Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

martedì 27 maggio 2014

Europa, Europa!


La carne al fuoco messa dalle elezioni europee è tantissima, al punto che ieri sera abbiamo iniziato e corretto almeno 5-6 volte l’inizio del post. Adesso, a bocce ferme, comprese quelle della Minetti, che finalmente è uscita di scena, dobbiamo riassumere le cose così come paiono a noi. Partiamo dal cerchio esterno ad entrare progressivamente nei cortili di casa nostra.  

1) Europa. Tutti se la cantano e se la suonano; i tedeschi, fieri e tronfi del loro primato, rifiduciano Merkel e compagnia, per far sapere a tutti noi poveracci mediterranei che a loro piace così. Ecco dunque che va profilandosi una situazione che fa tanto impero di Carlo V d’Asburgo il quale, pur disponendo teoricamente di un dominio immenso e destinato a schiacciare chiunque, finì per abdicare, fiaccato da molteplici fastidi interni ed esterni. E’ da tempo, perlomeno dai gloriosi giorni dellariunificazione della Tedeschia, che ci sentiamo dire che un cuore teutonico forte al centro d’Europa avrebbe finito per costituire un problema per tutti gli altri; l’egemonia tedesca, che per fortuna non si esplica più a colpi di carroarmato, prende oggi le forme di una leadership economica totale, ciò per cui a tutti noi scolaretti indisciplinati toccano traumatiche politiche di austerità e riforme ammazza-mercato e ammazza-famiglie. Ora però sembrano riproporsi le condizioni che uniche nella storia hanno sempre fatto tracollare le ambizioni germaniche, ovvero l’accerchiamento, o se si preferisce la congiura della solitudine: quando i termini dello scontro diventano Germania vs Resto del Mondo, fatalmente si avverano per i panzer le più cocenti sconfitte. Orbene, con una Marine Le Pen al 25% e un’Inghilterra a guida anti-Euro, fossi Frau Merkel comincerei a farmi due domandine: la Germania rischia di trovarsi padrona unica di una casa vuota, perché se d’un colpo i più “pesanti” azionisti del consesso europeo si defilano, l’economia tedesca finirà per ammutolire, sempreché non defunga l’Euro prima. Di certo, si paga pegno ad una stagione di politiche volte soprattutto a punire i Paesi poco virtuosi invece di aiutarli a rialzarsi, ma siccome il mondo è uguale dappertutto e l’umano spirito è sempre fermo all’homo homini lupus, difficilmente posso de-convincermi che gli amici tedeschi non abbiano anche approfittato della congiuntura attuale per farsi soprattutto gli affaracci propri, spacciandosi però come i pensosi e calvinisti rieducatori dell’Europa allegra. Basta però poco, e dalla cattedra si viene sbalzati prima ancora di essersene accorti. Si badi, è dal 1789 che tutto ciò che di nuovo spira in Europa nasce in Francia: tra rivoluzioni, Napoleoni, moti insurrezionali assortiti, fino al maggio rovente 1968, è dalla terra del brie che è sempre partito l’incendio. Vietato quindi sottovalutare l’exploit di Mme Le Pen: se in Francia è stato decretato l’atto di morte del feudalesimo, nessuno stupore di trovare, dalle parti di Place Vendome, anche il mausoleo dell’Euro.  

2) Italia, sezione scontri epici. Bomba. Era dai tempi d’oro della DC, dicasi anni ’50 del secolo scorso, che un partito non si spazzolava dal tavolo elettorale il 40% dei consensi. Certo, che sia tornata la DC resta un filino difficile: semmai il Pd ha svolto a questo giro il ruolo di contenitore trasversale di voti interclassisti, detto evidentemente che, per avere preso tutta quella roba lì, il Renzi-team deve aver pescato nel bacino standard degli statali, ma anche in quello degli autonomi e degli industriali. Una grossa fetta d’Italia ha detto a Renzi: “Avanti, provaci tu”, e onestamente non credo c’entri quella miseria degli 80 euro in busta. Gli italiani non si comprano con così poco. Gli italiani, popolo moderato da sempre, hanno semplicemente deciso che il cartoon-style di Renzi è, ad oggi, l’unica prospettiva appena appena praticabile in un deserto post-ideologico che solo pochi esaltati hanno pensato davvero potesse essere occupato e usucapito da Grillo e dal M5S. Davvero avremmo consegnato all’Europa l’immagine di un Paese guidato da un comico, capo a sua volta di una manica di bulletti indisciplinati che hanno scambiato la rabbia per l’esperienza politica che non hanno? Davvero potevamo retrocedere ai guasti della democrazia diretta, che non ha funzionato ai tempi dell’Atene classica, dove andava peraltro tutta a modo suo, figuriamoci oggi? La democrazia in cui la pancia del popolo diventa il metro assoluto di ciò che è giusto? Suvvia, la culla della democrazia, in nome di queste follie, si è giocata, perdendola, una guerra quasi trentennale con Sparta, esaurendo se stessa in una stagione di rappresaglie, amnistie, condanne di filosofi indegne di un faro della civiltà quale Atene ha saputo essere per non meno di 50 anni. Ma i tribunali popolari via web non sono forse l’estremo crossover 2.0 tra le Vespe di Aristofane e 1984 di Orwell? La più bieca demagogia, orchestrata ipocritamente da uno che fa soldi coi click degli utenti del blog e poi spara a zero sul capitalismo, e tutti a difenderlo perché “sono soldi che si guadagna lui, mica li ruba allo Stato”… e con ciò? Se il giochino dei banner cliccati che fanno soldi è una bastardata, non potremo parlare di soldi rubati, ma certo un sottile furbizia non manca. Ma ora gli occhiacci caronteschi e le sbavazzature lentamente smuoiono, nel termitaio impazzito nessuno sa più che dire, la buzzica dell’interno 57 che si smalta le unghie sul balcone ogni venerdì sera, il Brucaliffo, per tacere del nostro adorato Dibba, l’uomo immagine della chiacchiera, tutti loro scoprono che la ricreazione è finita e che il NO radicale e ottuso a tutto non porta da nessuna parte, perché la democrazia è e sarà sempre sottile arte del compromesso; qualsiasi altra opzione non può semplicemente chiamarsi democrazia. Una cosa però i pentastellati hanno imparato velocissimamente in un anno e poco più di permanenza nei Palazzi, ovvero il disprezzo per chi non li vota: già alle prime proiezioni di ieri, quando il ventilato sorpasso sul PD era ormai chiaro equivalesse al peto di una drosophila, Travaglio ha cominciato a berciare di un risultato figlio della vigliaccheria degli elettori stronzi, degli italiani sciocchi che privilegiano l’ossequio al sistema piuttosto della salutare carneficina grillesca; mano mano poi che Renzi prendeva il largo, ecco le sempre più sobrie prese d’atto della débacle da parte dei grillini, su tutte la foto del Dibba che gira sul web, con la scritta: “Non vi meritiamo, ragazzi; avete lottato come gladiatori; l’Italia preferisce la disonestà al posto dell’onestà”. E qui, il solito, storico equivoco della cattiva politica italiana, generalmente patrimonio della sinistra: chi mi vota è una creatura superiore al resto dell’umanità, chi vota “quegli altri” è per forza di cose un incivile. No, cari miei: l’elettore si rispetta SEMPRE, anche quando non si esprime a vostro favore. Questa storiella della differenza ontologica tra chi vota 5stelle e “tutti gli altri”, manica di pecore priva di senso critico e strutturalmente indegna di esistere, è il modo migliore per alienarsi i consensi, oltre che puzzare di sinistrismo lontano un miglio.

