Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

giovedì 7 maggio 2015

UGF 03X05: "Voglio che almeno tu mi credi".

E così, il latino una volta, il congiuntivo un'altra, la nostra fiction-guida assassina i fondamentali della nostra stessa lingua madre, facendo peraltro pronunciare ai personaggi una serie di parolacce che francamente non ricordavamo così numerose in precedenza e francamente non ci paiono contribuire in nulla alla pretesa di realismo dei dialoghi e delle situazioni. Ma tant'è, schiattato il Capofamiglia, i familiari, dopo 29 giorni (29, eh? Non 30 né 28, per carità...) riprendono il loro niente, tra piccoli rancori e cazzimme assortite.

Quanti episodi ancora? Sei sicura...?

1) Sorde seduzioni: Gradisca fa capire all'allampanato ingenuo che si è rotta dei ristorantini etnici, e del karaoke con Chariot di Betty Curtis e che sarebbe il caso di passare al piatto forte. E lui non capisce. Allora lei inizia a fare le fusa; e lui non capisce. Alla fine gli si spalma addosso; e le zone australi di lui capiscono. Eccoli dunque a casa di lui, "la mia cameretta è a 5 metri...", ma lei non se ne dà per inteso e apre bottega già sul tavolino d'ingresso, cosa che convince definitivamente anche le zone boreali di lui a concedersi a piaceri proibiti. L'ingenuità della sequenza è tale che, men che mai eccitarsi, si fa fatica addirittura a ridere, se non ad avere pietà di cotanta goffaggine a 15 anni da Sex and the city.

"Dov'eri quella sera?" "Sai tenere un segreto?" "Sì" "Anch'io, come vedi"

2) Torde seduzioni: Calimero, 29 (29, eh?, attenzione...) giorni dopo essere rimasto orfano di padre, con cui peraltro non ci si era lasciati proprio benissimo, si mostra impegnato in una relazione peccaminosissima con una tizia a caso che occupa i suoi pomeriggi andando ad ascoltare l'autoradio sotto i cavalcavia della Brianza. Ed ecco che, senza sapere nulla l'uno dell'altra, nemmeno i nomi, i due gabbianelli in attesa di volare volano sui sedili non ribaltabili della comodissima Alfa Romeo di lui, che pare aver ritrovato i corpi cavernosi di sempre. Peccato, scopriamo poi, che la tizia misteriosa sia compagna dello psicologo di Calimero, il quale psicologo prende atto della rinnovata primavera testicolare dell'assistito, senza manco immaginare dove vada a finire il polline. Verosimilissima casualità...

Allora, la parte dell'uomo- sandwich la fa Niccolò...

3) Balorde seduzioni: Reggianino, che al contrario dello zio/fratello tiene ben chiusi a chiave i ninnoli pregiati, riceve in eredità dal defunto nonno un'antica edizione dei Sonetti di Shakespeare, ma guarda il caso, uno dei rari casi di liriche d'amore omosessuale della storia (tralasciando l'identità del fair friend, se era il visconte o il granduca o qualcuno degli amichetti di Will nostro). Detto pure che il Capofamiglia non immaginava di schiattare così all'improvviso, si può dire che ci abbia visto lungo. Il patrimonio di spunti viene tuttavia vanificato da una fobia con delirio di interpretazione che fa vedere a Niccolò pericoli ovunque. Nonostante la cravatta rossa ereditata dal nonno, evidente simbolo fallico dai poteri sciamanici in grado di evocare le più remote energie delle viscere della terra e non solo, baby Reggiani non crede che con Mattia possa quagliare, si è mai visto uno che, per provarci con te, ti propone di venire in piscina assieme uno di questi giorni, magari ti lascio il mio cellulare così mi avvisi? Non sarà un approccio, questo? No???? Beh, per Niccolò no. E' Mattia che vuole celiarsi di lui, nonostante sia fidanzato. L'etero che gioca al gay. Boh. E così le occasioni per Reggianino vanno tramontando una ad una.   

La ceretta? Non ti basta 'sto stacco de mascella?
4) Ingorde seduzioni: Jamal aggranca più e più volte Valentina, laddove il nerd si consola con la miniGradisca. Un tira e molla di musi, faccette, congiuntivi saltati, bugie assortite che fa sembrare uno splatter Il tempo delle mele.

5) Momento Giocafiabe: Morelli porta Rocca nella stanza degli scarti di fabbrica a sprimacciar cuscini per dimenticare il colloquio con Edo, che ha comunicato intenzioni divorziste per consentire a Chiara di continuare a cavalcare l'onda con Raoul. Così, tra svolazzi di piume degni della celeberrima fiaba, la nostra azzimata moglie del defunto che torna sempre in vita, quindi una perfetta vedova- non vedova, tenta di dimenticare il fatto di essere la prova vivente della veridicità del paradosso del Gatto di Schroedinger.

5) Momento appealing: Raoul vede Jamal pregare e dice di invidiarlo, Jamal replica che non tutti i musulmani sono integralisti, lui, per dire, ha una cugina che va all'università. E così le remote origini ideologiche leghiste della fiction sono sepolte foreverandever.  

