Per consolidata (?) tradizione, a Machittevòle ci piace
recensire il serio e il faceto. Il campo del faceto, almeno fino all’estate, è
occupato in pianta stabile dalle Rengoneide
di RAI1, fiction che riesce a riassumere tutti i cliché nostrani in modo almeno
digeribile.
C’è, per il serio, la terra incognita delle programmazioni
Sky, che sin qui non avevamo esperito per mancanza di tempo (e di decoder con
possibilità di vedere i programmi fuori orario), e nell’ultimo mese abbiamo
potuto assaggiare una minestra di sapore ben più asprigno, ovvero la serie in
dieci episodi dedicata ai fattacci di Tangentopoli, 1992, appunto. Datosi che noi qui al blog di quella fatal epoca se ne parla spesso, (del resto...)(d'altronde...) e che comunque un’escursione fuori Rai male non fa, vogliamo
ora procedere a scannerizzare il buono e il non buono della serie nata dalla
capoccia di Stefano Accorsi in Casta.
Non abbiamo in mano elementi per giudicare il risultato
complessivo in rapporto ad altre produzioni della rete come Gomorra o Romanzo Criminale, abbiamo letto pareri
di chi ritiene meglio 1992 e di chi la ritiene un passo indietro rispetto alle
altre due. Certo, mettere le mani in una materia incandescente nelle sue
contraddizioni come l’anno che ha segnato lo sfrancicamento biscottoso di un
sistema che si credeva immutabile, non è mai operazione indolore, né per gli
autori, né per gli interpreti, né infine per gli spettatori, il grosso dei
quali, se non tutti, quei fatti li ha visti in TV e ne ha soppesato gli effetti
nelle rispettive amministrazioni locali, perlomeno quelle che furono traforate
dalla grandine degli avvisi di garanzia.
Insomma, partendo dal fondo, ovvero dal giudizio complessivo,
io e la Spocchia abbiamo trovato la serie in oggetto certamente più che discreta, ma
non eccelsa, coraggiosa, ma non sempre a squadro nei suoi obiettivi, al di là
delle dichiarazioni degli autori e degli attori. Procederemo a guardare i
risultati della fiction in sé, quindi giudicheremo il giudizio dato all’anno in
oggetto.
1) Si è rinunciato all’intento didattico, hanno detto: niente
fredda e puntigliosa cronaca di quei mesi allucinanti in cui la politica
italiana parve implodere su se stessa. Quei mesi fanno semmai da cornice ai
personaggi che vi si muovono dentro. Né, del resto, storiella edificante in cui
i buoni (Di Pietro e relativo pool) erano tutti da una parte e i cattivi (Craxi
e relativi sgherri) dall’altra, e allora lo spettatore sarebbe stato
automaticamente indotto a tifare per i primi. Prevale, pare, l’idea della
rivoluzione più apparente che reale, che vide all’epoca tutti ubriachi di Nuovo
senza accorgersi che il vecchio si stava solo riorganizzando sotto rinnovate
spoglie. I personaggi principali transitano poi sul pericoloso crinale del giusto e
dell’ingiusto, con maggiore o minore senso etico uno rispetto all’altro, ma,
come nelle vere tragedie da Eschilo in giù, è difficile dire chi sia il buono e
chi il cattivo.
