Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 1 maggio 2020

S3#8: la forza della (cattiva) abitudine


Seneca, De ira 2, 19, 1 e 20, 1-2 

Iracundos fervida animi natura faciet; est enim actuosus et pertinax ignis:… Sed quemadmodum natura quosdam proclives in iram facit, ita multae incidunt causae quae idem possint quod natura: alios morbus aut iniuria corporum in hoc perduxit, alios labor aut continua pervigilia noctesque sollicitae et desideria amoresque; quidquid aliud aut corpori nocuit aut animo, aegram mentem in querellas parat. 2. Sed omnia ista initia causaeque sunt: plurimum potest consuetudo, quae si gravis est alit vitium. Naturam quidem mutare difficile est, nec licet semel mixta nascentium elementa convertere.

  


Una ribollente natura d’animo rende iracondi: si tratta infatti di un fuoco pieno di forze e costante… ma come la natura rende alcuni inclini all’ira, così si verificano molte cause che hanno lo stesso potere della natura: una malattia o un danno fisico hanno portato alcuni all’ira, altri la fatica o la veglia continua e le notti inquiete e i desideri amorosi; qualunque cosa ha nuociuto o al corpo o all’animo predispone al lamento la mente malata: ma queste sono solo condizioni strutturali e cause esterne: ha grandissimo potere l’abitudine che, se è gravemente consolidata, nutre il vizio. Certo è difficile mutare la disposizione naturale e non è lecito stravolgere gli elementi che sono stati mescolati una volta per tutte al momento della nascita.  

La genesi del difetto morale, a lume di Scuola Pneumatica via Seneca, è assai articolata: detto che per il materialismo stoico anche le condizioni psichiche dipendono dalla predisposizione fisica del corpo, la spiegazione senecana sembra all’inizio assai standard, poiché l’ira altro non è che la conseguenza di una natura strutturalmente riscaldata. È il seguito dell’analisi a mostrare aspetti assai interessanti: a fianco della naturale predisposizione all’ira, intervengono infatti delle cause supplementari che possono essere interne al corpo (dette anche cause antecedenti) come le malattie o esterne (dette anche procatartiche), come le lunghe veglie, ma anche fattori puramente mentali (le sofferenze d’amore). Essendo il corpo e l’anima specificazioni diverse di una medesima sostanza, l’ira può essere provocata indifferentemente da fattori fisici o psichici: dal che il seguace dello stoicismo deve concludere anzitutto che non solo si nasce iracondi, ma lo si può anche diventare; attenzione quindi a sentirsi troppo sicuri di sé, credendo che i difetti morali siano sempre riservati agli altri: basta uno sconvolgimento improvviso di qualsiasi genere e la nostra natura ‘buona’ si può incattivire; in secondo luogo, risulta chiaro che la cura di sé per prevenire il cedimento all’irrazionalità deve tener conto di entrambe le dimensioni dell’individuo. C’è però un tratto comune a queste cause dell’ira: sono di fatto involontarie, dal momento che uno non si sceglie il temperamento innato, né tantomeno decide di ammalarsi o di subire delusioni d’amore. Altro è il caso della consuetudo, ovvero della reiterazione volontaria di comportamenti errati che a lungo andare nutrono il vizio in maniera diversa dalle cause supplementari. Seneca dice infatti che queste ultime hanno un potere pari a quello della natura (idem possint), mentre la consuetudo può tantissimo (plurimum), come a dire che essa riesce a sortire effetti che vanno al di là della nostra natura. La questione si può spiegare così: le cause antecedenti o procatartiche sono involontarie e occasionali, durano poco e alterano momentaneamente la nostra natura, laddove la consuetudo nutre (alit) il vizio, nel senso che muta lentamente ma inesorabilmente la miscela degli elementi che ci costituiscono, cosicché una persona non iraconda per natura lo diventa permanentemente. Ecco in cosa sta il plurimum della consuetudo: ci fa diventare tutt’altro da quello che eravamo, ma il rischio è che il mutamento sia irreversibile (il fondatore della Scuola Pneumatica, seguendo idee già diffuse nel pensiero greco, definiva l’abitudine come una seconda natura che, se si sovrappone a quella genuina, non è più rimovibile). Detto in termini informatici, è come se noi ‘sovrascrivessimo’ un nostro nuovo io a quello innato, cancellando quindi la personalità che ci ha sempre contraddistinti. Seneca dice che una simile sovversione non è lecita, ma non esclude che essa possa verificarsi: ancora una volta, tutto ricade nella responsabilità individuale, perché abituarsi a qualcosa significa sempre scegliere. E non c’è nessun altro da incolpare al di fuori di noi.      

