Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 7 febbraio 2020

Sanremo 70 (#2): il baratro quantistico

Dunque, premesso che

  • giocare ai piccoli statistici facendosi belli del 53% di share "inferiore solo a quello dell'edizione 1995" non conta per Sanremo: si tratta di una liturgia laica e lì valgono solo i valori assoluti, e i valori assoluti sono 9 milioni ieri sera e 18 milioni nella stessa sera di 25 anni fa. Stop;
  • il look dei Ricchi e Poveri era un pugno nella retina; mai visti colori abbinati peggio;
  • Angela Brambati aveva gli occhi spaventosamente iniettati di sangue;
  • le labbra di Marina Occhiena si muovono indipendentemente dalla volontà della padrona;
  • non c'era bisogno di questa reunion in playback
  • Massimo Ranieri e Iron-T mi facevano tanto festa nonno-nipote,
singolare il fatto che lo stesso conduttore in grado di far venire giù mezza Italia di polemiche per fotomodelle che fanno passi indietro sia lo stesso che fa fare passi avanti in TV ad una che non ha altro merito tranne quello di essere, diciamo, assieme a CR7. Perché sotto sotto il messaggio sembra sempre quello: brave, intelligenti, preparate, quello che volete, ma se siete sul palco è merito di qualcosa d'altro. Infatti le magnifiche 7 manco le hanno fatte cantare, rimandando tutto all'Evento di settembre. Ma non lì.



La voluttà distruttrice che sembra alla base dello screenplay di questa edizione si dispiega in una serie di cover AGGHIACCIANTI, tutte riletture ritmico-melodiche in grado di ammazzare il fascino dell'originale, segno evidente che, proprio nel 70esimo della ricca manifestazione, l'intento è quello di fare piazza pulita del passato.  Dimenticate le passate glorie, ci stanno dicendo: prendiamo gente giovane che canta da vecchia canzoni che hanno fatto la storia del Festivàl e del costume e facciamo in modo che sembrino tutt'altro. Svuotiamole di tutto, facciamole sembrare buttate lì per caso, sganciate dalle atmosfere storico-esistenziali in cui furono concepite. Abbiniamo cantanti improbabili con testi e musiche del tutto inadatte a ciascuno e vediamo come viene.



Ebbene sì: un Festivàl volutamente random. Per dirci che non abbiamo più un orizzonte. Forse è il segno della nostra entrata definitiva nella Terza Repubblica. I Sanremi primorepubblicani (1951-1993) riproducevano ciò che il Paese voleva vedere; quelli secondorepubblicani (1994-2017) hanno cominciato a vedersi erodere il ruolo di santuario della musica dalla concorrenza prima di MTV, poi di internet poi dei talent show e tuttavia hanno provato a replicare. Con un prezzo: quando le edizioni facevano il boom, era più merito dei conduttori che delle canzoni (cfr. le edizioni 1995, 1999, 2000, 2005, 2013, 2016); adesso vediamo uno show che esibisce in ogni momento la consapevolezza della propria inutilità. Sembra davvero di vedere la vecchia signora descritta da Pirandello ne L'umorismo: truccata come un pagliaccio, forse desiderosa di mentire a se stessa sull'età per tenersi stretto il giovane amante, suscita prima un avvertimento, poi un sentimento del contrario e, più che ridere, mette tristezza. Ecco: Sanremo è uno show inzeppato di ggiovani, ma va in onda in un Paese che sta invecchiando paurosamente. Non si capisce a cosa serva, insomma.



Tutto annacquato, come il Cantico dei Cantici in bocca a Benigni, trasformato in una specie di Imagine di John Lennon di 2400 anni fa (d'altronde per Benigni Paolo e Francesca sono come Romeo e Giulietta). Arriva lui con la versione hard del testo biblico. Come no. Praticamente come trasmettere la sigla di Baywatch in un ospizio.
Del resto l'abbiamo visto anche con l'ultima, tragica trilogia di Star Wars: tre episodi che non hanno fatto che ricicciare tutto quello che si era già visto, con il risultato che i "vecchi" fan hanno avuto un travaso di bile ogni cinque inquadrature perché si vedevano macchiati i ricordi di gioventù, mentre i "nuovi" hanno assistito ad una specie di videogiochino sciapo senza particolari meriti in rapporto al bombastico battage che ha preceduto ogni release.



E' un po' quello che succede dentro ai protoni: un quark può tentare di allontanarsi dagli altri, ma appena ci prova entra in scena l'interazione forte che, come un guinzaglio, lo riporta alla base. L'odierno Sanremo, come tanti prodotti pop emanati dal sistema post-moderno, prova a spingere, ma è vincolato a tornare dove tutto iniziò. L'interazione forte del pop è la ricerca del riassicurante ripetersi dell'identico. Il problema è che, al momento, non si capisce più a chi sia destinata questa ripetizione. Il quark non ha bisogno di chiedersi cosa e perché lo agguinzagli ai suoi colleghi. Noi, simpatici esseri costituiti da 5.9 x 10^28GeV, vogliamo invece che il pop si sguinzagli. A meno che non sia arrivato al suo limite naturale e sia costretto a replicarsi senza sbocco. Come a Sanremo70.

mercoledì 5 febbraio 2020

Sanremo 70. Versione biblica.

