Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

martedì 26 novembre 2019

Pietro Ichino sulla Brexit: cronaca di un rigore a porta vuota (per noi).

Interessante disamina su alcuni aspetti non collaterali dell'ormai stracca Brexit ci viene elargita in un articolo a quattro mani (due delle quali appartenenti al giuslavorista- ex sindacalista- scrittore e opinionista Pietro Ichino) pubblicato sul glorioso megafono della buona borghesia italica con sede in via Solferino a Milano. 
Dicono Ichino e il suo attaché che uno dei lati di gran lunga più deprimenti della Brexit è il drammatico impoverimento del discorso politico e civile che l'evento ha snudato in Angliaterra. Stupisce, capiamo dalle righe ichiniane, che la patria del Parlamento lungo e corto, gente che ha decapitato i suoi sovrani con un secolo e mezzo di anticipo su Lady Oscar, gente che ha la politica attiva e passiva nelle vene da tempi remoti, in anni in cui i nostri scrittori dovevano rifare tre volte un romanzo per riuscire a farsi capire da tutti gli alfabetizzati della penisola (cioè da pochi), stupisce insomma che PERSINO in Inghilterra un argomento non proprio semplice come la Brexit sia presente nel dibattito pubblico soprattutto in una serie di slogan fritti e rifritti (leave the EU, take back control!, deliver a clean Brexit, out means out!), e che di fatto quasi nessuno dei sudditi dell'Eterna sia in grado di sostenere un'argomentazione minimamente articolata pro o contro l'uscita.


L'Eterna

Tutto si riduce a qualche tweet, come da noi. Ma noi, si sa, siamo les Italiens, i perenni immaturi della politica; sono quasi trent'anni, ci sentiamo dire da mezza Europa, che abbiamo affidato le chiavi del vapore ad una serie impressionante di imbonitori mediaticamente efficaci, ma incapaci di cambiare davvero le sorti del Paese, ecc. ecc. Adesso salta fuori che gli inglesi sono messi, se non peggio, perlomeno come noi.
Ovvove.
Noi, si sa, siamo abituati a veder polarizzare piattamente l'opinione pubblica su qualsiasi cosa, che si sia pro o contro la Juventus, i sacchetti di plastica maggiorati di prezzo al supermercato, Berlusconi, Milly Carlucci a Ballando con le stelle, la fecondazione assistita, il sovranismo, la cipolla nell'amatriciana, e si sa che da non meno di trent'anni il grosso dei nostri giornali e tivvù ama soffiare sul fuoco della polemica di pancia per agitare le acque, senza mai proporre un vero sforzo di sintesi tra gli opposti opponenti. Noi, di fatto, abbiamo ormai la vista talmente annebbiata dal diluvio di bias cognitivi inoculatoci dal sistema informativo e (cough cough) culturale che ci pare quasi strano che la nazione modello di ogni libertà costituzionale (gente che ha la BBC che ringhia ai polpacci del potere, noi abbiamo emittenti pubbliche e private inzerbinite di default) ci sia d'un colpo diventata così simile. Dice Ichino che i media inglesi, salvi rari casi preferiscono la drammatizzazione all’informazione, cosicché il Paese di Beckham è piombato in un’interminabile lotta tra Montecchi e Capuleti. Ovvove.
La disamina rotola quindi prevedibilmente sulla mesta osservazione che quanto accade di là dalla Manica ci dovrebbe servire da lezione al di qua, perché da più di due anni ci tocca sorbirci i giri di valzer di un leader acchiappa-sondaggi (ho il vago sospetto che parli di Salvini) che dice sempre una cosa e il suo contrario e nessuno gliene chiede conto. Del resto l'opinione pubblica ormai a tutte le latitudini guarda ai lati frivoli della vita dei leader, senza badare al succo delle loro proposte. Elementi, questi, che danno il passo della crisi della democrazia tradizionale.