3) Italia, sezione briciole frizzanti: fa senza dubbio tenerezza Salvini, col suo grugno da bulletto di quartiere sempre pronto a provocarti per prenderti a pugni, fa tenerezza dicevamo il suo giuggiolarsi tutto per il ridicolo 6% preso dalla Lega, “il quarto partito d’Italia”. Senza dimenticare che “padroni a casa nostra”, sì, magari prima prosciughiamo il Mediterraneo e poi se ne riparla. Matteo caro, tu, che pure hai fatto il classico, il Manzoni di Milano che io conosco per esperienze di tirocinio, hai appreso così poco dai tuoi docenti da non ricordarti che lo spirito dell’Europa è sempre stato l’inclusione e non il contrario? Qui non c’è da abbandonarsi al solidarismo informe e cieco della sinistra, c’è da prendere atto che le porte del mare che bagna l’Italia e l’Europa non sono serrabili, e che tutti i nostri sforzi vanno indirizzati a coinvolgere l’Europa tutta, che su questi argomenti fa ipocritamente il pesce in barile. Dalle coste africane e mediorientali arriverà SEMPRE gente, fattene una ragione. E’ il filtro che va attuato, non il bombardamento dei barconi. Offrire una speranza si può, ma non da soli.    

La tranvata di Forza Italia è tutta nella faccia immobile, e non c’entra il chirurgo, della Santanché su La7 e di Toti da Vespa. Due perfette marionette senza più copione che non siano le solite solfe preparate dagli spin doctor del partito (“la riforma del Senato c’era già, ce l’avete affossata nel 2006”, “Berlusconi è stato massacrato”, ecc.), che però non cambiano la sostanza di ciò che vediamo; ancora una volta, in assenza dell’energia pneumatica berlusconiana che li riempie, gli esponenti di questo partito, e lo dico col rammarico di chi ci ha creduto fino all’altroieri, sono dei gusci flosci. L’espressione da Topo Gigio di Toti, poi, è impressionante: dietro quella mimica facciale che non conosce increspatura, dietro le parole pronunciate con la verve metallica di una fresa per unghie, dietro le orecchie abbassate da cucciolotto e il precoce prolasso dei tessuti tra il naso e la bocca che fa tanto futuro Sanbernardo, vediamo l’estinzione di un’idea, idea che di base non era male, e lo penserò sempre nonostante il disastro provocatoci dalle riforme Gelmini, idea però che si è concretata in un’azione politica fumosamente indistinta, dove troppo spesso non si è capito dove stava il confine tra pubblico e privato, e dove soprattutto si è creato ad un certo punto un clima da corte persiana, nella quale le favorite del satrapo hanno raggiunto posizioni di potere altrimenti impensabili in rapporto alle loro effettive qualità.

Ma tutto passa. Come passa Scelta Europea, extended version di Scelta Civica, ovvero del più snobboso tentativo di far politica che si ricordi in Italia, roba che al confronto Cola di Rienzo era Che Guevara. Questo movimento di puzze sotto il naso, salito in campo quasi per fare un piacere all’elettorato, costituito da eccellenze così eccellenti da dimenticarsi di sentire gli umori della gente e su quelli modellare la proposta, decidendo al contrario di proporre idee che erano giuste proprio perché le proponevano loro e basta, ebbene questo movimento si riduce ora ad un prefisso telefonico, e non poteva essere altrimenti. Sia chiaro, il narcisismo è componente imprescindibile di ogni sano populismo politico: io aspiro a fare il leader perché piaccio e so di piacere, ed in questo Berlusconi e Renzi sono davvero padre e figlio. Ma il politico narcisista deve perlomeno convincere la platea votante che il suo Ego ipertrofico non gli impedisce di volere ANCHE il bene degli elettori, che saranno pure emanazione della sua volontà, ma almeno sentono di contare agli occhi del Capo, o aspirante tale. I montiani no, a partire dal Padre Nobile, narcisizzano, ma ti fanno capire che di fatto tu li voti senza essere degno dell’eccellenza che loro ti mettono a disposizione, di fatto loro si sporcano a compromettersi con te, ma tant’è, il mondo ha bisogno di loro, je tocca; e difatti non li vota più nessuno.

Quindi, Matty, hai già capito dove voglio arrivare, vero? Adesso hai pure la legittimazione popolare di un voto che il PCI di Berlinguer poteva solo sognarsi, anche perché tu con quel partito non hai nulla a che spartire. Immagino le bamboline voodoo che saranno state impiegate a casa Bindi e a casa D’Alema per impedirti di vincere, ma tu sei più forte della magia nera, pare. E allora, tu che hai esordito nella tua avventura premieratizia al grido di “ridiamo dignità alla scuola”, adesso passa ai fatti: non c’è bisogno di giubilare la Giannini, ma i margini di manovra per sanare le ferite più atroci dell’azione gelminiana li hai tutti; dunque, porta il numero massimo di alunni per classe delle superiori a 22, sbullona l’obbligo delle 18 ore per cattedra e scendi anche solo a 17+1, rinuncia DEFINITIVAMENTE alla tentazione del liceo quadriennale, rinsangua i ruoli degli insegnanti con gente under 40, abbatti la distinzione tra organico di diritto e di fatto, aggiorna gli organici docentizi fermi da tre anni ad un numero ridicolo, ridai speranza e dignità a chi crede in un mestiere come fosse una missione. Altrimenti sai dove andranno i voti di Spocchialand alla prossima tornata, vero?

giovedì 15 maggio 2014

Exposizione al ridicolo

Abbiamo avuto la fortuna, o la sfortuna a seconda dei punti di vista, di essere adolescenti ai tempi di Tangentopoli (la Prima Tangentopoli, The Very Beginning Of The Tutt) e di assistere al crollo di un sistema che tutti credevano immarcescibile. I Nomi Che Contavano finirono in un calderone letamoscopico che segnò il crepuscolo delle divinità italiche.



Forlani, per dire, il quale usava fare lunghe passeggiate dal centro della natìa Pesaro alla spiaggia, venendo fermato & omaggiato da famuli adoranti, si trovò, in quelle scomode estati tangentopolizie, a venir bersagliato da "ladro!", "buffone!", esclamati con vigore sdegnato da quegli stessi che fino all'anno prima gli aprivano la strada a colpi di lingua.
  
