Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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mercoledì 24 settembre 2014

Machittevòle@festivalfilosofia: padri, madri e lo sdraiatismo ci accompagna.

L'intervento di Chiara Saraceno va, a nostro giudizio spocchiometrico, ad integrare involontariamente la querelle sullo sdraiatismo innescata da Michele Serra & contraddittori a Mantova. Del resto, tout se tient.

La sociologa affronta l'attualità del comandamento "Onora il padre e la madre". La parola ebraica che significa 'onore', ci dice lei, copre in realtà lo spettro semantico anche della gloria e del rispetto. Il genitore onorato, quindi, è anche oggetto degli altri due riconoscimenti.

Facile, del resto: concetti simili hanno goduto di salute eccellente per tutto il tempo (millenni) in cui la società della mezzaluna fertile e poi dell'occidente si è basata su una rigida struttura gerarchica e patrilineare (escludendo quindi Creta), all'interno della quale il capofamiglia godeva di un prestigio pressoché automatico, in quanto reggitore delle sorti del casato, membro anziano dotato di eccelsa saggezza venuta dall'esperienza, custode evidentemente anche del patrimonio e delle attività atte a ingrassarlo. La fredda gerarchia asimmetrica, che prevedeva diritti sterminati del padre sui figli senza controbilanciamento, non implicava necessariamente che tra i due poli dell'oikos spirasse anche amore. Era al contrario obbligatorio il rispetto, cilieginescamente attaccato all'onore.

Oggi no, dice Saraceno: la società post-qualsiasicosa in cui veleggiamo ha provveduto a stabilire, anche per via legislativa (benché parzialmente disattesa) tramite decreti ad hoc, una serie di diritti dei figli e di obblighi dei padri nei loro confronti. L'asimmetria sembrerebbe dunque rovesciarsi, con genitori cui non è automaticamente spettante l'onore se essi non compiono atti che possano guadagnarlo.

L'atto che la sociologa ritiene il più onorogeno è la 'generatività', che non vuol dire, beninteso, la capacità di mettere al mondo prole, bensì quella di mettere a disposizione della prole medesima degli spazi di azione, sì che essa prole, gradualmente e mai del tutto lasciata sola, possa muovere i suoi passi nel mondo, esperirne il bello & il brutto, vedendo gradualmente ritirarsi l'ego genitoriale, per sua natura propenso a picchettare i propri confini e a dire: "IO!!!" con sovrabbondanza quando non con eccedente sovrapposizione a danno dell'indole dei pargoli.

Eccetera eccetera, ma a noi tanto basta.

Di primo acchito, notiamo che la proposta saracenesca, non ce ne voglia (sì, ma mica ci legge...), non ha gran pregio di originalità se la si rapporta ad epoche certo remote, nelle quali però il dibattito sul tasso di autorità del padre nei confronti dei figli era già fiammeggiante.

Mi spiego: lungi da noi voler fare i classicisti fanatici, quelli che "tanto gli antichi hanno detto tutto, non c'è più nulla di nuovo", nondimeno non è la prima volta che dalla voce dei sociologi sentiamo provenire modelli di lettura del reale che vengono dati come nuovi di pacco, ma hanno invece qualche corposo precedente nell'età classica. Michel Maffessoli, capoccione parigino, venne 10 anni fa giusto a Carpi a opinare che MAI PRIMA DEI NOSTRI TEMPI si è assistito ad una compenetrazione così invasiva di cultura occidentale e orientale, ed è chiaro che l'ottimo accademico si dimenticò del fenomeno dell'Ellenismo, che sarà pure restato confinato entro il bacino del mediterraneo orientale, ma come esempio di possente sincretismo ovest-est funziona perfettamente. Col che, ribadiamolo, noi non si vuol dimostrare nessuna universale immutabilità del mondo d'oggi rispetto a quello di allora, ma solo rimarcare come le costanti dello spirito umano abbiano spesso un andamento non solo carsico, ma spiraliforme.

Sarebbe quindi eccessivo usare la commedia latina del II secolo a. C. come specchio fedele della società romana, e lo stesso vale per la poesia elegiaca di un secolo dopo. Certo però, vedere portati sulla scena o messi per iscritto atteggiamenti e stili di vita fortemente corrosivi rispetto ai costumi consolidati, lascia sospettare che qualcosa fermentasse davvero. Letteratura, certo, e sappiamo ormai da mo' che chi vive non coincide sempre a puntino con chi scrive: guai a vedere in Terenzio un sociologo o negli elegiaci dei precoci figli dei fiori. Resta però il fatto che il commediografo scipionico ci ha regalato gli Adelphoe, sapida (per la media di Terenzio, s'intende...) pièce in cui si affrontano due fratelli, Demea e Micione, che allevano i figli del primo, sì che quello affidato a Demea cresce sotto lo staffile della più rigida autorità, l'altro gode del maggior lassismo micionesco e quindi di margini di manovra più morbidi. Non mancano monologhi e dialoghi in cui la discussione tra i due stili educativi va accaldandosi, là dove pare che Micione punti più all'autorevolezza che all'autorità, per dire cioè che costui è tutto fuorché pre-sessantottino, se ha senso retrocedere indiscriminatamente all'antico certe categorie moderne, come sarebbe errato il contrario. Però quell'idea di generatività proposta dalla Saraceno mi pare in qualche modo tralucere dal testo terenziano. E non dubiterei che della cosa si discutesse davvero, perlomeno presso i 'circoli' più progressisti dell'Urbe. Detto poi certamente che nessun paterfamilias dell'epoca, neanche il più filelleno, avrebbe mai pensato di vedersi crescere uno sdraiato in casa (domo, se preferite), tanto per riagganciarci a Serra. Salvo casi isolati di degenerazione del fenomeno, anche nei momenti più bui del mos maiorum il reggicasato romano aveva ben chiaro che eventuali spazi generativi potevano essere concessi al figliuolo solo entro una certa età, finita la quale il figliuolo stesso avrebbe dovuto metter via corone di edera e astragali per dedicarsi alla carriera del buon civis; dall'altra parte, non vorrei pensare che il genitore generativo, se Demea e Micione non sono solo finzione letteraria, mirasse davvero ad acquisire un plus di onore da parte del figlio. Poteva al più trattarsi di un problema di adeguamento dello stile di vita ai nuovi modelli provenienti dalla greconia, ma restava fuori discussione che al vertice della famiglia, con tutti i diritti ultimi più sacrosanti e relativa onorabilità, permanesse la figura paterna. Non c'erano insomma esigenze 'di contrattazione' coi figli, direi.

Ciò che invece pare accadere oggi, e non solo nel variopinto universo bimbominkia. Quando mi trovo a colloquio madri sottomesse ai capricci dei figli, quelle che "lo so che mio figlio va male a scuola, ma qui si trova bene, ha tanti amici, e poi se l'è scelta lui...", quando vedo madri prontissime a mandare a lezione privata i figli prossimi alla bocciatura, "ma non domani, dopodomani, perché stasera ha una festa in discoteca", quando vedo padri che non battono ciglio se il figlio spinge e fa cadere un altro bambino, o altri che "non so come dire a mio figlio che non lo mando più a calcio perché se no non studia", o altri che non riescono a sganciarlo dall'Ipad neanche ricorrendo a minacce estreme come: "Guarda che adesso noi saliamo in camera e tu resti qui!", e lui bellamente va avanti con Angry Birds, ecco che il generativismo saracenesco va ad interrogarmi assai. Cioè: perché questi genitori non sono passati da autoritari a generativi, bensì a schiavi dei propri figli?

La risposta, secondo alcuni, sarebbe da ricercarsi negli effetti perversi del lassismo sessantottino che ha creato una generazione di gente convinta di avere solo diritti. La generazione dei Serra, tanto per dire. Il quale, a giudizio di quelli che hanno sparato a palle incatenate contro il mio post e il sottoscritto, avrebbe ben poco da lamentarsi dello sdraiatismo, in primis di quello dei figli, essendo esso fenomeno l'esatta risultante di un certo tipo di cultura portata avanti da Serra e confratelli in quei lontani anni. In sostanza: "Caro Serra, avete lottato per anni contro la società dei doveri, promuovendo la fantasia al potere, il rifiuto dell'autorità, lo smantellamento delle gerarchie e delle tappe esistenziali obbligate? E di che vi lamentate, adesso?".

È vero, ma solo in parte. I sessantottini hanno fatto il loro, e i danni sono qui tutti da vedere, ma le generazioni odierne sono anche vittima di ciò che i sessantottini non avrebbero mai avallato, ovvero il consumismo sfrenato. Il paradosso da noi spocchiosi già affrontato riposa appunto sul fatto che, nel proclamare solo diritti contro una società oppressiva e culturalmente arretrata, i sessantottini e i contestatori in genere hanno involontariamente aperto la strada a TUTTI i diritti, compreso quello a procurarsi tutto ciò che l'industria mette sul mercato. Se ogni desiderio è lecito nel momento stesso in cui viene formulato, e il 'sistema' mette a disposizione in modo copioso gli oggetti atti a soddisfarlo, come si può dir di no? Ora, i sessantottini potranno anche essersi fermati in tempo, evitando cioè di rendersi docili schiavi delle logiche consumistiche che Bauman ha messo perfettamente in luce, ma altre tipologie di genitori no. Questi ultimi, senza saper nulla, o poco, di sessantottismo, senza veder nulla di male nell'acquisto di tutto ciò che placa, momentaneamente, il bisogno di novità, di up-to-date, di status symbol, includono nel pacchetto anche la felicità dei figli, per ottenere la quale si è disposti a eliminare dalla vita di costoro tutti quegli elementi di disturbo che potrebbero minarla, accontentandoli in tutto e dando loro qualsiasi cosa, coi terribili effetti diseducativi di cui quotidianamente noi gente di scuola facciamo esperienza. È anche da questo versante che poi salta fuori lo sdraiatismo, ma non si può parlare di gente 'dde sinistra', filoserrana o ex-post-una volta sessantottina. La colpa è semmai di quel Potere senza volto che già Pasolini oscuramente avvertiva in azione negli anni '60-'70, il potere dell'omologazione consumistica (Pasolini parlava appunto di edonismo e joie de vivre), del benessere per tutti in grado di appiattire ogni tradizione passata sotto la pressa dell'avere senza essere, come direbbe Fromm (circa.... ).