lunedì 13 aprile 2020

S3#6: il modulo e la radianza.

Seneca, Consolatio ad Marciam 5, 3-4; 7, 1.


'Per cui sii disponibile, anzi accogli i discorsi nei quali su racconta di lui e spalanca le orecchie al nome e alla memoria di tuo figlio; e non ritenere ciò una cosa grave secondo il modo di pensare degli altri, che in un caso simile ritengono sia parte del male ascoltare parole di consolazione. Adesso ti sei gettata tutta sull'altra parte e, dimenticandoti di quelli migliori, guardi alla tua sorte dal lato in cui appare peggiore.  Non ti rivolgi ai momenti di familiarità con tuo figlio, alle sue allegre corse verso di te, non alle carezze di dolce bambino, non alle tappe di crescita degli studi: continui a tenerti davanti quell'ultimo aspetto delle vicende; ammassi in essa qualsiasi cosa tu possa, come se di per sé fosse poco spaventosa' [...]. 'Ma infatti è naturale il rimpianto dei propri cari'. Chi può negarlo, finché è moderato? Infatti a causa dell'allontanamento, non solo della perdita delle persone più care è inevitabile un morso così come la contrazione anche degli animi più saldi. Ma è un di più ciò che l'opinione aggiunge rispetto a ciò che la natura ha ordinato.