A quell'epoca, secondo l'elementare criterio di giustizia che muoveva i nostri timidi giudizi sintetici a posteriori, ci pareva di assistere all'inevitabile contrappasso dagli altari alla polvere di chi per decenni aveva usato e abusato del ruolo pubblico per farsi molto più spesso gli affaracci privati, o perlomeno fare la cresta ai guadagni della politica per incamerarne, diciamo così, la plusvalenza. E il centro di questa fogna era Milano, quella che per tutti gli anni '80, ai nostri occhi piccini, era la mitica Milano da bere dello spot dell'amaro Ramazzotti, la Milano dei rampantini, cioè degli yuppies (ovvero gli hippies riconvertiti), dei paninari, certo anche la Milano dei cartoni animati che andavano in onda da Segrate, una Milano in cui noi mettemmo piede per la prima volta in assoluto il giorno dell'Immacolata Concezione del 1989. E fu subito Piazza Duomo, un freddo boia che ci costrinse a chiuderci alla Rinascente in cerca [sic] di una calzamaglia che ci salvasse dall'assideramento [un punto di rosso de-li-zio-so...], e poi la libreria Rizzoli in Galleria; e non, come i nostri affezionati lettori penseranno, per buttarci in cerca di romanzi francesi dell'800 o rare copie di saggi su Eschilo: eravamo ancora giocattolosi, e andavamo pazzi per i Librogame.
Milano, comunque: il Duomo che in quel disgraziato gelo si ergeva come una piramide di sabbia e vapore contro un cielo di immutabile grigio. Nessuna poesia, nessun abbandono estatico metatemporale: conobbi la capitale morale d'Italia come capitale del freddo più freddo che abbia mai sentito.
"Vabbe', è finito l'amarcord?".
Solo per dire che la Milano che vidi io, e di cui capii pochissimo, era in bilico su una cicatrice e non lo sapeva ancora: da un mese esatto era crollato il Muro di Berlino, ma nessuno ancora aveva nemmeno lontanamente intuito le smisurate conseguenze storiche di quell'evento, lo tsunami che di lì a nemmeno cinque anni avrebbe annientato un'intera classe politica e un'intera fetta della storia repubblicana. Gli scricchiolii del sistema, se non di quello politico tutto, almeno di quello locale, si sarebbero forse potuti avvertire e tenere nel debito conto all'indomani del lunedì nero del 1987, allorché la crescita inarrestabile del mercato borsistico milanese conobbe il suo primo, vero drammatico stop di tutta l'epoca post-bellica, ciò per cui nel giro di una giornata patrimoni azionari cospicui divennero carta straccia e il mito dell'Albero degli zecchini d'oro di collodiana memoria si sbriciolò, portando via con sé vagonate di illusioni, soprattutto dei risparmiatori medio-piccoli che si erano fidati ciecamente di gatti e volpi ben più lesti a uscire dal gioco prima della catastrofe.
Ma per lo yuppismo furono comunque dolori. Lo stesso anno, manco a farlo apposta, la milanesità incarnata in politica, dicasi Bettino Craxi, veniva sbattuto fuori dopo 4 anni da Palazzo Chigi con nessun'altra motivazione se non "Adesso tocca a me" detto da De Mita (sisivabbè, anche Renzi con Letta, sappiamo, sappiamo...). Milano stava perdendo e si stava perdendo, ma non vedeva.
E poi la storia proseguì. Ma la Milano plumbea di quell'Immacolata postberlinese si nutriva ancora di luci forse già spente, come quelle delle stelle più lontane che si sono già estinte, ma per i noti effetti legati alla distanza in anni-luce sembrano a noi brillare nei cielo. Forse aveva intuito, ma non voleva vedere, perché quella quinta teatrale e bausciona era l'unico contrafforte che ancora teneva compressi dietro di sé i miasmi di stagioni passate che nessuno voleva più rivivere. Poi fu Tangentopoli e ora di nuovo TangentopolExpo (sì, perché poi è all'Expo 2015 che arriviamo, che credevate?). E il difetto capitale di Milano, almeno ai miei occhi, e parlo degli ultimi 30 anni, è proprio questo: voler sempre dimenticare troppo in fretta.
L'italico spirito, per carità, è quello che è, ma i fatti degli ultimi decenni a Milano ne mostrano forse uno degli aspetti più deprimenti: questa operosa città ha vissuto una delle sue stagioni più buie negli anni '70, quando tra bombe, attentati del più vario genere, contestazioni, disordini di piazza, gambizzazioni di giornalisti e altro, la vita scorreva ogni giorno sotto il crisma della più assoluta esasperazione (poi vabbè....) La svolta di inizio anni '80 avvenne forse sin troppo velocemente: la grigia città dei regolamenti di conti ideologici a colpi di pistola si trasformò nel Giardino delle delizie della New Age consumista e godereccia, eccessiva e spendacciona, modaiola e cocainomane, in ciò magistralmente trainata da una classe politica arrivista e senza freni. E mentre il futuro fondatore di  Forza Italia faceva nascere quartieri residenziali e TV commerciali con pari slancio, un'intera stagione di sangue e cenere pareva consegnata all'oblio. Troppo oblio, ci permettiamo di dire; e i campi di tensione che non si volevano più tenere in conto restarono lì, ma a che prezzo li si poteva ignorare? Al prezzo della Gioia A Tutti I Costi, dell'esibizionismo più sfrenato, volgare ed arrogante, in una ricerca spasmodica del meglio che esigeva per forza il sacrificio dei deboli sull'altare della volontà di potenza dei forti. Non che magicamente le sperequazioni sociali fossero evaporate, ma semplicemente il loro senso più acuto era stato narcotizzato dall'illusione del benessere alla portata di tutti, sì che i protestatari dal capello lungo, da motore del rinnovamento, o presunto tale, furono relegati al ruolo di abbaianti disturbatori di un nuovo corso di fighetteria e infallibile soddisfazione del desiderio. Fu questa la stagione in cui molti ex uomini da corteo si convertirono al vangelo socialista craxiano, che di socialista aveva ormai ben poco, e approdarono al porto della politica cool. Un cool che esibì ad un certo punto il conto, e che conto: per garantire davvero il Bengodi a uomini, donne e cani, bisogna saper bengodere e propria volta, e per bengodere ci vogliono i soldi, e per avere più soldi del bengaudente che ti sta a fianco ci sono molti modi, ma il più veloce è senza dubbio la tangentina. Questo fu per tutto il decennio, ma anche prima e anche dopo, il cemento che teneva insieme il muro divisorio tra l'età della gioia e il passato buio delle bombe. Cemento che venne ad un certo punto a mancare, sostituito dal fango. E poi il Pio Albergo Trivulzio, ovvero il sassolino che provocò la valanga, quindi il Dies irae  del pool di Mani Pulite e tutto il resto noto a chiunque. Milano ri-cadde in ginocchio, scoprendo, o decidendo di scoprire, quanto insensato irrealismo aveva ammantato la sua vita per 15 anni, l'irrealismo di una fiaba che equivaleva a scopare la polvere sotto il tappeto. E oggi, dopo 20 anni in cui lo Stivale pare aver girato a vuoto, ancora tangenti, ancora i nomi che già allora furono protagonisti dello scandalo (e due anni fa, comunque...), ma stavolta tutto si impernia sul piedistallo di quella che, a meno di miracoli improvvisi, sarà la più clamorosa e devastante figuraccia fatta dall'Italia di fronte al mondo intero, altro che gli improvvisi cambi di casacca nelle due guerre mondiali: fra un anno, Milano e l'Italia dovranno dire a tutti gli esseri pensanti: "Scusate, abbiamo bucato l'Expo".