Vediamo quindi in azione un composito sestetto (il manager
senza scrupoli dal passato di ex sinistrino e morti assortite alle spalle,
l’aspirante soubrette, la fighetta figlia del tangentocrate, il poliziotto
assetato di vendetta per guai suoi, l’altro poliziotto che lucra sulle
soffiate, il reduce di guerra attratto in orbita Lega nord) che interagisce non
poco al proprio interno. Certo il personaggio più mefistofelico è Stefano Accorsi-Leonardo
Notte, uno Iago in salsa Publitalia che vive sulla triade illusione-delusione-collusione
e ha capito dove vanno le aspettative degli italiani, a suo giudizio un popolo
di onanisti giocherelloni, vedendo in Berlusconi l’uomo in grado di occupare la
piazza fatiscente dell’ex arco costituzionale, ridotta al momento a macerie
fumanti e cadaveri sbrindellati. Il suo non facile passato, il rapporto quasi
paterno con la quasi figlia (che fa pure la Rengoni, ah, il conflitto di
interesse…), la dipendenza da sesso e droga lo rendono inequivocabilmente figlio
degli eccessi e delle storture degli anni ‘80 da poco finiti: anni di cavalcate
epiche lungo le corsie del mito del benessere, del successo che non impedisce
di dedicarsi al fitness, delle mirabolanti opportunità di arricchimento, lecito
e spesso illecito, offerte da una nazione in pieno rigoglio post-anni di piombo,
decisa ad agganciarsi al treno dell’edonismo reaganiano e godere della rosa
fiorita più che andare in cerca di quella tardiva (larariiii….). Credibile,
certo, meno stereotipato di altri. Credibile soprattutto come uomo che, da ben
altra prospettiva di quella politica, osserva il mutamento sostanziale di una
società, o meglio ancora l’emergere di componenti fin lì abilmente censurate
dalla cultura “ufficiale” e solo da poco abilmente titillate dalle leggi
comunicative di Fininvest, con i suoi messaggi inneggianti al consumismo e alla
gioia di vivere. Ne fa la prova il filmatino licenziosetto e provocatorioncello
di Non è la Rai (dove Carrano-Migliacci cantano l'immortale Tutta tua...aaa...aaahh) con cui il Notte
seduce il cliente “scarpe grosse e cervello fino” che pure un occhio al vestitino fasciante di Roberta Carrano non riesce proprio a non farlo cadere (sull'anacronismo del filmato, vedi oltre). Non v’è
dubbio, in effetti, che una tesi di fondo, a dispetto delle dichiarazioni degli
autori, ci sia in 1992, e Berlusconi
ne è il protagonista negativo, per quanto nelle dieci puntate lo si intraveda
appena. Ma di questo alla sezione 2.
L’altro personaggio certo ben quagliato è il poliziotto Robin
Hood di se stesso Luca Pastore (Domenico Diele, con l’amichevole partecipazione
del naso di Alessandro Cattelan), infettato dall’HIV per colpa di una partita
di sangue sbagliato smerciata da Michele Mainaghi, in 1992 uno dei primi arrestati dell’inchiesta dipietresca e tra i
primi a togliersi la vita una volta vistosi senza futuro. La pencolanza del
Pastore sta appunto nel suo non saper dire a se stesso se la propria sete di
giustizia sia individuale o collettiva. Pare a volte che il suo unico obiettivo
sia la rivalsa sul Mainaghi e arrivederci a tutti, poi però, morto il predetto,
sottili filamenti pentimentosi si insinuano nel suo cervellino, senza che ciò
gli impedisca di andare a fondo nella vicenda del sangue infetto, e comunque
davanti a lui come a tutti rimane la preda più ambìta il cui cognome squilla in
trappola solo a fine serie: Craxi. Non ha scrupoli, il Pastore, ad inguattarsi
con la figliola stronzetta ed episodicamente tossicomane del Mainaghi, a
spifferare cose alla giornalista sorella dell’altra zoccola, a trafugare
documenti, a minacciare con la pistola gente, a piazzare microfoni nascosti
senza essere (momentaneamente) più un poliziotto, ponendosi così in bilico tra
una forma di giustizia tutta personale e il dovere civico di un servitore dello
Stato. Credibile, abbastanza. Che l’inguattamento con la Mainaghina gli riesca
al primo colpo, e che lui sappia già dove andare a spizzettare le carte
segretissime di famiglia, un po’ meno.
Detto dei due personaggi più convincenti, c’è la semi-perplimente
Beatrice Bibi Mainaghi, interpretata da una controversa Tea Falco, ovvero da una attoressa di origini siciliane che ha dovuto vestire la sua dizione con l’accento
milanese fighetto di una mezza scema, con altalenanti riscontri critici e piccate risposte. Personalmente, la quasi caricaturalità
dell’accento non mi ha provocato sussulti: è una pesantezza che a suo modo riempie
la vuotezza del personaggio, vuotezza necessaria per dirci di un’anima
cresciuta nel tutto che non porta a niente, nella ricchezza fine a se stessa
che non costruisce humanitas, ma si
autodivora e autonutre come il Bt Raffaello, entro un orizzonte in cui l’unica
morale è avere e non essere. Come lei, appunto. Che però poi mostra un certa
“essenza” quando le tocca guidare il carrozzone di famiglia per sopraggiunto
suicidio paterno. Certe unghiette non le mancano, a dire il vero, come pure
certa predisposizione alla menzogna, visto come fa sparire i miliardi dai
conti, si sbarazza del CEO e racconta balle al Pastore circa le azioni legali
del padre con la ditta vendisangue che avrebbe smerciato le sacche infette.