Seneca deve consolare Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, suicidatosi ai tempi dell'imperatore Tiberio per il contenuto della propria opera storica, ritenuta eccessivamente nostalgica dei tempi della repubblica, che gli era costata un processo di cui egli non vide la fine. La donna, che pure aveva retto con dignità la perdita del genitore, è invece da tre anni disperata e in lutto perenne per la morte del figlio. Seneca decide allora di fare sue (il che vuol dire far dire a qualcun altro quello che pensa lui) le parole che il filosofo Ario Didimo avrebbe detto a Livia, seconda moglie di Augusto, per consolarla della morte del figlio Druso (padre del futuro imperatore Claudio). Nell'opera consolatoria, prendendo atto dell'inevitabilità assolutamente naturale delle prime fasi del dolore della perdita, il filosofo esorta Marcia a non insistere nel lutto come se fosse una colpa non provarlo . Nell'ottica stoica di Seneca, come sarebbe inaccettabilmente disumano non provare il minimo dispiacere per la morte di un figlio, è però altrettanto innaturale permettere al lutto di occupare stabilmente la propria anima, perché significherebbe ribellarsi ai decreti del Fato. Il realismo filosofico di Seneca insiste ancora sulla distinzione tra 'morsi' e 'contrazioni'  dell'energia psichica che sono del tutto naturali nel momento in cui l'evento esterno 'si imprime' su di essa. L'aggravio è però costituito dall'opinione, ovvero dalla convinzione che sia conveniente, anzi doveroso vivere nell'afflizione perpetua. La quantità di bene che i defunti ci hanno lasciato, anche quelli che giudichiamo scomparsi troppo presto, non arriva a compensare, ma certo rende più sopportabile la loro assenza. Il che è assai stoico. Senecanamente stoico, perlomeno. C'è però un aspetto del'anormale lutto di Marzia che in realtà potrebbe estendersi ad altri disturbi psichici che hanno in comune con il lutto una sorta di senso di monoscopia. In altre parole, l'intensità del dolore legato ad una certa circostanza è tale da annullare nella memoria tutto quanto avveniva prima, mentre il dopo è solo una triste appendice di memorie compulsive, ciò per cui 'quel' giorno si ripete all'infinito. L'evento doloroso ha svuotato di senso tutta la vita ad esso successiva e non esiste più prospettiva esistenziale: ogni pensiero è semplicemente 'appiattito' sull'evento (le prole di Ario- Seneca insistono in effetti sull'innaturale 'incumbere' e 'premere' di Livia solo sulla parte della propria memoria in cui è presente il 'frame' della perdita di Druso, come se tutti i momenti belli con lui fossero semplicemente obliterati). La complessità del fenomeno sta appunto nella sua anomala 'radianza' nella memoria: in una stoica successione di momenti felici-evento doloroso- assorbimento del dolore-recupero della serenità- ritorno ai 'normali' ritmi di vita, il disturbo di radianza riesce a 'ritagliare' gli eventi, isolandone solo la parte dolorosa, che viene quindi in un certo mondo decontestualizzata rispetto alla reale serie delle cose come sono avvenute. In questo modo si matura la convinzione che tutto, in quel particolare frangente, sia stato sofferenza (quando non è andata davvero così); che il dolore non era eccezione, era la regola; ci si impone di dimenticarsi che esisteva una felicità prima e ci si vieta che ne esista una dopo. Non meno insidioso è il caso in cui il dolore è stato in effetti elaborato, ma la sua radianza non è mai cessata del tutto, cosicché anche ad anni di distanza, in particolari momenti di debolezza, può addirittura riacutizzarsi la sofferenza, come se i conti con la perdita non si fossero chiusi mai del tutto. In quel caso i frame degli eventi custoditi nella memoria si infiammano come una sorta di piaga suppurata e finiscono per rappresentare una sorta di 'valore assoluto' del dolore, come fossero un modulo matematico: non importa in che reale ordine siano andate le cose, se il dolore che ora si sente assoluto sia stato in realtà medicato, o forse non era nemmeno così forte allora. Il problema è che la persona sofferente di adesso ricorda il sé stesso sofferente di allora, caricandogli però addosso anche i problemi e le frustrazioni accumulatesi dopo quel dolore, all'epoca risolto. La ferita dunque si riapre e si arricchisce, come se le sofferenze successive trovassero in quella passata la loro necessaria premessa. Non esistono più gli eventi, ma la loro ri-narrazione nel labirinto di specchi della coscienza.  E' per questo che non basta superare il dolore del presente considerandolo già passato: bisogna essere perfettamente padroni delle onde della propria memoria, perché il rischio di selezionare il passato e rimetterlo in ordine secondo logiche esterne al reale svolgimento degli eventi significa rischiare di finire prigionieri di una sceneggiatura di sofferenza doppiamente beffarda, essendone noi gli autori e le vittime. La felicità dipende dalla radianza.

martedì 31 marzo 2020

Spocchia's Seneca School #1: la debolezza è forza.

S3#1

Seneca, Epistulae ad Lucilium 57, 4

Quaedam enim, mi Lucili, nulla effugere virtus potest; admonet illam natura mortalitatis suae. Itaque et vultum adducet ad tristia et inhorrescet ad subita et caligabit, si vastam altitudinem in crepidine eius constitutus despexerit: non est hoc timor, sed naturalis affectio inexpugnabilis rationi.

("Alcune emozioni, Lucilio mio , nessuna virtù può sfuggirle; la natura le ricorda la propria mortalità. E così (anche il saggio) corrugherà il volto di fronte a spettacoli tristi e gli si rizzeranno i capelli di fronte a stimoli improvvisi e si confonderà se scruterà dall'alto un abisso profondo piazzatosi sul suo bordo: questo non è timore, ma un istinto naturale che la ragione non può espugnare").