Perché è chiaro che, di questo passo, rischiamo di fare la fine della Colombia che rinunciò ad organizzare i mondiali di calcio del 1986, costringendo la FIFA a ripiegare frettolosamente sul pre-attrezzato Messico (e anche coi mondiali in Brasile è andata così... siamo tutti colombiani...): non avremo non solo nulla da eXporre, ma neanche i luoghi dove farlo. Sono 6 anni che Milano ha ottenuto di essere sede dell'Expo, e come ai tempi della guerra di Roma contro Giugurta le operazioni vanno uno zinzino a rilento, e ora come allora c'è dietro la tangente. In quel caso era un sovrano estero a corrompere i consoli romani, qui invece ci siamo fatti tutto in casa, con i più bei nomi della primissima primavera tangentopolese di 20 anni fa. E la figuraccia deborda dagli italici confini. L'Expo, che doveva rappresentare per Milano l'addio definitivo ad una stagione di melma assortita, sta diventando ormai un supplemento di melma. Ancora come allora: Milano si sporca, corre frettolosamente a ripulirsi, ma lo fa sempre con la stessa acqua della pozzanghera in cui è caduta. Però stavolta non c'è in ballo solo l'elastica moralità ad orologeria di cui noi tutti italiani siamo campioni sommi, c'è di mezzo il ludibrio di tutto il mondo sviluppato: Greganti & c. hanno una colpa centuplicata, perché i loro maneggi andranno a danneggiare l'immagine già non bellissima di un Paese condannato ad essere l'eterna controfigura di se stesso. La tangentExpopoli non è una questione di marciume interno, è la prova che si può essere così morbosamente avvitati sul proprio particulare da disinteressarsi completamente delle pesantissime conseguenze che tutto un Paese subirà da questa condotta: chi si fiderà più di noi, di cui già ci si fidava poco, chi non ricorderà, da qui ai prossimi decenni, il fallimento di un evento che per TUTTI i Paesi che lo organizzano è la vetrina principale, l'occasione definitiva per lanciarsi e rilanciarsi, il momento in cui, sotto gli occhi dell'orbe terracqueo tutto, si può dire: "Eccoci, noi siamo questi qui e sappiamo fare queste cose qui"? Chi non sogghignerà sentendoci dire: "Sono italiano"? "Sì, quelli dell'Expo...." (come nella novella di Pirandello c'era "quello del mulino", un marchio a vita capace di spegnere ogni velleità di cambiamento). Guicciardini, dall'alto dei cieli della prudenza e della discrezione, ("dai, dai, fa' vedere che insegni lettere..") contemplerà probabilmente questo spettacolo con acre e rimordente soddisfazione, giusto per trovare conferma alla tesi maturata in una vita: noi qui di terra Ausonia sappiamo farci - benissimo - solo i fatti nostri. E il cuore dello scandalo, sempre lei, quella Milano che è passata dal piombo alla plastica, che ha voluto reagire al dolore con l'anestesia della parte malata, senza volerla veramente guardare - e curare: e quest'arto incancrenito sarà ora mostrato all'inorridito mondo. Una cancrena di nebbia (scusate, sono agli Ermetici in quinta...).  

giovedì 8 maggio 2014

Un latte doppio al 5!! (Bocconi- Briatore, the new ecomnomy duo).

Ok. Ok. Ok, non mettiamoci a fare gli snobboni-anime belle perché il geometra Flavio Briatore, al secolo "Quello che ce l'ha fatta con metodi tutti suoi", è stato invitato nientemeno che in Bocconi ad ammannire saggezza imprenditoriale ai futuri imprenditori, dicendo loro in sostanza che di futuro imprenditoriale in Italia ce n'è poco o punto. Ma sì, ma sì, il parvenu che viene intruso nei salotti buoni, l'uomo di scarpe grosse e cervello fino che, privo di una cultura personale superiore alla consultazione delle istruzioni della trombetta sparacoriandoli, è riuscito "a fare su i soldi" come si dice da noi e oggi guarda economicamente da su a giù tutti gli studentoni che dopo la laurea campano di espedienti. E insomma, meno spocchia e più concretezza: Flavione nostro, uomo a noi personalmente antipatico assai, ha detto cose sgradevoli ma vere, e però bisogna capire fino a che punto la presa d'atto di come sta la realtà può rovesciarsi in sterile immobilismo o diventare spinta verso un cambiamento delle cose; perché è chiaro che se i nostri bis-bis-bis-bis-molto bis nonni avessero accettato supinamente lo stato di natura, addio progresso.
In sostanza, Flavio disse che oggi i giovani possono sognarsi gli spazi d'azione che la generazione briatoresca, con qualche leggero chiaroscuro, si è conquistata e ha fatto fruttare. Persino voi bocconiani, avanguardia storica della fighetteria yuppie, ha tuonato Mr. Babbuccia, non potrete, tutti, diventare direttori generali o simili; guai all'autoimprenditorialità, guai a credere alle startup, che sono una splendida fuffa funzionante in un caso su cento, insomma, scendete dal mondo dei sogni e accontentatevi di quello che troverete, che magari non è poi male; i camerieri dei miei locali, per dire, chiudono il mese con 5.000,00 (CINQUEMILA||00)  EURI puliti puliti solo di mance dei clienti e sorridono sempre. Lasciate stare le startup, aprite pizzerie, che se vi va male, almeno avrete mangiato una pizza. Anzi, se avete un'idea, mollate pure l'Università e seguitela prima di avere 85 anni.
Bum. Impetus primus, come direbbe Seneca: "Povero caprone, arrivi tu con la tua logica guadagno ergo sum, quanti ettolitri di disprezzo vuoi non ricevere da noi che, senza neanche farlo apposta, abbiamo strappato il cielo di carta delle marionette di Pirandello?".
PausaPoi, una botta di realtà: sì, è vero, oggi il mercato del lavoro è quella poca cosa che è, far credere a tutti i bocconiani di poter diventare Briatore o dintorni è come assicurare a tutti gli iscritti a Lettere classiche che appena dopo la laurea passeranno di ruolo sul greco.
Certo, lui, il FlaFla, parla dall'alto del suo scranno di self- made man, può orgogliosamente autoproporsi come paradigma di uomo d'affari che, cacciando l'etica sotto i tacchi, ha scalato le vette del potere economico senza grandi studi, ma mangiando pane e sale e scoprendo crudamente come va il mondo. Realismo machiavellico, verrebbe da dire. Chi potrebbe dargli torto?
Eppure.
I commenti dei lettori di Repubblica.it spaziano su tutti i gradi dell'indignazione, a parte alcuni che lodano & incensano Briatore e mi sembrano fin pochi, vista l'aria che tira. Il problema del Verzuolese più famoso del mondo, però, credo sia quello tipico di molti esponenti del ceto economico-finanziario, indipendentemente da come siano giunti alle loro posizioni di prestigio, ovvero elevare la propria esperienza a paradigma unico. Siccome a loro le cose sono andate in un certo modo, il loro modo di essere e agire è l'unico valido. L'idea antica che se uno diventa ricco senza bisogno della cultura, si vede che la cultura non serve. E' il problema che ci tiriamo dietro da anni. Quello per cui anche gente di un certo pregio da me conosciuta direttamente, appena si parla di scuola, subito dichiara che è arrivata dove è arrivata soprattutto grazie all'esperienza e quindi ciao cultura. Sul binomio scuola-cultura già dissimo e qui non ci ripeteremo. E' la questione todos camerieiros o anche todos pizzaiolos propugnata da BriBri che ci lascia perplessi. Vojo di': che idea di futuro per l'Italia può avere uno di neanche 65 anni che spara a zero sulle strartup, parla genericamente di "seguire un'idea" anche se "di Steve jobs ce n'è stato uno solo, quindi non illudetevi", e invita tutti a fare i camerieri e i pizzaioli? Certo, molta gente è partita da lì, quando serviva arrotondare per pagarsi gli studi, ma c'è ben differenza tra chi camerierizza e pizzizza per scelta di vita e chi lo fa per momentanea necessità. Davvero l'Italia non ha altro da offrire? A parte che i 5000 euro di mance li vedono, se li vedono, giusto i camerieri del Billionaire, ma siamo davvero così ridotti male da convincerci che l'unico metro per giudicare la dignità di un mestiere sia il reddito? Nessun animabellismo, sia chiaro, siamo i primi a dire che gli stipendi degli insegnanti fanno schifo (checché ne dicano i Battiferro e cricca berciante) ed è chiaro che un certo reddito consente una certa dignità. Ma la dignità si completa con altro, ovvero con le prospettive che il mestiere e il reddito offrono a chi lavora: una volta che ho incamerato i miei eurini, cosa faccio  della mia vita? E' qui che il machiavellismo briatoresco mi decade: se davvero per lui l'importante sono i 5000 euro, anche a passare una vita a fare il cameriere, se per lui l'Italia non ha altri sbocchi produttivi delle pizze, ciò significa che il suo idealtipo di italiano è uno solo, ovvero il solerte artigiano che vive per guadagnare e nient'altro. O meglio: guadagna solo con la prospettiva di spendere quel che guadagna. Il perfetto modello di cieco consumatore. Meglio questo di chi si impegna, pur non perdendo di vista legittime prospettive avanzamento economico, a coltivare le istanze spirituali o a tridimensionalizzare il proprio rapporto con il mondo approfondendo le conoscenze dei meccanismi della storia, della letteratura o dell'arte. Macché: fate i camerieri, assicuratevi di che campare, e vivete come viene. Al fondo di tutto si sente un gelido nichilismo, l'assenza di un senso ulteriore rispetto al puro istinto di autoconservazione. Solo che, a ragionar così, si condanna un'intera generazione all'immobilismo: il progresso dello spirito, in ispecie quello critico, è sempre stato il presupposto per il progresso materiale e culturale della società. La capacità di astrazione ha fatto concepire, e creare, ciò che prima non c'era; la coltivazione degli ideali ha permesso di impostare feroci e dolorose lotte per i diritti e le libertà che prima sembravano puri miraggi. Ma in un mondo di camerieri? Briatore forse non se ne rende conto, ma il suo comodo disfattismo (comodo perché la massa che non si evolve si seduce meglio con i lustrini del consumismo) riporta indietro l'idea di società a millenni fa, perlomeno ai tempi delle società piramidali egizie o mesopotamiche, nelle quali l'ascesa sociale era pressoché inesistente e le condizioni materiali erano per ciò stesso sentite come dati di fatto e non come prodotto di circostanze contingenti e quindi, in teoria, modificabili (ah, la democrazia ateniese...). Briatore no, non crede a ciò, ma ritiene che il buon reddito, anche a prezzo dell'immobilismo sociale e lavorativo, sia già un traguardo più che soddisfacente. Che esso si connetta ad una vita umanamente sordida e non illuminata dalla cultura (quella vera, non le chiacchiere nozionistiche) è del tutto trascurabile: si spende, si passa di divertimento in divertimento, si consuma e ci si consuma in una serie di giorni sbullonati tra loro, e poi chissà. Ma il Potere, quello pasolinianamente inteso, quello vero, quello che decide delle sorti di migliaia se non milioni di persone, resterà in mano ad altri, a quelli che non si sono accontentati di fare il  cameriere, ma hanno lavorato sodo per entrare nei meccanismi più profondi delle cose. A costoro farà certo più comodo una massa di ebeti compratori che un popolo di vigili critici, pronti a mettere in discussione le loro decisioni e a opporsi alla creazione di feudi o feudini di qualsiasi tipo ed entità: il discorso di Briatore è quindi, come si vede, di una doppiezza e di una insidiosità enormi, poiché, svolto fino in fondo, giunge alla negazione della verticalità dell'esistenza, l'aspirazione alla quale è il guadagno più alto delle società democratiche. Fatto poi da uno che è davvero partito dal niente. O per dirci che, in fondo, salendo dal niente al qualcosa, si impara solo la disonestà dell'arrivista? E che la tanto pretesa verticalità è solo il passaggio dal poter spendere poco allo spendere tanto? Non so. Ma la piattaforma ideologica di fondo non cessa di inquietarmi.