Osservazioni, nella loro sostanza, che non aggiungono nulla rispetto alle pensose riflessioni sulla deriva della politica terrestre che sentiamo fare da un po'. E' in effetti un altro il momento della disamina ichiniana che ci ha fatto sorridere amaramente: dice l'esimio giuslavorista che per affrontare questioni complesse come la Brexit è necessaria altrettanta complessità: Occorre confutare costantemente le soluzioni semplici proposte dalla parte avversa, affrontando la fatica di comunicare la complessità a un’opinione pubblica distratta, il che si ottiene quando si hanno media veramente indipendenti e soprattutto un’opinione pubblica in qualche modo interessata a fare le pulci ai politici sulle cose che contano, non sui pettegolezzi da bar o da spiaggia.

Ecco. 

Caro Ichino, tutto vero tutto bello, ma possiamo chiederci da dove arrivi questa (apparentemente) improvvisa botta di superficialità degli inglesi? Peggio ancora: a partire da quando quelli là hanno disimparato a ragionare complesso? Si potrebbe fare il battutone e dire: "A partire da Guglielmo da Occam", ma la cosa è ben più seria. Quello che vediamo avvenire oggi oltremanica non è che l'ennesima coda di quel processo di rimbecillimento collettivo in atto da decenni, uno dei cui cardini è - indovina un po', Pietro? - la costante procedura di disavvezzamento al pensiero complesso (ovvero astratto) in nome di altre scale di valori cognitivi e pratici. 




Suvvia, Pietro, sai bene, e lo sai da quando noi eravamo ancora impegnati ad imitare il tiro ad effetto di Oliver Hutton, che è da non meno di 40 anni che un certo sistema mediatico-ideologico demonizza una certa regione del vasto mare degli studi possibili e- indovina un po'? - la regione incriminata è quella degli studi umanistici. Figurarsi se in un mondo dominato dalla tecnologia potrebbe ancora avere senso perdere tempo sui classici del pensiero, peggio ancora se letti nelle loro noiosissime e magari morte lingue originali (latino e greco brrrrrrrrrrrrrrrrr); macché: riduciamo tutto alla didattica del fare, diceva gente ostile bipartisan a quel mostro chiamato 'tradizione occidentale', fatto di assurde chiacchiere filosofiche, poemi lunghi o brevi che altro non sono che piagnistei di innamorati friendzonati o sciocche esaltazioni di valori defunti. Abbattiamo tutto, dicevano, svecchiamo la didattica, adeguiamola ai tempi.





Bene: adesso che anche Ichino se n'è accorto, vogliamo dire una buona volta che adeguare i contenuti della didattica a questi tempi significa fare l'esatto contrario di ciò a cui la scuola è chiamata? Inseguire la rivoluzione digitale digitalizzando i contenuti e trasformando tutto in piattaformina, ricerchina, dibattitino, rigettando i ragionamenti alti, gli studi pesanti, la fatica del costruire giorno per giorno un grande edificio di conoscenze, unico vero presupposto per lo sviluppo delle competenze, porta esattamente lì dove sta portando oggi gli inglesi: di fronte ad un caso pratico complesso, l'incapacità di ragionare complessamente in astratto, drammaticamente sostituita dai compitini empirici legati ad un unico risultato concreto, rende del tutto inermi. Non esiste abilità pratica complessa sganciata dall'abilità ragionativa altrettanto complessa. Conoscere a menadito le regole del testo argomentativo o del debate, e magari saper ammannire un prodotto in  power point  senza avere argomenti da inserire nell'argomentazione (o contenuti da inserire nel prodotto), è pura assurdità: io posso sostenere la mia tesi, e confutare quella altrui, io posso convincere gli altri della bontà del mio prodotto solo se la mia tesi o il mio prodotto sono frutto di conoscenze ampie e articolate che so rapportare in modo solido e approfondito. Usiamo la tecnologia e avvaliamoci delle nuove didattiche purché queste non ci costringano volare basso, appiattiti sul concreto, sullo spendibile, sull'immediato. Tutto si può concretizzare, spendere, immediatizzare, purché abbia fondamenti solidi e non si pretenda che i contenuti delle discipline umanistiche siano ridotti a pilloline effervescenti da sciogliere alla bisogna.   
Non siamo più noi a chiedere questo: è il dramma dell'istupidimento collettivo a obbligarci a rimettere la barra a dritta (e un po' anche a te, Pietro caro, che nello stesso blog ospiti questo e allo stesso tempo quest'altro). Chi non vede ciò, e continua a ciarlare di scuola fuori dal tempo senza mai averci messo piede, poi non si lamenti se la gente ragiona per pacchetti di frasi fatte e vota in base a quello che legge su Twitter.

domenica 24 novembre 2019

Visti per voi: "Miserere", quando trionfa la privativa del dolore.

