Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 11 settembre 2015

Machittevòle@festivaletteratura: Salvatore Settis e Carlo Ginzburg, ovvero l'arte di NON parlarsi addosso

Lietamente ci abbluppammo alla Basilica palatina di Santa Barbara per sentire due capoccioni, Settis e Ginzburg, appunto, dialogare sull'ultimo libro del Ginzburg ("Paura, reverenza, terrore") e dell'articolo che il Settis scrisse poco fa, credo sul Sole24ore, sul libro del Ginzburg. Roba di storia dell'arte, vedremo.
Dobbiamo pur premettere, benché non avessimo dubbi, che la coppia Settis-Ginzburg è stata MAGISTRALE e non tanto e non solo per le cose dette, alcune delle quali veramente complesse, ma per il modo in cui le hanno poste all'affollata platea santabarbaresca. Per adusa consuetudine italica, come insegna il teorema di Sommersmith, quando ad un'occasione pubblica sono presenti a condurre intellettuali in numero superiore ad uno, finisce che i tizi in questione si dimentichino totalmente di chi hanno davanti ed inizino a parlarsi addosso, cantandosela e suonandosela, e come siamo bravi, e quante ne sappiamo, ma che intelligente che sei tu, no sei più figo tu, gesù, ma davvero siamo davanti a quersta platea di burini?, ecc...
Ecco. Settis- Ginzburg, dall'alto della loro altezza, potevano. Ma non hanno fatto, anzi hanno offerto un duetto spettacolare per capacità comunicativa al pubblico e interazione reciproca. I due si conoscono da mo', ci pare di aver capito, almeno dai tempi della Normale di Pisa, si stimano, ma ovviamente non sono d'accordo sempre su tutto. E si è visto e sentito. Mai, però, con l'impressione che i due avessero preso Santa Barbara come il piedistallo della loro sovrumana contezza delle cose di cultura e approfittarne per fare a gara a chi era più bravo. Di ciò va dato loro atto, perché il rischio era grosso.
Sui contenuti del duetto, molta roba, ma pochi appunti nostri, anzi nulla proprio, vista la precaria condizione in cui ci trovavamo (per il resto invece siamo di ruolo) (molto, ma molto LOL) ovvero in piedi appicciati al fonte battesimale d'ingresso assieme ad altre cinque persone (blasfemia, blasfemia_!!)
Comunque, tutto nasce da un libro di Ginzburg in cui il predetto si lancia in ardimentosi collegamenti tra opere d'arte che uno non si aspetterebbe, cogliendo analogie e memorie non così scontate e che tuttavia mettono perlomeno in discussione le categorie acquisite. Vi era che Settis, recensendo il volume, aveva parlato di qualcosa come improbabilismo, ma non certo per inficiare la qualità del lavoro del collega, quanto per ribadire che il metodo ginzburghiano di accostare opere d'arte è la prova che non bisogna mai fermarsi alla superficie dei fenomeni nell'analisi ed è necessario lasciarsi provocare dall'opera d'arte e non recepirla passivamente, anzi servirsi di tutti gli stimoli che essa ci comunica.
E il discorso vola, con le affusolate dita settisiane che fendono l'aria per collegare fisicamente concetti astratti e la parlantina ginzburghiana che gusta ogni nozione fornita col piacere di uno chef che spiega come nascono le sue creazioni, e si arriva, zompettando zompettando, alla Pathosformel, ad Aby Warburg, a Darwin che cita Reynolds, a Curtius col suo "Letteratura europea e medioevo latino", all'importanza dell'immaginario tradizionale anche in contesti nuovi (tipo statue pagane usate per le processioni religiose sudamericane nei tempi che furono)(mi spiace, sto andando a memoria) insomma a discorsoni elevatissmi, il cui sugo, volendo succingerne uno, è l'importanza del codice artistico, il fatto cioè che chiunque, anche l'artista più  originale che sembra tirar fuori le sue opere là dove prima non esisteva nulla, lavora sotto condizionamento di modelli più o meno consci e più o meno stratificati nel tessuto storico-culturale in cui vive, sì che si attesta come sempre l'esistenza di 'blocchi' testuali (siano essi letterari o visivi) da cui nessuno può prescindere, ma che solo l'artista con la A maiuscola sa rielaborare per dare vita alla bellezza irripetibile.
La prova certamente più eclatante di ciò, almeno a seguire l'ottima disamina ginzburghiana, sarebbe nientemeno che "Guernica" di Picasso, che come ogni pivello dell'Accademia sa bene è un pugno nello stomaco di opera che difficilmente sembrerebbe dipendere da qualcos'altro, visti lo svolgimento e la tecnica compositiva. Ecco, Ginzburg opina che Picasso possa invece dipendere da un quadro di Lebrun del 1797, raffigurante l'uccisione di Gaio Gracco, ma soprattutto che la disposizione delle figure segua l'andamento del fregio continuo (mi riprometto di ritrovare nel libro l'osservazione esatta, ma siamo lì).
Bum. Cioè: su cosa sia originale Picasso ci arrivano più o meno tutti, ma che egli possa dipendere ANCHE da modelli artistici così lontani, apparentemente, da lui, non è così scontato. Ma è la sfida di Ginzburg, che per il Marat morente di David risale alla statua di Pierre Legros il giovane raffigurante San Stanislao Kotska morente, custodita a Sant'Andrea al Quirinale, che per i manifesti in cui un ceffo più o meno ceffo indica lo spettatore dicendo "Vogliamo te!", oppure "Uccidete" (sottinteso gli ebrei, roba se ho capito bene della propaganda nazista in Ucraina durante l'occupazione del 1944), insomma roba simile trova alla radice il Cristo benedicente di Antonello da Messina e relativo pentimento proprio nella raffigurazione dell'indice.
Cose cosi', insomma. Certo, come ha acutamente osservato una membra del pubblico, il dialogo tra i due ha sfiorato il tema annunciato, ovvero il rapporto tra iconografia e potere. Se ne e' parlato, ma piu' che altro per naturale emanazione dal dialogo tra i due. Intendiamoci, a due cosi si perdona tutto: la padronanza della materia, la gioia nel comunicare il sapere, la disinvoltura nel semplificare il complesso senza banalizzarlo..... questo vuol dire essere gente di cultura. La pienezza di sé, ovvero la consapevolezza di quanto si sa e si può comunicare, non diventa narcisistico compiacimento, o se pure si stavano autocompiacendo, non si è notato. Difficile credere che  il Ginzburg guardasse sopra la folla per cercare il contatto con gli angeli: gli piaceva proprio discutere con Settis e condividere col pubblico.
E Settis, a metà incontro, graffia come solo lui può: Aby Warburg enucleò i primi fondamenti delle sue teorie estetiche sfogliando libri a Firenze; oggi la biblioteca nazionale fiorentina non può garantire consultazioni e prestiti fino a che non arriveranno i volontari del servizio civile. Ecco, dice Settis, in Italia, mentre si afffidano a stranieri le direzioni dei musei, si chiudono le biblioteche pubbliche. Applausi.
Applausi anche a due che hanno evitato la peste nera degli uomini di cultura dello Stivale: lo snobismo.