Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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sabato 23 ottobre 2021

Appunti di Umanesimo quantistico #1

 

Introduzione


Considerando che ormai l’aggettivo ‘quantistico’ si porta un po’ su tutto (come l’autodiagnosi di sindrome di Asperger, che pare faccia molto fino…) è forse il caso di chiedersi se esso possa o non possa quagliare con il sostantivo ‘umanesimo’. La fisica quantistica è, al momento, il massimo vertice mai raggiunto dalle scienze sperimentali, vale a dire il punto attualmente più all’avanguardia, il più dinamico, il più aperto alla novità, visto che nel mondo dell’infinitamente piccolo le leggi che governano il mondo dei fenomeni sembrano (o sono) del tutto sovvertite. Sull’altro versante sta la perennità delle costanti dello spirito umano quali l’umanesimo va indagando da quando esiste il pensiero astratto: esteriormente, cioè, un mondo, più che immutabile, ‘tradizionale’, o perlomeno radicato in un sistema di pensiero molto antico (‘vecchio’ lo definirebbero i detrattori) che risulterebbe a tutta prima incompatibile con la pirotecnica parata di sconvolgenti novità che il mondo quantistico offre a scienziati e (per chi ci capisce qualcosa) opinione pubblica. Può dunque la forma mentis quantistica intercettare quella umanistica, producendo un’ibridazione di cui studiare le caratteristiche?


1.

Anzitutto sarebbe opportuno abbattere il primo degli steccati umanesimo/scienza, ovvero la convinzione che i due àmbiti non abbiano mai avuto molto da condividere (almeno fino allo sviluppo delle neuroscienze) perché impegnati ad esplorare dimensioni del reale troppo lontane tra loro (l’anima dell’uomo e le relazioni interpersonali da un lato, le leggi della materia dall’altro). È un fatto ad esempio che, proprio negli anni in cui l’ancor giovane fisica quantistica metteva in crisi le certezze di quella classica, la letteratura, anche sulla scorta delle scoperte della psicoanalisi, smontava l’idea di un Io individuale monolitico e perfettamente conoscibile, ponendo l’umanità di fronte allo scenario vertiginoso della frantumazione dell’anima e della perpetua mutevolezza dei singoli sia in rapporto a se stessi (il me di oggi potrebbe non essere riconosciuto dal me di domani) che in rapporto agli altri (siamo ciò che gli altri percepiscono di noi). Dei romanzi di Proust, per esempio, si è detto che hanno applicato in letteratura le leggi della relatività generale; di recente il pirandelliano Uno, nessuno e centomila è stato più e più volte citato da C. Rovelli come esempio di narrazione in senso quantistico della realtà, poiché secondo il professore la fisica quantistica ci insegna che non ha più senso cercare il principio ontologico autosussistente del reale, laddove tutto ciò che esiste deve la propria esistenza solo all’entrata in relazione con qualcos’altro. Così noi crediamo di essere unici e perfettamente solidi nella nostra autopercezione, ma poi ci accorgiamo che i centomila modi in cui gli altri ci considerano rendono di fatto insussistente la nostra presunta essenza permanente, della quale noi pure siamo all’oscuro. L’anima, non appena tenta di individuare se stessa al di sotto dei propri processi, diventa trasparente a se stessa: ‘sente’ di operare, ma non ‘vede’ sé stessa in quanto soggetto operante. Il che, per inciso, va a demolire d’un colpo due colonne portanti dell’umanesimo occidentale: il socratico ‘conosci te stesso’ e il cartesiano ‘cogito ergo sum’. Conoscere la propria essenza profonda è impossibile e il solo atto del pensiero non è garanzia di essere finché non si attiva la relazione con qualcos’altro.

Non può quindi negarsi che ci sia una certa pervietà reciproca tra filosofia, letteratura e fisica quantistica. Le provocazioni che quest’ultima lancia alle prime due possono spingersi oltre?


2.


Per rispondere al quesito, bisogna ripartire dai fondamenti dell’Umanesimo occidentale, riassumendoli per pura comodità in due grandi macro-aree, quella classica e quella cristiana. L’operazione, che si rende quantomai schematica per esigenze argomentative, porta ad isolare due tipi di metafisica: la metafisica dell’Essere assoluto e immobile, caratteristica della speculazione greca in particolare di Parmenide e Aristotele, e la metafisica dell’Essere come Relazione, nella quale al vertice del processo di generazione del tutto non si colloca un impersonale Motore immobile (creatore e amato dalle sue creature, ma non a sua volta amante di esse), bensì un Dio-persona che ama anzitutto nella propria trinità e per conseguenza ama il creato, quest’ultimo rappresentando una sorta di tracimazione ontologica della relazione d’amore che l’Essere supremo vive al proprio interno (il Padre ama il Figlio – e viceversa – tramite lo Spirito Santo).

