Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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sabato 9 febbraio 2019

Le grandi recensioni di Eligio De Marinis: Il primo re, alle interiora della leggenda.

Mentre su Raiuno vanno in onda le consuete Dionisie sanremesi, guidate anche quest'anno da Claudione che discetta senza rete di Yin, Yang e triplette degne della miglior Cristina d'Avena (poesia, armonia, fantasia, cose così), noi si sfida una programmazione per multisale a dir poco subdola e ci fiondiamo a vedere IL FILM del 2019, dedicato ai primordi dell'Urbe, narrazione sanguigna e borborigmatica cui certo non fa difetto l'originalità. Né il potere ipnoinduttivo su sei decimi della sala (spettatori presenti in sala: 10).
Ora, è chiaro che una storia su Romolo e Remo ha lo stesso tasso di imprevedibilità della lettura del Vangelo alla domenica delle Palme: è un filino difficile che d'un colpo succeda qualcosa di diverso da quanto tutti sanno già. Qui c'era poi la concorrenza col precedente latinofono più noto degli ultimi 15 anni, ovvero La passione di Cristo diretta da Gugliemo Gibsoni, film passato alla storia sia per i litri di sangue fatti versare al Redentore, sia per l'uso assassino della perifrastica passiva. 

Quindi?

Un regista, arrivato nell'anno domini 2019, se davvero vuole attrarre masse adoranti a vedere un film sui momenti neonatali [e anche prima] della città che con la sua storia ha dato una svolta decisiva ai destini dell'umanità tutta, non può limitarsi al mero documentarismo. Né però avremmo voluto una specie di saga nordica calata nel Lazio. Ebbene, Matteo Rovere ha optato per un neorealismo filologico, facendo parlare gente del 753 a.C. con un latino di chiarissime coloriture arcaiche (cfr. sotto), offrendoci una storia che da ogni inquadratura lascia trasudare l'idea che alla base del mito di Roma ci sia la più istintiva delle voglie umane: il potere. Voglia che va a scontrarsi col più insuperabile muro posto a sbeffeggio perenne delle nostre pretese di autodeterminazione: il destino. A contorno di tutto, i più tipici piatti della tradizione trasteverina.

Si comincia dunque [ATTENZIONE SPOILER!!][SE VABBE'...] nella Sardegna interna, dove due fotomodelli barbuti vestiti con sontuosi gilet di pelle di pecora e mutandoni tattici, presumibilmente i gemelli Romolo e S.Remo, sono intenti a fare a gara tra chi ha lo sguardo più Zoolander. Romolo prega in latino arcaico Diana dai tre volti, dimenticando, sciocchino, che quando Diana si invoca così, minimo minimo si scatenano le forze della natura, perché il terzo volto della suddetta è quello di Ecate, divinità dell'oltretomba. Difatti Ecate ringrazia e alluviona quel tratto di Sardegna in cui i due gemellini pascolano le loro caprette con tanta acqua come in Sardegna non se n'è mai vista. Talmente tanta che R&R si risvegliano nel Lazio. Puntualmente catturati dai coatti del luogo.
Ha inizio dunque qui la vera e propria avventura del nostro duo, contraddistinta da un tasso pauroso di ferite aperte e curate coi vermi, capelli induriti dallo sporco (o dalla salsedine di palude tipica del Lazio preromano), assalti di cavalleria, imboscate in pieno pantano, gente che si veste con costumi a figura intera in forma di lupo credendo di essere spiritosa, altra gente che gira con maschere di cartone sulla faccia o pittata coi colori del barattolino Sammontana, gole trafitte, corpi trapassati da parte a parte, cervi e agnellini sventrati per consumarne avidamente le viscere, laddove la gara di Mister Mos Maiorum vede prevalere per due terzi buoni del film Remo, anche perché Romolo, tapino, viene infilzato dopo neanche 15 minuti di film e rimane convalescente per un bel po', dormendo della grossa (doppiato peraltro eccellentemente da alcuni spettatori in sala) mentre Remo occhieggia sornione e prepara le basi del suo dominio [ah... ehm...].




Remo che, ansioso di segnare il territorio, VORREBBE concludere con la vestale sequestrata ancora ai cattivoni di inizio film, una sacerdotessa azzimata identica sputata a Noa, l'avversaria di Bia la sfida della magia e costretta a girare con il mortaio del fuoco perenne per ricordare a tutti che lei no, proprio no, e soprattutto per fare luce al resto del cast, visto che metà della storia si svolge di notte.