Premesso che:

  • non ho visto la prima serata perché impegnato in gradevole cenetta;
  • la conferenza di presentazione, al netto di quel ridicolo "passo indietro" evocato dal dott. Sebastiani, era già da latte alle ginocchia in quell'inutile profluvio di "bella, bella, bellissima", detto di ognuna delle co-conduttrici (dico io, sai bene cosa ti chiederanno i giornalisti, inventati due righe per ciascuna no?);
  • quando il predetto Sebastiani alloquisce con ugola tonante, mi ricorda troppo il compianto Vittorio Salvetti
  • l'assolo della Jebreal ha fatto il suo;
  • Riki Markuzzoh ha steccato;
  • Tiziano Ferro ha buttato cuore e vari organi interni nell'eseguire la canzone di Mia Martini, e si vede (e si sente) quanta sofferenza sua personale c'era nel poter gridare quell'almeno tu di fronte all'Ariston tutto, ma Almeno tu nell'universo è e sarà solo di Mimì, con buona pace di Elisa & tutti quelli che l'hanno coverizzata;
ebbene, detto ciò, il profilo sanremico del septuagesimo pare già delinearsi come un curioso finto-salto-in-avanti che in realtà occhieggia al glorioso passato RAI, pur nell'abile rimescolamento dei contenuti.


Detto più casarecciamente, non sfugge a nessuno che, fin qui, Amadeus sta funzionando più o meno come un vigile che smista il traffico, ma il palco è tutto dei co-conduttori (Fiorello, il già citato Iron-T, la Rula ecc. ecc. ecc.)(anche di quelli non ingaggiabili: "Se Fabrizio Frizzi fosse ancora qui, il Festival di Sanremo quest'anno l'avrebbe condotto lui"... ah lo sai...)(a prescindere dal look friccicarello di Achille Lauro ecc. ecc.. ecc.): obiettivamente, questo Sanremo Ventiventi è una poli-conduzione che alterna più protagonisti a guidare la carovana, mescolando musica, momenti super-comici, momenti super- patetici, insomma di fatto mai come quest'anno il Festivàl è uno spettacolo di varietà con le sfumature più cangianti (basti pensare che la categoria Big stasera non è ancora entrata in gara, e siamo, al momento in cui dottamente scrivo, alle ore 21.43). Non esiste una sola "trama" della serata (le canzoni, le giurie, i look delle cantanti), ma tanti fili che si succedono nella totale diluizione del conduttore che, dalle vette baudesche in cui lo spettacolo era cucito addosso al suo auriga, ora si limita a "subire" la presenza dei co-conduttori che si è scelto lui stesso. 


Rimane il fatto che in Riviera stiamo assistendo a qualcosa di vecchio e nuovo allo stesso tempo: il varietà "tutto di tutto" non può non ricordare i vecchi Fantastico degli '80 (vedere qui, e poi qui, ma pure qui)(non con conduttori così diluiti però)(e Fiorello, tra il droghismo e il plastichismo, rischia di essere the new Grillo di quella volta là); la novità è che la musica è pressoché assente, o meglio c'è ma passa via. Non solo perché i big entrano in scena all'ora in cui la brava gente molla tutto e apre Netflix, ma anche perché sotto sotto tutti sanno che il Festivàl è ormai da una buona decina d'anni niente più che una Champions League dei vincitori dei talent show, con qualche imbucato (o qualche mummia)(o qualche Junior Cally giusto perché se ne parli) così per fingere che tutto sia come una volta (questa una volta)(pardon, intendevo questa). Sanremo è cioè ormai un evento secondario, che esiste perché esistono altri programmi che gli forniscono materiale: una volta passare da Sanremo era una tappa obbligata per chi voleva fare il pieno di vendite grazie alla vetrina nazionalpopolare da 15-20 milioni di spettatori. Oggi si può al limite passare anche da Sanremo, ma senza quell'idea di liturgia laica di un tempo: gli spettatori medi per serata sono "solo" 10 milioni (ricordate questi qui? Con loro l'ascolto medio di quel mercoledì di febbraio del 1995 raggiunse i 18), una parte dei quali seguono lo spettacolo solo per commentare sui social, un'altra orecchieggia distrattamente i pezzi per decidere cosa risentire nel caso su Youtube, un'altra ancora mette su Rai1 giusto per avere un sottofondo mentre naviga su Instagram; e così avanti. Morale, gli intenzionati ad acquistare il CD di uno di questi quanti sono? Cioè, per chi veramente si allestisce il carrozzone sanremico? Per quei quattro aficionados stretti nelle ormai striminzite transenne davanti all'Ariston?  




Ecco perché in casa Rai hanno deciso di ibridare Sanremo con i varietà del tempo che fu. E quindi anche gli artisti in gara escono il meno possibile dal seminato, perché sanno che è già difficile tenersi stretti i fan attuali, figurarsi se conviene cercarsene di nuovi con qualche scelta avventurosa. Si dirà che questa è la solita critica di immobilismo che si muove al Festivàl da almeno 50 anni. Il fatto è che una volta il Festivàl era sempre uguale, ma pur sempre baricentrico. Oggi è simile a quei pranzi di Natale dove si va giusto perché ci mancherebbe altro, ma a parte qualche parente con cui magari si fanno due risate per poi non rivedersi nei prossimi 12 mesi ("ma come sei simpatico, dai non facciamo passare un altro anno, eh....??"), il pensiero è sempre a quando si partirà con la cumpa per il Capodanno in chalet ("Lì sì che ci si diverte...").