Nel pensiero greco, si tratti della dialettica perpetua dell’Uno metafisico e della Diade di grande-e-piccolo, dell’attività di un Demiurgo, dell’emanazione dell’Uno plotiniano, ma pure, ove si guardi a filosofie antimetafisiche, alla forza creatrice del logos stoico o all’energia che fa aggregare gli atomi (e tralasciamo i presocratici) tutto lo sforzo del pensiero è volto alla ricerca del principio originario (archè) dal quale tutto si genera. Alla base di ciò che esiste deve collocarsi un Essere (siano atomi, pneuma caldo aeriforme, idee intelligibili) che nei più vari modi dà forma e senso a tutte le cose. Resta inteso che questa fonte suprema che garantisce la sussistenza dell’universo e dei suoi singoli elementi non agisce per amore di ciò che crea. Anche la dinamica di Amore-Odio che fa evolvere le relazioni tra gli elementi secondo Empedocle non può ricondursi ad una volontà divina paragonabile al Dio delle religioni monoteiste, risultando piuttosto un processo immanente ai semi stessi delle cose. L’Essere classicamente inteso agisce su una materia preesistente (la creazione ex nihilo non è infatti contemplata) come una forza strutturante. Non c’è il nulla semplicemente perché la materia e l’Essere sono eterni. In cosa quindi la metafisica della Relazione potrebbe superare uno schema che pare così inattaccabile, pur nella varietà degli esiti speculativi?

La risposta si può trovare in maniera sufficientemente esaustiva nel Paradiso dantesco, esattamente all’inizio e alla fine della cantica. L’esordio, celeberrimo e qui riportato solo per comodità, del canto I recita:

La gloria di Colui che tutto move

per l’Universo penetra e risplende

in una parte più e meno altrove.


A ribadire l’incolmabile distanza tra Creatore e creato, Dante sottolinea che la gloria divina non è distribuita uniformemente in tutto l’universo, giacché l’Empireo non può certo essere paragonato a nessuno dei nove cieli del Paradiso, né questi alla Terra. Del resto, se la gloria divina fosse al contrario presente in ugual misura ovunque nel creato, cesserebbe qualsiasi trascendenza, poiché tra Dio e ciò che da Lui deriva non esisterebbero fattive distinzioni: Dio sarebbe semplicemente Tutto in tutto.

L’aspetto utile ai fini del mio discorso è però un altro: Dio è definito tramite perifrasi ‘Colui che tutto move’, espressione ineccepibile dal punto di vista aristotelico- tomistico, giacché Dio è motore, ovvero creatore e fine supremo del divenire di tutto il cosmo, come poi Beatrice avrà modo di spiegare a Dante per tutto il canto. Al di sopra dei drammi umani esibiti in Inferno e Purgatorio, il Paradiso assicura subito che Dio è ovunque ma in diversa misura, e tuttavia è ‘vicino’ tramite la Sua gloria alle cose che ha creato. Forse il lettore dantesco avrebbe voluto qualcosa di più che sentirsi ‘toccato’ dalle propaggini di questa luce gloriosa.

Questo ‘qualcosa’ si farà attendere fino alla fine del viaggio paradisiaco, cioè fino al canto XXXIII. Qui Dante, dopo la preghiera di S. Bernardo che gli ottiene l’intercessione della Vergine Maria, può sprofondare intellettualmente nella contemplazione dell’essenza di Dio che gli si rivela in tre tappe successive, corrispondenti all’approfondirsi delle facoltà di visione trasumanata: dapprima il poeta vede che all’interno di Dio si trovano i principi di tutte le cose che esistono dell’universo, legati tra loro come pagine in un volume (similitudine che più medievale non potrebbe essere). Successivamente, con un celebre paragone che per evidenti ragioni sfida la logica della geometria, Dante vede tre sfere – o cerchi – che pur essendo di identica dimensione sono tra di loro concentriche – l’unico modo di rendere l’unità e la trinità di Dio. Uno dei cerchi attira in particolare l’attenzione del poeta, quello nel quale gli sembra di vedere raffigurata una sembianza umana dello stesso colore del cerchio medesimo – altra voluta violazione della logica, giacché non sarebbe possibile distinguere un’ immagine dal suo sfondo omocromo. Ciò indica evidentemente che la natura divina di Cristo coesiste in perfetta consustanzialità con quella umana. Dante si trova quindi ad un passo dal comprendere il mistero sommo della sua Fede, ovvero l’incarnazione di Dio in Cristo, ma proprio qui il suo sforzo manca l’obiettivo e si rende necessario l’intervento divino che svela per un istante brevissimo al viandante ultraterreno la Verità inseguita per tutto il viaggio. A noi tuttavia non sarà dato sapere COSA Dante abbia visto. Ci rimane solo il resoconto del perfetto allinearsi delle sue forze intellettuali con la volontà di Dio (vv. 142-145):


A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle.