Sospesa pure lei tra Elisio e Tartaro, non le manca l’occasione di infrattarsi
tanto col Pastore quanto col Notte, a mostrare che le due personaggesse
femminili della serie hanno in comune certa zoccolaggine multidirezionale che
francamente poteva accennarsi senza eccessivi approfondimenti, visto che sono
temi di tutte le epoche. Bibi è quindi più un fumetto che un personaggio, nei
suoi eccessi e nelle sue incoerenze.
E’ la seconda metà del sestetto che però necessiterebbe di
adeguata revisione: una Miriam Leone insoubrettita nei panni (e anche senza i panni) di Veronica Castello, una che passa agevolmente di letto
in letto, pur tentando di fare la sorellona maggiore con la quasi figlia del
Notte, pur aspirando a mostrare che sì, c’è un cuore sotto quel reggicalze, che
ambire al successo televisivo è una pratica lecita né più né meno che fare un
concorso in magistratura, insomma la zoccola dal volto umano che tanto cinema e
tanta musica ci hanno già ammannito, non è ‘sto botto atomico come si vorrebbe
credere, al netto dei rapporti retroattivi con Accorsi o le notti infuocate
padane coll’ex soldato. Il fatto è che il mondo dello spettacolo è da sempre, sotto
quel punto di vista, un carnaio, e che quindi una Castello vogliosa di condurre
di Domenica In si collochi nel 1992,
nel 1980 o nel 2012 poco cambia. Questo tipo umano non è il prodotto della TV
commerciale, la quale semmai ha acuito il fenomeno, perché appunto Domenica In è roba della Rai, e
Boncompagni già da 5-6 anni riempiva il salotto della domenica di fanciulle
alte di garrese per ingolosire il pubblico. Le puntate di 1992 ci propongono semmai una pazzerella bipolare in bilico tra
santità e perversione, gravidanza e aborto, carriera e sesso astruso che non ha
una ragion d’essere esclusiva nel 1992
piuttosto che altrove.
Poi i due personaggi meno riusciti, a nostro giudizio: il
poliziotto spifferatore Alessandro Roja/ Rocco Venturi, sempre in cerca di soldi per mantenersi i viziucci, che
tenta di inguaiare il Notte, ricevendone in cambio copiose minacce di
contro-inguaiamento, che ausculta i piani di Di Pietro e li riferisce ai
diretti interessati, che alla fine si fa schiattare a colpi di cric. Un
tapinello che fa la controparte poliziottesca a Mario Chiesa, gente cioè che
campa di briciole altrui. Non si parteggia per lui né lo si odia. Fa pena nella
sua meschinità, ma soprattutto si avverte che, sottratto lui, la serie ne patirebbe
ben poco.
Doveva invece essere inquadrato meglio il personaggio di Guido Caprino/Pietro Bosco, il neo-leghista assoldato dopo aver salvato la buccia ad un leghista
cicciotto, tal Bortolotti, che stava per venire sfracazzato dagli albanesi
(stereotipo mode on): il Bosco si fa
portavoce del nord incazzoso, ma alla fine gli autori decidono di mostrarne
soprattutto il côté velleitario, l’immagine del politico arrivato per caso a
Montecitorio che poi non sa più da che parte sbattere e che facilmente cade
nella rete del marpione esperienziato, il democristiano Nobile suo coinquilino,
che lo istruisce sugli untumi del Palazzo, gli sistema la momentaneamente
fidanzata Veronica in Rai e chiede però in cambio favorucci per mercantucci di
armi. Salvo vedersi votare l’autorizzazione a procedere anche dal Bosco, cui
pure risultava che il Nobile fosse vittima di ripicche di partito, ma i
leghisti celoduristi gli hanno detto: “Voti comunque a favore, se non per
questa roba, deve pagare per tutto il resto”. Peccato, e non solo per il
pesante accento delle mie parti che qui sì mi ha dato un certo fastidio (che
poi, si è mai sentito uno di cognome Bortolotti abbreviato in “Bòrto” con la o aperta? Suvvia…), né per l’insistita
caricatura di certo leghismo sguaiato e ottuso. Si poteva, assai assai,
approfondire il nocciolo delle proteste leghiste, che erano legittimissime in
quegli anni: l’imprenditore che non ne poteva più di farsi uccidere dalle tasse
che finivano regolarmente nel carrozzone senza fondo delle Partecipazioni
statali; l’impiegato che vedeva il vicino di casa, ufficialmente impiegatino
come lui a stipendio fisso, girare in Mercedes e fare le vacanze alle Maldive;
il piccolo commerciante che si vedeva il dirimpettaio ottenere permessi edilizi
su permessi per ampliare i locali fino a creare una reggia, mentre a lui veniva
negata la rettifica di un muretto per impiantare il cancello automatico sulla
base di oscure mancanti condizioni di agibilità. Eccetera. Di fatto, si è
voluto retrocedere il fenomeno del grillismo al 1992, facendo della Lega
l’antesignana dei 5Stelle, perlomeno di quella frangia ondivaga e inconcludente
del movimento. E il tutto buttato sulle spalle di un miles ingloriosus anche abbastanza stantìo.
