figli dei miei figli..." (il tutto con un trauma cranico e tre costole rotte; fosse stato meno acciaccato, gli recitava di fila tutto il sedicesimo dell'Iliade...). Risultato? Fine dei rimorsi: Stefano, appena rimessosi in piedi, va al cimitero, ma stavolta non porta fiori, preferendo accucciarsi vicino alla lapide del defunto e, senza togliere gli occhiali scuri, fumarsi una bella sigaretta liberatoria con sorriso da superbullo. Adesso tutto ha avuto un senso, mi sono riscattato. Come no. Tra un sinistro e l'altro, poi, il piccolo di casa riesce pure a dirigere la sorella scema verso il cessivendolo. Reazione alla ricomparsa di Gassman: faccia del tipo "Ehi, cos'ho sotto al sedere? Ah, ecco dov'era finito il cucchiaio per fare i riccioli col burro....!".


Raoul, detto Il banderuolo (Giorgio Marchesi):

Aspetta, con chi è che devo fingere stanotte?



Il bello e ribelle della famiglia, refratttario alle logiche oscenamente capitalistiche in cui credono tutti, si dedica all'ippoterapia per ragazzi disfunzionali e già che c'è prende in affido un bambino meticcio figlio di madre tossica da allevare con la compagna mai sposa. Sì, è chiaro che questo personaggio è stato messo per solleticare l'ala sinistra del telepubblico. Ma la voce della carne è più forte, si sa, e, a partire dall'aerofragio di Edoardo, Raoul ha solo un'idea meravigliosa in testa: riprendere con Chiara da dove erano stati brutalmente interrotti. Quel buco a forma di zompo rimastogli nel cervello da 18 anni in qua comincia a riempirsi delle più torbide fantasie, tutte concretizzantisi in un solo e preciso luogo: il maneggio dei cavalli, autentico buen retiro neovirgiliano in cui trasportare Chiara e, dopo averle cantato lunghe e melancoliche serenate sulla tirannia del tempo che passa e sulla necessità di cogliere la rosa quando ella è più piena in sullo spino, possederla selvaggiamente per rifarsi degli anni perduti. La patente viscerotonia del personaggio si scontra tuttavia a tratti con i sensi di colpa nei confronti dell'altra, che dalla sera alla mattina diventa Quella di Troppo, per non parlare del piccolo Salvo (tipico nome da meticcio maghrebino), spina nel fianco che rinfocola i sentimenti paterni di Raoul, nonché la sua innata tendenza a prendere la parti dei più deboli. Tenendo quindi il piede in due scarpe, il nostro trascorre cinque puntate sotto la doccia a riflettere e a mostrare il fisico, a fare la morale a Chiara ("Ma che senso ha restare attaccati al passato?") e a tenere in bilico tra convivenza e speranza di matrimonio il rapporto con l'altra, facendole peraltro lo stesso identico regalo di compleanno dell'anno prima (d'altronde uno come Raoul, che voterebbe SEL, mica bada a questi sciocchi rituali consumistici), esplodendo in scatti d'ira per lei inspiegabili, gridando mentalmente "Allelujahhhhhh" quando si ritrova il (falso) cadavere di Edoardo nel laghetto. Tutto questo ondeggiare si risolve all'ultima puntata con l'INASPETTATA gravidanza di Chiara, cosa che parrebbe mettere fine a tutti gli indugi. Peccato che alla fine ricompaia il Gassman. La faccia di Raoul? Del tipo: "Come, il divieto di pesca è stato prorogato? E adesso dove lo nascondo questo storione?" (altri, più carnalmente, mi suggeriscono un più succinto: "Cazzo, no, cazzo, no, cazzo, noooooooooooooo!!!!!").


Brevi comunicazioni: il Capofamiglia (Gianni Cavina) svolge il suo ruolo senza darci soverchio dolore, prevalgono le posture teatrali, ma sempre meglio di quelle da chewing-gum della Felbereccetera. Si vede che per lui ruoli simili sono accademia, era mille volte più originale nel film con Bisio, e questo è tutto dire. Comunque, avercene... (a parte lo scambio: "Sul computer dove c'è quella roba dove dentro ci vanno quelle cose";  Fehlbehrbauhm: "I file?";  Lui: "I file"...).

Il cessivendolo: attore con faccia da schiaffi fuori tempo massimo, andava bene 25 anni fa in Sapore di mare o cose simili (o al limite come membro dei BeeHive in uno dei film di Cristina D'Avena).

Quello che ci prova con Laura: vedi sopra, ma non scendiamo sotto Centovetrine.

Il nerd inverighese: ma per carità...