Da ‘la gloria di Colui che tutto move’ a ‘l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle’ il passaggio è brevissimo ma enorme allo stesso tempo: Dio non è più solamente motore di tutte le cose, loro causa originaria e finale, ma è definito per via di perifrasi come amore che muove l’intero Universo. Siamo quindi al punto di svolta che separa la Fede dantesca dal motore immobile aristotelico (creatore delle cose e da loro amato, ma di loro non amante a sua volta), per non parlare del logos stoico (principio puramente materiale e impersonale). Con questa ulteriore precisazione della natura di Dio, Dante non ci svela il mistero dell’incarnazione, ma forse (si e ci) risponde ad una domanda ancor più metafisica: che senso ha l’Essere rispetto al non-essere? Domanda che rappresenta il vertice di qualsiasi inquietudine tanto fideistica quanto razionale e che quindi ben racchiude il doppio binario della ricerca esistenziale di Dante, il quale ha interrogato per tutta la vita filosofia e teologia in cerca di risposte.

Il verso finale del poema ci dice allora molto di più della sola lettera: Dio si presenta come Ente supremo caratterizzato dalla Relazione di Amore tra il Padre e il Figlio veicolata dallo Spirito Santo. Nella Sua unità, Egli allora non è statico, bensì dinamico, ed è da questa dinamicità che ad un certo punto trabocca la forza creatrice che dà origine a tutte le cose. Dio ama l’Universo che ha creato, poiché tale amore altro non è che la continuazione della relazione amorosa dinamica che ab aeterno si verifica all’interno della Sua natura. A questo punto la metafisica dell’Essere è sorpassata (o meglio, portata a compimento) da quella della Relazione. Se Dio fosse puro Essere, sarebbe totalmente autoreferenziale, e la Sua staticità non avrebbe mai potuto tracimare nell’atto della creazione. Questo è già una dato che conforta Dante: l’universo non è in balìa del Caso o peggio ancora del Caos, ma è attraversato da una forza positiva che trascende l’apparente disordine degli eventi per indicare, se riconosciuta dal fedele, la via per la salvezza.

Ma c’è di più: riconoscere l’amore come forza intrinseca all’Essere supremo rivela a Dante che la dicotomia fondamentale del reale non è Essere vs non- essere (o Nulla che dir si voglia), poiché un Essere statico equivarrebbe di fatto al Nulla. Un Essere che semplicemente è, senza essere attraversato dalla corrente della Relazione, non ha maggior ragion d’essere del Nulla. Sarebbero di fatto due condizioni statiche accomunate dall’assenza di amore, di creazione e, quindi, di senso: il Nulla, non essendo, non può avere un senso perché ‘non si muove’ verso alcunché, ma se anche l’Essere resta immobile senza relazione, di fatto, si nullifica, tuttavia, perché il Nulla (per assurdo) abbia Relazione, quest’ultima presupporrebbe che ci fosse almeno UN qualcos’altro a cui relazionarsi, ma il Nulla è uniformemente Nulla, non genera e non si relaziona con alcunché né all’interno né all’esterno di sé (che non esistono). La dinamicità della Relazione, al contrario, rende l’Essere diverso dal Nulla e ne giustifica la sussistenza rispetto ad esso: la relazione e la creazione sono il senso dell’Essere che al Nulla manca. Ritornando all’inizio del paragrafo, la dicotomia è dunque Relazione vs Nulla: si capisce che l’Essere dantesco vada sempre inteso come Essere-in-relazione. Diversamente, tanto varrebbe definirlo Nulla. La filosofia Dantesca finisce pertanto per coincidere con la teologia, nel senso che, in luogo di ‘amore della sapienza’, essa si configura, per citare Lévinas, come ‘sapienza dell’amore’. La Relazione d’amore all’interno della Trinità è la più autentica ragion d’essere delle cose che sono: l’animo del poeta si acquieta nel momento in cui vede svelarsi nell’essenza di Dio il punto d’arrivo comune ad entrambi i suoi percorsi di ricerca esistenziale. Amare il prossimo significa quindi partire dall’amore di sé per aprirsi all’altro. Questo Dante vuole lasciare alla sua tormentata epoca.

[continua....]


giovedì 23 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia #2: Socrate, l'anarchico e antifascista.

Premessa: di Ulisse ciascuno ha fatto l'uso che ha voluto. Dante lo ha dantizzato, Tennyson lo ha tennysonizzato, Pascoli lo ha pascolizzato, persino i giapponesi e i francesi se ne sono appropriati.

La storia è nota: personaggi che fanno da archetipo della civiltà (occidentale in questo caso) possono essere soggetti alle più varie (re-) interpretazioni. Molto soggettive of course. A volte, anche, fuorvianti rispetto ai tratti genuini del carattere originario. 

Figuriamoci Socrate, che anche se non è propriamente il fondatore della filosofia occidentale, ha svolto un ruolo talmente importante che la storia della filosofia antica distingue sotto il lemma 'presocratici' tutti i suoi predecessori, Talete incluso, che sarebbe poi il capostipite di tutta la cumpa. Lui (Socrate) che non ha lasciato mezza riga del suo pensiero. Lui che conosciamo solo per interposto autore (Platone ovviamente, poi Aristofane e Senofonte). Il che ci porterebbe a pensare (e saremmo in ottima compagnia) che già Platone abbia platonizzato Socrate, Aristofane lo abbia aristofanizzato and so on. Chissà.