domenica 4 maggio 2014

La coppa che scoppia.

Considerando che sarannno scritti oceani d'inchiostro sull'ennesima figuraccia del nostro calcio in termini di tifoserie bulle e aspiranti omicidi che approfittano di finali calcistiche per darsi un tono, ci abbandoniamo a riflessioni tangenziali, che peraltro sono snobbissime e ci piacciono assai.
1) Ancora mi stupisco se ti stupisci. Abbiamo già enucleato in altri post la nostra perplessità sul fatto che spesso si grida alla tragedia quando essa, se non annunciata, è perlomeno ipotizzabile. Il che vale sia per le tragedie immani come la bomba d'acqua sulle Marche che per la bomba di idiozia su Roma. Bombe diverse, ma entrambe figlie di improvvise degenerazioni della situazione, troppo rapide per potervi rispondere prontamente, epperò, per chi ne sa, degne di un certo sistema di accorgimenti preventivi che ne mitigassero i danni.

2) Ma non fu così: Marche sotto l'acqua, Roma e lo stadio Olimpico sotto il fango. Non fanno certo bene al calcio, ma in generale a tutto il nostro umore quei tifosi, giustamente paragonati ad Humpty Dumpty, che assidono sulle reti di protezione e dialogano amenamente con giocatori e forze dell'ordine per dar loro il permesso di iniziare la partita. Gente che appoggia gente che uccise gente, eh? La nostra memoria non può non andare a stagioni lontane, lontanissime di occupazioni scolastiche, anzi di autogestioni trasformatesi in occupazioni per decisione di studenti così convinti di avere chissà quale capacità decisionale da potersi permettere di mandare a qual paese i dirigenti scolastici e usare la scuola come cosa propria. Non vorremo certo qui ripiangere sulla fine del senso delle gerarchie, su cui si è pianto fin troppo, e inutilmente. È da tempo immemorabile che noi tutti si nota la tendenza, a svariatisssimi livelli del corpo sociale, verso una orizzontalizzazione dei ruoli, ciò per cui io capo ultras posso allegramente comandare truppe di lanzichenecchi che tengano in ostaggio i tifosi buoni e i giocatori stessi. Ciò, come sempre, è figlio di nascosti tramini legati al quieto vivere reciproco, di cui poi noi vediamo la scioccante superficie. Come il bimbominkia, da certe debolezze donabbondiesche dei genitori, capisce che può osare, e tanto, così il tifoso infoiato, vedendo che le società mostrano certi riguardi in termini di biglietti e trattamenti vari nei confronti dei settori caldi delle curve, capisce di avere un potere contrattuale ben maggiore di quello formalmente riconosciuto. Poi, quando la tensione è ben cotta, il caos.