È chiaro che questo Potere non può non andare ad intaccare la generatività dei genitori, in forme che ovviamente Terenzio non avrebbe mai conosicuto. Un Micione dell'epoca poteva pure preoccuparsi di essere meno restrittivo nei confronti del figlioccio, ma mai avrebbe inteso, come invece fanno i genitori sdraiogeni odierni, costruire intorno al ragazzo una vita senza ostacoli, prono ad ogni suo più immaturo capriccio.

E però, s'è detto, abbiamo sdraiati che saltano fuori anche da famiglie tutt'altro che sdraiogene, né sessantottine né schiave del Potere pasoliniano. Eppure succede. Succede perché l'indole del figlio ha zone di autonomia su cui l'azione genitoriale, anche la più illuminata, non ha effetto, ma succede anche perché il caleidoscopio di stimoli mediatici, con relativi modelli etici ed assiologici, in cui il figlio è immerso è oggi obiettivamernte incontrollabile. Se il genitore, o il docente con pretese predicatorie, dice 'alfa', ma la tv, internet, twitter, youtube, facebook, ask, instagram, netlog dicono 'beta', va a finire che la maggioranza vince. È democrazia anche questa, per quando ridicola. La democrazia del piacere.


Machittevòle@festivalfilosofia: parliamoci addosso.

L'anno scorso venimmo (o vennimo? O venettimo? Boh..) a Carpi, prendemmo una barca di appunti e non pubblicammo nulla. Shame on us. Quest'anno siamo in tempo per elaborare qualcosina. Il tema del festivalfilosofia è la gloria, argomento senza dubbio insidioso, non foss'altro perché è dai tempi di Achille & compagnia omerizzante che esso concetto è stato declinato nelle più varie forme.

Oggi, per dire, l'esimio prof. emerito Genort Boehme ('oe' va letto alla tedesca, non alla francese) ci dice cose sullo spettacolo del sé che un po' noi tutti mettiamo in scena nell'approcciarci con una comunità che ci osserva, ci giudica, ci gradisce o sgradisce a seconda di quanto riusciamo a essere in certo modo 'popolari'. Di fatto non è solo una questione dei messaggi che mandiamo all'ecumene, ma anche dell'atmosfera che riusciamo a creare attorno a noi e alla nostra persona.

Argomenti, si capisce, che calzano i pennellino con i drammi immaginifici della odierna società dell'immagine in cui tutti siamo immersi e che in effetti ci costringe a istrionizzarci spesso & volentieri per 'condire' ciò che abbiamo da dire e rendere il tutto più gradito al pubblico. ampliando la questione oggi dibattuta, v'è da chiedersi è se questo condimento vada a danno del messaggio autentico, se cioè il tasso di istrionismo che mettiamo nei nostri atti comunicativi non esiga che a volte correggiamo, impoveriamo o deformiamo un pochino ciò che diciamo perché esso riesca a entrare tutto dentro al vestito di scena. Che, detto ancora più crudamente, sarebbe a dire: conviene di più dire TUTTO quel che si pensa nel modo più sincero possibile o contaminare la merce con modi e contenuti meno aderenti al nostro pensiero genuino e però di sicuro impatto sull'audience, la quale, ingolosita da ciò che le piace, verrebbe poi indotta ad ascoltare anche il resto, ovvero la parte più vera e non compromessa del nostro plafond di idee? Sì, sembra una questione vicina al problema tassiano di intessere fregi al vero e cose così e far bere il lucreziano Bactrim con zuccherino, ma il buon Boehme decide di declinare la cosa in particolare riferendosi al mondo dei filosofi, che al giorno d'oggi devono sapersi auto-marketizzare né più né meno come fa Raffaella Fico che si picca di imitare Shakira su Rai1.

Quindi?

Ci sarebbe Heidegger, il quale avrebbe curato accuratamente l'uscita postuma di alcuni suoi taccuini e di alcune interviste che avrebbero consentito una sorta di mantenimento in vita del dibattito attorno a lui anche post mortem. Come dire: Martin il Nero avrebbe sapientemente messo in scena un pièce comunicativa per tenere alta l'atttenzione sulla sua figura anche quando egli non avesse più potuto partecipare con vivezza (lol) alla vita filosofica tedesca & mondievole.

Certo il problema del rendersi conosciuti non è di oggi, nemmeno per i filosofi. Diciamo che oggi, nella nostra società ipermediatizzata, certe istanze si sono decisamente ispessite.

Cioè: cosa cerca il filosofo? La gloria, ad esempio, ma declinata come? Come autorevolezza e/o reputazione presso la comunità dei filosofi, ma anche come onore, che verrebbe conferito sia presso l'accademia che l'opinione pubblica, la qual cosa si vede bene quando vengono conferite le lauree honoris causa (per acuto sillogismo i fratelli Rossi, Vasco e Valentino, sono dunque filosofi, in ciò battendo di lunga pezza i fratelli Magno, ovvero Alessandro e Carlo - ok, per oggi basta). Sul versante della sola opinione pubblica, invece, il filosofo cerca prevalentemente la notorietà, elemento che investe non solo i contenuti della filosofia, ma la figura stessa del pensatore. Da ultimo, si cerca anche l'importanza, legata a sua volta al riconoscimento da parte dia della comunità accademica che dall'opinione pubblica.

Come si è evoluta la situazione con XX secolo? Col fatto che il filosofo ha cominciato a mettersi in scena, sulla scia delle nuovissime possibilità offerte dai media. Non basta scrivere o spedire cicciuti epistolari, importa anche apparire ovunque un mass medium ne dia l'occasione. Ovvero: ai tempi di Goethe o Kant il filosofo era famoso per la pubblicazione dei suoi testi, ma solo presso la comunità accademica e il ristretto pubblico di lettori di filosofia, che ovviamente era un sottoinsieme del già ridotto gruppo degli alfabetizzati. Di fatto, non erano previste attività extra rispetto a quella di filosofo per la divulgazione del pensiero, a parte il predetto scambio epistolare, che però restava sempre 'dentro la cerchia'. Tutt'altra musica nel '900, anche se cursoriamente l'ottimo Boehme accenna ad una sorta di anticipazione del fenomeno da parte di Schopenhauer, ma qui mi sono perso un po' (e un filino anche la traduttrice, che era un pochetto lenta rispetto alla simultaneità rischiesta per capire il pensiero dell'ospite) e non mi è chiaro il come. Altri espertoni di automediatizzazione sarebbero Nietzsche e Buchner.

Ad ogni modo, allorché si affferma in Europa un ceto borghese abbastanza colto, esso diventa il destinatario del messaggio dei filosofi, che quindi non cercano solo il dialogo coi colleghi, ma occhieggiano con voluttà anche all'ampia platea dell'opinione pubblica (vedrei in ciò la naturale prosecuzione di un linea già inagurata dagli illuministi, ma se ne può discutere). Ecco però che allora il filosofo deve ingegnarsi con l'extra lavoro, ovvero appunto imparare anche a vendere la propria immagine oltre che la propria merce. Del resto mai come nei tempi odierni conta tantissimo anche la casa editrice presso cui si pubblica, con gli agganci che essa ha coi recensori dei giornali, ciò per cui un 'certo' canale mediatico garantisce una certa notorietà della pubblicazione, mentre case editrici più modeste sono una condanna all'anonimato (qui certo la presenza di siti di autopubblicazione oltre che dei noti canali socialnetworkici secondo me risolvono almeno in parte il problema).

Nella prima metà del '900 pare, dice Boehme, che l'espertone dell'automarketizzazione fosse Gadamer, molto più di Heidegger, che invece, s'è detto, aveva pianificato il grosso della strategia per quando fosse trapassato. Il bravo market-filosofo deve saper strizzare l'occhietto alle avanguardie più recenti della filosofia oltre che sintonizzarsi con lo spirito del tempo e quindi anche un po' con gli umori dell'opinione pubblica, e quella dell'epoca di Gadamer, quella almeno che a lui piaceva solleticare, era di orientamento tradizionalista e nazionalista [qui io e la Spocchia ci fidiamo di quanto abbiamo capito, perché su Gadamer siamo piuttosto digiuni. Sono gradite integrazioni da chi ne sapesse di più].

Figuriamoci oggi, epoca in cui il capitalismo assume tratti vieppiù estetizzanti: saturata la sete di essenziale, e con tanti saluti all'epicureismo stricto sensu, il mondo produttivo genera in noi desideri che vanno a toccare anche la sfera del superfluo (ok, Bauman rulez). E spesso il fine del soddisfacimento del superfluo cade nel mondo dell'apparire (Luca Eclettico, godi e stupisci!). La merce non ha solo valore di scambio, come diceva Marx, ma è anche elemento di una messa in scena, giacché il sé si afferma anche nel 'mostrare' di essere in grado di consumare.

Sul coté intellettuale della faccenda le cose vanno più o meno analogamente: l'intellettuale non deve solo dire il suo, ma 'mostrare' anche di aver consumato opere dei colleghi, sì da poter parlare e citare a piacimento (vabbe', anche Seneca citava Epicuro...). Inoltre il filosofo odierno DEVE dotarsi di relativa pagina web, per non dire di una voce autoreferenziale su wikipedia: bisogna dare in pasto al pubblico la propria persona affinché esso pubblico sia invogliato a comprare anche le opere. Sarebbe, come è stato detto da certuni [non ho audito il nome, sorry] l'effetto-Matteo, inteso come l'evangelista: "A chi ha verrà dato" si dice nel Vangelo, e qui, più o meno, chi ha notorietà riceverà introiti dalla vendita delle opere. Il filosofo diventa egli stesso un brand. Vediamo quindi all'opera individui che puntano molto sul darsi l'apparenza stravagante, buttando nel calderone mediatico stili di vita magari scandalosi o teorie poco meno che bizzarre. Tutto per il marketing.