Se qualcuno si vergogna di essere in ansia in questi catastrofici giorni, tenga presente che il Lucilio a cui Seneca si rivolge non è un ragazzino sprovveduto alle prime armi, ma un cavaliere romano forse poco più che cinquantenne. Un uomo, quindi, che nonostante l’ampia esperienza di vita era ancora vittima delle proprie inquietudini esistenziali. Ora come allora, non esiste età per essere o non essere inquieti: le circostanze della vita possono metterci alla prova in ogni momento. Addirittura, le emozioni improvvise ed incontrollabili da cui alle volte siamo colti non sono segno di debolezza, ma anzi, sembra dire Seneca, quasi un dispositivo di auto-tutela insito nella natura umana che serve a ricordare anche all’uomo più virtuoso di essere comunque una creatura mortale. Abbiamo qui il risultato di tutta una riflessione circa i meccanismi psichici che i filosofi stoici portavano avanti da non meno di tre secoli: ammesso pure che la sostanza del nostro essere e della nostra psiche sia pura razionalità, anche la razionalissima filosofia stoica ha dovuto prendere atto che ci sono delle circostanze in cui il nostro animo reagisce per via puramente emozionale, senza alcun vaglio o “permesso” della ragione all’emozione in questione. Ciò avviene di fronte a situazioni improvvise o a tal punto fuori dell’usuale (una scena di dolore estremo, un episodio in cui qualcuno si comporta in modo estremamente aggressivo, ecc.) che è impossibile non provare almeno un minimo di negatività, anche solo credendo di sentire su di noi il male che colpisce un altro (mi spingerei a dire che l’espressione vultum adducet ad tristia è puro rosolio per gli scopritori dei neuroni specchio). Si tratta di reazioni ir-razionali nel senso che la ragione non ha ancora dato loro un nome, ma ne avverte il verificarsi come un piccolo morso o un’irritazione che colpisce lo spirito, esattamente come se si trattasse di punture o scottature che ci fanno istintivamente ritrarre il dito o la mano. Nemmeno il saggio, dice Seneca, ne è immune, perché queste reazioni sono, mi si consenta l’ardita espressione, spiritualmente fisiologiche, avvengono perché la struttura della nostra psiche è predisposta a questo accoglimento passivo dello stimolo esterno. Dal momento infatti che lo stimolo deriva da circostanze concrete (una scena triste, un’aggressione fisica, l’improvviso trovarsi di fronte al vuoto) e non spirituali (come potrebbe essere l’ascolto di una riflessione filosofica o della spiegazione di un teorema), esso non può interessare immediatamente la nostra razionalità, la quale quindi dev’essere per così dire “avvisata” dell’accadimento. Ecco quindi che entrano in gioco queste reazioni istintive che si verificano automaticamente e obbligano la razionalità a “chiamare” la sensazione con un nome (spavento, offesa, tristezza) e decidere se darvi credito oppure no. Qualsiasi evento esterno, insomma, non avviene davvero se prima non è razionalizzato, se cioè il nostro pensiero non lo definisce con qualche vocabolo. È allora che le cose fuori da noi entrano completamente in noi. Ed è quel punto che siamo in grado di combatterle, se negative. Pertanto, non ha senso vergognarsi se non sappiamo controllare lo spavento e se eventi troppo più grandi di noi paiono sovrastarci e avvilirci: è grazie a questi stimoli istintivi che si possono attivare le nostre difese psichiche. E, con buona pace degli invincibili, grazie a ciò veniamo riportati alla salutare coscienza della nostra finitezza.

lunedì 30 marzo 2020

Le lezioni perpetue.

