Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 21 agosto 2015

Matia, adesso però chiudete il bazar!

Ai molti utenti del blog (!!) sarà certo di giovamento sapere che, musicalmente parlando, e parlando di musica pop, io e la Spocchia siamo cresciuti con due numi tutelari di riferimento: Mango e i Matia Bazar. Sfortuna volle che, nel giro di otto mesi, il primo ci abbia infartato a concerto in corso, mentre gli altri abbiano perso stanotte per omologo infarto l'unico membro che è SEMPRE rimasto nel gruppo in quarant'anni, facendo parte di tutte le successive lineup proposte ai fans: parliamo, si capisce, del compianto Giancarlo Golzi, sanremese di nascita, vincitore di due Sanremi col gruppo (e con le canzoni meno belle della loro storia, ma questo è un classico), da oggi appartenente ai più.
A parte il dato personale che mi vede in poco tempo sparire dall'orizzonte gente a cui, artisticamente, tenevo molto, non possiamo non vedere nella fresca ed inopinata dipartita del Golzi il segno definitivo del destino che, speriamo ardentemente, i Matia sopravvissuti sappiano cogliere con machiavellica virtù. In poche parole, ci auguriamo vivissimamente che il gruppo si sciolga.
Bum!
Sì, non amiamo simili durezze qui a Machittevòle, ma quando ce vo' ce vo'. I Matia restano nell'immaginario collettivo di noi tutti soprattutto come un gruppo di potente impatto sulla scena italiana tra la fine dei '70 e la prima metà degli '80. Non è qui il luogo per ripercorrere le tappe delle loro carriera, tanto per quello ci pensa Luzzatto-Fegiz. E' il luogo semmai per riflettere, venuto meno l'unico vero trait d'union di tutte le stagioni artistiche del gruppo, se l'avventura matiabazaresca dovesse aspettare l'infarto golziano per concludersi. Perché, lo ripetiamo, Piero Cassano, Silvia Mezzanotte e Fabio Perversi (la stima nei cui confronti da parte nostra, sia chiaro, non recede di un millimetro) DEVONO avere il coraggio di dire basta all'accanimento terapeutico su un marchio che secondo noi ha perso da mo' la sua identità. Ciò, lo ribadiamo pedantemente, a prescindere dal valore individuale che riconosciamo ad ognuno di loro: è il loro valore complessivo come Matia Bazar che secondo noi non funge.   
Farebbe già abbastanza sorridere il fatto che il gruppo, in remota teoria, avrebbe dovuto chiamarsi solo Bazar dopo l'uscita di scena di Antonella Ruggiero nell'ormai lontano 1990, visto che Matia era lei, e i ragazzi del gruppo il suo bazar. Ma tant'è. Certo, già senza Antonella, sostituita dalla comunque notevole Laura Valente futura signora Mango (è tutta una compagnia di giro, vedete?), lo spirito del gruppo era mutato profondamente, le canzoni avevano rinunciato decisamente alla spinta electro-pop promossa a inizio anni '80 da Mauro Sabbione e ricorretta da Sergio Cossu, così come ai testi onirici del povero Stellita. Il pop si era fatto molto più pop, forse annacquando i fuochi d'artificio della stagione precedente (per onestà intellettuale, già certi ultimi prodotti della stagione Ruggiero come La prima stella della sera oStringimi suonavano "poco Matia", diciamo, ma tant'è). Ma più o meno girava, nonostante tra la Valente e Carlo Marrale tirasse una certa arietta di antipatia, peraltro molto ben dissimulata. E comunque Benvenuti a Sausalito era un album che funzionava.
Poi Stellita venne a mancare nel 1998. E lì avvenne la diaspora. Rimase Golzi. Il quale recuperò Piero Cassano, uscito dal gruppo 16 anni prima per contrasti di vario genere. E i Matia, aggiuntisi Mezzanotte e Perversi, ripresero la via. Lì, secondo noi, bisognava invece interrompere il discorso. I Matia non erano più Matia da un po', ma anche il bazar esaurì presto le idee. Se canzoni come Brivido Caldo o Messaggio d'amore potevano rappresentare un più che discreto prodotto per una band con l'obiettivo di finire nelle hit dei balli da sala, dette canzoni non erano assolutamente all'altezza della storia di un gruppo che ha sfornato Cavallo