Eravamo a Trieste senza bora, con un tramezzino sullo stomaco a cena (e sarde in saor + frittura mista FRESCA a pranzo), gli occhi pieni degli splendori di palazzo Sartorio e Museo Revoltella (ANDATECI!!!): restava da digerire il tramezzino. E a Trieste, scoprimmo, ci sono qualcosa come QUATTRO cinema in circa 250 metri. Città sublime.
Fatta la rapida cernita, decidemmo ovviamente di farci del male scegliendo il cinema monosala intitolato a Federico Fellini, dichiaratamente cinema d'essai. E come ci insegna il Maestro, tra l'essai e l'assai il salto è breve, quindi ci sedemmo assai speranzosi in sala (comodissime poltrone peraltro, appena nei cinema di Brescia mi mangio le ginocchia tutte le volte...), pronti ad assistere ad una cosa dal titolo promettente: Miserere. Non ho capito per che motivo, ero convintissimo che si trattasse di un filmone francese à la manière de Samuel Benchetrit (tipo questo... brrrr), a ciò indotto dalla faccia da dottor Morte del protagonista stampata sul manifesto.



Invece era molto di più, molto meglio e molto peggio.
Molto di più, perché il tasso di sfigaggine dei personaggi del film di Benchetrit è qui tutto riunito nell'unico, titanico protagonista, un uomo capace di far intristire un charter intero di Patch Adams con un solo sguardo.
Molto meglio perché, rispetto alla trama squagliarola del film francese di cui sopra, qui la storia procede serrata, gelida, angosciante, fino al botto finale.
Molto peggio, perché la storia dell'anonimo protagonista (NESSUNO dei personaggi della pellicola ha un nome proprio, il che la dice lunga) uccide discretamente la fiducia nel genere umano.
Ma tant'è.
Siamo in Grecia, e siccome il film è d'essai ci godiamo la versione in lingua ORIGINALE NEOGRECA con sottotitoli, apprezzando la cadenza tombale dell'idioma dei discendenti di Omero, Pindaro e Sofocle. C'è quest'uomo, che di professione fa l'avvocato, in gocciolante depressione perché la moglie è in coma in seguito ad un'aggressione o giù di lì. Nel chiuso della sua cameretta, il tapino piange, comprensibilmente costernato, ma nei suoi rapporti con gli altri esibisce al contrario una freddezza disperata (o disperata freddezza) che si mischia, pare di capire, ad un sotterraneo compiacimento nel venire commiserato da tutti, dalla vicina del piano di sotto, che si è messa a preparare una torta a settimana e viene fatta aspettare apposta davanti alla porta nonostante abbia suonato il campanello, al proprietario della lavanderia che, straziato al vedere la massa di abiti luttuosi portati a lavaggio ("i medici hanno perso le speranze, sa..."), decide addirittura di fare sconti al tapino (roba tipo da 42 a 20 euro IN GRECIA, ridotti alla fame come sono...). Al treno si aggiungono il padre, che normalmente, come si deduce più avanti nel film, non si fila mai di pezza il figlio, poi la segretaria poco espressiva ma tanto abbracciosa (da cui lui adora farsi abbracciare pur mantenendo la faccia tapina) e l'amico della spiaggia. Tanto per essere allegri, il tapino ha preso in carico il caso di un omicidio ai danni di un anzianotto la cui figlia e il cui genero sono tanto disperati, e in qualche modo gli fanno da pietra di paragone per attapinarsi vieppiù.