5)  Resta il testamento di Ernesto, che alla fine premia l'ex Brooke Logan di casa, che si cucca il 25% delle azioni solo per aver tirato fuori un portaombrelli ergonomico con la stampante 3D. Ah, però. Resta la raffreddata Fehlbehrbauhm, che per fortuna schioda a metà puntata, non dopo averci regalato siparietti con Calimero che renderebbero trasgressivi i dialoghi tra Satomi e Marika (minuto 11.21). Resta Nora che dichiara odio eterno a Edo (ma scusa, lui le ha combinate lui le ha risolte, non vale più il principio della redenzione? Ma se la sono letta la Fabula Aristaei, questi?)

6) Resta, signori miei, che quest'anno UGF fa venire un latte alle ginocchia tale da farci rimpiangere Primi Baci. Il che è tutto dire. 

sabato 2 maggio 2015

Le grandi recensioni di Machittevòle: 1992- la serie.

Per consolidata (?) tradizione, a Machittevòle ci piace recensire il serio e il faceto. Il campo del faceto, almeno fino all’estate, è occupato in pianta stabile dalle Rengoneide di RAI1, fiction che riesce a riassumere tutti i cliché nostrani in modo almeno digeribile.
C’è, per il serio, la terra incognita delle programmazioni Sky, che sin qui non avevamo esperito per mancanza di tempo (e di decoder con possibilità di vedere i programmi fuori orario), e nell’ultimo mese abbiamo potuto assaggiare una minestra di sapore ben più asprigno, ovvero la serie in dieci episodi dedicata ai fattacci di Tangentopoli, 1992, appunto. Datosi che noi qui al blog di quella fatal epoca se ne parla spesso, (del resto...)(d'altronde...) e che comunque un’escursione fuori Rai male non fa, vogliamo ora procedere a scannerizzare il buono e il non buono della serie nata dalla capoccia di Stefano Accorsi in Casta.
Non abbiamo in mano elementi per giudicare il risultato complessivo in rapporto ad altre produzioni della rete come Gomorra o Romanzo Criminale, abbiamo letto pareri di chi ritiene meglio 1992 e di chi la ritiene un passo indietro rispetto alle altre due. Certo, mettere le mani in una materia incandescente nelle sue contraddizioni come l’anno che ha segnato lo sfrancicamento biscottoso di un sistema che si credeva immutabile, non è mai operazione indolore, né per gli autori, né per gli interpreti, né infine per gli spettatori, il grosso dei quali, se non tutti, quei fatti li ha visti in TV e ne ha soppesato gli effetti nelle rispettive amministrazioni locali, perlomeno quelle che furono traforate dalla grandine degli avvisi di garanzia.    
Insomma, partendo dal fondo, ovvero dal giudizio complessivo, io e la Spocchia abbiamo trovato la serie in oggetto certamente più che discreta, ma non eccelsa, coraggiosa, ma non sempre a squadro nei suoi obiettivi, al di là delle dichiarazioni degli autori e degli attori. Procederemo a guardare i risultati della fiction in sé, quindi giudicheremo il giudizio dato all’anno in oggetto.