Per dire insomma che i personaggi, quelli principali almeno,
non hanno del tutto soddisfatto le attese. Quanto alla storia in sé, credo si
proponga il solito problema del rapporto tra cornice e contenuto (il solito,
eh…?).
Dicasi: se chiami una serie 1992 in riferimento a quei
fatti lì, devi fare il modo che ogni singolo fotogramma della storia sia
impregnato di quei fatti lì e che i
personaggi ne traggano alimento come frutti dai rami. Troppe volte, specie nel
corpo centrale della serie, è sembrato invece che le microstorie dei singoli
siano procedute in fin dei conti indipendentemente dalla cornice storica che ne
faceva da premessa, cornice evocata giusto cursoriamente con le date inserite
in sovrimpressione ogni tanto: c'è stato quel senso di sostanziale estraneità alla circostanza storica che già spirava da certe puntate di Un matrimonio, allorché la famiglia Parenti/Ramazzotti passava attraverso tutti i fatti cospicui del secondo '900 italiano, ma, contestazione sessantottesca a parte, come se questi fossero giusto lo sfondo lontano delle vicende private. E' cosa nota, quello del rapporto tra personaggi di invenzione e cornice storica è un problema che ci tiriamo dietro dai tempi de I promessi sposi, e Manzoni l'ha risolto come sappiamo (i tre capitoli storici, ecc. ecc.). Qui, televisivamente parlando, l’aria sovreccitata di quei mesi non sempre è
traspirata dalla fiction: il Notte per certi versi sembrava più che altro uno
yuppie con la carriera in crisi, il Pastore un giustiziere della notte
nostrano, il Bosco un topo di campagna arrivato in città, ma come poteva essere
qualunque altro personaggio in qualunque altro contesto storico a prescindere dallo scoppio di Tangentopoli.
Ricordiamo tutti, tanto per mischiare il serio e il faceto, che anche un
telefilm ottimerrimo e scanzonato come I ragazzi della
3C ha funzionato eccellentemente nelle prime due serie, quando ogni puntata era indissolubilmente legata al contesto anche ambientale della scuola dei protagonisti; la terza serie, con lo
stesso titolo e con gli stessi ragazzi, ma all’università, ha perso sin da
subito la sua ragion d’essere, e infatti è stata assai deludente. Così 1992 ha dato l’impressione di
sfilacciarsi troppo nel privato dei personaggi, blurrando la grandiosa
cornice pubblica delle loro vicende. Si dirà che sono equilibrismi difficili,
specie se si vuole evitare il semplice resoconto storiografico. Chiaro. Si tratta
di dover ovviamente romanzare la vicenda e quindi inserire elementi non
immediatamente funzionali alla pura cronaca, sennò tanto basta La storia siamo noi. Epperò qualcosa,
nel dosaggio, non ha sempre funzionato.
2) Quanto al messaggio del film, non è vero, si dica quel che si
vuole, che manca la tesi nella narrazione, fatta salva la voluta liminarietà di
buoni e cattivi. E’ chiaro che l’azione di Leonardo Notte si dipana lungo tutti
i dieci episodi, con picchi e fallimenti, per dirci che il baratro di Mani
Pulite è stato la precondizione della discesa in campo di Berlusconi, che a
colpi di Publitalia predispose la creazione di un soggetto politico nuovo,
vendibile come un qualsiasi prodotto di marketing, con l’obiettivo di “salvare
il Paese delle banane”, o più probabilmente se stesso e le proprie aziende.