Ernestino detto Tino: puccioso, carino, tiracoccole, se la cava, un po' come il piccolo dei Cesaroni, ma scommetto la liquidazione di Nicola Porro a La7 che, appena cresce un po', questo qui va a sotituire uno dei figli degli One Direction nel 2023.

COMMENTO POLITICO-ARTISTICO

Perché alla fine uno si chiede che senso abbia avuto tutta 'sta disamina. Pioveva a tal punto a Folgaria che ero chiuso in hotel privo di altro conforto che non fosse il mio tablet? Affatto. Semplicemente, riguardando una cosa di cui conoscevo già (e solo) il finale, ho potuto concentrarmi sugli aspetti squisitamente strutturali della pièce. Poi, ponza che ti riponza, sono giunto alle seguenti conclusioni: se questa serie è andata in onda nel 2012, deve essere stata concepita almeno un anno e mezzo prima, ovvero in pieno dominio politico del centrodestra. Ciò ricade in tutta evidenza sullo script, che vuole dare voce ad un mondo molto in sintonia con l'elettorato imprenditorial-padano di Silviuccio&Umberto. Non più le untuose e bislacche cliniche di chirurgia estetica di Roma, popolate da vedove miliardarie col villone in collina che non hanno un tubo da fare se non piangere e compiangere, da femmine imprenditrici di se stesse e medici bipolari, non più i preti chiamati Trinità che esercitano nella rossa Umbria, non più i commissari-cartoon dal pesante accento siciliano, insomma basta con le tematiche ipopadane. Ecco invece una bella famiglia di mobilieri brianzoli, solidi e onesti imprenditori che piangono a mettere in cassa integrazione i loro operai, gente che lavora sul concreto, che non ha la libreria in casa perché impolvera, con alle proprie dipendenze uno stuolo di nubiani dalla parlata caricaturale tipo Mamy di Via col vento (e fosse solo quello: "Non di sei agordo ghe il gangelo era aberto?", "No, sdavamo fagendo l'amore ehehehe...!!"). Giusto per non cadere sulle minuzie, agli attori è stato raccomandato di lombardizzare il più possibile la pronuncia ("e" tutte aperte, uso alluvionale di "te" invece di "tu" e così via). Tutto bene, per carità. Lo spoil sistem della nostra politica impone le sue ricadute anche sulle fiction: non è una novità, dato che, in piena stagione di centrosinistra al potere, fu concepito Un medico in famiglia, accusato all'epoca dagli osservatori di area berlusconiana di essere la celebrazione dell'ideologia ulivista (padre vedovo che si risposa con la cognata, famiglia allargata, tematiche dell'integrazione, sanità pubblica a fare da sfondo alle vicende...), tutta roba che secondo i predetti critici buttava in banalità qualunquistica e ideologicamente orientata problemi molto più seri. Detto pure che le vicende di Giulio Scarpati & c. non mi hanno mai appassionato, resta che la banalità e il qualunquismo non mancano neanche nella fiction brianzola: potrebbe davvero Edoardo, dotato imprenditore lombardo con accento de Roma, aver frodato la banca di 20 milioni di euro? Ovviamente no. Può Laura la cattolica padana accettare il divorzio? No. Può finire a letto col CEO? Ma certo che no. Può accettare INTEGRALMENTE la gaiezza del figlio? Ni... Può Nico finire davvero a convivere con il suo prof.? Mai & poi mai. Raoul e Chiara? Gente, se c'erano prove inoppugnabili che Edoardo era morto, scusate... Nora, se abbiamo capito bene, ha fatto l'operaia per dieci anni alla ditta e poi il Capofamiglia l'ha impalmata: visto come sono liberal gli imprenditori? Mica badano alle differenze di censo. Alla fine la dimensione narrativa della fiction deve ricondurre tutto nei binari del noto e del rassicurante, in