Vorrebbe, dicevamo: perché Vesty, onde respingere il vitellone, si prodiga in profezie astruse, spiega che solo il suo (di lei) dio la POTREBBE proprio se mai al limite possedere, quindi Remo che si mettesse in fila, e per far capire al suddetto che il suo spread col fratello è destinato al default, gli dice paro paro che due fratelli sono troppi, uno deve schioppettare l'altro sennò la storia non andrà più avanti. E qui il Tema Portante Numero Uno del film: detto che nessuno può avere il minimo dubbio su chi fonderà Roma, lo Spettatore Incallito sarà ben curioso di vedere come Remo vive la cosa. Scopriamo dunque che il predestinato a veder citato il proprio nome da Claudio Bisio viene travolto da un furor regni pre-senecano, incapace di accettare qualsiasi esito dei fatti che non sia il SUO dominio, pronto a uccidere chiunque OSI replicare a una sua asserzione anche solo con un tuttavia, oltre che prendere a sberle Vesty e legarla ad un albero in balia dei grillitalpa pur di non accettare il vaticinio. Sì, perché Remo vuol bene al fratello, evita di sbudellarlo quando per tutto il resto della tribù costui è semplicemente sacratus, cioè maledetto ed intoccabile per aver in precedenza preso a scodellate Vesty, ha in mente per lui un luminoso futuro da reggiciabatte del re... in altre parole, pur potendo in almeno due occasioni cambiare la storia dell'umanità per gli eoni a venire  (si veda anche il duello Street Fighter de' poracci all'inizio), pur cedendo in più punti alla più inaridente sete di potere, cosa che lo porta pure a mazzulare Romolo, alla fine anche Remo nulla può contro il fatum, autentico estintore di ogni umana possa. 
Di contro Romolo acquista gradualmente volume della chioma e coscienza di sé, anche perché deve prima rimettersi dalle ferite, e qui gran merito va alla coratella di cervo a crudo amorosamente procacciatagli dal fratello. Certo, c'è dell'ironia amara nel prodigarsi di Remo a tener vivo colui che lo ucciderà, ma tant'è: il futuro fondatore dell'Urbe, di contro alla spocchia imperialistica dell'omozigote [SEDICENTE omozigote], prende per mano la gente, organizza preghiere pubbliche, riaccende il fuoco vestale scandalosamente calpestato dall'altro, nomina una nuova vestale direttamente da Non è la Rai, la obbliga a girare col turibolo in mano anche in caso di terremoto, si porta il di lei fratellino in battaglia, lo vede morire, vede lei che lo vede morire e le ordina di piangere di lato sennò si spegne di nuovo il fuoco, e quando Remo OSA, folle!, attraversare il BEN NOTO confine in spregio a qualsiasi fas, superando ogni hybris greca passata e futura, allora non gli resta che il colpo di grazia (seguono cinque minuti di rantolo di Remo, a cui evidentemente si è fermato un carciofo alla giudìa in gola, perché Romolo lo ha trafitto al cuore, ma lui sanguina dal collo)(e nel frattempo Romolo tenta di tenerlo in vita miagolando freter freter, coi capelli ormai resi simili a stalattiti dai crostoni di brachiolite concretizzatisi dentro e ai lati, tanto che ad un certo punto le punte dei capelli medesimi cavano l'occhio al gemello) .
Nella fangosa atmosfera veterolaziale, insomma, assistiamo ad un gigantesco arcaico rito di iniziazione che svela il meccanismo oscuro ed animalesco alla base di ogni consortilità umana.



Tacendo di Enea e soci, prescindendo dall'idea di Roma che remotamente nacque dall'unione di aborigeni e Frigi, vediamo il crudo della Storia: la fame animalesca di dominio sui propri simili, da cui giustificati i mutandoni e i piedi sporchi. In più, ed ecco qui il Tema Portante Numero Due dell'opera, dove c'è civiltà, persino ai livelli darwiniani qui descritti, c'è linguaggio. Ebbene, alla faccia della neo-lingua di Orwell, Remo prima e Romolo poi riescono a mettere al guinzaglio le rispettive, non proprio oxfordiane consorterie BIASCICANDO un protolatino recitato a voce talmente bassa che secondo me tutti gli altri villains della storia a un certo punto decidono di obbedire a uno dei due gemelli piuttosto di fare la figura di quelli che non ci sentono. Di tutto interesse, viceversa, la ricostruzione filologica di questa lingua [poi è tutto da scommettere che parlassero così, visto che ciò che sappiamo del latino inizia molto dopo]. Troviamo infatti:
1) l'assenza di rotacismo, visto che siamo prima del III secolo: sentiamo quindi arboses invece di arbores.
2) il genitivo singolare della seconda declinazione superarcaico: coeloio invece di coeli
3) cari vecchi dittonghi: oenum invece di unum, leukem invece di lucem
4) perfetti raddoppiati di influenza osca: quid fefecid?
4) assenza di oscuramento: nemos invece di nemus
5) niente affricazione palatale: age pronunciato [aghe]
6) desinenze ancora vicine ai corrispettivi greci: agonti invece di agunt; esti invece di est.
7) fossili deliziosi: ollum invece di illum.
8) e molto altro. Mi resta il dubbio dell'ablativo assoluto già in uso presso quegli amabili pecorai. 

Quindi [2]?

Quindi un film che certo non attrarrà le masse, difatti dopo una settimana di programmazione l'hanno esiliato dalla Oz alla Wiz; film che mantiene la quota Game of Thrones apprezzabilmente sotto il livello di guardia (giusto un paio d'occhi cavati direttamente a mano da uno di quelli là), mentre il temutissimo coefficiente 300 è pressoché azzerato; film, certo, che non farà innamorare della storia di Roma chi già innamorato non è: perché il Rovere non ha voluto in effetti narrarci una storia, semmai ha voluto spremere da QUELLA storia un'essenza universale e immutabile di viscerale ferocia solo umana, in un contesto in cui, vestali punk a parte che tengono a bada rozzi caciottari con i gesti della briscola, di soprannaturale non c'è ombra alcuna [nota filologica per i puntuali sceneggiatori: a un certo punto della storia compare un arcobaleno; se la cosa è voluta come segno benaugurante, ci permettiamo ricordare che per la mentalità latina l'arcobaleno non benaugura alcunché...]. Nel corpo del pianeta prende corpo la storia che si fa, e si disfa, coi corpi degli uomini stessi che la animano, con azioni plasmate da parole la cui magmatica sintassi è il dato sensibile di una forma-non-forma perennemente in cerca di definizione.
Sfida interessante, senza dubbio. Vinta a metà, forse. Comunque il maglione di Alessandro Borghi nelle interviste meriterebbe un'enciclopedia a parte.