 

 

Se però le cose andavano così già nel V secolo a.C., non solleveremo ciglia spocchiose a sentire la dotta conferenziera Simona Forti (Modena, 19 settembre u.s.) che reinterpreta per sua stessa ammissione Socrate alla luce di categorie certamente posteriori al filosofo greco. Forse c'è stata una certa forzatura, ma qualcuno di noi era là ad Atene a capire, mentre Platone scriveva i suoi dialoghi, quali teorie espresse da Socrate erano socratiche e quali del discepolo? No. Ciao.

Parte subito in derapata la Forti, inquadrando il problema del fascismo secondo una prospettiva che attirerebbe ipso facto i fulmini di Emilio Gentile: di fascismo si può parlare anche oggi tutte le volte (lo dice Foucault) che si verificano fenomeni di governi autoritari che sopprimono le libertà individuali. Ebbene che fare? Strutturare le nostre soggettività come anime anarchiche. Non in senso bakuniniano, sia chiaro. Anche per Platone, è noto, la città in preda all'anarchia va in rovina. Ma infatti Forti ha in mente un altro tipo di anarchia: assodato che nella parola anarchia è presente il termine archè (che vorrebbe dire 'principio', 'origine' 'comando'), si potrebbe mettere in discussione il meccanismo secondo cui il singolare è sussunto nell'universale; detto più pucciosamente: la pluralità dei singoli può sottrarsi all'egemonia dell'Uno che pretende di imporre l'identità ai molti. Si capisce cioè che l'approccio proposto non mira a chiamare alla rivoluzione permanente, ma alla rifondazione filosofica del rapporto tra etica (individuale) e politica (collettiva). 

Anarchia, anzitutto, come possibilità di libertà nelle differenze. Liberazione dalla logica dell'Identico. Seguendo Deleuze e Agamben, arriverebbe il collasso del soggetto in una nuda vita senza qualità: di fronte al soggetto de-soggettivizzato il Potere si ferma perché non ha più nulla da plasmare. E il fascismo si depotenzia.


 

Forti tuttavia si perplime circa il ticket Deleuze-Agamben, perché volenti o nolenti avremo sempre rapporti col Potere. Si può resistere in altro modo? C'è una via di mezzo tra il soggetto chiuso su se stesso e quello spersonalizzato nell'incontrollato svolazzare di libertà senza fondamento? C'è una via di mezzo tra un bisogno di norma (identità) e il bisogno di trasgredirla (abbandono della soggettività)?

Forti propone di usare in modo provocatorio il concetto di anima, superando il dualismo platonico in ambo i sensi (preplatonico e aristotelico): l'istanza è il bisogno di non farsi inchiodare in un'unica dimensione (cfr. Nietzsche: ci liberiamo dell'anima immortale per tenere l'anima mortale e duplice).

 


 

La filosofia moderna tende a separare etica e politica: nato il corpo politico, gli individui vengono isolati nella loro sfera privata (Hobbes, già), laddove Platone postulava una connessione circolare tra polis e anima del cittadino: era impensabile che l'individuo non fosse anche cittadino, anzi proprio la dimensione civile rappresentava l'inveramento dell'identità individuale.

Forti cita Vegetti: per Platone, affinché la città sia in pace, deve spegnersi il conflitto per il desiderio di potere e si arriva a ciò instillando giustizia nelle anime dei cittadini. Un uomo giusto abita in una polis giusta, una polis giusta genera anime giuste (cfr. Socrate nella Repubblica). La giustizia è una virtù di relazione: come in una polis devono andare d'accordo reggitori, guerrieri e produttori, così nell'uomo l'anima razionale deve guidare le altre due. Se le parti si dispongono in un sistema gerarchico conforme all'archè, l'anima diventa da molti a uno. Allo stesso modo i filosofi guidano gli altri due gruppi.

Oggi diremmo che la giustizia platonica sorpassa la libertà individuale, perché se quest'ultima prevale trionfa la tirannide, espressione dell'anima anarchica. Come si nota, tutto corrisponde nel micro e nel macro. Libertà è disordine, scissione, schiavitù. L'anima si sdoppia e provoca caos per sé e per gli altri. L'anima giusta unifica tutto sotto la forza del logos.

E oggi che il valore dell'unità del soggetto è stato destituito? Si può recuperare un concetto positivo di anarchia? Si può sfuggire alla gabbia della gerarchia funzionale delle parti? 

 


 

Forti fa la sua proposta riutilizzando indovinate chi? Socrate. Non solo quello platonico, ma pure quello senofonteo e oltre.

Socrate si opporrebbe a Platone nella definizione di anima: Forti sa di agire in modo arbitrario, ma dice di essere in buona compagnia (anche i Guelfi bianchi alla Lastra, del resto...).