rapporto evidentemente alle aspettative dei padroni del vapore in Rai. Il che, sia che si parli del Medico in Famiglia come di casa Rengoni, conferma ulteriormente che per il nostro intrattenimento vale la regola del Festival di Sanremo: guai a osare. Stavolta si è deciso di usare la misteriosa morte- non morte di Edoardo come spina dorsale thriller-poliziesca attorno a cui far ruotare le prevedibili vicende da fumettone degli altri Rengoni. Risultato: dispersività su tutta la linea. Certo, ci dicono, i dati Auditel premiano sempre questo tipo di serialità. Vero: ma questo non è un buon motivo per non uscire MAI dal seminato. Non ho inzeppato a caso di riferimenti alle serie tv americane l'analisi sin qui spocchiosamente condotta: essi riferimenti non sono volti tuttavia alla solita orgia esterofila di quelli che mio Dio gli americani sì che sanno scrivere le trame. Anzi. Gli americani non sono in nulla più geniali o fantasiosi di noi. Un film divino come La grande bellezza di Sorrentino in USA non sarebbe mai venuto alla luce nemmeno frullando assieme i cervelli di James Ivory, Jane Champion e (parlandone da vivo) Vincente Minnelli. Gli americani non inventano: da bravi discendenti di Occam e Locke, descrivono la realtà senza (o con poche) griglie preconcette; a valle invece, riconducono tutto ai soliti schemi empirici, che però si applicano ad una così grande varietà di situazioni che il rischio qualunquista e ripetitivo smuore senza che uno si accorga. Gli americani guardano le cose di casa loro e le riproducono, facendo agio su un tessuto sociale così complesso e contraddittorio che una trama minimamente originale per qualcosa di nuovo si trova sempre. Non avendo però talento alcuno nel variare sensibilmente il prodotto finito, l'effetto catena di montaggio alla fine si mostra, e scoccia. Ma prima che la scocciatura sia incallita, ecco un nuovo plot, pescato da un altra nicchia di realtà. Così facendo, la serialità oltreoceanina qualche bel colpo lo mette sempre a segno: poi è chiaro, dopo Beverly Hills 90210, ogni serie tv con giovani belli, ricchi e infelici perde il confronto; dopo Dawson's Creek, una cosa come The O.C. pare giusto un sughino ristretto per psichiatri incalliti; dopo E.R. e Grey's Anatomy, Emily Owens è proprio il bigino del pronto soccorso con i casi umani più ovvi. Parliamo di gente che, nello stesso anno, ha mandato nelle sale cinematografiche due pellicole-fotocopia come Armageddon e Deep Impact. Però quei due-tre titoli che rimangono nella storia di ogni decennio mediatico alla fine saltano sempre fuori. Possiamo dire lo stesso delle nostre fiction? Ma il problema è proprio questo: da noi, in ossequio alla legge tutta rinascimentale dell'idealizzazione della realtà bruta tramite le forme dell'arte, le trame devono obbedire a logiche pregresse tali per cui il caos sia sempre ricondotto a ordine. E perché ciò avvenga, bisogna per forza uccidere la varietà dei casi, riducendosi a rielaborare macrostrutture ideologicamente ben riconoscibili (uomini di chiesa, poliziotti, sportivi, politici, medici, imprenditori, stipendiati) sì che il pubblico non corra il rischio di disorientamento. Non dubitiamo che certe trovate made in USA siano a volte surreali, però almeno quelli là tentano. Noi, che avremmo risorse creative da far impallidire questa e quella sponda dell'Atlantico, ci riduciamo sempre alla storiellina rassicurante, che diventa automaticamente perbenista quale che sia l'editore politico del momento. Un'ulteriore spia del feudalesimo che da noi non è mai morto. 