E qui, the big domand: a che livello di compromesso il filosofo-in-sé deve venire col filosofo effettivamente percepito? Non c'è il rischio che l'immagine entri in conflitto con la personalità autentica? Boehme ricorda che al filosofo, in genere, si chiede una certa unità di essere e pensare (ok, Rousseau gettò i figli in orfanotrofio e scrisse di pedagogia, l'umanità, si sa...), mentre l'attenzione spesso spasmodica per l'immagine potrebbe alla lunga danneggiare l'autentica 'vita' filosofica.

A questo punto noi, che non abbiamo tema di citare per nome i partecipanti ai dibattiti del Festivaletteratura anche quando confondiamo le facce, vorremmo assetatamente che l'ottimo Boehme citasse almeno UN filosofo contemporaneo che rientra nel ritratto sin qui condotto. Ma il Nostro dice che non vorrebbe mai offendere qualche collega [vedi, Spocchia? Noi abbiamo solo da imparare da costoro...], e allora si rifà ad un personaggio fittizio, presente in un romanzo scritto a quattro mani da Boehme stesso e dalla defunta consorte, ovvero il filosofo Giovanni Dorano: costui è un filosofo del linguaggio di stretta scuola husserliana e ha capito da mo' [se l'udito non c'ingannò, comunque la traduttrice andava un cicinino regolata, eh...] che un conto è parlare ai colleghi e andare per via argomentativa, un altro è proporsi al popolo, dovendo in questo caso attingere le risorse prevalentemente dal mondo della retorica (qualcosina nella Prima e soprattutto Seconda sofistica, forse...?)

Dorano, quindi, diventa famoso grazie ad un'attenta strategia che prevede anzitutto la propria scomparsa (reale o fittizia non s'è capito), sì da provocare quintali di titoloni di stampa, che a loro volta destano le antenne dell'opinione pubblica. Ciò si associa al fatto che, giusto prima della scomparsa, il suo editore CASUALMENTE pubblichi il suo ultimo libro, col quale Dorano annuncia la 'svolta kantiana' nella teoria della fenomenologia del linguaggio. Capito, il furbo? Non solo 'svolta', ma pure 'kantiana', sì da inserire lo scritto entro un panorama di altissimo livello agli occhi del pubblico. Come se io, per dire, pubblicassi un libro su Seneca scritto in bimbominkiese e il mio editore parlasse di 'svolta One Direction' negli studi sul filosofo di Cordova. Vendite assicurate. Di più: Dorano inserisce nel libro una lettera di Kant a Herder, che aveva mosso al maestro di Koenigsberg alcuni rilievi circa appunto l'omissione dalla Critica della ragion pura di riflessioni inerenti i fenomeni linguistici. La risposta di Kant è tutta intessuta di concetti che vanno in realtà a corroborare le teorie di Dorano medesimo, il quale appunto riesce a trovare appoggio nientemeno che nel pensiero del più grande filosofo dell'illuminismo.

"Cambio di paradigma!" annuncia Dorano a proposito della sua opera: un modo eccelso per vendere; che poi si venga anche letti, è un altro paio di maniche...

A noi profani viene effettivamente allo spirito qualche considerazione. È verissimo che strategie alla Dorano vengono benissimo forse solo ai filosofi del linguaggio: se infatti si inseguisse qualche nuova strada metafisica, alla ricerca dei fondamenti veri dell'essere, come si potrebbe a sua volta apparire diversi da quello che si è? È ben vero che Seneca raccomandava l'indifferenza nei confronti dei beni materiali e poi aveva un patrimonio personale di tre milioni di sesterzi, e ai suoi detrattori rispondeva che erano poi due spicci, giusto per non avere affanni quotidiani che lo distraessero dalla strada verso la virtù. E anche Platone, agli occhi di un materialone dei nostri tempi, apparirebbe come il ricconzolo che, siccome non ha un tubo da fare tutto il giorno, si inventa il mondo delle idee giusto per fare lo splendido che esce dagli schemi. Il problema cioè è antico, e investe la omogeneità tra individuo filosofo e messaggio, non solo nelle intenzioni del filosofo, ma rispetto anche a come lui e le sue teorie sono percepite dal pubblico. Di fronte alla lapidarietà del cogito ergo sum cartesiano oggi sarebbe da chiedere: "E il tuo modo di apparire come deriva dal cogito e soprattutto dal sum? Coincide?". Ci sarebbe cioè un altro ergo da chiarire. Il problema è, si capisce, soprattutto dei filosofi dell'etica, che sono un gruppo sostanzioso, oggi: quanto costoro applicano su di sé che dicono? Hanno l'aspirazione a essere anche maestri di vita con l'esempio, o si limitano ad enunciare teorie piacevolmente calzanti alle inquietudini moderne e poi fanno quel che gli pare? Ah, se Boehme avesse snocciolato nomi, che goduria...

E qui il discorso scivola sul lato commerciale del fenomeno. L'anno scorso, sempre a Carpi, fummo colpiti dal vedere esposti sulle bancarelle i libri di Bauman che sembravano veramente parte di un brand: Amore liquido, Paura liquida, ecc., tutte declinazioni cioè di quel concetto di società liquida che è l'architrave del pensiero baumaniano e, appunto, lo slogan che più lo rende celebre presso il grande pubblico. Non si sfugge cioè alla sensazione che la serialità del marchio, tipica dell'economia capitalista, interessi anche le opere di chi ai meccanismi di questa stessa economia dedica pagine di critica accesa. È un gustoso paradosso che non inficia mezzo milligrammo del pensiero di Bauman, ma costringe a verificare l'assunto boehmiano: nemmeno un attento osservatore dei guasti della civiltà occidentale come Bauman può sottrarsi, se vuole che il suo messaggio arrivi a più gente posssibile, a quegli stessi meccanismi divulgativi che valgono per le altre 'merci' che circolano sulla piazza e di cui lui rileva con lepidezza i lati oscuri. Il 'sistema' capitalista permette dunque che alla sua ombra prosperi il commercio di libri che ne logorerebbero le basi 'ideologiche'. Delle due l'una: o il 'sistema' ha piena fiducia che, al di là delle vendite, queste opere incideranno poco o punto sugli orientamenti consumistici dell'ecumene (ma intanto vendono, e bene, altrimenti nessuno si scomoderebbe a pubblicarle), oppure, pur di vendere oggi, esso 'sistema' si prende il rischio di auto-sfancularsi in futuro. Che sarebbe l'apoteosi pellicanesca del liberalismo.

(L'ipotesi di un manipolo di disinteressati che non bada né a vendite odierne né a crolli futruri, ma si fa paladino del libero pensiero è pure essa affascinante, eh?, ma forse datata. Però, metti mai...)


martedì 9 settembre 2014

Festivaletteratura, l'avventura continua!