1) Si è rinunciato all’intento didattico, hanno detto: niente fredda e puntigliosa cronaca di quei mesi allucinanti in cui la politica italiana parve implodere su se stessa. Quei mesi fanno semmai da cornice ai personaggi che vi si muovono dentro. Né, del resto, storiella edificante in cui i buoni (Di Pietro e relativo pool) erano tutti da una parte e i cattivi (Craxi e relativi sgherri) dall’altra, e allora lo spettatore sarebbe stato automaticamente indotto a tifare per i primi. Prevale, pare, l’idea della rivoluzione più apparente che reale, che vide all’epoca tutti ubriachi di Nuovo senza accorgersi che il vecchio si stava solo riorganizzando sotto rinnovate spoglie. I personaggi principali transitano poi sul pericoloso crinale del giusto e dell’ingiusto, con maggiore o minore senso etico uno rispetto all’altro, ma, come nelle vere tragedie da Eschilo in giù, è difficile dire chi sia il buono e chi il cattivo.
Vediamo quindi in azione un composito sestetto (il manager senza scrupoli dal passato di ex sinistrino e morti assortite alle spalle, l’aspirante soubrette, la fighetta figlia del tangentocrate, il poliziotto assetato di vendetta per guai suoi, l’altro poliziotto che lucra sulle soffiate, il reduce di guerra attratto in orbita Lega nord) che interagisce non poco al proprio interno. Certo il personaggio più mefistofelico è Stefano Accorsi-Leonardo Notte, uno Iago in salsa Publitalia che vive sulla triade illusione-delusione-collusione e ha capito dove vanno le aspettative degli italiani, a suo giudizio un popolo di onanisti giocherelloni, vedendo in Berlusconi l’uomo in grado di occupare la piazza fatiscente dell’ex arco costituzionale, ridotta al momento a macerie fumanti e cadaveri sbrindellati. Il suo non facile passato, il rapporto quasi paterno con la quasi figlia (che fa pure la Rengoni, ah, il conflitto di interesse…), la dipendenza da sesso e droga lo rendono inequivocabilmente figlio degli eccessi e delle storture degli anni ‘80 da poco finiti: anni di cavalcate epiche lungo le corsie del mito del benessere, del successo che non impedisce di dedicarsi al fitness, delle mirabolanti opportunità di arricchimento, lecito e spesso illecito, offerte da una nazione in pieno rigoglio post-anni di piombo, decisa ad agganciarsi al treno dell’edonismo reaganiano e godere della rosa fiorita più che andare in cerca di quella tardiva (larariiii….). Credibile, certo, meno stereotipato di altri. Credibile soprattutto come uomo che, da ben altra prospettiva di quella politica, osserva il mutamento sostanziale di una società, o meglio ancora l’emergere di componenti fin lì abilmente censurate dalla cultura “ufficiale” e solo da poco abilmente titillate dalle leggi comunicative di Fininvest, con i suoi messaggi inneggianti al consumismo e alla gioia di vivere. Ne fa la prova il filmatino licenziosetto e provocatorioncello di Non è la Rai (dove Carrano-Migliacci cantano l'immortale Tutta tua...aaa...aaahh) con cui il Notte seduce il cliente “scarpe grosse e cervello fino” che pure un occhio al vestitino fasciante di Roberta Carrano non riesce proprio a non farlo cadere (sull'anacronismo del filmato, vedi oltre). Non v’è dubbio, in effetti, che una tesi di fondo, a dispetto delle dichiarazioni degli autori, ci sia in 1992, e Berlusconi ne è il protagonista negativo, per quanto nelle dieci puntate lo si intraveda appena. Ma di questo alla sezione 2.
L’altro personaggio certo ben quagliato è il poliziotto Robin Hood di se stesso Luca Pastore (Domenico Diele, con l’amichevole partecipazione del naso di Alessandro Cattelan), infettato dall’HIV per colpa di una partita di sangue sbagliato smerciata da Michele Mainaghi, in 1992 uno dei primi arrestati dell’inchiesta dipietresca e tra i primi a togliersi la vita una volta vistosi senza futuro. La pencolanza del Pastore sta appunto nel suo non saper dire a se stesso se la propria sete di giustizia sia individuale o collettiva. Pare a volte che il suo unico obiettivo sia la rivalsa sul Mainaghi e arrivederci a tutti, poi però, morto il predetto, sottili filamenti pentimentosi si insinuano nel suo cervellino, senza che ciò gli impedisca di andare a fondo nella vicenda del sangue infetto, e comunque davanti a lui come a tutti rimane la preda più ambìta il cui cognome squilla in trappola solo a fine serie: Craxi. Non ha scrupoli, il Pastore, ad inguattarsi con la figliola stronzetta ed episodicamente tossicomane del Mainaghi, a spifferare cose alla giornalista sorella dell’altra zoccola, a trafugare documenti, a minacciare con la pistola gente, a piazzare microfoni nascosti senza essere (momentaneamente) più un poliziotto, ponendosi così in bilico tra una forma di giustizia tutta personale e il dovere civico di un servitore dello Stato. Credibile, abbastanza. Che l’inguattamento con la Mainaghina gli riesca al primo colpo, e che lui sappia già dove andare a spizzettare le carte segretissime di famiglia, un po’ meno.
Detto dei due personaggi più convincenti, c’è la semi-perplimente Beatrice Bibi Mainaghi, interpretata da una controversa Tea Falco, ovvero da una attoressa di origini siciliane che ha dovuto vestire la sua dizione con l’accento milanese fighetto di una mezza scema, con altalenanti riscontri critici e piccate risposte. Personalmente, la quasi caricaturalità dell’accento non mi ha provocato sussulti: è una pesantezza che a suo modo riempie la vuotezza del personaggio, vuotezza necessaria per dirci di un’anima cresciuta nel tutto che non porta a niente, nella ricchezza fine a se stessa che non costruisce humanitas, ma si autodivora e autonutre come il Bt Raffaello, entro un orizzonte in cui l’unica morale è avere e non essere. Come lei, appunto. Che però poi mostra un certa “essenza” quando le tocca guidare il carrozzone di famiglia per sopraggiunto suicidio paterno. Certe unghiette non le mancano, a dire il vero, come pure certa predisposizione alla menzogna, visto come fa sparire i miliardi dai conti, si sbarazza del CEO e racconta balle al Pastore circa le azioni legali del padre con la ditta vendisangue che avrebbe smerciato le sacche infette. Sospesa pure lei tra Elisio e Tartaro, non le manca l’occasione di infrattarsi tanto col Pastore quanto col Notte, a mostrare che le due personaggesse femminili della serie hanno in comune certa zoccolaggine multidirezionale che francamente poteva accennarsi senza eccessivi approfondimenti, visto che sono temi di tutte le epoche. Bibi è quindi più un fumetto che un personaggio, nei suoi eccessi e nelle sue incoerenze.