(Ciò detto, quando partono con la seconda stagione, vi promettiamo un'ampia analisi. Ah, non vi interessa? Beh, parola data...)

domenica 15 settembre 2013

I grandi tour culturali di Eligio de Marinis. Machittevòle@festivaletteratura. Siamo tutti Mario Bros.

[Pre-avviso: a tutti quelli che a fine lettura alzeranno il ditino dicendo che la mia ricostruzione del parallelismo videogiochi-cartoni animati è cronologicamente disomogenea, ricordo che i prodotti culturali di un'epoca non vanno mai di pari di passo (letteratura e pittura romantiche, per dire), eppure mostrano ad uno sguardo panoramico ineludibili affinità. Gioiezze e abbraccitudini].  

[Diario del capitano, data astrale 5 settembre 2013]

Saltabeccando tra uno scrutinio settembrino (bocciali!bocciali!) e un puccioso matrimonio, non avremo grandi occasioni di venire quest'anno a Virgiliopoli, nondimeno oggi qualcosa riusciamo a sentire. Mantova è come sempre un crogiuolo di etnie, nel senso che, passeggiando amenamente per Piazza Sordello, odo non solo accenti norditalici più o meno familiari, ma bensì persino invece addirittura gente del sud e pure TEDESCHI in giro con tanto di brochure degli eventi e relativa cartina orientativa. Ora, sarà pur vero che una forte percentuale dei partecipanti al festivàl forse viene più per curiosità che per altro, e magari tra costoro si celano quei famosi italiani che leggono in media meno di un libro all'anno. Però il grosso della gente alla letteratura tiene davvero, vedo in questo momento, negli augusti corridoi che conducono all'aula magna dell'università, individui di età assai diversa che confluiscono e la cosa mi dà un certo piacere. Sì, la quota bimbominkia è rispettata, ne ho giusto tre qui a fianco,  ma...
Comunque, che una città medio-piccola, pur di enorme tradizione culturale come Mantova, riesca anche in tempi grami come quelli odierni a calamitare tutta 'sta gente ad ascoltare scrittori che provengono da dovunque, e parlano di qualunque cosa, permettendo di soddisfare davvero tutti i gusti, io dico che siamo al miracolo. È la prova della tesi che noi pervicacemente sosteniamo almeno dai tempi dell'esordio di Del Piero nella Juventus: non è vero che gli italiani sono tutti ignoranti o non amano la cultura, con la quale al massimo si possono fare i panini, vero Tremonti? No, gli italiani amano la cultura, solo che siano offerte loro occasioni vere e coinvolgenti e non pallosi vernissage i cui protagonisti e relativi ospitanti si parlano addosso, a ribadire che loro sono tanto bravi e grazie al popolo bue che è venuto a sentire, ma tanto non capirà niente. Per fortuna situazioni di questo tipo si verificano di rado a Mantova. Giusto quando un quintetto di boriosi cattedratici ciarlò su Pavese per concludere che "io mi sono laureata nel '70 su questo scrittore, ma a quasi 40 anni di distanza mi  rendo conto che è davvero difficile capirlo, anzi impossibile, l'ho capito solo io, voi ascoltatemi, se ci arrivate"; oppure, presente il giovane 98enne Gillo Dorfles, l'intervistatore che se ne esce con: "Gillo, possiamo dire che oggi, qui a Mantova, ad ascoltare te, ci sia la parte migliore dell'Italia?", come no, il primo leghista di passaggio ti avrebbe replicato: "No, c'è la parte d'Italia che al giovedì pomeriggio può permettersi di non lavorare e venire a Mantova a sentir conferenze!"; o ancora, presente l'ultimo Levi rimasto, Arrigo, il suo dotto interlocutore, il sempre modesto Riccardo Chiaberge, occupa circa un quarto d'ora a dirci di come lui, giovane giornalista pivello ma già pieno di talento, fu assunto a La stampa da Arrigo, e come ci siamo voluti bene, e come ho imparato il giornalismo da lui, e gnè gnè gnè.
Temevo, a dir la verità, che l'ottimo Carlo Freccero, relatore su argomento fiction, cadesse lui pure nell'autoreferenzialità di quello che ha lavorato in modo innovativo e ha capito la tv meglio di chiunque altro, e mi ricordo i miei primi anni a Rete4 ecc. Invece no, di sé Freccero ha detto solo l'essenziale e il vero, ovvero che l'hanno praticamente rottamato. Ciò però è emerso durante un intervento molto coinvolgente, cosa rara quando si legge una relazione già pronta, che Freccero ha detto in esergo essere dedicata soprattutto agli spettatori più giovani. Oddio, visti certi riferimenti 'alti' (Hegel, Lukacs, Propp, il formalismo, lo strutturalismo, l'iperrealismo, cose così...), non so quanti 'giovani' siano riusciti ad orientarsi, nondimeno grazie Freccy, ci sei arrivato. Freccy che ne sa, nevvero? è colui che ha riportato Boncompagni in Rai con Macao, ma sopratutto colui che ama e odia Berlusconi in egual misura, lodandone il mostruoso talento imprenditoriale, da lui stesso sperimentato quando lavorava a Rete4, e deprecandone con gocce di bile che cadono dagli incisivi la parabola politica, condotta a suo giudizio all'insegna di un bonapartismo cieco e psicotico che ha ammazzato la cultura in questo Paese, provocando peraltro la rovina lavorativa di Freccero medesimo. Insomma, un pezzo grosso che conosce altezze e cadute del sistema della creatività televisiva.