Socrate non crede(rebbe) né all'anima immortale (quindi quello che parla nel Fedone sarà il gemello) né al dualismo anima-corpo (ripetiamo: Forti's opinion), ma concepisce un'anima anarchica che è giusta secondo criteri diversi. Non si tratta dell'obbedienza dei molti all'uno (archè, logos), ma di seguire un daimon che comanda di non seguire la doxa, ovvero l'opinione non verificata della città (ne parlano sia Platone che Senofonte, you know). Socrate promuove il potere critico del pensiero che sceglie cosa NON fare, destabilizzando norme stabilite e identità condivise e approvate dalla città. Il sé è duplice, il pensiero si lascia calare nella potenza dell'esterno ma poi sa ritirarsi per scomporre gli stimoli ricevuti e analizzarli, riplasmando i contenuti acquisiti. L'anima diventa il punto di partenza dell'essere altro da sé, l'inquietudine è incessante, identificazione e dis-identificazione si alternano incessantemente. Una dialettica perpetua, direi. L'anima non pone fine al movimento, scopre senza posa la propria duplicità, il proprio conflitto interiore, in tensione tra ciò che ci rassicura nell'appartenenza e ciò che farà venire meno appartenenza e sicurezza. Questa è la libertà, che può valere oggi come libertà dal fascismo e dal rigido determinismo. Siamo gli arbitri di noi stessi. Anarchia socratica is the new antifascismo, insomma: non farsi asfissiare dal Potere, vivendo in una mobile problematicità. Se per Platone nella Repubblica giustizia è unità, per Socrate la giustizia è l'anarchia della dualità che si sottrae al Principio.



C'era un rischio trappola in tutto il discorso, perché la distinzione tra un Socrate 'anarchico' e fautore della dualità dinamica contrapposto ad un Platone unitario e quasi 'reazionario' lascerebbe intendere una divergenza di pensiero tra i due, che si sarebbe potuta dimostrare solo avendo a disposizione almeno uno scritto solo socratico, cosa che notoriamente non si dà, visto che è sempre Platone la fonte. Allora si procede per incroci: il fatto che oltre a Platone ci sia anche Senofonte a parlare del daimon farebbe pensare che quest'ultimo sia un copyright socratico. Cioè: il Socrate della Repubblica parla, ma di fatto è Platone che scrive, laddove il Socrate, per esempio, dell'Apologia è quello originale, confermato indirettamente da Senofonte. C'è però sicuramente almeno un caso problematico sempre nella Repubblica VI 496C, dove Socrate dichiara: “Infine, il mio caso è difficilmente spiegabile - il mio segno demoniaco - perché oltre a me, fino ad oggi, è accaduto ad un solo ad altre poche persone”.  Epperò pare di capire da questi e altri passi che Platone non credesse così in fondo all'interiorizzazione del comando divino, perlomeno in uomini diversi dall'eccezionale Socrate. Insomma, la misteriosa forza anarchica sembra baluginare anche nell'opera in cui tutto il pensiero platonico converge verso l'unità. Dialettica sotterranea? Polarità etico- politica? Terreno scivoloso, gentlemen. Quindi prudenza. Ciò avrebbe peraltro aperto autostrade per una svolta realista (nel senso dell'interpretazione di Platone data dal compianto Giovanni Reale - mai citato da Forti), poiché il Platone-uno opposto al Socrate-due riporterebbe alle dottrine non scritte di Platone medesimo nelle quali, al vertice della gerarchia dell'essere, si trovano l'Uno metafisico e la Diade di grande - e - piccolo, dal cui ininterrotto confrontarsi derivano sia gli enti ideali che quelli concreti. Ma appunto.

Credo insomma che la proposta di Forti vada accolta come si accoglie l'Ulisse dantesco o pascoliano: il filosofo che tuonava contro i sofisti e il loro uso scaltro e spregiudicato della parola, che invitava a circoscrivere il concetto di ogni cosa di cui si parla, che concepiva la conoscenza come maieutica dell'animo sempre alla ricerca della verità oltre le apparenze, ebbene questo filosofo può dire molto ancora oggi. Bombardati come siamo da slogan usa e getta, abbarbicati ai relitti delle vecchie ideologie nel mare della post-verità, in bilico sul sottilissimo ciglio del transumanesimo, non possiamo non ricordare la lezione socratica. Però attenzione, perché il passo che porta a fare di Socrate 'uno di noi', l'anarchico antifascista, e arrivare alla brandizzazione del marchio è breve. Bauman docet.

mercoledì 22 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia2021 #1: Adelante, Pedro, con juicio (o dell'uso sapiente della maschera).

 

Relatori decisamente in forma al Festivàl tricittadino. Certo, alcune conclusioni ci perplimono, ma è il bello dello spirito critico.

 

 

A Sassuolo la prof.ssa Barbara Carnevali opina a proposito del possibile ‘uso intelligente’ della maschera in senso esistenziale (sì, Carnevali parla di maschere, non è una battuta). Parto dal fondo, cioè dal mio personale e spocchioso giudizio: la soluzione proposta dalla relatrice è certamente interessante, ma cela in sé dei rischi che secondo me non sono stati sottolineati adeguatamente.