E’ la seconda metà del sestetto che però necessiterebbe di adeguata revisione: una Miriam Leone insoubrettita nei panni (e anche senza i panni) di Veronica Castello, una che passa agevolmente di letto in letto, pur tentando di fare la sorellona maggiore con la quasi figlia del Notte, pur aspirando a mostrare che sì, c’è un cuore sotto quel reggicalze, che ambire al successo televisivo è una pratica lecita né più né meno che fare un concorso in magistratura, insomma la zoccola dal volto umano che tanto cinema e tanta musica ci hanno già ammannito, non è ‘sto botto atomico come si vorrebbe credere, al netto dei rapporti retroattivi con Accorsi o le notti infuocate padane coll’ex soldato. Il fatto è che il mondo dello spettacolo è da sempre, sotto quel punto di vista, un carnaio, e che quindi una Castello vogliosa di condurre di Domenica In si collochi nel 1992, nel 1980 o nel 2012 poco cambia. Questo tipo umano non è il prodotto della TV commerciale, la quale semmai ha acuito il fenomeno, perché appunto Domenica In è roba della Rai, e Boncompagni già da 5-6 anni riempiva il salotto della domenica di fanciulle alte di garrese per ingolosire il pubblico. Le puntate di 1992 ci propongono semmai una pazzerella bipolare in bilico tra santità e perversione, gravidanza e aborto, carriera e sesso astruso che non ha una ragion d’essere esclusiva nel 1992 piuttosto che altrove.
Poi i due personaggi meno riusciti, a nostro giudizio: il poliziotto spifferatore Alessandro Roja/ Rocco Venturi, sempre in cerca di soldi per mantenersi i viziucci, che tenta di inguaiare il Notte, ricevendone in cambio copiose minacce di contro-inguaiamento, che ausculta i piani di Di Pietro e li riferisce ai diretti interessati, che alla fine si fa schiattare a colpi di cric. Un tapinello che fa la controparte poliziottesca a Mario Chiesa, gente cioè che campa di briciole altrui. Non si parteggia per lui né lo si odia. Fa pena nella sua meschinità, ma soprattutto si avverte che, sottratto lui, la serie ne patirebbe ben poco.
Doveva invece essere inquadrato meglio il personaggio di Guido Caprino/Pietro Bosco, il neo-leghista assoldato dopo aver salvato la buccia ad un leghista cicciotto, tal Bortolotti, che stava per venire sfracazzato dagli albanesi (stereotipo mode on): il Bosco si fa portavoce del nord incazzoso, ma alla fine gli autori decidono di mostrarne soprattutto il côté velleitario, l’immagine del politico arrivato per caso a Montecitorio che poi non sa più da che parte sbattere e che facilmente cade nella rete del marpione esperienziato, il democristiano Nobile suo coinquilino, che lo istruisce sugli untumi del Palazzo, gli sistema la momentaneamente fidanzata Veronica in Rai e chiede però in cambio favorucci per mercantucci di armi. Salvo vedersi votare l’autorizzazione a procedere anche dal Bosco, cui pure risultava che il Nobile fosse vittima di ripicche di partito, ma i leghisti celoduristi gli hanno detto: “Voti comunque a favore, se non per questa roba, deve pagare per tutto il resto”. Peccato, e non solo per il pesante accento delle mie parti che qui sì mi ha dato un certo fastidio (che poi, si è mai sentito uno di cognome Bortolotti abbreviato in “Bòrto” con la o aperta? Suvvia…), né per l’insistita caricatura di certo leghismo sguaiato e ottuso. Si poteva, assai assai, approfondire il nocciolo delle proteste leghiste, che erano legittimissime in quegli anni: l’imprenditore che non ne poteva più di farsi uccidere dalle tasse che finivano regolarmente nel carrozzone senza fondo delle Partecipazioni statali; l’impiegato che vedeva il vicino di casa, ufficialmente impiegatino come lui a stipendio fisso, girare in Mercedes e fare le vacanze alle Maldive; il piccolo commerciante che si vedeva il dirimpettaio ottenere permessi edilizi su permessi per ampliare i locali fino a creare una reggia, mentre a lui veniva negata la rettifica di un muretto per impiantare il cancello automatico sulla base di oscure mancanti condizioni di agibilità. Eccetera. Di fatto, si è voluto retrocedere il fenomeno del grillismo al 1992, facendo della Lega l’antesignana dei 5Stelle, perlomeno di quella frangia ondivaga e inconcludente del movimento. E il tutto buttato sulle spalle di un miles ingloriosus anche abbastanza stantìo.
Per dire insomma che i personaggi, quelli principali almeno, non hanno del tutto soddisfatto le attese. Quanto alla storia in sé, credo si proponga il solito problema del rapporto tra cornice e contenuto (il solito, eh…?).
Dicasi: se chiami una serie 1992 in riferimento a quei fatti lì, devi fare il modo che ogni singolo fotogramma della storia sia impregnato di quei fatti lì e che i personaggi ne traggano alimento come frutti dai rami. Troppe volte, specie nel corpo centrale della serie, è sembrato invece che le microstorie dei singoli siano procedute in fin dei conti indipendentemente dalla cornice storica che ne faceva da premessa, cornice evocata giusto cursoriamente con le date inserite in sovrimpressione ogni tanto: c'è stato quel senso di sostanziale estraneità alla circostanza storica che già spirava da certe puntate di Un matrimonio, allorché la famiglia Parenti/Ramazzotti passava attraverso tutti i fatti cospicui del secondo '900 italiano, ma, contestazione sessantottesca a parte, come se questi fossero giusto lo sfondo lontano delle vicende private. E' cosa nota, quello del rapporto tra personaggi di invenzione e cornice storica è un problema che ci tiriamo dietro dai tempi de I promessi sposi, e Manzoni l'ha risolto come sappiamo (i tre capitoli storici, ecc. ecc.). Qui, televisivamente parlando, l’aria sovreccitata di quei mesi non sempre è traspirata dalla fiction: il Notte per certi versi sembrava più che altro uno yuppie con la carriera in crisi, il Pastore un giustiziere della notte nostrano, il Bosco un topo di campagna arrivato in città, ma come poteva essere qualunque altro personaggio in qualunque altro contesto storico a prescindere dallo scoppio di Tangentopoli. Ricordiamo tutti, tanto per mischiare il serio e il faceto, che anche un telefilm ottimerrimo e scanzonato come I ragazzi della 3C ha funzionato eccellentemente nelle prime due serie, quando ogni puntata era indissolubilmente legata al contesto anche ambientale della scuola dei protagonisti; la terza serie, con lo stesso titolo e con gli stessi ragazzi, ma all’università, ha perso sin da subito la sua ragion d’essere, e infatti è stata assai deludente. Così 1992 ha dato l’impressione di sfilacciarsi troppo nel privato dei personaggi, blurrando la grandiosa cornice pubblica delle loro vicende. Si dirà che sono equilibrismi difficili, specie se si vuole evitare il semplice resoconto storiografico. Chiaro. Si tratta di dover ovviamente romanzare la vicenda e quindi inserire elementi non immediatamente funzionali alla pura cronaca, sennò tanto basta La storia siamo noi. Epperò qualcosa, nel dosaggio, non ha sempre funzionato.