bianco,Vacanze RomaneSouvenirTi sento, come pure le meno note Mi manchi ancoraVia col vento o Vaghe stelle dell'orsa. Tutto qui. Voglio cioè prescindere da quelle stucchevoli querelles che leggo nei commenti ai video di youtube, con esperti di musica e sedicenti tali che si accapigliano su chi delle quattro cantanti ha/ aveva la voce migliore, la personalità più forte, e il salto di ottava, e il bicordo, e il registro di fischio e il soprano dolce e l'intonazione più precisa. Il problema vero è che questa band si è voluta perpetuare   nel nome ben al di là della sopravvivenza dello "spirito" Matia, che a nostro spassionato giudizio, già fortemente indebolitosi nel post-Ruggiero, si è definitivamente estinto alla morte di Stellita. Non manchiamo qui di riconoscere che il compito più ingrato è toccato a Laura Valente, perché venire subito dopo la Ruggiero è equivalso a girare per sette anni con un bersaglio luminoso sempre acceso dietro la schiena. Senza dubbio Silvia Mezzanotte non ha avuto un simile peso da portare, mentre la parentesi della Faccani rappresenta la prova provata del totale disorientamento estetico cui Cassano e Golzi sono ad un certo punto soggiaciuti, pentendosene peraltro, al punto da non rinnovare il contratto alla predetta (sulla cui voce per carità nulla da dire, ma di nuovo non era "spirito Matia"), in attesa che la Mezzanotte riacquistasse senno, comprendendo cioè che fuori da quel che restava dei Matia la sua carriera equivaleva ad uno zero tondo.  
Ora però è il momento delle decisioni gravi e definitive: lo "spirito Matia" è evaporato. Meglio un'onorevole uscita di scena che lo stracco trascinamento di una mummia saponificata.
Lasciateci, Piero, Silvia, Fabio, col ricordo di un'età creativa forse irripetibile, quegli anni '80, che un'Antonella Ruggiero del 1999, ancora colpevolmente preda di ansie palingentiche, definì "plasticosa", lei che ne era stata una delle massime e più sublimi muse, lasciateci, dicevamo, riandare coi ricordi a quella voce, la voce di Matia, l'unica vera voce-Matia, che con le sue acrobazie si portava dietro le parole delle canzoni, le sparava nelle orbite più irraggiungibili e lì le faceva conflagrare, così che gli scontri semantici generassero scintille di assoluto. Sia chiaro, potremo passare anni a romperci la capoccia per decodificare il testo di Angelina, di Aristocratica o di Mosca Helzapoppin, e probabilmente non ne verremo mai a capo. Ma l'obiettivo di quelle canzoni era proprio quello di alludere, suggerire, provocare, incantare e alla fine travolgere sotto l'onda acuta e possente delle saette vocali di Antonella. Il tutto con al servizio un tappeto di note che sfuggiva ogni banalità e cercava sempre la soluzione più raffinata (chi saprebbe sfornare la parte melodica di Cercami ancora o di Da qui a..., oggi, chi?) (si chiedeva battendo la cervice sul muro).   
Credo che alla fine la canzone che riassuma tutto lo spirito Matia che noi tanto amiamo sia Noi, che non a caso è del 1987, quando cioè la supernova bazaresca era al massimo splendore perché prossima al collasso. Noi, recita il testo, siamo fragili e invadenti, fuori e dentro al fuoco, angeli da poco in cattività, noi, prosegue, siamo abili e inesperti, noi siamo con gli occhi aperti nell'oscurità, ma soprattutto noi siamo vincitori e vinti per curiosità. Eccolo qua, il core-Matia: il desiderio di avventurarsi nel mondo della contraddizione e della dialettica perpetua, alla ricerca della scintilla che nasce dalla crisi dei sistemi che tutti credono immutabili e che proprio per questo è foriera di un'energia inimmaginabile a chi sta dentro il placido recinto delle proprie certezze. Noi andiamo in cerca dell'Oltre, ci dicevano quei Matia. Questi  Matia non possono - o non sanno - più farlo. Umilmente ne prendano atto. Si seppellisca con il Golzi una storia che non  morirà mai, solo che vi siano amanti del pop intelligente pronti alla corrispondenza d'amorosi sensi.
Ciao, Giancarlo.      