Sta di fatto che la trama si svolge tutta stampata nell'immutabile faccia da funerale del protagonista, che addirittura, quando gli eventi prendono una certa svolta (sorry, no spoiler here...), non aggiorna la frequenza della tristezza, anzi quasi si dispiace di non poter più farsi commiserare e cerca quindi di tener viva la fiamma di morte della musoneria (ecco spiegato l'abbandono in mare della cagnetta, dichiarando però di averla persa nel bosco, per cercare compassione da parte del padre che invece gli volta le spalle)(ecco spiegato il quasi-stalking con la vicina del piano di sotto, che ha smesso di sfornare torte)(ecco spiegata la richiesta all'amico della spiaggia di avere una simpatica - e illegale- bomboletta di gas lacrimogeno da far scoppiare in studio giusto, per piangere un po'...)(s'era detto niente spoiler)(ok). Finché, per essere sicuro di farsi compatire usque ad consummationem vitae, il tapino prende la decisione estrema. D'altronde è uomo di legge, saprà come cavarsela. 
La storia è scioccante dall'inizio alla fine, mai del tutto prevedibile, nonostante il ritmo sia inevitabilmente funereo non ci si annoia, forse perché la media attesa dello spettatore medio (anche al cinema d'essai) si attende sempre la svolta in storie del genere. Certo, non questa svolta.




Niente da dire sull'attore, perfettamente calato in una parte non facile. Sceneggiatura ottima, direi, se ne sapessi qualcosa, ma mi fido di chi ne sa. Saremmo in Grecia, ma le luci in tutto il film sono fredde e taglienti, anche quando il tapino è in spiaggia.
Mi stupisce semmai il fatto che il film mi arriva in tackle su un post a cui stavo lavorando e che adesso sviluppo qui...
[Agganciamento!!!][ahhhh....]
E' da un po' di tempo che mi interrogo su un problema che rampolla dalla lettura di certi classici latini. Ci sarebbe una commedia di Terenzio (II sec. a.C.) nella quale un tizio vede il suo vicino di casa spaccarsi la schiena di lavoro 24/7 e non capisce perché, allora glielo chiede. L'altro gli ribatte chiedendogli a sua volta per quale motivo gli interessino la vita e la sofferenza di un uomo che conosce appena, al che il tizio predetto ri-ribatte con una frase divenuta celebre, in quanto costituisce il fondamento di tutto l'umanesimo occidentale e anche un po' più in là: homo sum, humani nihil alienum a me puto ("sono un uomo, non ritengo che nulla di umano mi sia estraneo"). Entra in scena, letteralmente, l'idea di empatia, di condivisione emotiva basata sul riconoscimento dell'altro in quanto persona come me, quindi strutturalmente degna di compassione & comprensione. Roba nota, si dirà, ma per l'epoca era un discreto siluro all'idea che prima venisse il cittadino e poi l'individuo.
Ecco, il film di cui sopra mi pare l'esatto rovesciamento del paradigma terenziano: "Sono uomo e voglio che tu mi compatisca perché se io soffro è giusto che debba soffrire anche tu, ma soprattutto solo io sono degno di compassione e fuori dalla bolla del mio dolore non ne esiste uno paragonabile. Tu dunque, finché sarò infelice io, non potrai mai avere diritto ad una felicità tua. Ma soprattutto, non aspettarti mai che io compatisca per qualche motivo te".



Si dirà che questo è un ritratto abbastanza corrispondente al tipo (o a uno dei tipi) del cosiddetto vampiro emotivo. Può essere. Ciò che però mi colpisce del vampirizzamento emotivo non è tanto il desiderio insaziabile di essere compatito, ma l'incapacità assoluta di compatire a propria volta. Il fatto è che questo secondo aspetto del carattere dei cosiddetti vampiri emotivi è in realtà comune anche a gente che vampira non è: ci sono persone che non chiedono di essere compatite, ma piuttosto ritengono di passare o aver passato tali e tante disavventure (vere o presunte, s'intende) da sentirsi in diritto di non concedere a nessuno non solo la compassione, ma nemmeno l'ascolto. Delle monadi assolute.
Questa tipologia di individui mi addolora ancor più dei vampiri emotivi, perché si chiude totalmente sulle proprie esperienze pregresse e non sente altro; è come se il loro Io fosse regolato su una sorta di 'frequenza' del dolore che provoca sordità rispetto a tutte le altre. Non li sentirete mai dire: "Nessuno mi capisce", perché non sentono il bisogno di essere capiti. Casomai, qualora provaste a manifestare un vostro qualsiasi disagio, la loro risposta standard sarà: "Ma cosa vuoi che sia, con quello che sto passando/ ho passato io...". A differenza degli individui privi di empatia, che neanche si accorgono che un altro soffre, costoro sono piuttosto sono auto-patici: si accorgono che l'altro soffre, e probabilmente capiscono anche la sofferenza, ma non sentono il bisogno di ascoltare o aiutare a lenirla. Ma anche quando non la capiscono, non lo fanno per incapacità: sono, come dire, già saturi della propria e non hanno spazio per quella altrui.