2) Quanto al messaggio del film, non è vero, si dica quel che si vuole, che manca la tesi nella narrazione, fatta salva la voluta liminarietà di buoni e cattivi. E’ chiaro che l’azione di Leonardo Notte si dipana lungo tutti i dieci episodi, con picchi e fallimenti, per dirci che il baratro di Mani Pulite è stato la precondizione della discesa in campo di Berlusconi, che a colpi di Publitalia predispose la creazione di un soggetto politico nuovo, vendibile come un qualsiasi prodotto di marketing, con l’obiettivo di “salvare il Paese delle banane”, o più probabilmente se stesso e le proprie aziende. Tesi, questa, non nuova, giacché già nel lontano 2001 o giù di lì l’allora vice- ammiraglio de L’Espresso, Antonio Padellaro, in una puntata di Porta a Porta disse chiaro e tondo che non era vero che dal ciclone tangentopolizio aveva tratto vantaggio il PDS, che si era visto squagliare tutti gli avversari e liberare la via verso il governo del Paese, perché il vero avvantaggiato era stato Berlusconi, che aveva riempito il vuoto lasciato dai partiti della Prima Repubblica, approfittandone per costruirsi un soggetto politico atto a ridurre l’Italia a proprio uso e consumo. Ricordo che dal pubblico della trasmissione, tradizionalmente rigido come uno stoccafisso, partirono singulti di sarcasmo, giacché, negli anni in oggetto, si era notato che il PDS, rispetto ad altri partiti, aveva subìto assai meno l’assalto dei PM, e non si trattava di gente più santa di quegli altri, ma lì c’era tutta la querelle sui magistrati rossi che avrebbero “chiuso un occhio” o forse tutti e due, su certi illecitucci delle cooperativucce, per tacere dei finanziamentucci che venivano da Mosca quando i tempi erano più floridi, e comunque la maxitangente Enimont era finita anche nelle casse rosse, insomma, la tesi padellaresca parve ai più un cesellato sofisma per rovesciare una realtà vista in ben altro modo da molti.
Questo nel 2001. E oggi, dopo circa 9 anni di Berlusconi al potere, 20 di berlusconismo come categoria politica da amare o odiare e altrettanti di trionfo delle logiche Mediaset nel tessuto culturale del Paese profondo (dicasi tronisti e talent-show litigiosi ovunque)?
Oggi diciamo che la tesi di 1992 non è inverosimile in via di principio, ma come tutte le tesi è inevitabilmente parziale. Non sappiamo, noi che all’epoca vedemmo il crollo con occhio adolescenziale e con occhio, perché negarlo?, cresciuto a pane e cartoni animati anche Fininvest, non sappiamo, dicevo, quanti davvero si aspettassero non solo il crollo predetto, ma le dimensioni del crollo. Che in Italia la corruzione e il malaffare politico prosperassero off the records era noto a parecchi, e soprattutto negli anni ’80 l’esibizionismo di certi politici, in particolare del PSI, lasciava forti dubbi che quegli stili di vita potessero finanziarsi solo con lo stipendio da parlamentare o da ministro, per tacere dei carrozzoni dei singoli partiti, coi loro uffici centrali e periferici, i responsabili nazionali e locali, i vice-responsabili locali e di quartiere, i sotto-vice delegati, tutta gente che faceva quello di mestiere e non come volontariato o attività extralavorativa.
Molti sapevano. Ma, visto che i partiti agglutinati attorno alla DC erano il baluardo contro LA paura delle paure, ovvero l’invasione sovietica, la guerra atomica ecc. ecc., si lasciò fare.
Però si sapeva. Ma c’era qualcuno che, sbriciolatosi il Muro di Berlino, avrebbe saputo prevedere, nel giro di tre anni, la polverizzazione del vecchio arco costituzionale? E a inchiesta dipietresca appena iniziata, davvero era già chiaro dove si sarebbe andati a parare, con un Dell’Utri subito in pista per cercare nuove sponde cui ancorare un altrimenti condannato impero berlusconiano? Non so. Secondo me, in quei primissimi mesi dell’Apocalisse mancata, nessuno sapeva con chi andare, per quanto e soprattutto per dove, nemmeno a casa Fininvest. O meglio, che tutto il "vecchio" fosse perduto per sempre poteva non essere così immediatamente chiaro da imporre un piano B, specie, fininvestianamente parlando, con Craxi ancora immune da inchieste. Fossimo stati un anno dopo, forse. Nel 1993 Berlusconi aveva certamente le idee più chiare. A febbraio-marzo 1992 no.