La relazione frecceriana ci ha dato novella linfa per portare avanti la nostra idea fondamentale sulla civiltà bimbominkia, ovvero che i nostri adorati Nativi Digitali vivono immersi in un mondo di stimoli che li porta a concepire ogni aspetto della realtà come parte di un gigantesco videogame, videogame che coincide di fatto con la vita stessa. Scopro peraltro che in tempi remoti (anno domini 1947) il filosofo Theodor Adorno, quello di "come si può credere in Dio dopo Auschwitz", scagliò i suoi fulmini teoretici contro, udite udite, I CARTONI ANIMATI DELLA WARNER BROS (Gatto Silvestro, Will E. Coyote, quelli lì, insomma), poiché a suo dire producevano nel pubblico una sorta di anestesia al concetto di violenza: la visione di storie in cui i personaggi si picchiano coi martelli e gli incudini, esplodono con la dinamite, cadono nei burroni, vengono spiacciati a fisarmonica e magicamente subito dopo ritornano intatti come prima, aveva, secondo l'Adorno, l'effetto di neutralizzare la concretezza del dolore e della sofferenza, poiché il bamboccio d'allora veniva portato a concludere che la violenza vera non esiste e tutto si risolve come se niente fosse (se avesse visto anche solo mezza puntata qualsiasi di Ken il guerriero, si sarebbe suicidato...). Il che fa il paio con quella che io e la Spocchia abbiamo ribattezzato: "sindrome del drago Shenron", in memoria del dragone magico di Dragonball a cui si chiede sempre di riportare in vita tutti gli umani uccisi dal cattivo di turno: il bimbominkia d'oggi si illude che, nel suo percorso scolastico, ci sia prima o poi uno Shenron che gli tolga le castagne dal fuoco, ergo lo aiuti, senza alcun merito specifico, ad avere i voti sperati con poca o punta fatica, esorcizzando evidentemente lo spettro dell'esame a settembre o peggio della bocciatura. L'importante è non faticare.
Dimensione cartoonesca e videoludica hanno quindi profondamente innervato gia da mo' il nostro modo di pensare, e noi che siamo cresciuti a pane, Mazinga e Street Fighter 2 lo sappiamo bene; ma, come dissimo già altrove, a noi è rimasta ancora la facoltà di distinguere il momento videogame dalla realtà vera. Se però oggi, ai nativi digitali, ogni occasione massmediatica viene declinata nelle forme del videogame, quale scampo può trovare il bimbominkia odierno?
Questo mi domando mentre Freccy declina l'ottima relazione: veniamo a sapere che nelle facoltà di Scienze della comunicazione americane il libro europeo più letto è la Poetica di Aristotele (Gelmini-Tremontiiiiii, la sentite questa voce????), perché in essa gli sceneggiatori di fiction trovano la base teorica del successo delle fiction medesime, ovvero il fatto di puntare tutto sull'intreccio lasciando perdere sociologismi o psicologismi calati dall'alto, poiché, come insegna lo Stagirita (Aristotele, sempre), il carattere emerge direttamente dall'azione, che è imitazione della realtà, senza bisogno che l'autore avverta il pubblico di questo & di quello; in effetti in tragedia la cosa funziona così (domanda volante: e Dawson's Creek, con le pippe mentali reiterate dei suoi interpreti, allora da dove spunta?); ulteriore struggimento giuggioloso mi addiveniva dal sentire che di là dallo zio Sam i miti greci sono studiatissimi, perché il loro intreccio prevede tutto quanto messo in luce dagli studi proppiani sulle funzioni della fiaba (mancanza iniziale, prove, scioglimento, ecc.), sì che Indiana Jones non sarebbe spiegabile senza le fatiche di Ercole (Gelminiiiiii, are you listening?). E quindi lodi lodi lodi alla narratologia e al suo studio (ok, ma non ai bambini del biennio del Liceo, sennò non leggeranno mai più un libro in vita loro....).