2) Quindi? Chiudiamo gli stadi? Tanto la Juve ha già vinto (almeno lo scudetto....sigh...)... No, perchè da un lato c'è una stragrande maggioranza di tifosi normali che non merita di vedersi estinguere il divertimento per colpa di una frangia di invasati. Oddio, frangia... anche qui, sarebbe da mettersi d'accordo sul quantitativo di esagitati necessario per passare dalla dicitura "frangia" a quella di "gruppo terroristico". Perché in quel caso ci penserei bene prima di far disputare un match qualsiasi. Ma qui no, sono frange. Frangette. Sai il danno economico se il campionato di stoppasse, anche solo per tre giornate, come succede in Formula 1 nei casi in cui la gara è dichiarata conclusa prima della fine dei giri previsti e valgono le posizioni occupate al momento? Contratti stipulati, sponsor che in fin dei conti hanno picciato i soldi e hanno diritto al ritorno d'immagine, ecc. Tutto vero. Ma è così che alla fine ogni catastrofe a matrice tifoseresca passerà sempre in cavalleria, liquidata, alla lunga, come una grave marachella di cui si dovranno trovare e punire i responsabili, salvo poi ricominciare come se niente fosse, perché "i tifosi veri hanno diritto al calcio" e "lo spettacolo deve continuare", almeno fino al prossimo disastro. Bisogna prendere lucidamente atto che la legge del circuito perpetuo produzione-consumo tipica della nostra civiltà capitalista vale indefettibilmente anche per le manifestazioni sportive: come è impensabile che noi consumatori finiamo ad un certo punto per avere tutto quello che ci serve, sì da non comprare più nulla e quindi fermare l'economia, così non si può fermare il calcio malato, perché per quanto malato fa girare i soldi, malati anch'essi si dirà, convogliati in stipendi che, per quanto uno possa essere un dio in terra da 47 gol in 43 partite, restano sempre esorbitanti rispetto all'effettiva materia che li produce, cioè a dire che tot milioni di euro l'anno a una sola persona per una serie di sgroppate sulla fascia e gol in rovesciata non possono davvero equivalere a decine di migliaia di stipendi di famiglie operaie ecc. ecc. Ma perfino Fabio Fazio, che calciatore non è e guadagna altrettanto, certo in una mansione un po' meno terrestre, e che però fa sempre l'uomo della rive gauche, vi direbbe che gli stipendi sono commisurati al mercato, a quello che il campione (lui o CR7) muove in termini di indotto, di pubblicità, di pubblico, di passaparola sui social network e insomma "è un guadagno giusto" perché si porta dietro possibilità lavorative anche per tutti gli altri che gravitano attorno al movimento. Ora, sulla base di questo assioma autoevidente si potrebbe davvero bloccare il calcio per dare una lezione sia ai cattivi, che si vedono rompere il giocattolo in mano, sia ai buoni, che impareranno d'ora in avanti a isolare e mettere all'angolo gli altri? Ciò sarebbe plausibile se nel meccanismo perfettamente oliato del capitalismo calcistico si inserisse il granello di sabbia dell'etica, sì da dividere i soldi, che notoriamente di loro non puzzano, in onesti e disonesti. Ovvero, se tutto il mercato dei calciatori e delle partite e il loro indotto sono il prerequisito per le scene da repubblica centramericana di ieri sera, semplicemente si dice basta, alla faccia dei mancati introiti. Ma il calcio muove l'economia, appunto. Secondo me manca un  passaggio: il calcio muove PRIMA la tifoseria POI l'economia. Ecco il punto che spesso si sottovaluta: il calcio, come ogni sport, è una forma di competizione che, quando coinvolge masse immani di folle, diventa una sorta di metafora guerresca per cui sul campo e sulle tribune si sfogano le tensioni, gli entusiasmi, le rivalità, tutto ciò che possiamo chiamare "passioni" in senso filosofico, ovvero fenomeni emotivi che l'animo subisce nel momento stesso che li concepisce. Roba irrazionale, insomma. Roba che è più facile eccitare che controllare o, più arduo ancora, reprimere e rieducare. Il tifoso va in visibilio per il suo campione, lo vede come una divinità, lo seguirebbe anche tra le fiamme, non si perde un numero della Gazzetta, presidia tutte le trasmissioni a tema, viaggia, compra, ricompra, riricompra, con il ritmo folle e gaudente che solo una passione filosoficamente intesa può spiegare; è su questa passione che si butta l'economia, generando un circuito inesauribile di occasioni di tifo che si tramutano automaticamente in fonte di guadagno a più livelli. Questo è il processo, e ha tre attori, come si vede, il calcio, il tifo, l'economia. Impedire al primo di esistere o alla terza di operare sarebbe pura follia. È il tratto centrale del segmento su cui bisogna agire, ma sono le agenzie educative a doversi sobbarcare l'onere, perché i calciatori non vorranno mai essere diversi da ciò che sono, checché il nostro buon Prandelli pensi di ottenere col suo codice etico, e i meccanismi dell'economia sono quelli che sappiamo. Se però di promuovesse un'acculturazione vera del branco tifosesco, è chiaro che il binomio calciatore-economia che si muove si sbriciolerebbe, perché il tifoso nutrito di sagge nozioni capirebbe che uno sportivo non può vivere come un nababbo sulla base delle passioni che suscita, passioni che non educano a nulla, non costruiscono nulla, non migliorano i rapporti umani o le condizioni materiali del mondo, ma semplicemente fanno da sfogo per il centro del segmento (i tifosi ) e da lucro per gli estremi (calciatori e sistema economico). Questo è lo sport oggi. E le figure di calciatori che "fanno da esempio" per i giovani spingendoli all'impegno e al sacrificio sono ormai quasi del tutto scomparse, sostituite da superstar miliardarie pronte a baciare la maglia della squadra che le ha appena assunte, dichiarando fedeltà eterna al club, salvo poi migrare altrove l'anno successivo se appena appena non riescono a ritoccare verso l'altro il contratto di qualche centomila euris. Eroi da gossip, buoni solo a promuovere stili di vita zompospenderecci che fanno sentire dei falliti tutti coloro che hanno ben altre qualità, non certo meno utili alla società (e non sto alludendo agli insegnanti, chiaro?), ma che guadagnano infinitamente meno. E uno finisce per dirsi: "Perché sacrificarsi a studiare o a coltivare le mie qualità, quando un pedatore qualsiasi guadagna miliardi?". È qui che la risposta: "Ma il calciatore fa girare l'economia" cade nel vuoto per i motivi anzidetti: che l'economia giri in nome di un circo irrazionale e congestionato di cattive passioni può convincere molti, ma non tutti, di certo non quelli che da questo circo non guadagnano nulla, ma anche chi vi sta dentro prima o poi si porrà qualche domanda. E pure il tifoso standard, quello che segue il calcio con passione sì, ma senza eccessi e che al limite piange quando a Del Piero scade il contratto e non glielo rinnovano (uhmmm....), che gode ricciosamente alle vittorie della propria squadra, ma non si butta dal balcone se il Benfica gliela butta fuori dalla Coppa, che polemizza con gli sciocchi tifosi dell'altra sponda, ma alla fine la mette sul ridere, insomma gente così si chiede se valga la pena di vedere lo scempio di ieri sera in nome di un circuito così imperfetto.
3) Gli è che non è più davvero possibile ammannirci la storiellina strappalacrime del bimbetto che comincia a tirare i primi calci nel polveroso campetto di periferia e da lì nasce la grande storia sportiva. Roba buona per i nostalgici: oggi il sistema calcio produce i Cassano e i Balotelli, gente dal passato difficile o difficilissimo a cui però il calcio non offre altro che la superfetazione bombastica del reddito, ma non li rende certo modelli di vita da imitare; l'unica cosa che si può apprendere da quelli come loro è l'indisciplina perenne, la sbruffonata, la lite con l'autorità pubblica, i guai a ripetizione con la pretesa dell'impunità "perché in fondo sono ragazzi", in una parola l'ignoranza elevata a crisma di eccellenza. E non si tratta del calcio "che è vittima". O meglio, esso è vittima di un sistema infallibile che porta alla giustificazione e al discarico di qualsiasi boiata compiuta dai calciatori, sia che si sfracellino con la Ferrari nuova di pacco a 200 all'ora, sia che si facciano tour di gruppo nei bordelli. Tutto alla fine si scusa o s'insabbia, perché sennò c'è il rischio che questi perdano credito e squadra, e allora "l'economia si ferma". E il tifoso, da bravo adepto del dio-calciatore, vede che sono cose buone e giuste e si regola di conseguenza.      
4) Che poi, si fosse trattato di una finale di Champions... vojo di', non capisco questa ridicola volontà di attribuire chissà che carattere epico alla finale di Coppa Italia, torneuccio buono giusto ad inzeppare di ulteriori partite (e incassi, e indotto, ecc.) un calendario già di suo bulimico come quello italiano; e l'Inno di Mameli cantato dalle inascoltabili Marrone, Amoroso... e il gotha (?) della politica e dello sport in tribuna... insomma, a chi giova tutto 'sto gonfiaggio di una partita che è in realtà poca roba? Eppure, come già l'anno scorso, proprio in occasione di questo evento tutto sommato minore accadono le peggio cose. Come se la finale di Coppa Italia, proprio per il suo carattere 'italiano' fosse percepita come il luogo adatto per sfogare l'italianità frustrata, gli odi repressi, il disagio sociale, per dire all'Italia stessa e ai suoi dirigenti, pateticamente appollaiati in tribuna vip, che "ci siamo anche noi", che "c'è un altro mondo fuori dai vostri palazzi", che "esiste un potere parallelo a quello dello Stato"  da potersi scatenare affidando la direzione alle persone, che, purtroppo, ci sanno fare.  È chiaro insomma che questa partita sta assumendo da almeno un paio d'anni dei connotati semplicemente allegorici, serve per dire a nuora in modo che suocera intenda. È l'ulteriore spia di un mondo che ha smesso di funzionare, o che non sa più funzionare secondo i criteri tradizionali. Colpa dei singoli? Della società? Della scuola (beh, ma la scuola ha SEMPRE colpa, vero, Gelmini?)? Tutti hanno la loro parte di responsabilità, ma la radice di tutto sta nel definitivo divorzio dell'economia dall'etica (anche se per alcuni l'economia, per suo stesso statuto oggettivo, NON può essere etica): se le cose devono avvenire perché "sennò l'economia si ferma" e però quest'economia è incapace di garantire la decenza di vita a tutti, riducendo le sperequazioni, il grosso della società andrà sempre dove le passioni lo conducono. E lo spettacolo sarà sempre e solo quello del sangue.