Credo insomma, e mi avvio a finire, signori della giuria, che lo scollamento registrato sopra tra personaggi e cornice storica sia figlio di uno scollamento a monte, cioè tra la tesi stessa della fiction e il periodo a cui essa si applica. Fosse stata questa la tesi del sequel promessoci, 1993 se ho capito bene, allora forse tutti i pezzi dell’impalcatura avrebbero finito per quagliare con quello che c’era dentro. La spia di questo disassamento è peraltro, a nostro spocchioso giudizio, proprio in quella sequenza che è diventata un po’ il marchio della serie, o perlomeno della psicologia del suo protagonista principale, Notte. Ne ho accennato prima: per invogliare il cliente a farsi pubblicizzare da Publitalia, il Notte gli mostra uno spezzoncino di ragazze di Non è la Rai che sgallettano e gli fa il famoso discorsino: “Lo vuole sapere un segreto? La gente là fuori è orribile. Non io, non lei. Gli altri. Sognano cose indicibili. Sono tutte magre, bambine, ma sono vestite con gli abiti delle mamme. Quando tornano a casa, vedono le figlie con le amiche che provano i balletti” e altri espliciti accenni a sculacciamenti e brugole.
Ecco. Non voglio fare il filologo a tutti i costi, men che mai di Non è la Rai, che pure tutti noi guardammo con plasticosa voluttà. Epperò bisogna pur dire che, all’epoca dei fatti, primavera 1992, appunto, il programma non era ancora diventato una fabbrica di lolite a getto continuo come poi fu negli anni successivi. Era la prima stagione, il sesto mese di programmazione, le ormoneggianti divette erano tutte gestite dal polso fermo ed esperienziato di Enrica Bonaccorti e di “fenomeno”, come fu poi con il passaggio di Ambra Angiolini alla “conduzione”, non si poteva ancora parlare. Ciò che Notte argomenta, impiegando Non è la Rai come prova a favore della tesi del saggio breve di ambito storico-politico, mi pare troppo in anticipo sui tempi effettivi. Quei bassi istinti erano, all'epoca, più latenti che palesi. Il che non esclude che certi episodici appalesamenti avessero già avuto cospicuo luogo, s'intende. Tuttavia, che già allora Non è la Rai ne fosse il veicolo o l'enzima, non è vero. Del resto, e anche qui la nota filologica è da autentici fissati, le immagini della videocassetta che Notte fa vedere al cliente non si riferiscono né al cast, né alla scenografia, né alle esibizioni tipiche della stagione ’91-’92 (la prima) del programma, giacché anche i sassi che allora guardavano Non è la Rai sanno che Tutta tua era cantata dal maggico duo Carrano-Migliacci, ma nella seconda stagione ('92-'93) (carta canta, ehhhhh???)(eeehhh???)(ma quanto siamo patetici...), quindi il filmato proposto dal Notte non è coerente (per completezza, anche il pezzo di Non è la Rai che la quasi figlia di Notte guarda in camera, con Francesca Gollini che canta Rosso, è del 1993). Ovvio, roba da bloopers. Ma significativa, in questo caso, poiché ribadisce un difetto di fondo della serie, ovvero il gioco troppo anticipatore degli eventi, qui visibile nell’aver mostrato il 1992 non come l’anno del traumatico e inatteso trapasso da un sistema certo a un magma pulviscolare di personaggi e personaggini che cercavano in tutti i modi, dignitosi o molto meno, di fuggire dalla nave che affondava, ma come l’anno di una catastrofe (politica e morale) già completamente emersa e conclusa, sì che già dal primo episodio si ha come l’impressione che Craxi sia pronto ad essere catturato di lì a due giorni, mentre il Notte si abbandona a teoremi immorali legati ad un concetto di televisione e di società che solo allora iniziavano a prendere forma (o perlomeno non l’avevano così definita come lui lascia intendere), mentre per lui pare che tutto si sia già stabilizzato e sia irreversibile. Lo sarà, forse. Ma non in quel momento. Meglio sarebbe stato dirci il disorientamento generale, la fame di giustizia di chi aveva sempre visto e (spesso anche vigliaccamente) taciuto, il rinnovarsi della sindrome di Piazzale Loreto cui noi italiani siamo predisposti, ovvero dare del demonio a chi fino all’altroieri osannavamo bellamente, e che nel 1992 si tradusse nello sfanculamento di politici ritenuti fin lì intoccabili come divinità. La fluidità inquietante di quei mesi orribilmente macchiati dalle stragi di mafia avrebbe concesso terreno più fertile per i personaggi scelti dagli autori. In ogni caso, rispetto alla totale e a volte sconfortante prevedibilità delle fiction Rai, qui siamo su un altro pianeta. La qual cosa, s’intende, non preclude la perfettibilità di qualsiasi prodotto.      