Ma la svolta quando avviene? Avviene, dice Freccy, quando la linearità dell'azione narrativa, con relative funzioni proppiane, si 'smonta' né più né meno come nei videogame: le vicende delle fiction videoludizzanti, che Freccero capostipitizza con Lost e le altre a seguire, sono come partite a scacchi che invitano lo spettatore a vedere e rivedere gli episodi per cogliere cose che magari al primo sguardo non erano chiare; i personaggi sono concepiti come eroi in lotta contro una realtà le cui regole non sono fissate all'inizio una volta per tutte, ma si rivelano man mano che la storia si dipana; essi personaggi sono poi messi in condizione di dover completare livelli narrativi per acquisire capacità via via più ampie che serviranno per gli ulteriori livelli della storia, ovvero per le stagioni successive della serie (e qui non possiamo non citare a supporto del Freccy il fenomeno anni '90 dei Librogame, che mettevano su carta esattamente ciò che avviene nei videogame, ah Lupo Solitario...); non è di fatto prevista un fine alla serie, che virtualmente può aprirsi ad infiniti sviluppi spiraliformi, sì che l'inizio della storia è un puro pretesto, il finale può anche sapere di posticcio, ove esso si riveli, poiché tutto il bello risiede nello sviluppo dell'azione. Freccy, ricicciando i concetti aristotelici di unità di tempo e luogo della tragedia, argomenta che una fiction come Prison Break è di fatto un gigantesco videogame, con un personaggio che ha addirittura tatuata sul corpo la mappa della prigione da cui dovrebbe sfuggire, e quindi la lotta è giocata contro l'unità spaziale, laddove l'angosciosa serie 24 vede i personaggi in lotta contro l'unità di tempo. Si tratta comunque di fiction in cui la storia è un puzzle che obbliga lo spettatore a partecipare attivamente per decifrare, quasi assieme ai personaggi, la situazione entro cui si svolge l'azione (e qui Freccy opina: tipico concetto di apprendimento attivo di scuola Dewey, vero, verissimo, chissà quanti hanno colto l'accenno...). Morale: la fiction italiana, che poi è tutta per Rai1 e Canale5, al confronto è pura preistoria. 
Analisi, come si vede, eccellente. Già certi film d'azione più o meno fantastici o fantascientifici americani, del resto, mostrano una struttura di trama che prelude ampiamente alla loro futura edizione in videogame, con sezioni arcade riconoscibilissime (da Spider Man a Minority Report, per dire...). Non v'è poi chi non veda come il concetto di potenziamento successivo delle abilità dei personaggi e quello di boss di fine livello da superare per accedere al livello successivo abbiano copiosamente innervato di sé le serie dei Cavalieri dello Zodiaco, di Sailor Moon e dei Digimon, tutti cartoni animati prottrattisi per stagioni e stagioni. Tutto si tiene, insomma. Ciò peraltro corrobora tutta la nostra riflessione sul bimbominkismo. Psichiatricamente parlando, già noi alfieri della generazione X abbiamo episodicamente sofferto della cosiddetta sindrome del mondo magico, ovvero di una deformazione mentale nel leggere la realtà che comporta la convinzione che tutto ciò che accade o ci accadrà sia orientabile solo ed esclusivamente secondo i nostri desideri, così che magicamente i momenti di opposizione dialettica con persone, cose ed eventi si risolveranno con la 'nostra' vittoria. Tale forma mentis, che io e la Spocchia conosciamo fin troppo bene (ah ah, sei pazzo, sei pazzo!!)(e quindi? verità e bellezza si nascondono dietro le pieghe della follia)(che cretino, si risponde da solo...)(ok, chiudiamola qui...), si concreta in una 'storia' che prima o poi deve vedere la fine; il mondo magico di estrazione videoludica, teoricamente, non dovrebbe finire mai, perché ad ogni livello ne seguirà sempre un altro, ogni episodio di Call of Duty non è mai quello definitivo, poiché io giocatore so che i produttori hanno pronta una nuova edizione, con nuove abilità da acquisire e potenziamenti vari da sbloccare. La qual cosa potrebbe forse parzialmente spiegare la da noi più volte denunciata bidimensionalità fantavirtuale che caratterizza il modo bimbominkiesco di rapportarsi col mondo esterno: i videogiochi di oggi hanno appunto la tendenza a proporre una realtà fantastica senza fine, in cui certo la violenza è ridotta a puro gioco (Call of Duty, appunto), e difatti sappiamo di ragazzi che vandalizzano cose e persone giusto perché secondo loro la loro vita non è altro che estensione  di quella dentro cui giocano quando accendono la PSP. La spirale vince sul cerchio, ma soprattutto il diaframma tra finzione e concretezza si sbirciola, sì che la concretezza si fa finzione e viceversa.
Vorrei quindi registrare almeno tre tappe dell'evoluzione videoludica a sue relative ricadute: i primissi-issi-issimi videogiochi d'azione dell'evo moderno (Pac-Man, Donkey Kong, Burger Time) avevano come caratteristica la proposizione di un'avventura abbastanza statica, con un crescente livello di difficoltà, senza che fosse prevista una fine. Più si era bravi, più si imparava a scansare i nemici e completare il livello: l'abilità progressiva era tutta, per così dire, del giocatore, mentre il personaggio guidato rimaneva sostanzialmente uguale a se medesimo, senza potenziamenti di sorta. Notevoli poi le varianti come Pitfall, in cui il simpatico eroe doveva attraversare caverne & oceani per giungere da qualche parte, ma in genere per completare l'avventura e