Se guardate un po' sotto nella homepage, vedrete che il mio resoconto dell'intervento di Michele Serra a Festivaletteratura ha scatenato un certo range di polemiche da parte dei giovani protagonisti del medesimo. Continuo su questo post a rispondere ai rilievi della più combattiva tra le polemiste, il cui nome non so più se deve comparire o no, comunque questo è il seguito di quello.
Carissima,
1) La risposta 'antipatica' al piastrato è a mio giudizio perfettamente in linea con il suo commento del tutto privo di dialettica, e non c'entra che abbia 15 anni: convivo da mo' con gli adolescenti e certe botte alla loro autostima devono creare ben altre reazioni che le accuse generiche e il piagnisteo.
2) Sul reclutamento degli intervenienti, prendo atto della tua precisazione, si vede che l'accenno di Taddia è stato così lampo che ai miei orecchi profani è sfuggito. Poi resto dell'idea che voi non sappiate distinguere ancora un blog da una testata giornalistica, col che non voglio dire che il blogger è libero di inventare o di omettere, ma certo può limare e giocare di chiaroscuro un po' più del giornalista, certo senza dire falsità, cosa che secondo voi ho fatto, e pazienza. La poesia è più filosofica della storia, diceva quel tale.
3) Userò i nickname Tizio e Tizia per evitare equivoci, anche se questo atteggiamento sdegnoso da divinità offese che non vogliono vedere sporcati i loro nomi dal blogger cattivo e mistificatorio (tranquilli, il dimenticatoio attende Machittevòle come voi tutti...) dimostra che voi respingete in blocco come totalmente falso il mio resoconto, altrimenti non avreste problemi a re-identificarvi, e pazienza. E' il soggetto che determina l'oggetto, diceva quel tale.
4) Duemila e più ragazzi incontrati in diciotto anni (quindi ti ricordi anche i compagni d'asilo e i neonati della nursery?) sono una discreta cifra, ma, consentimelo, non possono fare statistica definitiva, né quantitativamente né qualitativamente, da contrapporre a Serra; ti pregherei di aggiungere altri dati, per esempio: hai avuto a che fare con persone di diversa estrazione sociale, percorso di studi, livello culturale? Oppure si tratta di individui dal profilo 'esistenziale' (scusa l'orrenda parola) omogeneo? Aggiungo: hai sottomano i terribili dai sul fenomeno dei NEET italiani, quelli che non studiano e non lavorano? O le statiatiche paurose della dispersione scolastica? Io credo che lo sdraiatismo sia un fenomeno che si può apprezzare in modo trasversale, mentre se il grosso delle tue frequentazioni (E'.UNA.MIA.IPOTESI.SE.MI.SBAGLIO.MI.CORREGGERAI.) fosse, per dire, gente che frequenta il liceo classico, potrebbe anche darsi che l'incidenza numerica degli sdraiati diventi risibile. Eppure secondo me la presenza dei diretti interessati non sarebbe stata di nocumento né a loro né al dibattito che ne sarebbe scaturito: non penso che il pubblico se ne sarebbe andato via sicuro di poter pesare 'a libbre' il numero degli sdraiati e dei non sdraiati, semmai avrebbe maturato (o confermato) la problematica consapevolezza che parlare di 'giovani' oggi significa tuffare lo sguardo in un caleidoscopio a volte vertiginoso; non credo neppure che gli sdraiati si sarebbero sentiti esibire come scimmiette nel circo o vittime sacrificali, anche perché non si sarebbe trattato, penso, di un match "Serra + non sdraiati vs sdraiati", ma piuttosto un triangolo con Serra e Taddia a fare da perno tra le due visioni del fenomeno. Secondo me costoro avrebbero avuto argomenti non meno numerosi dei vostri. Ma sono solo ipotesi, purtroppo.  
5) Apodissi per apodissi, trovo avventuroso bollare uniformemente i genitori che hanno scritto a Serra per gli ormai noti motivi come 'pessimi' e 'sessantottini' senza distinzione alcuna. Ce ne sono tanti che corrispondono alla tua definizione, troppi oserei dire, e li ho visti all'opera, ma da docente che ha 'assaggiato' scuole di diverso tipo, senza contare i contatti diretti coi figli di parenti e amici, posso assicurarti che in molti casi lo sdraiatismo è un evento che conferma l'imprevedibilità dell'esistenza secondo i canoni guicciardiniani: genitori attentissimi, devoti verso la scuola, seriamente consapevoli della difficoltà del futuro che attende i figli, che non concedono alcuna facilitazione e insistono con determinati schemi valoriali si trovano ragazzi che crescono tutti all'opposto, perché l'indole individuale è spesso un cavallo imbizzarrito, oltreché mal nutrito dagli esempi di vita sregolata e cazzarona che spesso i media esaltano tramite personaggi specifici, esempi contro cui purtroppo non sempre i genitori riescono ad attuare la profilassi, pur essendo animati dalle migliori intenzioni. I vostri genitori vi hanno visto crescere bene, altri, non meno meritevoli dei vostri, non hanno avuto la stessa soddisfazione. Non penso che per costoro il libro di Serra sia una catarsi, casomai sale sulle ferite.
6) Non ho ridotto la gioventù a sdraiati e cocchi di mamma, ho registrato i due estremi che sembravano essersi delineati nel dibattito. E comunque non pensavo a voi come cocchi di mamma, ma pazienza. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
7) Resto dell'idea che Serra non abbia generalizzato (inciso: io non stravedo per Serra, mi sento di condividere il grosso delle sue idee, perlomeno di quelle discusse a Mantova) e che si sia capito che 'un altro mondo è possibile'. Su questo io e te non andremo mai d'accordo, ma è giusto così. E' verissimo, semmai, che troppo spesso i media si occupano solo di certi aspetti della vita giovanile, tacendo o sminuendone altri, come appunto il volontariato. Ciò è spia, a mio parere, di una volontà, forse nemmeno troppo latente, di esaltare un certo tipo di giovinezza, facile da sedurre e da condurre sui binari del consumismo sfrenato, relegando gli altri nella penombra della sfigaggine: vince l'egoismo, l'autoaffermazione di sé, il soddisfacimento immediato del desiderio, laddove il senso della comunità e della solidarietà pare roba da perdenti. Ne accenno nei post sulle origini del bimbominkismo, che trovi da qualche parte nel blog.
8) Mi pregio tuttavia di rispedire al mittente l'aggettivo 'calunniatorio' riferito al post. Le inesattezze (quale che sia la loro origine) e le interpretazioni soggettive sono una cosa, la volontà precisa di demolire qualcuno dicendo coscientemente il falso è un altra. E non è stato il mio caso, che tu voglia accettarlo o no. Ma anche su questo, mi pare, non andremo mai d'accordo.
9) Da ultimo, benché lieto di leggere interventi regolarmente argomentati e scritti in italiano ineccepibile come il tuo, non posso che rimarcare con disagio che lo stato d'animo che emerge dai medesimi è uno solo, ed è il terribile manicheismo tipico del dibattito politico e culturale italiano su entrambe le sponde ormai da anni, ciò per cui i buoni siamo NOI, i cattivi sono quelli che non la pensano COME NOI, qualsiasi idea diversa dalla NOSTRA non merita nemmeno l'1 per cento di ammissibilità, la ragione è TUTTA in NOSTRO possesso. Tu purtroppo me ne dai la conferma: Serra ha scritto un libro DEL TUTTO indifendibile e io un post COMPLETAMENTE falso. Guai ad ammettere che una parte di ragione stia anche altrove: tu alla fine respingi in blocco delle tesi che la realtà non smentisce. L'incidenza quantitativa del fenomeno in oggetto può essere certo materia di discussione, ma ritenere che esso non sussista o sussista pochissimo sulla base della TUA esperienza di diciottenne, ovvero esperienza pari non tanto a quasi metà della mia, ma a meno di un terzo di quella di Michele Serra, esperienze secondo voi trascurabili o addirittura liquidabilli come FALSE, mi dice che, più che il senso dell'ironia di cui vi dimostrate totalmente privi, il vostro vero compito per il futuro è lo sviluppo di due arti sottilissime, ma assolutamente necessarie, ovvero la tolleranza e l'umiltà. Tu ti scagli contro il relativismo etico dei genitori degli sdraiati, ma rischi a mio giudizio di cadere nell'errore opposto, ovvero la convinzione di possedere le uniche idee giuste e di difenderle contro ogni evidenza empirica, che è poi il punto d'inizio di tutti i percorsi che sfociano nel fanatismo e nell'integralismo. L'età e l'esperienza, ne sono certo, vi aiuteranno a smussare queste asprezze: allo stato attuale, la convinzione aprioristica di poter dividere senza errore veruno il mondo in buoni e cattivi ci può stare, ma non può essere coltivata ad libitum. E comunque, una volta cancellati i vostri augusti nomi ed eliminati gli equivoci, il valore del post non avrà detrimento alcuno, poiché, al di là delle coloriture, dei condimenti, delle ombreggiature che il blogger vi ha operato, le cose-in-sé che sono state dette sono quelle lì. Io non ho sovrapposto la mia idea alla realtà, ho spremuto al contrario le idee da quel che ho visto e sentito.  
10) Attendo il tuo articolo quanto prima. Mi dirai tu il titolo e le firme da mettere in chiaro.
Saluti