Tesi, questa, non nuova, giacché già nel lontano 2001 o giù di lì l’allora
vice- ammiraglio de L’Espresso,
Antonio Padellaro, in una puntata di Porta
a Porta disse chiaro e tondo che non era vero che dal ciclone
tangentopolizio aveva tratto vantaggio il PDS, che si era visto squagliare
tutti gli avversari e liberare la via verso il governo del Paese, perché il vero avvantaggiato era stato Berlusconi, che aveva riempito il vuoto lasciato dai partiti della Prima
Repubblica, approfittandone per costruirsi un soggetto politico atto a ridurre
l’Italia a proprio uso e consumo. Ricordo che dal pubblico della trasmissione,
tradizionalmente rigido come uno stoccafisso, partirono singulti di sarcasmo,
giacché, negli anni in oggetto, si era notato che il PDS, rispetto ad altri
partiti, aveva subìto assai meno l’assalto dei PM, e non si trattava di gente
più santa di quegli altri, ma lì c’era tutta la querelle sui magistrati rossi
che avrebbero “chiuso un occhio” o forse tutti e due, su certi illecitucci delle
cooperativucce, per tacere dei finanziamentucci che venivano da Mosca quando i
tempi erano più floridi, e comunque la maxitangente Enimont era finita anche nelle casse rosse, insomma, la tesi
padellaresca parve ai più un cesellato sofisma per rovesciare una realtà vista
in ben altro modo da molti.
Questo nel 2001. E oggi, dopo circa 9 anni di Berlusconi al
potere, 20 di berlusconismo come categoria politica da amare o odiare e
altrettanti di trionfo delle logiche Mediaset nel tessuto culturale del Paese
profondo (dicasi tronisti e talent-show litigiosi ovunque)?
Oggi diciamo che la tesi di 1992 non è inverosimile in via di principio, ma come tutte le tesi
è inevitabilmente parziale. Non sappiamo, noi che all’epoca vedemmo il crollo
con occhio adolescenziale e con occhio, perché negarlo?, cresciuto a pane e
cartoni animati anche Fininvest, non
sappiamo, dicevo, quanti davvero si aspettassero non solo il crollo predetto,
ma le dimensioni del crollo. Che in
Italia la corruzione e il malaffare politico prosperassero off the records era noto a parecchi, e soprattutto negli anni ’80 l’esibizionismo
di certi politici, in particolare del PSI, lasciava forti dubbi che quegli stili
di vita potessero finanziarsi solo con lo stipendio da parlamentare o da
ministro, per tacere dei carrozzoni dei singoli partiti, coi loro uffici
centrali e periferici, i responsabili nazionali e locali, i vice-responsabili locali e di quartiere, i sotto-vice
delegati, tutta gente che faceva quello di mestiere e non come volontariato o
attività extralavorativa.
Molti sapevano. Ma, visto che i partiti agglutinati attorno
alla DC erano il baluardo contro LA paura delle paure, ovvero l’invasione
sovietica, la guerra atomica ecc. ecc., si lasciò fare.
Però si sapeva. Ma c’era qualcuno che, sbriciolatosi il Muro
di Berlino, avrebbe saputo prevedere, nel giro di tre anni, la polverizzazione
del vecchio arco costituzionale? E a inchiesta dipietresca appena iniziata, davvero era già chiaro dove si sarebbe andati a parare, con un Dell’Utri subito in pista per cercare nuove sponde cui ancorare un
altrimenti condannato impero berlusconiano? Non so. Secondo me, in quei
primissimi mesi dell’Apocalisse mancata, nessuno sapeva con chi andare, per
quanto e soprattutto per dove, nemmeno a casa Fininvest. O meglio, che tutto il "vecchio" fosse perduto per sempre poteva non essere così immediatamente chiaro da imporre un piano B, specie, fininvestianamente parlando, con Craxi ancora immune da inchieste. Fossimo stati un anno
dopo, forse. Nel 1993 Berlusconi aveva certamente le idee più chiare. A
febbraio-marzo 1992 no.