Va però detto che, perlomeno, la dotta conferenza non è caduta nella trappola in cui spesso i conferenzieri si auto-intrappolano, ovvero spendere quattro quinti del tempo a delineare la storia del problema e tutte le sue sfaccettature, salvo poi guardarsi accuratamente dal chiudere con una propria proposta in materia. Carnevali propone. Non mi ha convinto del tutto, ma propone.

 


 

C’è la maschera ‘fisica’, indossata dagli attori di teatro nell’antichità, soppiantata poi, in epoca moderna, dalla faccia vera e propria degli attori, che quindi non affidano alla sola gestualità il messaggio (visto che la maschera è, evidentemente, a espressività fissa), ma integrano il messaggio stesso con la mimica facciale. Qui, non prima, non dopo, si colloca secondo Carnevali la svolta, in corrispondenza peraltro con l’affermarsi, nella civiltà cinque-seicentesca, del culto dell’apparenza, della sprezzatura, in una società in cui i rapporti interpersonali sono caratterizzati da tutta una serie di ritualità & convenzioni che danno vita a quello che tutti noi abbiamo imparato a chiamare il teatro del mondo. Di fatto, qui si realizza la perfetta aderenza tra il latino persona (= maschera) e l’idea moderna di persona: la persona “recita” nella sua stessa vita. Finzione e realtà non hanno più la maschera a separarle.

 


E oggi?

Siamo un po’ tutti in scena, ogni giorno. Siamo attori sociali. In uno scenario decisamente dualistico. La nostra società, mercé i social network, gioca tantissimo sulla visibilità che rende gli instagram -addicted (e simili) ‘soggetti’ in due sensi, ovvero ‘attori protagonisti’ dell’identità che decidono di costruire sul social, ma anche ‘sottoposti’ alla vista di un pubblico dai cui giudizi ci si può sentire drammaticamente condizionati. In questo caso si perde del tutto, o quasi, il controllo della propria immagine (do you remember il film Birdman?). “Esporsi”, del resto, significa “porsi fuori” (ex- ponere) di sé, aprirsi, esibire il proprio profilo, ma anche “offrirsi agli altri”, “mercificarsi” (gli influencer, del resto...). La ‘visibilità’, insomma, va intesa in due sensi (vous vous souvenez du Panopticon di Foucault?): farsi vedere o essere catturati dallo sguardo altrui. Del resto la maschera stessa si presta ad un’ambiguità assai interessante: si consideri infatti che un conto è la maschera che riproduce un determinato volto (e che viene esibita sui social) un altro è la maschera che, anche nei migliori carnevali (con la minuscola) della Serenissima, serviva all’esatto proposto, ovvero a celare la propria identità. In altre parole, questa maschera non serve ad esibirsi, quanto piuttosto a proteggersi (¿Recuerdas La casa de papel?). Sta a noi scegliere quanto esporre e quanto nascondere. 

 


La maschera, Pirandello docet, è il portato necessario dell’esigenza di essere ‘riconosciuti’ dalla società: siamo artificio di noi stessi per stare al mondo, di fronte al pubblico anzitutto costituito dalla nostra sensorialità corporea (noi ci autopercepiamo come maschere, siamo attori e spettatori di noi stessi), poi a quello esterno. Il che ovviamente comporta il rischio di di moltiplicarci in una pluralità di persone diverse e il problema sarebbe “tenere il filo” di tutte queste facce. Ci vorrebbe una sorta di “maschera delle maschere” che gestisca il tutto. Una "maschera trascendentale", mi verrebbe da dire.

 


E’ a questo punto che Carnevali svolta: in luogo di prodursi in un anatema contro la società della maschere, la docente, dismettendo il concetto cristiano-romantico di identità (ovvero la capacità di distinguere sempre il volto vero e la maschera finta), propone alla tedesca la Maskenfreiheit, ovvero la “libertà della maschera” o la “libertà mascherata”. Si tratta di una sorta di ‘ritorno’ al teatro del mondo di cui sopra. Che male c’è, opina Carnevali, a ‘giocare’ con le maschere? Esse, in luogo di annullare la nostra identità, ci aiutano al contrario a non restare ‘intrappolati’ in un unico modo di essere, quello che noi riteniamo corrispondere al nostro vero io, ma che può risultare assai limitante. Perché non aprirsi a nuove esperienze ‘indossando’ maschere che ci fanno superare limiti che la nostra identità standard non saprebbe affrontare? Scegliersi un modello e imitarlo, uscire dal noto per vedere se nel meno noto si possono trovare magari nuovi stimoli che vadano ad arricchire il nostro bagaglio identitario, why not? Fuori dalle convenzioni imposte, liberi di scegliere nuove possibilità (seguono esempi presi dal mondo delle Drag queen e del Queer, con accenni alla questione della fluidità di genere). Trasgressione a parte, che bello dev’essere gettare la maschera del quotidiano e indossarne una nuova e più appagante? (Erinnern Sie sich an Thomas Manns Der Zauberberg, quando Hans Castorp ci prova con la tizia?). Il Carnevale non è del resto sospensione momentanea dell’identità? Insomma, mi permetto di interpretare il Carnevali-pensiero, senza che fischi nessun treno, fate come Belluca, scardinate per un attimo il vostro io asfittico e diventate qualcun altro. Per poco. Magari. Ma trovatevi un ruolo che vi appaghi. Che la cosa serva a conoscere persone nuove o al contrario ad essere finalmente lasciati in pace da chi è abituato alla versione standard di noi, basta che funzioni. Carnevali dissente dai pensatori cattolici & romantici che raccomandavano di gettare le maschere per mettere a nudo il vero Io. Moltiplichiamo le identità mascherate, casomai: QUESTA è libertà dai condizionamenti. Dice lei.