Da qualche giorno, in corrispondenza con l’aggravarsi del picco dei contagi e del numero dei decessi per/con/da Coronavirus, compaiono sui social e un po’ ovunque sul web riflessioni sul fatto che questa epidemia, indipendentemente dalla sua durata, costituisce uno spartiacque tra un certo modo di vedere la vita che avevamo prima e un altro, caratterizzato in sostanza dalla coscienza più solida della nostra fragilità, del bisogno di ricalibrare il nostro rapporto con la natura ecc. ecc.
Tutto ineccepibile. Si attendono evidentemente repliche da parte di coloro che prima dello scoppio della catastrofe si sentivano invincibili padroni del mondo e adesso probabilmente accuseranno di qualunquismo esistenzialista “da perdenti” gli estensori delle riflessioni di cui sopra. Potranno allora contro-intervenire gli umanisti da trincea (a cui ci iscriviamo con convinzione) i quali a loro volta, finiti i richiami alla peste manzoniana, ribatteranno che quanto accade oggi non fa altro che riportare a galla riflessioni sulla problematicità della nostra condizione che possiamo far partire da quando esiste la letteratura (le stirpi umane paragonate a foglie sugli alberi, l’uomo definito “sogno di un’ombra” oppure creatura “terribile” o “mirabile”, ma sempre stupefacente è – e rimaniamo in Grecia antica – per arrivare via via a Leopardi, Montale ecc. ecc.).
Ecco. Immaginiamo che un ex- invincibile, esasperato dalla situazione in corso e dalle citazioni dotte, esploda definitivamente e accusi noi di essere Anime Belle Delle Materie Umanistiche (d’ora in avanti ABDMU). Succederà. Quindi facciamo come una volta, anticipiamo la tesi avversaria e confutiamola.
Diranno che siamo i soliti intellettuali da salotto che pontificano al sicuro sui loro divanetti senza mettere il naso fuori di casa; che non conosciamo la sofferenza vera, ma solo quella su carta; addirittura (perché in situazioni fuori da ogni schema come queste bisogna immaginarle tutte) diranno che non aspettavamo l’ora di goderci lo spettacolo dell’avverarsi di tutte le nostre nefaste profezie, noi, che la società industriale e la cultura di massa hanno messo all’angolo, liberi di provare quell’acre soddisfazione di gridare in faccia al mondo che avevamo ragione, cioè che l’uomo è nulla di fronte al Tutto; il che, oltre a farci passare per miserabili rancorosi, darebbe corpo ad un equivoco culturale enorme: le idee, le riflessioni, gli spunti critici sullo stato dell’umanità elaborati dalle ABDMU funzionerebbero solo in caso di calamità pandemica. Detto in altro modo: aspettate che la Modernità e il Progresso mettano il guinzaglio anche alle epidemie virali e tornerete a cuccia come prima.
È qui che bisogna intervenire, non solo per correggere l’errore, ma anche per evitare che si riproponga un domani.
Le ansie, le paure, il senso di fragilità che si stanno diffondendo capillarmente nell’opinione pubblica, tutti fenomeni ai quali il pensiero umanistico casomai fornisce sollievo invece che essere sale sulla ferita come i nostri detrattori credono, non sono stati “inventati” dal Coronavirus. Sono condizioni permanenti connaturate col nostro essere più profondo. Semplicemente, in situazioni di vita ordinarie si tende a rimuoverle dal livello più immediato della coscienza e a relegarle là dove non possono nuocere, in modo da poter vivere nel quotidiano con relativa serenità e dedicarci al qui ed ora.
Siamo sinceri: non serviva il Coronavirus per ricordarsi che il nostro passaggio su questa terra è un lampo nel buio; che i corpi da sogno esaltati da certa propaganda salutista sono una cosa, mentre l’ammasso delle cellule che ci costituiscono, soggette a mutazioni incontrollabili e spesso indifese contro affarini privi di DNA, è un’altra; che non esiste un Destino, o come lo si voglia chiamare, programmabile dalla A alla Z come un’agenda di lavoro.
Cose che sapevamo già. Cose su cui le ABDMU hanno sempre riflettuto. Oggi queste cose sono semplicemente “riemerse” dalla zona analgesica in erano state collocate, complice anche certa cultura presentista ed edonista che domina dalle nostre parti da un po’.
Pertanto, quello di cui noi ABDMU parliamo oggi è identico a quel che dicevamo ieri, solo che oggi c’è un virus palese – e odioso, lui sì- che fa sembrare non solo nuove, ma valide solo per questo periodo le nostre riflessioni. Sia quindi chiaro questo: non è il Coronavirus che OGGI ci fa scoprire la nostra fragilità, ecc. ecc., come se non fossimo fragili ieri e non lo saremo domani finito tutto. Semmai oggi quel senso di precarietà e incertezza di fronte al mistero dell’esistenza che è con noi SEMPRE, ha ri-guadagnato un rilievo che lo fa sembrare nuovo, quando nuovo non è.
A questo punto, però, non si commetta l’errore di ritenere errato o addirittura patologico provare queste ansie che in tempi ordinari vengono rimosse: la vera patologia è proprio l’atto della loro rimozione, dal quale nascono tutte le forme di egoistica arroganza, di sopraffazione concorrenziale, di incomprensione dei sentimenti dell’altro che caratterizzano anche giornate “sane”. Sono tutte forme di compensazione del vuoto ansioso che non si vuol vedere. Condizioni dell’esistenza che le ABDMU indagano e su cui invitano a riflettere proprio come terapia quotidiana, senza bisogno di aspettare una pandemia: curarsi un po’ ogni giorno (dove per cura può intendersi anche solo la presa di coscienza della totalità problematica della nostra condizione) potrebbe così sortire il duplice effetto di addolcire le inquietudini in situazioni ordinarie e non venirne travolti in situazioni straordinarie
E’ per questo che nel nostro piccolo, a scadenza rigorosamente irregolare, pubblicheremo e commenteremo brevi citazioni di uno che di malattie quotidiane dell’anima se ne intendeva assai (sì, tutto ‘sto giro per arrivare a Seneca…). Prima che ci accusiate di spocchia, vi preveniamo ancora: intitoleremo questo “ciclo” di post S3 (Spocchia’s Seneca School). Ciascuno offre le cure che può: visto che l’unica medicina di cui sappiamo qualcosa è quella Pneumatica, la useremo a modo nostro. Ossequi.