lunedì 8 settembre 2014

Machittevòle@Festivaletteratura: Anna Marchesini, un'Attrice, una Donna.,

Dovremmo partire con lodi e stralodi del percorso artistico di Anna Marchesini, la cui eccellenza scenica, la fantasia, l'estro e la versatilità ci hanno regalato, assieme agli altrettanto eccellenti compagni Lopez e Solenghi, momenti tra i più belli della storia dello spettacolo italiano. Le loro gag sono tra le poche che, ancora dopo più di vent'anni, riescono a far ridere senza sembrare datate. L'ironia, la satira puntuale ma mai volgare degli sketch e dei personaggi, parodiati o inventati, che i tre hanno portato sulla scena restano scolpiti a fotogrammi di bronzo nelle nostre memorie.
Poi c'è la Marchesini solista post-trio, attrice di monologhi, personaggista televisiva spesso alla corte di Fazio, intelligente e acuta osservatrice della realtà italica piccola e grande.
Poi la seconda vita di Anna, la malattia che negli anni l'ha visibilmente consumata nel corpo, ma che, possiamo assicurarlo dopo la performance di ieri, non ha intaccato UN MILLIGRAMMO dell'intelligenza e della vivacità della donna. Raramente penso si possa vedere gente colpita da disturbi tremendi come l'artrite reumatoide deformante, che fa spavento solo a pronunciarla, affrontare con un vigore emotivo e razionale insieme la sfida della vita quotidiana, sapendo che il Tristo mietitore è sempre nei paraggi di casa, un po' più vicino che non ad altre persone.
Quest'ammirazione del carattere di Anna non deve però far intendere che ieri la platea avesse riempito il cortile di S. Sebastiano (500 e passa posti a sedere, un paio di centinaia, Spocchia inclusa, in piedi) mossa a compassione, o peggio per venire a vedere dal vivo gli effetti somatici dell'artrite sull'attrice, quasi fosse un fenomeno da baraccone. Non si creano due code di spettatori lunghe complessivamente qualche centinaio di metri per questo. La calamita che ha agglutinato non meno di 700 persone, ieri, è stato il carisma di Anna, giacché di una persona così forte e ironica non è possibile avere compassione, sarebbe un'offesa, un riconoscere implicitamente che ormai la sua vita è segnata e poveretta lei. Niente di tutto ciò: quei tipi di compassione si riservano a quelli che si sono completamente lasciati andare al dolore della malattia, sia che potessero comunque opporvisi sia che ne siano stati irrevocabilmente e incolpevolmente travolti. Anna no: il suo dolore è l'abito leggerissimo di un'anima che da più di 50 anni succhia la vita dall'aria stessa e la trasforma in arte.
Ecco le prove a sostegno della tesi ("a 'mbecille!!!")
A parte i continui scambi ironici tra Anna e il suo intervistatore, che volentieri si è calato nel ruolo di ripetente birichino di fronte a cotanto genio, non può tacersi la doppia standing ovation riservata alla donna al suo ingresso e alla fine della chiacchierata. E lei, dimagrita ma energica come ai bei tempi, sale sul palco, si sistema e poi saluta a tutto braccio, togliendosi gli occhiali scuri e regalandoci un sorriso luminoso e riconoscente: sono tutti lì per ascoltare e applaudire la persone e l'artista, non certo a simulare un coro di prefiche ante eventum.
L'intervista verte sui romanzi scritti da Anna, ma di fatto si spazia sull'arte in genere, e lei dimostra di saperene assai, di essere cioè donna di cultura al di là del suo ruolo artistico, cosa che non può dirsi di tutti i suoi colleghi, specie i più giovani, che spesso danno l'impressione di non aver nulla di cui discutere al di là del loro ruolo e dei loro personaggi. C'è insomma tutta una filosofia di vita sottesa all'azione estetica di Anna che in altri non troveremmo così ben marcata e scolpita.
E che dice Anna? Che i suoi autori preferiti sono Proust, Woolf, Pirandello (goduria 1), che lei preferisce i classici ai moderni, nel senso che dopo aver letto un contemporaneo prova un desiderio irresistibile di tornare al classico (goduria 2), che letteratura e teatro non devono essere obbligate a usare linguaggi 'da pizzeria' per descrivere il reale, l'arte deve adottare un linguaggio non convenzionale anche se racconta cose di tutti i giorni (goduria 3), che l'arte ha la potenza di rendere 'bello' anche ciò che fa soffrire, raccontando il dolore con rispetto e sollecitando la solidarietà, dimostrando che in fondo ad ogni abisso c'è la luce (goduria 4), noi siamo di fatto matrioske, perché dentro di noi convivono le tracce del passato di tutta l'umanità, dalle persone eccezionali a quelle banali (goduria 5). Ora prima, che qualcuno porti la seguente contestazione: "Certo, se queste cose le dice la Marchesini sono lampi di Assoluto, se le dice Fabio Volo sono pensierini da bacio Perugina", rispondiamo che Fabio Volo (senza scordare i ciancisti affini, Jovanotti, per dire) a queste altezze non ci arriva, o se ci arriva ci arriva per vita riflessa, non per vita vissuta. Qui a S. Sebastiano abbiamo 'cultura' nel senso di pensiero continuativamente e profondamente 'coltivato' nelle carni stesse della realtà fisica e psichica di sé e degli altri, non certo lo sloganino ad effetto ottenuto frullando letture sparse e ovvietà volanti raccolte per strada o il grande pensiero new age "che siamo tutti una grande anima", roba buona per il libbricino di aforismi da supermercato o per intrattenere la gente tra una canzone e l'altra. E chiudo.
E torno ad Anna: l'educazione dei giovincelli deve avvenire prima per ascolto che per immagine; oggi l'immagine domina, ma spesso rende sordi a tutto il resto. C'è il rischio che l'immagine prevalga sul pensiero, con ciò mandando in grave crisi lo sviluppo dello spirito critico. Altro è poi il problema dell'arte cinetelevisiva, azzoppata dal fatto che una volta in tv e a teatro ci andavano i professionisti, oggi ci vanno gli spettatori stessi, quelli reclutati (Anna non lo dice, ma è chiaro) via talent show. Ed ecco che la qualità dell'offerta artistica scade. Per Anna ci si dovrebbe ispirare alla lontana al circo, dove non metti a svolazzare sul trapezio il primo che passa, ma ti affidi a gente che ha sviluppato le doti tramite fatica ed esercizio. Per noi, quotidianamente impegnati a tappare le falle del bimbominkismo, queste parole sono ovviamente oro. Potrebbe dirle gente che è arrivata al successo senza alcun vero talento, né recitativo né scrittorio? Dubito... Anche perché non è a gente simile che si possono chiedere crociate contro il bullismo linguistico e la sciatteria espressiva, che capiamo preoccupare assai Anna. In effetti le sparse letture di pezzi dei suoi romanzi che vengono fatte durante l'intervista mostrano un dominio sicuro della parola e della sintassi, piegate all'indagine divertita ma compartecipe di tutte le pieghe dell'umano, nei suoi piccoli drammi che uniscono senza soluzione di continuità il comico, il tragico e il farsesco. D'altronde Anna l'ha detto, le parole per lei sono dotate di sostanza fisica, di odore, di sapore, scrocchiano, si rompono, si rimontano, sono autentici oggetti della creatività che passa attraverso la vita. E non c'è bisogno di indulgere al parlato di tutti i giorni o al volgare o al banale: l'arte non fotografa la realtà, sennò non sarebbe arte (ciao, Emile, ciao Giovanni....): le cose sono sempre più complesse di quanto appaia in superficie e la letteratura rappresenta questa complessità che si colloca sulle soglie dello spirito (qui c'è stato un godimento spocchiometrico mai più provato dai tempi della scoperta delle connessioni tra tragedia senecana e scuola pneumatica)
E sin qui la Marchesini artista. Poi, la donna plurale, come dice lei, colei che, come tutti noi, vede abitare in sé le sfumature di tutto l'essere.  
Il dolore: esso la attrae, è una sfida, lei lo vuole esplorare per vedere fin dove è il limite della tenuta e della possibilità di descriverlo. Avere un dolore non è lo stesso che guardarlo da fuori. Il dolore attiva un senso del tempi diverso da chi non soffre. Chi soffre un dolore non è necessariamente infelice, si trova in una compagnia diversa, scomoda, ma è pur sempre compagnia. Il dolore accorcia i progetti alla prospettiva quotidiana, è una paura che impone di richiamare il coraggio dal profondo di sé. Il dolore non è mancanza di vita: è quella vita lì, ma è vita.
La felicità: è una cosa che arriva, che passa, è fragile, è soprattutto una scelta che potrebbe anche non venir fatta, nel senso che uno potrebbe non ritenere la felicità più interessante dell'infelicità: anche la sconfitta è una dimensione che va conosciuta.
L'estasi : è il prodotto dell'arte.

Quanti sarebbero riusciti a dire cose così? Quanti sarebbero riusciti ad evitare il narcisistico avvitamento su di sé, quello che dopo 5 minuti fa solo dire: "Io, io, io, io, io....!!"? Quanti sarebbero riusciti, al contrario, a universalizzare una singola personale esperienza di vita, inserendola nel più ampio contesto dell'umano destino e facendosi testimoni (non vittime) di un messaggio che può valere per tutti, sofferenti e non? C'è una donna e c'è la sua vita, compresa la svolta, del tutto inattesa e certo non desiderata, di un male terribile. Ma la vita è ancora lì, e Anna lo dimostra: passavano i fans a farsi firmare le copie del libro e lei aveva un sorriso solare per tutti, niente che la consunzione del volto o la deformazione delle mani potessero rovinare: quei particolari sembravano semmai un sottilissimo abito di scena, come un trucco posticcio e non permanente, un mascheramento sotto il quale c'è sempre lei, bravissima. E se preferiamo assai le sue dichiarazioni a quelle dei predetti ciarlatori non è perché ci vuole l'artrite reumatoide per giungere a cotanta saggezza, né ovviamente l'auguriamo ai predetti perché diventino saggi. A noi Anna piace perché, a differenza dei predetti, in lei scorre il fluido dell'humanitas, che è cosa ben diversa dalla chiacchiera.
C'è da stupirsi che tutti quelli che le passavano davanti l'abbiano ringraziata?
Chapeau.


sabato 6 settembre 2014

Machittevòle@Festivaletteratura: chi fuffa e chi no...