 

Ecco.

Carnevali ha ammannito la sua proposta con un sorriso soave, certa e fiduciosa di una soluzione che va un po’ a rompere la solita polemica sulla società finta & plastificata che ci tiriamo dietro da almeno 40 anni. O meglio: non è detto che in questa società finta sia impossibile, saltabeccando di maschera in maschera, trovare più appagamento che alienazione. Certo, il fatto di appellarsi a quel rutilante carnevale perenne che era la società cinque-seicentesca può rendere, con amabile ossimoro, la sua proposta innovativamente regressiva. Ma ciò che ci perplime di più è la fiducia carnevaliana nella possibilità di giocare con le maschere senza venirne sopraffatti. Nel caso della maschera come garante dell’anonimato, credo che il fenomeno hikikomori abbia già suorpassato a destra la questione posta dalla professoressa: oggi si può scomparire al mondo semplicemente non uscendo di casa e affidando al web i contatti selezionati con l’esterno. Quanto alla maschera come ‘avventura’ fuori dalla piattezza dell’io standard, la dotta conferenziera mi è sembrata avere la certezza che, quale che sia la maschera-modello che cercheremo di assumere, saremo sempre in grado di percepire il limite tra l’imitazione e la perdita della nostra identità. E qui mi permetto di dissentire. Come la spocchiologia più avanzata ha indagato a partire dalla metà degli anni ‘90 del secolo passato, il problema in una società così morbosamente fissata nello stabilire modelli cui la massa deve adeguarsi è legato alla capacità dei singoli di interagire con la radianza dei modelli stessi. Io posso scegliere – seguo la tesi carnevaliana – un attore famoso, un cantante, uno sportivo e fare di lui un paradigma per la mia maschera. Affinché la radianza di costui non risulti dannosa per la mia identità, è necessario che il paradigma rimanga settato sulla modalità ‘generico’: io posso desiderare di essere ‘come lui’, adeguando cioè gli stimoli che da lui derivano alla mia irripetibile unicità. Un lavoro di sintesi che mi porta ad allontanarmi dalla mia comfort-zone identitaria per arricchirmi. Peccato, e qui dissento da Carnevali, che per le più varie circostanze (un momento emotivamente difficile, la scelta di un paradigma troppo arduo da imitare o al contrario un fascino paradigmatico fin eccessivo da costui esercitato) possa avvenire che il paradigma generico diventi modello specifico: io non voglio essere ‘come lui’; io voglio essere LUI. Di qui un’alienazione identitaria dalle conseguenze potenzialmente devastanti: basterebbe citare i casi di anoressia legati alla volontà irrazionale di adeguarsi ai modelli di bellezza incarnati (o in questo caso sarebbe meglio dire scarnificati) dalle modelle filiformi.

Non so quindi quanto la proposta di Carnevali sia applicabile senza rischi: anzitutto, per decidere di ‘mascherarmi’, devo provare una certa insoddisfazione per ciò che sono e un desiderio di evoluzione. Fisiologico, si direbbe. Necessario, anzi. Certo: basta che il desiderio venga più da dentro che da fuori. Più chiaramente: è difficile che un desiderio paradigmatico sorga dal niente all’interno di una qualsiasi coscienza, poiché è sempre l’interazione col mondo esterno a definirci e provocarci al cambiamento. Sarebbe però opportuno che questo stimolo esterno incontri una fase di ridefinizione interna dell’identità che sente di aver raggiunto determinati limiti e desidera ampliarsi. Io posso piacermi come sono, ma sentire che posso essere anche qualcosa di più ad integrazione di quello che già sono. Me lo sento io, me lo dice il mondo esterno e io accolgo il suggerimento. Scelgo il paradigma che mi aiuta a fare il salto e va tutto bene. Altro caso è però quello in cui il bombardamento di stimoli esterni arrivi a minare la certezza di ciò che sono stato sin qui, facendomi sentire d’un colpo inadeguato, limitato, perdente. Come se tutto il tempo passato fosse stato un gigantesco spreco, decido che ciò che sono e sono stato è un’identità insopportabile, asfittica, inutile. Di qui la disintegrazione della barriera tra me e il paradigma e il mio precipitare- annullarmi su di lui, divenuto nel frattempo modello specifico. Su questo Carnevali ha trasvolato un po’ troppo. Cambiamo pure maschere, basta che la faccia (= l’identità) sottostante non si disintegri. Sennò ti saluto “uso emancipatorio e creativo offerto dalla finzione”. Ricordate Face off con John Travolta e Nicholas Cage? Ecco.

domenica 10 gennaio 2021

Democrazia 4.0. Sull'obbligo vaccinale ai tempi del Covid19.