Credo insomma, e mi avvio a finire, signori della giuria, che
lo scollamento registrato sopra tra personaggi e cornice storica sia figlio di
uno scollamento a monte, cioè tra la tesi stessa della fiction e il periodo a cui essa si applica. Fosse stata questa la tesi del sequel promessoci, 1993 se ho capito bene, allora forse tutti i pezzi dell’impalcatura
avrebbero finito per quagliare con quello che c’era dentro. La spia di questo
disassamento è peraltro, a nostro spocchioso giudizio, proprio in quella
sequenza che è diventata un po’ il marchio della serie, o perlomeno della
psicologia del suo protagonista principale, Notte. Ne ho accennato prima: per
invogliare il cliente a farsi pubblicizzare da Publitalia, il Notte gli mostra
uno spezzoncino di ragazze di Non è la Rai che sgallettano e gli fa il famoso discorsino: “Lo vuole sapere un segreto? La gente là fuori è orribile. Non io, non
lei. Gli altri. Sognano cose indicibili. Sono tutte magre, bambine, ma sono
vestite con gli abiti delle mamme. Quando tornano a casa, vedono le figlie con
le amiche che provano i balletti” e altri espliciti accenni a sculacciamenti e brugole.
Ecco. Non voglio fare il filologo a tutti i costi, men che
mai di Non è la Rai, che pure tutti
noi guardammo con plasticosa voluttà. Epperò bisogna pur dire che, all’epoca
dei fatti, primavera 1992, appunto, il programma non era ancora diventato una
fabbrica di lolite a getto continuo come poi fu negli anni successivi. Era la prima stagione, il sesto mese di programmazione, le ormoneggianti divette erano tutte gestite dal
polso fermo ed esperienziato di Enrica Bonaccorti e di “fenomeno”, come fu poi con il passaggio di
Ambra Angiolini alla “conduzione”, non si poteva ancora parlare. Ciò che Notte
argomenta, impiegando Non è la Rai
come prova a favore della tesi del saggio breve di ambito storico-politico, mi pare troppo in anticipo sui tempi effettivi. Quei bassi istinti erano, all'epoca, più latenti che palesi. Il che non esclude che certi episodici appalesamenti avessero già avuto cospicuo luogo, s'intende. Tuttavia, che già allora Non è la Rai ne fosse il veicolo o l'enzima, non è vero. Del resto, e anche qui la nota filologica è da
autentici fissati, le immagini della videocassetta che Notte fa vedere al
cliente non si riferiscono né al cast, né alla scenografia, né alle esibizioni
tipiche della stagione ’91-’92 (la prima) del programma, giacché anche i sassi che allora guardavano Non è la Rai sanno che Tutta tua era cantata dal maggico duo Carrano-Migliacci, ma nella seconda stagione ('92-'93) (carta canta, ehhhhh???)(eeehhh???)(ma quanto siamo patetici...), quindi il filmato proposto dal Notte non è coerente (per completezza, anche il pezzo di Non è la Rai che la quasi figlia di Notte guarda in camera, con Francesca Gollini che canta Rosso, è del 1993). Ovvio, roba da
bloopers. Ma significativa, in questo caso, poiché ribadisce un difetto di
fondo della serie, ovvero il gioco troppo anticipatore degli eventi, qui visibile nell’aver mostrato il 1992 non come l’anno del traumatico
e inatteso trapasso da un sistema certo a un magma pulviscolare di personaggi e
personaggini che cercavano in tutti i modi, dignitosi o molto meno, di fuggire
dalla nave che affondava, ma come l’anno di una catastrofe (politica e morale) già completamente emersa e conclusa, sì che già dal primo episodio si ha come l’impressione che Craxi sia pronto
ad essere catturato di lì a due giorni, mentre il Notte si abbandona a teoremi
immorali legati ad un concetto di televisione e di società che solo allora iniziavano
a prendere forma (o perlomeno non l’avevano così definita come lui lascia
intendere), mentre per lui pare che tutto si sia già stabilizzato e sia
irreversibile. Lo sarà, forse. Ma non in quel momento. Meglio sarebbe stato
dirci il disorientamento generale, la fame di giustizia di chi aveva sempre
visto e (spesso anche vigliaccamente) taciuto, il rinnovarsi della sindrome di
Piazzale Loreto cui noi italiani siamo predisposti, ovvero dare del demonio a chi fino all’altroieri osannavamo bellamente, e che nel 1992 si tradusse nello
sfanculamento di politici ritenuti fin lì intoccabili come divinità. La
fluidità inquietante di quei mesi orribilmente macchiati dalle stragi di mafia avrebbe
concesso terreno più fertile per i personaggi scelti dagli autori. In ogni
caso, rispetto alla totale e a volte sconfortante prevedibilità delle fiction
Rai, qui siamo su un altro pianeta. La qual cosa, s’intende, non preclude la
perfettibilità di qualsiasi prodotto.
Vabbe', dateci 1993 e se ne riparla.