riprenderla daccapo, magari coi nemici più veloci. Sono videogiochi che noi abbiamo appena annusato, perché eravamo piccini all'epoca della loro uscita. Videogiochi, mi permetto di osservare, sovrapponibili alle avventure virtualmente infinite dei cartoni di Hanna e Barbera (o ancora WB), sì che ad ogni episodio Yoghi e Bubu avevano il loro daffare ad interagire col ranger e con varia gente umana e animale a Yellowstone; non c'era tuttavia la prospettiva di un'evoluzione dei caratteri, né l'ambiente dell'azione conosceva significative variazioni. Finché c'era materiale da sceneggiare, bene, poi chissà. Direi che nella loro prevedibie circolarità, cartoons e videogiochi di questo tipo impedivano automaticamente l'immedesimazione dello spettatore, che coglieva senza dubbio il limite metafisico tra la propria vita reale, basata su una decisa varietà di situazioni, e la stereotipezza (o stereotipitudine) di gente che continuava a schivare barili scagliati da uno scimmione ubriaco fino allo sfinimento.
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La seconda generazione di videogiochi, grazie anche alle maggiori possibilità offerte dall'evoluzione della tecnologia informatica, presenta storie più o meno concluse (Mario Bros, Shinobi, Ghosts 'n goblins con uno sviluppo che prevede anche l'acquisizione di abilità progressive tramite oggetti (i funghetti, i fiori del fuoco, l'armatura,  i poteri legati alle diverse armi, ecc.). In parallelo a questo sviluppo noterei il fiorire dei cartoni in cui, bene o male, un cenno di sviluppo pur nella prevedibilità della trama è presente, così come l'evoluzione delle capacità dei protagonisti. Certo perché ciò avvenga bisogna uscire da Yellowstone e andare in Giappone a vedere Mazinga (e Goldrake, e Jeeg, e Gordian, e Vultus 5, e Golion.....) che, dopo millemila scontri con mostri meccanici di ogni tipo, salva definitivamente la Terra (passando da Z a Grande, of course, poi ci hanno spizzato pure Mazinkaiser, ma siamo in altre epoche). Il versante splatter è tutto appannaggio di Kenshiro coi suoi guerrieri sempre più forti e sempre più asfaltati, fino allo scontro finale col cattivone Raoul. Sul versante rosa, compaiono simpatiche bambinette munite di bacchetta magica che fanno tante cose buone ai loro fantastici amici, tutto in episodi in sé conclusi, inseriti però in una trama generale che comporta momenti evolutivi da una bacchetta all'altra (Creamy, Evelyn) o addirittura interessanti approfondimenti che la personaggia principale esercita su se stessa (Magica Emi, con May che a fine serie decide di rinunciare ai poteri magici per fare prestidigitazione a livello 'umano' come i suoi amici del Magic Arts). Sailor Moon, s'è detto, implementa con situazioni di lotta contro il male e sviluppo di poteri delle ninfette in più serie che guarda già alla fase successiva. Quanto ai Cavalieri dello Zodiaco, che risalgono a fine anni '80, quindi prima di Sailor  Moon, vediamo brava gente che sviluppa poteri sempre più ampi contro avversari sempre più forti, poi sarà la bulimia anni '90-2000 a estendere le avventure a prima (Episode G, The Lost Canvas) e dopo (saga di Artemide, saga di Apollo) la situazione di base. Qui assistiamo al trionfo del mondo magico cui anche noi dobbiamo molto, poiché, tendenzialmente, l'accrescimento delle proprie doti mira ad una conclusione abbastanza definitiva (espressione sciocca, ne prendo atto), nella fiducia che le traversie dei buoni abbiano prima o poi fine e non debbano riprendere da capo. E che i cattivi, che sono sinceramente ed inconfondibilmente tali, vengano debellati una volta per tutte. Non posso negare che la fruizione reiterata di queste storie abbia esercitato, su ingenii particolarmente porosi (il tuo, ad esempio...)(ma che ne sai?)(solo il fatto che ti dai ragione da solo...), una certa influenza e abbia predisposto a episodici momenti di sviluppo di una concezione del reale un pochino giocattolosa (un pochino? ha detto un pochino?)(pazzo, pazzo...)(zitti, ordine nell'aula da me presieduta!), tale per cui le persone a noi avvverse diventavano i cattivi da abbattere, mentre a noi spettava la ricerca indefessa di una sorta di codice di attivazione per generare nuovi poteri in grado di superare le situazioni avverse. Lo so, lo so, è successo. Eppure non si è mai frantumato il diaframma cui accennavamo. Perché? Sia perché va bene essere stupidi, ma scemi no, sia perché le storie cartoon-videoludiche in oggetto, proprio per la loro conclusività circolare (il buon vecchio Jeeg) o limitata serialità (i buoni vecchi Mazinga Z - Grande Mazinga - Goldrake, sì, era il terzo capitolo della saga, ma in Italia ci hanno fatto credere il contrario) si rivelavano per ciò stesso 'altre' dalla vita vera, in cui, come si capisce, nessuna situazione esistenziale è conclusa una volta per tutte.