venerdì 7 febbraio 2020

Sanremo 70 (#2): il baratro quantistico

Dunque, premesso che

  • giocare ai piccoli statistici facendosi belli del 53% di share "inferiore solo a quello dell'edizione 1995" non conta per Sanremo: si tratta di una liturgia laica e lì valgono solo i valori assoluti, e i valori assoluti sono 9 milioni ieri sera e 18 milioni nella stessa sera di 25 anni fa. Stop;
  • il look dei Ricchi e Poveri era un pugno nella retina; mai visti colori abbinati peggio;
  • Angela Brambati aveva gli occhi spaventosamente iniettati di sangue;
  • le labbra di Marina Occhiena si muovono indipendentemente dalla volontà della padrona;
  • non c'era bisogno di questa reunion in playback
  • Massimo Ranieri e Iron-T mi facevano tanto festa nonno-nipote,
singolare il fatto che lo stesso conduttore in grado di far venire giù mezza Italia di polemiche per fotomodelle che fanno passi indietro sia lo stesso che fa fare passi avanti in TV ad una che non ha altro merito tranne quello di essere, diciamo, assieme a CR7. Perché sotto sotto il messaggio sembra sempre quello: brave, intelligenti, preparate, quello che volete, ma se siete sul palco è merito di qualcosa d'altro. Infatti le magnifiche 7 manco le hanno fatte cantare, rimandando tutto all'Evento di settembre. Ma non lì.



La voluttà distruttrice che sembra alla base dello screenplay di questa edizione si dispiega in una serie di cover AGGHIACCIANTI, tutte riletture ritmico-melodiche in grado di ammazzare il fascino dell'originale, segno evidente che, proprio nel 70esimo della ricca manifestazione, l'intento è quello di fare piazza pulita del passato.  Dimenticate le passate glorie, ci stanno dicendo: prendiamo gente giovane che canta da vecchia canzoni che hanno fatto la storia del Festivàl e del costume e facciamo in modo che sembrino tutt'altro. Svuotiamole di tutto, facciamole sembrare buttate lì per caso, sganciate dalle atmosfere storico-esistenziali in cui furono concepite. Abbiniamo cantanti improbabili con testi e musiche del tutto inadatte a ciascuno e vediamo come viene.