venerdì 2 maggio 2014

MSA (Machittevòle Santification Awards) 2014.

Era dai tempi dello Scisma d'Occidente che non c'erano così tanti Papi sulla piazza, e domenica scorsa in piazza S. Pietro si è avuto il poker di Papa vivo + ex-Papa vivo+ 2 Papi santi morti. L'inclemenza del tempo e i pessimi presagi fatti di crocifissi franati addosso a fedeli inermi non hanno fermato la macchina santificatizia, che ha offerto uno spettacolo sicuramente d'impatto, indipendentemente dal fatto che uno sia credente o meno. Certo, come sempre, attorno all'evento si sono mossi uomini e cose, desiderosi, soprattutto gli uomini, di suggere dalla santificazione nuova e più eccitante linfa per la loro parrocchia. E non parlo dei sacerdoti. Procediamo dunque a premiare, secondo insindacabile giudizio spocchiometrico, i personaggi che più si sono distinti nei giorni dell'elevazione agli altari del duo Roncalli-Wojtyla.
 
1) The "Best Baciapile Award" goes to.............................. Bruno Vespa, il quale, dirigendo l'ospitata plurima di Porta a Porta con Melloni, Tornielli, Riccardi et alii, ha parlato come se i processi di beatificazione e santificazione fossero cosa sua, sì che abbiamo sobbalzato sugli scranni chiedendoci: "Ma perché non lo chiamano al prossimo conclave?". Oggetto della riflessione, un momento di pura dialettica in cui il buon Melloni, amicone di Wojtyla e saputo compilatore di libri a quattro mani coi pontefici, ha detto una cosa che per poco non gli è costata la condanna ai ceppi. Sostenne Melloni che le santificazioni, a suo parere, non dovrebbero riguardare i Papi, poiché il rischio è quello che nella memoria collettiva si crei una sorta di classifica dei pontefici, distinti in quelli di serie A, cui è stato concesso il  turibolo della venerazione in catalogo sanctorum, e quelli di serie B, che hanno scaldato la cattedra di Pietro per un tot di anni e poi ciao. E' chiaro che per noi tondinopolesi un simile assunto è rosolio, perché troviamo assolutamente scandaloso che nessuno si stupisca del buco 1963-1978 che ormai rischia di diventare una voragine nella memoria della Chiesa, buco nel cui oblio è precipitata la figura di Paolo VI, di cui NESSUNO mai sembra volersi ricordare, come se tra Giovanni XXIII e GPII non fosse passato che un breve refolo di tempo. Ma appunto: Melloni opina e Vespa visibilmente non gradisce. Legittimo, per carità. Ma poi rincara: Vedi, Melloni, dice in sostanza il neoforo abruzzese, purtroppo ci sono Papi che hanno saputo entrare nel cuore della gente e altri che non ce l'hanno fatta. Io, per dire, se vedo un'immagine di Pio XII non sento l'impulso di pregare, se vedo quella di Giovanni XXIII sì. Ohibò. Quindi non sono stati i presunti silenzi sulla Shoah, e nemmeno la presunta tiepidezza nel condannare il nazismo a bloccare Papa Pacelli fuori dall'attico dell'Empireo, come noi tutti si pensava. Pio XII sta dove sta, perché Vespa non prega in suo nome! Brunone nostro, come Valerio Catone ai tempi di Catullo, legit ac facit poetas, decide lui i coefficienti di carità derivata nei pontefici. Però. E il dibattito prosegue; Tornielli contro- opina a Melloni con un'osservazione inimpugnabile, ovvero che, nel secolo del trionfo dei mass media, chiaramente alcuni Papi hanno saputo sfruttare il canale radiotelevisivo meglio di altri, con il conseguente ritorno di popolarità, da cui le corsie più in discesa per la santificazione (e qui pensavamo che Paolo VI ha addirittura convocato gli artisti a Messa...). E Vespa, ormai mollati gli ormeggi, soggiunge che appunto, tanto per dire, Paolo VI il mezzo non sapeva usarlo, vuoi mettere l'istrionismo di  Wojtyla, e comunque, prosegue BruBru, se guardo un'immagine di Paolo VI non mi sento spinto a pregare, se guardo quella di Wojtyla sì. E due. Ah, senza scordare che Paolo VI a un bel momento ha litigato con Dio per la morte di Aldo Moro, nevvero? Ecco bell'e pronto il canone dei Papi della seconda metà circa del XX secolo, fissato da Vespa. E noi ad aspettare i pareri della Congregazione per le cause dei santi... Bastava chiedere in Rai... Ora, a parte il semplicismo "vedo l'immagine - prego/non prego", che puzza di Medioevo in modo acerrimo, trovo piuttosto stucchevole questo impancare se stessi a metro di giudizio su questioni molto ma molto intime, che non possono essere "dirette" da un opinionista qualsiasi. Ma Vespa, si dirà, non ha fatto altro che dare voce alla communis opinio che ormai da decenni distingue i Papi "musoni" da quelli "popolari", in ciò aggiornando l'idea montanelliana dell'alternanza tra Papi "proletari" e Papi "borghesi", idea che aggiornava l'altra idea, che a questo punto preferirei addirittura sposare nella sua innocua ingenuità, dell'alternanza tra pontefici grassi e pontefici smilzi. Sia pure. E sia pure che Montini non fosse esattamente un ridanciano; e che parte dell'astio in curia e nell'opinione pubblica se lo sia tirato addosso da sé, preferendo evitare la santificazione immediata del predecessore appena defunto, come invece la folla chiedeva a gran voce; e sia pure che i giovani di allora, i contestatori che oggi sono più imborghesiti dei borghesi che loro stessi contestavano, ricordino Paolo VI come il Papa del NO alla pillola e al divorzio; e vabbé; ma io, umile e spocchioso conterraneo di Paolo VI, non accetto che un giornalista, per quanto cristiano osservante & professante, si permetta di leggere la storia della Chiesa sulla base del criterio "a me mi pare", come certi pessimi filologi che leggono un testo, si fanno un' idea e la scodellano su carta senza preoccuparsi di vedere se qualcuno l'ha già espressa, o se non vi siano contro-pareri ed evidenze empiriche che possano affossarla. Un Vespa qualsiasi, non me ne voglia (o me ne voglia, chemmefrega...) non ha alcun diritto di spacciare per veritativa un'opinione sua. Si tenga le sue preferenze, ma non pretenda di spacciarle come criterio assoluto. E l'impressione, purtroppo, è stata proprio quella.
 