Vabbe', dateci 1993 e se ne riparla. 

venerdì 1 maggio 2015

UGF 03X04: "Ma tanto qui è... pro bene, veh...!"




[Ma la Ferrari che è di Piacenza perché parla come una romagnola?]
[Ma Reggianino puccia i biscotti nel lattino come uno di sei anni?]
[A Inverigo hanno il Liceo Classico dedicato A KANT???? Ah, sì, è la patria della ragion pratica...]
[Si vede che l'egizio lavora da Raoul: corre a perdifiato per tutta la puntata per niente...]
[Stavolta il rientro di Edo ha generato una sequenza meno bradipa dell'altra volta, facciamo progressi...]
[Scherzi a parte, senza Gianni Cavina non è più quella fiction...]


Gradisca Ferrari assassina volutamente il latino allo scoprire che la sorellastra lavora aggratis per difendere le giuste cause dei poveracci, cosa che per lei, cresciuta negli stenti e, pare, in molto altro, e non sempre nettissimo, risulta assolutamente lunare (seguono scambi di battute che portano Laura ad un passo dall'omicidio, ma vabbe'). Sarà allora una nemesi necessaria tentare la sorellastra a lanciarsi nel fantastico mondo delle autoreggenti. Ma non è che l'assaggio: nella puntata di questa settimana gli autori hanno deciso di far impazzire tutto il cast per poi rovinarci addosso la tragedia delle tragedie, così che Casa Vianello diventa d'un colpo Criminal Minds

Fortuna che lo seppellite a mercati chiusi...

1) Crisi Calimero: Reggiani the First cade nelle classiche depressioni a carattere cronico-melancolico, che secondo Areteo di Cappadocia, perlomeno a sentire le tesi di costui, si origina da un sovrappiù di bile nera che sale dagli ipocondri alla testa e devasta l'umore. Sì, Stefano non regge l'addio con Narici Moresche e inizia a manifestare i classici sintomi del male: ha gli incubi, è sempre musone, gira il cappuccino in senso anitorario, non ha voglia di far niente (ma questa cosa pare che gli venga da lontano, l'ultimogenito delle famiglie straricche in genere, si sa...), non mangia, rifiuta il succo di frutta offertogli da Nora, costretta a passare lo straccio perché la domestica è in ferie (particolare apparentemente peregrino, ma in realtà capitale per il prosieguo delle cose). E insomma, Stefano soffre. Raoul, memore di quanto possa la scuola di Hokuto, lo spedisce dallo psicologo che cura i tapini del suo maneggio, ma Stefano dice nonono! Mica sono matto! Ho perso l'amooore della vita e ci sto male. Punto. Salvo poi andare a ri-raccattare la nipotastra zoccola che bigia il primo giorno di scuola e si intrattiene coi soliti tamarri della locanda, ma in riva al lago: sono le dieci del mattino, che si fa? Ti riporto a casa (come qualsiasi quasi-zio avrebbe fatto)? Macché, andiamo ad occupare il tempo con un bel giro in pedalò sul lago. Ah, quanto è erotico il pedalò: ed ecco, proustianamente, tutte le immagini di quando lui e la ex pedaleggiavano allegramente come due turisti tedeschi qualsiasi a Cervia. Flash color seppia. Fitte al cuore. Potenza della memoria involontaria. Basta, retropedaliamo e chiamo il medico dei pazzi. Sono pazzo. Vado dove andavo con lei. Uffa. Tipo quel cavalcavia da passeggiatrici che, insomma... toh, una sfigata come me che piange in auto...


Avevo detto niente salsa di soia, cribbio!!!


2) Crisi Raoul: che poi uno dovrebbe guardarsi in casa. Il bel comunistone di casa Rengoni non s'arrende all'idea che la Ex, avendone mille e un diritto, voglia sparire dalla faccia della Brianza col figlio suo e di lui. Risvegli angosciosi. Dialoghi senza sbocco. Sguardi inferociti dal rancore. E allora, ecco rispolverato un grande classico della melancolia raoulesca, la corsa a cavallo in stile André di Lady Oscar dopo che è passato di lì il conte di Fersen. Via, verso prati lontani a piangersi addosso, e Chiara ad inseguirlo. Il tutto mentre l'egizio trafuga il numero di cellulare della Vale dall'ufficetto e Stefania va dalla rivale per dirle suppergiù: "Ti sei riprodotta almeno tu, e faglielo godere un po'!". Era dai tempi dell'Hecyra di Terenzio che non vedevamo tanto altruismo. E la speranza si infiamma.