Cominciò poi la moda dei videogiochi non solo 'lineari', ma 'multidirezionali', quelli cioé in cui, accanto al filone principale dell'avventura, si sviluppavano sotto-giochi o andavano cercati schemi-bonus segreti, magari girando su e giù per mezz'ore intere lungo un livello già visitato ad libitum in cerca di quel passaggino o di quell'oggettino che era sfuggito. Super Mario World per Nintendo 16 bit ne è un esempio eloquente. Ed ecco profilarsi l'idea del gioco infinito, che chiede continui ritorni sul già visitato e pazienti composizioni di puzzle per risolvere vicende parallele a quella che richiede il semplice arrivo in fondo al gioco  (Donkey Kong Country, per dire...). Il salto definitivo si ha con l'ingresso dei giganti Sony e Microsoft che, sviluppando sistemi di console dalla memoria extra-ultra espansa, creano avventure mostruosamente lunghe, serialmente inesauribili, articolate lungo catene di sviluppi, potenziamenti ed enigmi, giocabili online con sterminati per quanto ignoti co-concorrenti. La serialità cartoonesca si accoda, con realizzazioni che sono di fatto videogame a disegni animati (i Pokémon, Yu-gi-oh),  in cui in effetti una storia non c'è, sostituita da una serie interminabile di scontri che preludono ad altri scontri. In altri casi la storia è una palese successione di 'missioni' (Naruto), o più semplicemente una riproposizione ad sfrangendas pilas di un unico cliché (Dragonball, Dragonball GT, Dragonball Z, Dragonball gné gné, ecc.). Di evoluzione in evoluzione, il personaggio offre allo spettatore l'illusione della inconsistenza dei confini tra vita e gioco, perché queste storie, esattamente come la vita vera, non hanno fine o, come nel caso degli indecifrabili manga giapponesi di ultima generazione (Neon Genesis Evangelion, I Cieli di Escaflowne e strazi consimili), sono enigmatiche e provocanti nel loro ansiogeno parlar per allegorie, nell'assenza della distinzione netta tra buoni e cattivi (Nerv vs Seele), evocando proprio per questo una dimensione problematica ed irrisolvibile che prolunga nel cartone la quotidianità delle inquietudini del fruitore. Ed è da questo livello, come Freccero ha saggiamente colto, che pesca la fiction americana d'oggi, aliena ormai tanto dalle storielle ad episodi in sé conclusi (ah, Mary Tyler Moore, ah, I Jefferson, ah, Star Trek...) quanto da quelle più articolate, ma fondamentalmente lineari (ah, Beverly Hills, ah, Streghe...). Trionfa il multiverso di Lost, True Blood e gioiezze varie. E soprattutto, lo spettatore bimbominkia è circondato ovunque da scenari di mondo magico INFINITO, infinito però NEL BENE E NEL MALE, che lo convincono senza possibilità di fallo alcuno che la storia inventata e la vita vera valgono uguale. Alla base dell'anestesia emotiva dei nostri Nativi Digitali, però, resta un paradigma che abbiamo conosciuto noi per primi, ma che a loro ha provocato danni enormi: Pitfall o Mario o Sonic cadono in un buco, ma poi il gioco ricomincia e loro sono lì dov'erano; oggi il personaggio videoludico, quale che sia il tasso di sfiga e/o incapacità di chi lo guida, può addirittura 'salvare' la sua posizione su cartuccia, così da essere eternamente riattivabile (vedi alla voce Rei Ayanami); come il povero coyote che si friggeva la testa nel tentativo di bloccare lo struzzo e poi tornava come nuovo. Credo che la faccenda si possa condensare proprio in questo dettaglio: siccome tutto ricomincia, tutto si può riportare all'ultima posizione utile salvata, anche il dolore degli altri, sia che lo si infligga o che semplicemente vi si assista, è un episodio che si può cancellare per sovrascrivervi altro. 'E vabbe', gli passerà,', pensa il Nativo Digitale "è la sua vita [leggasi= la sua partita], non posso mica intervenire...".  Idem per il dolore che gli altri ci infliggono. Se il fidanzatino tradito uccide la sua ex, o il padre uccide i figli avuti dalla ex moglie, lo fa per 'salvarsi' una posizione più conveniente nella mappa della sua esistenza, una posizione in cui LEI, così disturbante nel suo rifiuto, non deve più comparire. Gli infiniti schemi offerti dal videogame dell'esistenza consentono di resettare il proprio profilo per crearne uno migliore, con gli add-ons giusti e senza le penalità che tanto hanno ostacolato la risoluzione del livello.
Tutto ciò, insomma, è la riprova tragica che l'evoluzione dell'uomo nella sua componente artificiale muta in modo grandioso ma terribile anche i suoi connotati psicobiologici. Eppure nessuno vorrebbe rinunciare al progresso; ma c'è chi da questo progresso viene psicologicamente travolto. E la storia continua.