[premessa] È chiaro che lo spocchioso classicista ama chi ama i classici. Non disdegna però i moderni, anzi, li ritiene continuatori di quelle intuizioni basiche sull'umanità tutta che hanno avuto gli antichi.
Non posso però esimermi dal notare come, nonostante spesso i modernisti accusino gli antichisti di essere dei generatori automatici di fuffa (ovvero dei fuff-o-matic), non sia meno svilente accorgersi che anche  il caso contrario non è infrequente a verificarsi.
[/premessa]
[Focalizzazione]
Mantova mi ha offerto, in due sere consecutive, l'esempio preclaro di gente che crede di essere venuta a dire chissaché, e alla fine ha detto pochino, e gente che poteva liberare torrenti di sapienza e di superiorità nei confronti del misero uditorio, e invece ha tirato fuori una lectio magistralis di incantevole chiarezza.
Per dire: ammetto, nella mia ignoranza sesquipedale, di non aver mai udito il nome di Robert McFarlane, scozzese viaggiante che ha scritto tanti libri sul viaggio che è bello viaggiar, intervistato da tal Peter Florence con ottima traduttrice italiana a latere. Certo, il titolo dell'intervento è "Scrittori in cammino", e probabilmente i due sono arrivati in cammino da dov'erano, visto che arrivano a Santa Barbara con 15 minuti di ritardo. E vabbe'. [/focalizzazione]
[eccoci nel vivo] Florence schiaccia subito l'uditorio all'angolo affermando che  abbiamo qui 'un maestro straordinario', la cui fama splende nel firmamento della letteratura contemporanea da 15 anni. Sì. Io chiamo 'maestro' qualcuno che di anni di fama ne ha almeno il doppio, ma sono fissazioni mie. Comunque il clima da epifania messianica del Verbo letterario è già pronto. Del resto l'ottimo McFarlane ha scritto libri che esplorano l'umanità e le nostre relazioni col territorio, uno che si è tuffato nell'indoeuropeo per scoprire che il verbo inglese 'to learn' deriva da una isoglossa legata all'atto del camminare lungo un sentiero, quindi imparare vuol dire calcare i sentieri della conoscenza.
Ottimo. Secondo me la conferenza poteva finire qui, perché questo sì che era interessante. Il resto, mi permetto in piena responsabilitudine, è stato un deliquio autoreferenziale di riflessioni assolutamente ovvie sul valore del viaggio, nulla, duole dirlo in piena responsabilitudine, che mi abbia spinto a pensare: "Ecco, questo aspetto non l'avevo mai considerato". Veniamo invece a sapere che Mac ama camminare da solo, ma che in questa sua solitudine egli conversa mentalmente con altri grandi autori di storie di viaggio, di quelle conversazioni ideali di cui erano maestri, modestamente parlando, Wordsworth e Coleridge. Bene, quindi Mac ha percorso le hollow ways, sentieri talmente antichi e battuti fin dal neolitico, che sono progressivamente sprofondati sotto il livello del terreno, e cammina cammina ha dialogato con le memorie di Edward Thomas, deceduto nell prima guerra mondiale.
Bene. E Thomas era un signor viaggiatore, eh, un occhio di lince che non perdeva un dettaglio di quello che vedeva, un po' come Bruce Chatwin, tutta gente di cui Mac si fregia di essere l'epigono.
Poi ci sarebbe un altro tipo di sentiero, anche questo antichissimo, anche questo in Inglesia fuori da Cambridge, che a lui sembra conduca verso altre reti di sentieri più grandi e più antichi che portano da tutte le parti del mondo e mettono in relazione persone e luoghi. Meglio di Avatar. Del resto ci sono giornate, ovviamente sempre a Cambridge, in cui sembra che la luce non finisca mai e che tu possa camminare finché vuoi, lui, per dire, ha dormito dentro una canale vecchio di 7000 anni e in cima ad una collina che serviva ai neolitici come cimitero. Peccato che gli uccelli cantino ininterrottamente dalle 4 del mattino alla mezzanotte successiva, una cascata di suoni bella, ma anti-sonno.
[A sentire lui, qui, fuori da Cambridge il mondo non esiste...]
Ok, abbiamo capito che Mac cammina e si interfaccia con l'universo. Del resto, abitando lui in un appartamento in pianura, suppongo a Cambridge, quando si cammina per 20 miglia e più, i pensieri si sublimano e d'un colpo tutte le parole della geologia, della botanica e dell'ornitologia vengono in aiuto per esprimere il tesoro di bellezza che si scopre tutte le volte. Ah, però, Giovanni Pascoli rulez.... Mac poi, a costo di coprirsi di vesciche, cammina spesso a piedi nudi per entrare in diretto contatto con la terra, quasi per parlarle. I piedi si prestano anche molto bene alla trascendenza. Ah, però.
[New Age, New Age][jump to: in himalayano - o himalayese? - c'è la parola di origine sanscrita dashan che indica il contatto con ciò che ti stupisce e che ti fa dire: "Wow!"]
Poi l'unica altra cosa interessante: la differenza ('meravigliosa', sottolinea Florence) tra l'atteggiamento di noi occidentali e dei buddisti nel concetto di scalata: noi occidentali vogliamo arrivare in cima, per loro è più importante girare attorno alla cima, è la metafora del processo della conoscenza che  non si arresta mai.
Poi altra new age: in Inghilterra, ma stavolta a sud-est, ci sono coste un po' sabbiose e un po' paludose, la cui estensione dipende dalla marea, che in momenti da bassa marea liberano lingue di terra scintillanti che nei giorni di nebbia danno l'idea di camminare lungo specchi d'argento, terre di confine con un altro mondo, per tacere di tutta la terra calcarea che ti ricopre e ti inargenta. [/eccoci nel vivo]
[e quindi?] Poi il nonno, poi le camminate in Palestina, ma alla fine una domanda sorge nell'animo: "Era necessario organizzare un evento mantovano per sentire tutto ciò?". Dice: "E tu che ci hai atturrato i cabbasisi coi tuoi diari di viaggio?". Rispondo: "Sì, ma io non vado a Mantova a leggerli o a parlarne, invado facebook e stop". Ho notato cioè nel MacFarlane la tendenza di certi scrittori a gonfiare le loro esperienze per far passare come assolutamente eccezionale ciò che non lo è, proponendosi all'uditorio come scopritori dell'ovvio, ma credendo di aver propalato chissà quale novità. Se la tirano, insomma. Che è diverso dalla Spocchia per l'assenza dell'unico grande elemento che salverà il mondo dalla quarta guerra mondiale, ovvero l'ironia. Nel dialogo tra i due Angli c'era quel fastidioso senso di Esperienza Assoluta E Sovrumana in riferimento ad avventure che potrebbero al massimo classificarsi come trekking fighetto ma per nulla straordinario. Voglio dire: se fuori da Cambridge il buon Mac dice di aver trovato tutto quel ben di Dio, cosa dovremmo dire noi in Italia? Io spero che tra il pubblico qualcuno abbia pudicamente sorriso di compassione a sentir magnificare luoghi britannici come The Best Luoghi in the World, quando noi, qui nello Stivale, camminiamo su millenni di ben più corposa cultura e abbiamo ben più affascinanti paesaggi. Ma è il solito problema: in Italia, a Borgo S. Sepolcro, la casa natale di Piero della Francesca non è visitabile, lassù in Scozzesia creano turismo col mostro di Loch Ness. Sono più bravi a gonfiare il poco che hanno. E noi ad ascoltarli. [/e quindi?]
[verità  e bellezza....] Vuoi mettere l'intervento di Luciano Canfora, storico sommo, che mette da parte la penna rossa e riflette amabilmente sul linguaggio della politica? Allora, si dirà che per lui lezioni di questo tipo sono accademia, che non ci ha regalato chissà quali verità, ma almeno si viene via avendo messo a punto una serie di coordinate storiche e culturali di un certo rilievo, sicuramente più in rilievo delle hollow ways.
Certo, lui parte da Platone e dalla celeberrima lettera settima, quella in cui il filosofo parla del suo rapporto con la politica, delle delusioni e di progetti che lo hanno mosso a fare certe esperienze e a tentare, per dire, di educare al governo filosofico il tiranno di Siracusa. E da lì la riflessione spazia, a colpi di Erodoto e non solo, nella presa d'atto che la discussione sulla migliore forma di governo interessava non solo i greci, ma anche i persiani, nella conclusione che essi concludevano che non c'è la forma di governo perfetta, monarchia, oligarchia e governo del popolo hanno pregi e difetti che si annullano a vicenda. Riflessioni di tutti i tempi, roba su cui si è già scritto tutto, è vero, ma sentirsi sintetizzato il tutto in poco meno di un'ora, a parer nostro, è oro colato. Atene ha elaborato tutte le forme di governo, arrivando al picco della democrazia elettiva. Certo però, osserva il Canfora, che parliamo di una relativamente piccola élite di cittadini pleno iure che governavano su una platea ben maggiore di meteci e schiavi. Per dire cioè che la democrazia ateniese è alta nella sua elaborazione treorica, ma ancora troppo quantitativamente ristretta nell'attuazione pratica.
Roma pure, sì, certo, la res publica, ma poi tutto si è coagulato attorno alla fiugura del princeps e sappiamo come andò.
Insomma, dobbiamo pazientare fino alla Rivoluzione francese per vedere i principi democratici trasformati in oggetto di riflessione su scala massificata, quando cioè uguaglianza e libertà vanno ad interessare TUTTI i cittadini, senza distinzione. E però proprio da lì avviene una cosa curiosa, perché il linguaggio della politica pare spesso contraddire le azioni e lo stato del reale.
Dice: Napoleone ha esportato l'illuminismo a colpi di guerre e fondando un impero. Le altre nazioni europee, che pure avevano imparato qualcosina di illuminismo dalla Francia, si coalizzano contro la Francia, e pure la coalizione vede l'Inghilterra  liberale e la Russia zarista dalla stessa parte. Gulp, com'è contraddittoria la storia umana.
Non è terreno facile, la politica, gronda di contraddizione: si era capito già da tempi di Machiavelli, col terribile capitolo 18 del Principe, là dove si dice che il sovrano potrebbe anche, al bisogno, NON mantenere la parola data, se questo servisse alla salvaguardia dello Stato. Verità scomode, che certo Niccolò enunciava non senza dispiacimento, ma la realtà effettuale quella è: il linguaggio politico campa anche di ambiguità e rimescolamenti dettati dalle contingenze. Ma sai, Augusto fece leggere post mortem in Senato le proprie Res Gestae all'erede Tiberio, sì che i senatori dovettero sentirsi dire dal defunto tramite la voce del vivo che lui, Augusto, aveva restaurato gli antichi fasti della repubblica, ritenendo inezie strutturali la tribunicia potestas e il consolato perpetui e il possesso delle province imperiali, uniche in cui c'erano le legioni schierate. Un gran democratico, insomma.
E oggi? Oggi, osserva Canfora, il vero problema è la propaganda mediatica della politica, il fatto che il linguaggio, ma soprattutto il messaggio è tanto più forte quanto più efficace è la capacità di diffonderlo capillarmente. Tanto che, aggiunge, quando vent'anni fa in Italia il centrodestra arrivò al potere (Berlusconi non è mai nominato), la sinistra lamentò la dittatura mediatica del suo capo, ora che al potere c'è il partito democratico (Renzi non è mai nominato), quello stesso capo del centrodestra dice che non si può fare opposizione se tutti i media parlano solo dell'attuale premier.
La democrazia, insomma, si gioca anche sugli spazi di parola, purché siano equi e la parola incida sulla vita. Sennò si finisce, altro flashback, alle proposte di Messalla Corvino per i funerali di Augusto che furono liquidate da Tiberio come sciocchezze. Ma Messalla affermò che gli bastava avere avuto la libertà di enunciarle. Libertà della servitù, osserva Canfora. Applausi.[/verità & bellezza]
[corollario autoriale] E poi sai, nel 14 muore Augusto, nel 1814 comincia il congresso di Vienna, altra fiera delle chiacchiere restauratorie, nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale, e lì alle parole subentrarono le armi. Se pensiamo a oggi poi... Aggiungo io: speriamo almeno che la parola politica riscopra la dimensione del dialogo. Sennò ci toccherà affittare un bunker antiatomico. [/corollario autoriale]
[finalino] Ribadiamo: non si tratta di aver spalancato chissà quali orizzonti ermeneutici, tuttavia dalla serata Canfora siamo tornati con qualcosa (più di qualcosa) che rimane. Di là, il viaggio nella chiacchiera. [/finalino]

giovedì 4 settembre 2014

Machittevòle@Festivaletteratura. Michele Serra vs Resto Del Mondo


[Avviso ai cortesi lettori: i giovinotti intervenuti con Serra, visto che noi li abbiamo ironicamente cazziati, hanno chiesto di veder cancellati i nomi dal presente post. La democrazia imporrebbe che, se uno ci mette la faccia, deve pure accettare di finir citato in resoconti a lui ostili. Costoro invece declinano le loro generalità solo a chi li loda. Li abbiamo accontentati per non dover liberare l'Italia centro-settentrionale dall'alluvione dello loro lacrime].