Problema: c’è una pandemia in atto. Il virus è altamente contagioso e (meno altamente, ma la cosa non consola) letale, le attività ordinarie della vita quotidiana vengono soggette a ripetute interruzioni forzate. Al di là delle misure precauzionali standard (distanziamento sociale, uso della mascherina, disinfezione delle mani), la comunità scientifica afferma che l’unica vera soluzione alla catastrofe è la vaccinazione di un'alta se non altissima percentuale della popolazione per raggiungere l’immunità di gregge. Succede tuttavia che ampie frange dell’opinione pubblica non vogliano sottoporsi alla vaccinazione: ciò si deve a tutta una serie di pregiudiziali che vanno dal semplice atteggiamento antiscientifico (complottismi assortiti) a questioni, potremmo dire, di obiezione di coscienza (lo Stato non può condizionare la mia libertà di scelta in materia sanitaria), passando per atteggiamenti che mischiano prudenza e paura (faccio vaccinare gli altri, poi vedo). Pregiudiziali, si noti, che spesso si combinano.


L’eccezione fondamentale che si muove all’ipotesi (oggi, comunque, remota) della vaccinazione di massa obbligatoria è che una democrazia non può calpestare la libertà di scelta dei suoi cittadini, perché si trasformerebbe in dittatura. Ora, anzitutto per parlare di dittatura bisogna perlomeno che le istituzioni democratiche siano sospese e sostituite da un regime autoritario (si veda la storia della prima metà del secolo scorso): nel caso presente, le istituzioni democratiche mondiali (quale che sia il giudizio che si può avere su di esse prima e durante il presente disastro) sono ancora al loro posto. Secondariamente, i provvedimenti “di salute pubblica” di una dittatura prevedono semmai il sequestro e la deportazione di individui ritenuti “nocivi” per la società (non credo sia necessario allegare esempi): nel caso presente si deve semmai notare che le istituzioni democratiche si stanno attivando per l’inoculazione di un vaccino contro un virus, non contro gruppi umani “indesiderati”, in modo da ridurre al minimo la contagiosità del medesimo e ritornare gradualmente alla vita ordinaria. In terzo luogo, rinunciare alla vaccinazione di massa significa, semplicemente, rassegnarsi a veder dilagare il virus senza certezze sul momento in cui la sua contagiosità diventerà controllabile; di conseguenza, non sarà possibile sapere quando finirà il tragico sgranarsi del rosario di lockdown leggeri e pesanti; conseguenza della conseguenza, la già prostrata economia mondiale, i sistemi scolastici forzosamente blindati nella didattica a distanza, nonché le condizioni psicologiche di gran parte della popolazione mondiale collasseranno irrimediabilmente.







 Non si tratta di ricattare i non vaccinisti con minacce di chissà quale apocalisse: l’apocalisse è già qui, in embrione, e cresce di poco ogni giorno che ci distanzia dall’immunità di gregge. Pongo pertanto la questione: se democrazia significa “governo del popolo”, ciò vuol dire che il popolo delega i suoi rappresentanti a decidere su materie sulle quali, a motivo della loro complessità, il popolo stesso non può aver titolo a decidere: il Covid e relativa vaccinazione, per esempio. A questo punto, tocca alle istituzioni democratiche passare da “governo-del-popolo” a “governo-per-il-popolo”: una vaccinazione obbligatoria non lede le libertà individuali, ma è una misura eccezionale (sia chiaro: ECCEZIONALE) perché noi tutti riacquistiamo la libertà di vivere come vivevamo prima. La Costituzione italiana all’art. 32, con ulteriore interpretazione della Corte costituzionale, non esclude questa possibilità (https://www.ilsole24ore.com/art/lo-stato-puo-obbligarci-fare-vaccino-ADKUe36). Siamo a uno dei nodi tragici della vita associata: la mia libertà può confliggere col bene della collettività? Certo, i non vaccinisti risponderanno che qui sono in gioco interessi economici e tentativi di lavaggio del cervello su scala mondiale che rendono inaccettabile la proposta. Prima però che qualcuno parli di moderne Antigoni che antepongono la coscienza individuale alle leggi dello Stato, sia chiaro che oggi affrontiamo una situazione senza precedenti nella storia. E situazioni senza precedenti richiedono rimedi senza precedenti. Non abbiamo certezze ASSOLUTE circa l'interruzione della catena del contagio e la durata dell'immunizzazione acquisita col vaccino. E tuttavia, queste incertezze svaniscono di fronte alle certezze di catastrofe che un virus non combattuto ha in serbo per noi.