Ebbene sì: un Festivàl volutamente random. Per dirci che non abbiamo più un orizzonte. Forse è il segno della nostra entrata definitiva nella Terza Repubblica. I Sanremi primorepubblicani (1951-1993) riproducevano ciò che il Paese voleva vedere; quelli secondorepubblicani (1994-2017) hanno cominciato a vedersi erodere il ruolo di santuario della musica dalla concorrenza prima di MTV, poi di internet poi dei talent show e tuttavia hanno provato a replicare. Con un prezzo: quando le edizioni facevano il boom, era più merito dei conduttori che delle canzoni (cfr. le edizioni 1995, 1999, 2000, 2005, 2013, 2016); adesso vediamo uno show che esibisce in ogni momento la consapevolezza della propria inutilità. Sembra davvero di vedere la vecchia signora descritta da Pirandello ne L'umorismo: truccata come un pagliaccio, forse desiderosa di mentire a se stessa sull'età per tenersi stretto il giovane amante, suscita prima un avvertimento, poi un sentimento del contrario e, più che ridere, mette tristezza. Ecco: Sanremo è uno show inzeppato di ggiovani, ma va in onda in un Paese che sta invecchiando paurosamente. Non si capisce a cosa serva, insomma.



Tutto annacquato, come il Cantico dei Cantici in bocca a Benigni, trasformato in una specie di Imagine di John Lennon di 2400 anni fa (d'altronde per Benigni Paolo e Francesca sono come Romeo e Giulietta). Arriva lui con la versione hard del testo biblico. Come no. Praticamente come trasmettere la sigla di Baywatch in un ospizio.
Del resto l'abbiamo visto anche con l'ultima, tragica trilogia di Star Wars: tre episodi che non hanno fatto che ricicciare tutto quello che si era già visto, con il risultato che i "vecchi" fan hanno avuto un travaso di bile ogni cinque inquadrature perché si vedevano macchiati i ricordi di gioventù, mentre i "nuovi" hanno assistito ad una specie di videogiochino sciapo senza particolari meriti in rapporto al bombastico battage che ha preceduto ogni release.



E' un po' quello che succede dentro ai protoni: un quark può tentare di allontanarsi dagli altri, ma appena ci prova entra in scena l'interazione forte che, come un guinzaglio, lo riporta alla base. L'odierno Sanremo, come tanti prodotti pop emanati dal sistema post-moderno, prova a spingere, ma è vincolato a tornare dove tutto iniziò. L'interazione forte del pop è la ricerca del riassicurante ripetersi dell'identico. Il problema è che, al momento, non si capisce più a chi sia destinata questa ripetizione. Il quark non ha bisogno di chiedersi cosa e perché lo agguinzagli ai suoi colleghi. Noi, simpatici esseri costituiti da 5.9 x 10^28GeV, vogliamo invece che il pop si sguinzagli. A meno che non sia arrivato al suo limite naturale e sia costretto a replicarsi senza sbocco. Come a Sanremo70.

mercoledì 5 febbraio 2020

Sanremo 70. Versione biblica.

Premesso che:

  • non ho visto la prima serata perché impegnato in gradevole cenetta;
  • la conferenza di presentazione, al netto di quel ridicolo "passo indietro" evocato dal dott. Sebastiani, era già da latte alle ginocchia in quell'inutile profluvio di "bella, bella, bellissima", detto di ognuna delle co-conduttrici (dico io, sai bene cosa ti chiederanno i giornalisti, inventati due righe per ciascuna no?);
  • quando il predetto Sebastiani alloquisce con ugola tonante, mi ricorda troppo il compianto Vittorio Salvetti
  • l'assolo della Jebreal ha fatto il suo;
  • Riki Markuzzoh ha steccato;
  • Tiziano Ferro ha buttato cuore e vari organi interni nell'eseguire la canzone di Mia Martini, e si vede (e si sente) quanta sofferenza sua personale c'era nel poter gridare quell'almeno tu di fronte all'Ariston tutto, ma Almeno tu nell'universo è e sarà solo di Mimì, con buona pace di Elisa & tutti quelli che l'hanno coverizzata;
ebbene, detto ciò, il profilo sanremico del septuagesimo pare già delinearsi come un curioso finto-salto-in-avanti che in realtà occhieggia al glorioso passato RAI, pur nell'abile rimescolamento dei contenuti.