Il che obbliga naturalmente ad almeno una distinzione: un conto sono gli individui reduci da un dolore recentissimo e devastante, che come feriti gravemente non possono guardare fuori di sé perché devono anzitutto guarire sé medesimi. Pretendere da costoro che si accorgano anche del dolore altrui, in questa fase, è in effetti troppo. Certo, il tapino del film di cui sopra estremizza fino a metà film questa condizione: passi la momentanea interruzione del'empatia, difficile accettare la pretesa che il proprio dolore vada ad infettare la serenità degli altri, perché si presupporrebbe che tutti gli altri siano felici tranne me che soffro, quindi è giusto che, nel compatirmi, soffrano un po' anche loro. Niente di più egoistico.
Altra questione, tuttavia, è quella che si pone quando le cause e gli effetti del dolore, stoicismo alla mano, dovrebbero essere estinti da mo': sempre stoicismo alla mano, dopo un certo tempo, la ferita dell'anima si rilassa e anche se il rammarico del dolore passato rimane, l'assenza delle medesime circostanze che l'hanno prodotto dovrebbe consentire di ri- connettersi al mondo, esattamente come una ferita rimarginata non si riapre se uno non si taglia di nuovo. Qui però l'individuo auto-patico cade catastroficamente e, pur avendo (forse) elaborato a sufficienza la sofferenza passata, la ritiene così oltre rispetto a qualsiasi sofferenza altrui da non giudicare quest'ultima degna delle benché minima attenzione. Il che, finché si è tra pari, è già negativo, perché di fatto si ammazza l'empatia, ma l'altrui sofferente si suppone abbastanza maturo da riuscire a farsi una ragione dell'indifferenza dell'interlocutore auto-patico e abbastanza scafato da cercare qualcuno che sappia cos'è la comprensione. Il dramma vero è quando c'è una relazione asimmetrica, ad esempio quella genitori- figli: è evidente che un adulto non può accettare come dotate di fondamento tutte le lamentele di un giovane, ma dismettere regolarmente ogni segnalazione di disagio con la formuletta: "Eh, ma io alla tua età... con quello che ho passato... ma di cosa ti lamenti...?" è un modo eccellente per distruggere le relazioni. Io credo che non ci dovrebbe mai essere una hit parade del dolore: ogni dolore è dolore della coscienza individuale, dipende anche dalle circostanze storiche e biografiche del sofferente, nel senso che ad età diverse possono esserci scale di dolore diverse. Si può anche ritenere il dolore altrui meno grave del proprio, ma questo fatto non è di per sé sufficiente a dire che l'altro non soffre o non merita comprensione e/o aiuto, né tantomeno compiacersi segretamente del fatto che "soffri un po' anche tu come ho sofferto io, così vedi come si sta". Purtroppo l'individuo auto-patico fa proprio tutte queste cose, e difficilmente dubita di essere in torto. La domanda è appunto: si può regolare la frequenza del dolore di costoro per, diciamo così, abbassarla e renderla psichicamente meno assordante, cosicché riescano una buona volta a sentire il dolore degli altri? O si deve essere costretti ad 'alzare' la propria frequenza, rischiando però di teatralizzare la sofferenza e renderla bombastica e quindi ancor meno convincente ai loro occhi? O si deve rinunciare?
E' il problema delle relazioni affettive monodirezionali in cui il monodirigente non si accorge di monodirigere senza MAI ricevere in cambio. Oddio, che poi, ricevere in cambio quel che dà il tapino del film... magari anche no...