2) The "Best Illuministic Award" goes to............................................... Piergiorgio Oddifreddi, che sul suo democraticissimo blog ospitato da Repubblica.it gioca a fare l'ateo integrale che ha fede solo nella scienza, dimentico forse che è perlomeno da Einstein e Popper in giù che la scienza si deve rassegnare al fatto di aprire 10.000 nuove domande per ogni singola risposta che trova. Detto in altri termini: la fiducia ottocentesca dell'Oddifreddi nella veritatività assoluta della scienza, in un universo di cui vediamo tuttora il 2%, e con le nuove ipotesi sulla struttura e l'origine del Tutto emerse all'indomani della scoperta del bosone di Higgs, mi fa specie  alla pari del bigottismo di certuni che vivono la fede senza spirito critico. E' ovvio che per alcuni la fede è l'esatto opposto dello spirito critico, ma la discussione di questo punto ci porterebbe lontano. Restando a Oddy, la sua tradizionale liquidazione del Cristianesimo a "mitologia mediorientale", come se l'Iliade e la Bibbia fossero due opere equivalenti, la sua derisione delle folle ignoranti e credulone come i certaldesi di Frate Cipolla, accorse a veder incensare due morti che non sono più da nessuna parte, il suo maledire integralmente la storia della Chiesa, che di difetti ne ha avuti e ne ha, sia chiaro, ebbene, il tutto ci urta alquanto, perché la fede religiosa i suoi bei danni li ha fatti e spesso li fa ancora, se vissuta in modo cieco e integralista, ma la fede laica nella scienza e nei numeri, nell'evidenza empirica e solo in quella, nell'Idea assoluta partorita dalla Ragione oggettiva, questa fede a mio giudizio non fa danni qualitativamente e quantitativamente minori dell'altra. Le ideologie totalitarie, figlie del nichilismo, ci hanno "regalato" massacri e olocausti su cui la Chiesa potrà aver pure aver taciuto, ma di cui non è stata coautrice. Per dire: sparate pure addosso a Pio XII, ma i 6 milioni di ebrei morti stanno sulla coscienza anzitutto a chi in nome del progresso della Razza ha deciso di distinguere gli esseri umani in degni e non degni di vivere. Gli uomini sono riusciti tranquillamente a rinnegare l'umanità senza l'intervento della religione. Ciò perché essa, al netto delle mancanze e della non dimostrabilità fenomenica dei suoi assunti, lascia perlomeno aperta la porta all'ipotesi che al fondo di tutte le cose ci sia un senso, e che in nome di esso si possa cercare un bene comune qui e altrove. Il pensiero laico scientificizzato, che solo all'apparenza può chiamarsi umanesimo, parte da una piattaforma impostata sulla negazione della finalità delle cose, perché l'idea che esista un fine, dicono, è il relitto di errate impostazioni di default cerebrale che ci portiamo dietro da quando i nostri progenitori si spaventavano a vedere i fulmini e li chiamavano Zeus. Tutto è caso e materia, meccanismo di nascita e distruzione. Epicurei, li definiremmo. Lieto delle loro certezze, e però, se tutto riposa sull'assurda condizione di nascere per morire (assurda perché la materia funziona così, ma nessuno può provarmi che essa non poteva che funzionare così), e l'amore e gli altri sentimenti sono secrezioni ormonali e nient'altro, mi domando come facciano costoro a svegliarsi ogni mattina e trovare la voglia di fare. Cosa li tiene ancora qui, se tanto il  più del tempo lo passeremo là, posto che i nostri atomi  non collassino in qualche buco nero? Come fanno a usare la congiunzione "per" in tutte le loro frasi, se la finalità delle azioni è meccanicismo travestito? Perché si fidanzano e si sposano, mettono al mondo figli e lavorano per mantenerli? Perché amano l'uomo in quanto uomo, nella laica e leopardiana solidarietà contro l'universo ostile?  Non so. Amare l'uomo vuol dire sempre amare il senso che in esso si individua, e dove c'è un senso c'è un Altrove da cui esso dipende, in qualunque modo lo si voglia chiamare. Noi la vediamo così. E sparare a zero sulle "favole ecclesiastiche" non è segno di humanitas, se ad esse si contrappone il Nulla.
 
3) The "Best Catch the Bouncing Ball Award" goes to........................................... tutti quei delicatoni che hanno commentato sui siti dei quotidiani il predetto sfracello della croce di Cevo sul povero giovane (non ho più capito se fosse anche disabile o meno). Goduria nel dimostrare l'inesistenza di Dio, perché mai Dio avrebbe permesso un simile scherzo del destino, con un Cristo da 8 quintali a spappolare un innocente venuto fin lassù a prepararsi spiritualmente per il giorno della duplice santificazione. Già, già. A parte che per dimostrare l'inesistenza di Dio, sulla base di questi presupposti di teodicea fatta in casa, non ci sarebbe stato da aspettare Cevo, visto che sarebbe bastato il terremoto di Lisbona, ma la questione anche qui è altra. Uno può credere o non credere in uno o più dèi, ma se non crede, e gode di una assurda disgrazia toccata a chi crede, non si dimostra ateo, ma a-antropico, in altre parole non-uomo. Questo è il tono di molti post, che spaziano da "Dov'è il tuo Dio, adesso?" a "Ecco gli effetti dell'ignoranza", fino ovviamente a fregarsi mani, piedi e ginocchia nella considerazione della beffa suprema di una sciagura a tema religioso nella settimana della santificazione dei due Papi. Quasi assente, nel corpo dei post di questo tipo, la semplice commiserazione per il poveretto. Poca, pochissima, perché sotto sotto si pensa: "Cretino, visto dove sei arrivato con le tue favole? Ti sta bene, dai". Sì, nessuno lo dice mai esplicitamente, ma se si legge a fondo lo spirito che trasuda dai singoli interventi, il vero messaggio è purtroppo quello: ti-sta-bene. E ribadisco il già detto: saranno stati e saranno tuttora discutibili molti comportamenti di molti cattolici, ma se l'alternativa è quest'altra, ciao mondo.
 
4) Let's close with the "Best Ma Sei Davvero Cretina Award", che va ad una sconosciuta ospite del verbosissimo programma ad uso casalinghe Le amiche del sabato, che sabato scorso, con imprevedibile originalità, parlava della canonizzazione di Roncalli e Wojtyla. Tra una chiacchiera e l'altra, un collegamento con S. Pietro e l'altro, una spizzata alla cellulite e l'altra, prende ad un certo punto la parola una delle opinioniste, faccia ignota, ma soprattutto palesemente ottusa, nel senso che si capiva lontano un miglio che l'argomento in oggetto le interessava come uno speciale sulla vita degli armadilli rosa. Però sai, parlano tutte, dovrò ben dire qualcosa anch'io. Ed ecco: "Sì, Giovanni XXIII era davvero il pioniere della comunicazione [ma dai?], mi ricordo un aneddoto che poi ho letto [uh, a parte lo hysteron proteron, cos'è che non sappiamo ancora....?] di quando Giovanni XXIII era impegnato in un'assemblea [cara, era il Concilio Vaticano II...] e siccome sentiva la folla che gridava in piazza, si è affacciato alla finestra e ha parlato della luna che era così bella quella sera [toh, il famoso discorso alla luna, roba che nessuno sapeva vero?]". Ecco, l'hai detta, clap clap... Ma statevene a casa... (eh, ma pur di avere il passaggio televisivo...)(qui c'è il fattaccio, minuto 40.55) .
 
Vabbe', c'è chi unisce e c'è chi divide.
(Cosa volevo dire? Boh...)