Il bello di Mantova durante il festival è che respiri cultura anche solo contemplando nobili facciate ducali che...
[segue spiegone su quant'è bello il festival]
Ma alle 18.30 ora di Mantova siamo tutti a Piazza Castello, dopo aver udito la nobile conferenza di uno psichiatra 91enne che ci ha detto della follia di Virginia Woolf. Fila interminabile, ma entriamo. Ospite dell'evento, l'alter ego grasso di Fabio Fazio, ovvero Michele Serra, che sceglie il basso profilo (pulloverino, sorrisetto, barbetta, poca tristezza negi occhi) per sottoporsi al fuoco di fila di domande di un gruppo di giovincelli che hanno letto, riletto e meditato il suo ultimo successo editoriale, "Gli sdraiati", storia di un padre che vede il figlio in età bimbominkia e teme per lui un futuro passivo (tipo laudabor), statico (tipo moriar), di perenne attesa del comabimento che non arriva, appunto sdraiato e inerte.
Il buon Michele esordisce come esordiscono tutti quelli che vogliono dare una frustata di understatement ai simposi, ovvero dicendo che lui non è antropologo, non è pedagogista, non è sociologo, non è niente, è solo uno scrittore che ha osservato il figlio con lo sguardo dell'etologo.
Ma è Michele Serra.
E ne sa.
E non sopporta chi non sa, ma crede di sapere.
Ma finge di sopportare, ed è un gran merito.
Dico ciò perché, tra moderatore e intervenienti al dibattito, gravita attorno al Serra una serra di individui perlomeno curiosi: il moderatore, tal Federico Taddia, ha imparato tutte le regole della moderazione 2.0, ovvero parlare addosso all'ospite e interromperlo a metà discorso. D'altronde il suo esordio è stato chiaro: questo dibattito, dice, sarà un'ottima occasione per non capirsi e per scoprire come una generazione di quarantenni ha trovato la sua catarsi nella storia narrata da Serra. Appetitoso, no?
Gli altri intervenienti sono ragazzi che hanno accolto l'appello lanciato su Facebook dal predetto Taddia a tutti quelli che hanno letto il libro di Serra: volete venire al Festivaletteratura a parlare con l'autore? Sì? Cliccate 'mi piace'!
E per esserci, ci sono.
I giovincelli, tuttavia, si esibiranno in  un pezzo d'ensemble a senso unico, ovvero: "Caro Serra, non è vero che siamo tutti sdraiati", cui il Serra risponderà con un contrappunto in tie' maggiore intitolato: "Lo so anch'io, io ho descritto uno stato di cose, non una legge universale".
Vediamo un piccolo assaggio degli interventi e poi ne discutiamo, eh?
Tizio : Caro Serra, ho letto il libro per curiosità personale [che eroe... NdSpocchia], voi adulti guardate molto male noi giovani, dite che siamo fannulloni, facciamo tante cose insieme, ma alla fine restiamo statici. Ma siamo davvero tutti sdraiati? Non hai magari un po' generalizzato?
Risponde Serra: io non generalizzo, ho scritto una singola storia. Da padre, ho dato uno sguardo ansioso, perché gli adulti si rendono conto che i 20 anni di oggi sono assai complessi, ci sono molte meno occasioni di andarsene per la propria strada e dire ciao alla famiglia. Il padre del mio libro personifica il genitore confuso. Non dobbiamo presumere che i figli crescano uguali a noi, queste erano cose di una generazione fa. Che effetto fa oggi ai ragazzi avere padri poco autoritari, senza dogmi da trasmettere? Il padre del mio libro è il dopopadre di una dopoepoca. È impossibile definire il figlio, costui vive nel suo mondo e il padre si sente confuso, ma si assolve, perché pensa che la sua confusione sia sincera, mentre il comportamento autoritario lo avrebbe reso insincero. Noi abbiamo molte colpe se oggi voi ascoltate Guccini, io a 20 anni mica ascoltavo Natalino Otto. Ho pensato al titolo del libro 20 anni fa, lo scrivo da 7, è venuto fuori un romanzo in cocci perché racconta un padre a pezzi.
Ineccepibile, no? Qualsiasi uditore con un certo tappeto sinaptico attivo concluderebbe che Serra ha fotografato una situazione diffusa, che non cerca scuse né per sé né per gli altri genitori. Diciamo che la generazione odierna presenta una forte incidenza di fenomeni di sdraiatismo, a loro volta legati a precise mancanze della generazione paterna. Stop.
Interviene una Tizia che non viene identificata, ma è lì sul palco con gli altri, quindi ha la massima parrhesia. E soprattutto, dimostra di aver capito assai del discorso serresco.
Tizia: Caro Serra, Il padre del tuo libro è una figura evidentemente autobiografica, ed è dichiaratamente di sinistra. Ora, è noto che glil uomini di sinistra odiano le generalizzazioni, tipo che se tu leggi sul giornale: "Extracomunitari compiono una rapina" ti scandalizzi, perché il titolo dell'articolo mira a comunicare al lettore che tutti gli extracomunitari rubano [???????????????????????????????????????????????????????][ammetto che qui la Spoccchia ha avuto un mancamento] . Però se intitoli un libro: "Gli sdaraiati", anche tu stai generalizzando, perché è implicito che per te tutti i giovani sono sdraiati [????????????????????????????????????????][poi, forse accortasi della boiata iperspaziale che ha appena detto, abbozza dicendo che "sono molto in imbarazzo a parlare sul palco a Michele Serra][e chi ti aspettavi, Cristina D'Avena?].
Ci fosse stato Vittorio Sgarbi, sarebbe partita una serie transgenica di insulti e bestemmie all'indirizzio della Tizia, ma Serra, paterno fino al midollo, la ringrazia per la domanda e ribadisce il diritto all'arbitrarietà dell'opera letteraria, che non ha alcuna pretesa scientifica, ma si limita a descrivere un certo stato di cose. Comunque, prosegue Serra, io a 16 anni non stavo sdraiato, c'era irrequietezza, fretta e prematura di crescere e spiegare il mondo agli altri. La pigrizia è rilevante, nei giovani d'oggi. Quanto di questa abulia dipende dal contesto sociale? Forse anch'io sarei spaesato se avessi 16 oggi. Dare degli sdraiati non è un giudizio moralistico: ho visto tante volte i miei figli sdraiati, forse stanno elaborando qualcosa di grandioso per il futuro, ma ora come ora stanno lì. Infatti facciamo molta fatica a tradurre il titolo in altre lingue, perché il senso profondo non si coglie più (del tipo che in catalano il titolo sarebbe: 'Descarciofados', modo gergale per dire fannulloni o qualcosa di simile). Metto la testa in camera di mio figlio e lo vedo sdraiato sul letto,  con computer sulla pancia, cuffie, smartphone, tv a mille, libro di chimica in una mano, e lui vede che lo vedo e mi dice che è l'evoluzione della specie. Sì, forse è vero, i ragazzi di oggi sono mutanti, cambia la relazione con gli altri, cambia il modo di apprendere, un tempo eri bravo se approfondivi, oggi è tutto orizzontale, l'apprendimento cerca latitudini vaste, ma è frammentario, non dico che verranno fuori dei deficienti, ma nemmeno dei geni, salterà fuori una psicologia molto differente e la cosa mi mette un filino in ansia. E comunque [e qui, se io fossi stato Tizia, mi sarei sotterrato, NdEDM], ricevo giornalmente moltissime lettere ed email di genitori che addirittura mi chiedono se ho spiato di nascosto i loro figli per aver scritto un libro simile, perché si riconoscono perfettamente nelle situazioni descritte. Insomma nessuna pretesa di verità universale, ma il fenomeno c'è ed è lì da vedere.
Voi vi sareste arresi, a questo punto?
Costoro NO: Tizia  legge da pag. 60 del romanzo e osserva: Caro Serra, tu sostieni di non avere alcuna pretesa apodittica nelle tue argomentazioni, ma a pag. 60 esordisci dicendo: "E' un fatto che...", come a voler enunciare una verità assoluta e descrivi torme di ragazzi e genitori che fanno la fila al negozio che venda la felpa all'ultima moda. Ebbene, ti posso assicurare che nella mia classe quasi nessuno veste Abercrombie o si dimentica di tirare lo sciacquone del wc. Insomma, secondo me tu generalizzi [obiezione ORIGINALISSIMA] 
Se ci fosse stato Vittorio Sgarbi, ecc. ecc., ma Serra, più paziente di Giobbe al millemillesimo attacco di scabbia, replica: prendo atto del tuo punto di vista [modo cortesissimo per mandarla a quel paese], tuttavia ti posso assicurare che ai miei tempi avevo una varietà antropologica molto più marcata nella mia classe di  Liceo [Serra è del '54, quindi parliamo dei primi anni '70, quando Peppino di Capri vinceva a Sanremo, per intenderci, NdSpocchia], anche con forti contrasti di atteggiamenti, oggi è tutto più uniforme, dall'abbigliamento in su.
Voi vi sareste arresi? Forse. Ma adesso, a metà abbondante dell'evento, comincio a capire chi c'è sul palco: Taddia, più o meno inconsapevolmente, ha reclutato un gruppetto di primi della classe arrogantelli e indiavolati per il fatto di essere stati classificati come sdraiati, nel senso che nessuno della loro generazione si salva dalla definizione serresca. Posso assicurare che Serra non ha MAI detto che TUTTI sono sdraiati, si è limitato a registrare l'invasività del fenomeno nella gioventù d'oggi. Spiace che gente che, come vedremo, vanta titoli scolastici da Ecole superieure des hautes etudes de stacepp mostri di non capire neanche le repliche dell'interlocutore, o all'inverso di avere un solo argomento da portare avanti e quindi di non poter ribattere che su quello.