Detto più casarecciamente, non sfugge a nessuno che, fin qui, Amadeus sta funzionando più o meno come un vigile che smista il traffico, ma il palco è tutto dei co-conduttori (Fiorello, il già citato Iron-T, la Rula ecc. ecc. ecc.)(anche di quelli non ingaggiabili: "Se Fabrizio Frizzi fosse ancora qui, il Festival di Sanremo quest'anno l'avrebbe condotto lui"... ah lo sai...)(a prescindere dal look friccicarello di Achille Lauro ecc. ecc.. ecc.): obiettivamente, questo Sanremo Ventiventi è una poli-conduzione che alterna più protagonisti a guidare la carovana, mescolando musica, momenti super-comici, momenti super- patetici, insomma di fatto mai come quest'anno il Festivàl è uno spettacolo di varietà con le sfumature più cangianti (basti pensare che la categoria Big stasera non è ancora entrata in gara, e siamo, al momento in cui dottamente scrivo, alle ore 21.43). Non esiste una sola "trama" della serata (le canzoni, le giurie, i look delle cantanti), ma tanti fili che si succedono nella totale diluizione del conduttore che, dalle vette baudesche in cui lo spettacolo era cucito addosso al suo auriga, ora si limita a "subire" la presenza dei co-conduttori che si è scelto lui stesso. 


Rimane il fatto che in Riviera stiamo assistendo a qualcosa di vecchio e nuovo allo stesso tempo: il varietà "tutto di tutto" non può non ricordare i vecchi Fantastico degli '80 (vedere qui, e poi qui, ma pure qui)(non con conduttori così diluiti però)(e Fiorello, tra il droghismo e il plastichismo, rischia di essere the new Grillo di quella volta là); la novità è che la musica è pressoché assente, o meglio c'è ma passa via. Non solo perché i big entrano in scena all'ora in cui la brava gente molla tutto e apre Netflix, ma anche perché sotto sotto tutti sanno che il Festivàl è ormai da una buona decina d'anni niente più che una Champions League dei vincitori dei talent show, con qualche imbucato (o qualche mummia)(o qualche Junior Cally giusto perché se ne parli) così per fingere che tutto sia come una volta (questa una volta)(pardon, intendevo questa). Sanremo è cioè ormai un evento secondario, che esiste perché esistono altri programmi che gli forniscono materiale: una volta passare da Sanremo era una tappa obbligata per chi voleva fare il pieno di vendite grazie alla vetrina nazionalpopolare da 15-20 milioni di spettatori. Oggi si può al limite passare anche da Sanremo, ma senza quell'idea di liturgia laica di un tempo: gli spettatori medi per serata sono "solo" 10 milioni (ricordate questi qui? Con loro l'ascolto medio di quel mercoledì di febbraio del 1995 raggiunse i 18), una parte dei quali seguono lo spettacolo solo per commentare sui social, un'altra orecchieggia distrattamente i pezzi per decidere cosa risentire nel caso su Youtube, un'altra ancora mette su Rai1 giusto per avere un sottofondo mentre naviga su Instagram; e così avanti. Morale, gli intenzionati ad acquistare il CD di uno di questi quanti sono? Cioè, per chi veramente si allestisce il carrozzone sanremico? Per quei quattro aficionados stretti nelle ormai striminzite transenne davanti all'Ariston?  




Ecco perché in casa Rai hanno deciso di ibridare Sanremo con i varietà del tempo che fu. E quindi anche gli artisti in gara escono il meno possibile dal seminato, perché sanno che è già difficile tenersi stretti i fan attuali, figurarsi se conviene cercarsene di nuovi con qualche scelta avventurosa. Si dirà che questa è la solita critica di immobilismo che si muove al Festivàl da almeno 50 anni. Il fatto è che una volta il Festivàl era sempre uguale, ma pur sempre baricentrico. Oggi è simile a quei pranzi di Natale dove si va giusto perché ci mancherebbe altro, ma a parte qualche parente con cui magari si fanno due risate per poi non rivedersi nei prossimi 12 mesi ("ma come sei simpatico, dai non facciamo passare un altro anno, eh....??"), il pensiero è sempre a quando si partirà con la cumpa per il Capodanno in chalet ("Lì sì che ci si diverte...").