"Attendo un evento dismanente" "Quei giorni lì?" "No" 

3) Crisi La Vale: bisogna ben solleticare l'ampia platea bimbominkika della fiction (?), ed ecco la Vale, ormai cotta d'Egitto, abbandona la classe in gita e da Roma e torna in Brianza. Come no. Cioè, detto che, come è noto, i bimbominkia sono talmente ripiegati sulla propria emotività da non avere altra scala di valori che non siano i propri istinti, che ciò si trasformi in un atto di indisciplina da pazzi, roba da far invecchiare di 70 anni in una notte sola i docenti per culpa in vigilando, è forse un pochino troppo. Non è inverosimile. E' semplicemente troppo. Ma si sa, bisogna preparare il terreno alla catastrofe finale, quindi... ["che bello che sei sempre sincera con me", si sbriciucchia Chiara... se vabbe'. E il nerd che piange...]


Leonard Nimoy chi? 

4) Crisi Casa Vianello gender: cosa accadrebbe se si girassero I Cesaroni in salsa "famiglia aperta con fratelli acquisiti di chiastica omosessualità"? Ecco la risposta: Reggiani the Second scopre che la sorella lesbica d'importo è più crudele di Tisifone con Pegasus, gli sposta tutte le masserizie da una camera all'altra, lo percula per scarsa iniziativa col vicino di pianerottolo. Un demonio. Ad un passo dalla fuga da casa e ciao alle colazioni di famiglia "con quella là". 

Se io volessi, gli One Direction qui, subito!!
Roarrrr...maschiaccio...!

Però però... c'è del vero in almeno una delle eccezioni di principio della sorellastra: ci vuoi provare con Mattia o no? Ecco, Reggianino vorrebbe, ma siccome quello che impersonava prima Niccolò (Luca Peracino, che scopriamo da Wikipedia essere attore comico... ah, questo spiega tutto...) aveva preso una tranvata extralong dal pitturista, vorrebbe andarci piano, pianissimo. Ed ecco che entra in scena, per un commovente canto del cigno, il Capofamiglia, che spiega a Niccolò che, a 22 anni suonati, DEVE vivere, uscire, AVERE UNA RELAZIONE. "Incontra un ragazzo e innamorati, io ti voglio vedere fidanzato!", bum!!! Roba da far infartare la povera Laura. E così colui che abitò ai tempi nella casa delle finestre che ridono (a quanto pare ben più sicura di Casa Rengoni...) si atteggia a liberal mille volte più della figlia. Gli pioveranno addosso comete?
E insomma Reggianino va in piscina, fa la nuotatina, si fodera di amianto il costumino e "Ciao, Mattia!!!!", il quale Mattia arriva tutto zompettante a bordovasca, "Ciao, non ti avevo visto!!" (grazie, era in acqua), ma giusto quando Niccolò è pronto al Grande Approccio, spunta una lei al fianco di Mattia e pluf, giù in acqua. E Niccolò abbandona l'arena (che poi salterà fuori che questa qui è la cugina o la sorella del Mattia, minimo...).  

4) Ciao, Ernesto, uillmìssiu: no, niente comete, più umanamente i ladri in casa, e forse c'entra l'avanzo di galera ex di Gradisca, che in una furiosa colluttazione a colpi di frutta candita aveva rubato le chiavi e lo schiaccino di Casa Rengoni alla ex. Chissà, sarebbe pure troppo. Certo che nella serata al ristorante del maneggio (menù vegan, pare di capire dalle foto) il povero Capofamiglia aveva preso una bella serie di pesci in faccia dai figli, ostili all'adozione di Gradisca e al riassetto azionario della fabbrica ormai prossima alla cessione. E qui il grande tema Buddenbrookiano dei figli che non sanno o non vogliono proseguire l'attività paterna. Setticemia in arrivo? No, ma l'unica pifferi di sera che non c'è la servitù in casa, ecco la devastazione a Casa Rengoni, un tempo più impenetrabile del Castello di Grayskull, oggi più violabile di un crescenzino. E il povero Ernesto schiatta, a distanza di circa tre ore dall'infortunio, nel modo più inglorioso possibile, ovvero per un colpo di ciabatta alla base del collo.

Forse perché della fatal quiete...

Ma era da tutto l'episodio che Ernesto sentiva la fine del ciclo. E voleva vendere la fabbrica alla multinazionale che gli avrebbe statccato un assegno pari al PIL semestrale del Bahrein... Eh, ma i treni passano... 
Funerale sobrio, ma ecco all'orizzonte riappare EdoGassmann (seguiamo i suoi desiderata e mettiamo la doppia enne a fine cognome), e subito la Rengoni perde due terzi del proprio valore. Ad averla venduta prima...