La prova della sindrome da primini della classe offesi è subito servita: Tizia butta il carico da 11: Caro Serra, forse il problema è più vecchio di te, me e tutto il
pubblico messo insieme. Mi viene in mente il frammento 98 di Saffo [massì, retrocediamo alla ricerca di pezze d'appoggio, NdSpocchia], in cui la poetessa parla alla figlia Cleide, la quale sta scassando abbondantemente i cabbasisi alla madre perché vuole una mitra [e qui Tizia si pregia di precisare che non è l'arma, ma un corpicapo a listelli molto figo], in ispecie una mitra di quelle che vengono dalla Lidia, che fanno tanto fashion. Peccato che Pittaco, tiranno di Mitilene, capitale di Lesbo, isola di Saffo, da cui il nickname Lesbia per Clodia, quella di Catullo, insomma, Pittaco giusto in quelle settimane aveva chiuso le frontiere al commercio con la Lidia, così, per mostrare i muscoli. E cosa risponde quindi alla figlia capricciosa la nostra Saffo? Cara mia, ai miei tempi non eravamo abituate ad ornamenti così pesanti e costosi, quindi ti adegui anche tu...
Paragone ficcante. Che in realtà va più a tirar l'acqua al mulino di Serra. Ma Tizia non se ne accorge. E Serra, giusto per non infierire, liquida la dotta citazione così: hai proprio ragione, Tizia Rimini, i genitori rompono i coglioni da tremila anni.
Ok, chiudiamo col file 'generalizzazione' e passiamo a litigare su uno dei grandi miti dei nativi digitali: l'assolutizzazione dell'adolescenza come età di bambinaggine infinita tutta da godersi.
Tizio: Caro Serra, perché dici che non vorresti tornare adolescente?
Serra: ho molto sofferto, non è l'età più felice della vita, si è molto vulnerabili.
Tuoni e fulmini, mi dai addosso così alla aetas aurea bimbominkica par excellence? Sì, Serra fa. Non rimane a questo punto che fare la gara a chi trova per primo la contraddizione nelle tesi dell'avversario.
Comincia il moderatore: Caro Serra, secondo me tu invidi lo sdraiato.
Serra: che il vecchio invidi il giovane è scontato. Vorrei che l'avvicendamento tra generazioni non mi facesse sentire del tutto escluso da ciò che accade. Non è invidia. Terrore dell'esclusione sì. Non mi sentirei umiliato, mi spiacerebbe non sapere come va a finire.
Tizia: Caro Serra, eri vulnerabile, ma allora perché scrivi un libro per denigrare gli adolescenti?
Serra: no, il vero denigrato è il padre, il vero eroe comico del libro è il padre.
Tizia: e il figlio è grottesco?
Serra: no, è dannoso, distrugge la casa. Il padre mette in atto pietose strategie per convincere il figlio a fare una passeggiata con lui e tutto si risolverebbe.
Tizia: da questi passi si vede che il padre tenta il dialogo, ma per il resto del libro no. Il padre classifica, distingue, ma non interagisce, a parte voler portare il figlio sul colle della Nasca. Il figlio è un muro, ma il padre non fa un granché.
Serra: si, è vero, il padre è assillante e non lascia maturare le cose. Bisognerebbe capire perché il figlio è così muto col padre.
[seguono battute finto-spiritose da parte dei giovincelli, del tipo : "Mi hai pagato per fare queste domande" e simili, a cui ovviamente non ride nessuno]
Vista l'impossibilità di abbattere il fortino Serra si tenta di tacciare di viltà i genitori che si sono congratulati con lui per i predetti motivi.
Moderatore: mio figlio di 18 anni ha letto il libro e ha detto: "Questo è un problema vostro, non nostro".  Il tuo libro ha la colpa di essere un alibi per i genitori, che lo leggono come un saggio [Serra, per la prima volta in tutto il dibattito, dissente spazientito - e vorrei vedere! NdSpocchia], così si nascondono dietro il libro come dire che è colpa dei figli perché non comunicano.
Serra [coll'evidente intento di incenerire dialetticamente il Taddia, che stavolta ha completamente rovesciato il senso del libro e le idee di chi lo legge]: no, le lettere che ricevo non dicono questo, semmai sono sollevati nel riconoscersi nella confusione del padre, né autoritario né autorevole, mal comune mezzo gaudio. Viene oggettivato il problema del'incapacità di essere rispettati. Anche perché spesso non essere autoritari è più comodo. Non è un alibi, è la presa d'atto di un problema diffuso.
Tizio: Caro Serra, a pag. 21  si dice che i genitori oggi invadono tropo la vita dei figli, una volta no.
Serra: all'epoca vedevo che gli adulti sapevano fare alla grande la loro vita e non si lasciavano influenzare dalla vita dei figli, i miei genitori andavano dai professori una volta all'anno, forse. Oggi la separazione tra le due dimensioni non c'è. Le agende dei ragazzini di oggi sono frutto dell'ansia dei genitori, qui la loro colpa è evidente, e il calcio, e la scherma, e il flauto... I genitori scaricano sui figli le ansie da prestazione loro, vogliono che primeggino in tutto. Ho nostalgia di quando non c'era tanta invasività dei media, quel bel nulla del bighellonare con la mente per pomeriggi interi.
Falliti tutti gli attacchi collettivi, non rimane che l'attacco kamikaze, ovvero l'auto-immolazione dei singoli intervenienti, assetati di voglia di dimostrare che LORO sono tutto fuorché sdraiati. Inevitabile che il narcisismo tracimi a fiotti, con le comiche conseguenze che andiamo a saggiare
Tizia: Caro Serra, adesso basta con questa storia, se siamo sdraiati non va bene, se abbiamo impegni non va bene, uffa, io sono impegnatissima, ho un'agenda fittissima, ed è tutta roba serissima, io alla domenica partecipo al gruppo di discussione filosofica della mia città, faccio un sacco di roba, nulla mai è stato deciso dai miei genitori, e in più, sappiatelo miseri esseri umani, IO HO TUTTI NOVE A SCUOLA!!!!
Al che la platea esplode in una serie di applausi ironici e di esclamazioni sarcastiche, ricordo uno mancino con la erremoscia che ha detto: "E guarisci pure i lebbrosi?"
L'altra Tizia si associa, dicendo che i suoi la rimproverano al contrario di fare fin troppo, che se ci
soffe un libro per descrivere lei sarebbe "Sdràiati", non "Sdraiàti".
Seguono domande dal pubblico ma ci è venuta fame.
Comunque Serra, che in genere non primeggia mai per simpatia quando lo intervistano, ha liquidato cordialmente tutti gli appunti dei giovani spiegando dodicimila volte lo stesso concetto, fatto inevitabile, essendogli stata rivolta per dodicimila volte la stessa obiezione. Saranno stati pure tutti bravi o bravini a scuola, i giovincelli, ma è stato imbarazzante notare la loro totale incapacità di argomentare oltre le quattro idee preparate per tempo. Voglio dire: Serra li ha spiazzati tutti subito, dichiarando di non aver voluto scrivere nulla di pretenziosamente scientifico e indiscutibile, loro hanno con tinuato imperterriti con l'accusa di generalizzazione. Un colpo avevano in canna e non sono riusciti a cambiare tattica. Massì, sicuramente le domande saranno state concordate prima, a Serra tutto sommato non sarà dispiaciuto avere necessità di un' unica contro-argomentazione per rispedire a cuccia i fanciulli, ma costoro non hanno saputo fare strategia, nel senso che hanno diversificato poco la tipologia dei rilievi e soprattutto non hanno MAI messo a segno un colpo dialettico, uno di quelli che facesse dire a Serra: "Si, su questo hai perfettamente ragione", tranne forse la cosa di Saffo, ma era un'osservazione che non apportava nulla di nuovo al già detto.
Noi concordiamo con Serra su molte cose, su cui abbiamo detto la nostra sia qui che sul blog; l'auspicio è che cotanta arroganzetta delle due Tizie e di tutti gli altri, un domani, si concretizzi in qualcosa di più sostanzioso, perché ad oggi si sono visti concetti senza prospettiva e una totale sclerosi del raziocinio. Poi per carità, che non tutti i nativi digitali siano bimbominkia, come sostengono certi professori alti, sarà pur vero; se però l'ala non-bimbominkia dei bimbominkia argomenta come abbiamo sentito stasera, è chiaro che dobbiamo ri-registrarci tutti.
Comunque una cosa è certa: la società cambia, i costumi pure, i mezzi arriveranno pure a orientare i fini e non viceversa, ma la vera piaga del bimbominkismo è l'esistenza di figure genitoriali in cui il padre non ha più le palle, scusate il francese, per imporre non diciamo autorità, ma autorevolezza (vedere Demea e Micione in Terenzio), mentre la madre è peggio di una leonessa a difendere a spada tratta il figlio, vedendo in lui quello che non c'è e pretendendo dalla scuola che certifichi competenze inesistenti. La saccenteria fighetta degli interlocutori di Serra conferma purtroppo che non basta più essere bravi di per sé, bisogna anche crescere in un ambiente che non faccia credere a chiunque di essere un piccolo eroe -so- tutto a 16 anni. Non basta citare Saffo se non ci si rende conto che oggi non è ieri.