EDM - LA Spocchia

giovedì 20 agosto 2015

Il pensiero s'infeltrisce

Estate ballerina, pare. Come se non ne avessimo già avuto abbastanza delle sparate sulla scuola del sempre stimato Abravanel, quello secondo cui alla fine il vero scopo dell'istruzione è la messa a punto degli algoritmi per regolare i flussi semaforici, entra in giuoco Mr. Fighetteria in persona, quello Stefano Feltri che nel recente passato frequentava con assiduità il salotto di Lilli Gruber per fare a gara di pettinature gellate e lenti a contatto glamour con Civati, sì da contendergli il ruolo di intellettuale più telegenico di La7 (bella forza competere con uno più vecchio di te di nove anni, vero, Ste?).
Il Feltri, bocconiano DOC e convinto probabilmente che il piano studi della Bocconi serva essenzialmente a diventare giornalisti, si è lanciato la settimana scorsa in un bombastico assalto all'arma bianca contro gli studi umanistici, facendo aggio su un paper (come si dice nell'ambiente) di studiosi multinazionali, ma soprattutto fraintendendone totalmente dati e conclusioni, come altri addetti ai lavori gli hanno fatto impietosamente notare.
Riassumo le tesi feltriane, rimandando al sito ROARS per l'elenco dei contro-articoli che le sbugiardano, e anticipo che non sarà qui il luogo per la difesa della cultura e dell'istruzione umanistica, da noi già attuata in altri post del blog: ci limiteremo ad un'analisi antropologica del modo di ragionare del Feltri, mostrandone punti di contatto e scarti in avanti rispetto all'Abravanel.
Dice Feltri: le facoltà umanistiche sono uno spreco assoluto, chi vi si iscrive in genere proviene con voti bassi dalle superiori (bufala CO-LO-SSA-LE, e lasciate che lo diciamo io e la Spocchia, che alla facoltà di Lettere lavoriamo davvero), le prospettive di impiego e guadagno post-lauream sono un niente rispetto ad altre facoltà e, colpo di grazia, il laureato in lettere rappresenta un costo che la società non può permettersi: si iscrivano alle facoltà umanistiche quelli ricchi che possono sostentarsi da soli gli studi. Piccatissimo poi a seguito delle repliche sbugiardanti al suo primo articolo, il Feltri, ben lungi dal fare anche solo una minima autocritica per aver del tutto travisato i dati del paper da lui citato, si lancia in acide repliche degne del peggior fighetto isterico: se volete vivere da bohémien con la laurea in lettere, accomodatevi, ma poi non lamentatevi quando sarete dei poracci.
E vabbe': gli hanno risposto in molti, dati alla mano, per dimostrargli la falsità tanto dell'assunto quanto delle argomentazioni da lui svolte per corroborarlo. Certo, vien da dire, se un giornalista laureato alla Bocconi non capisce neanche i saggi che legge e poi ci costruisce sopra articoli senza capo né coda, c'è da tremare per l'obiettività e l'accuratezza del mondo dell'informazione italiana.
Ma appunto. Necessità biologica dell'umanesimo a parte (come da noi più volte sostenuto), resta nel Feltri la convinzione, ampiamente condivisa negli ambienti più miopi dell'accademia economica (Abravanel docet), che l'istruzione, tutta, debba alla fine essere non solo professionalizzante, ma professionalizzante in senso empirico. Quale che sia la facoltà scelta dal discente, egli deve uscirne abile solo a risolvere problemi pratici, siano essi la costruzione di un ponte, l'asportazione di una cataratta o la stesura di un piano aziendale di rientro dai debiti. Basta. Feltri argomenta di fatto asserendo che dall'università deve uscire il lavoratore, poi per l'individuo vabbe' c'è tempo. Gli hanno fatto giustamente notare che simili asserti sono degni della peggior dittatura sovietica, roba da far tremare Breznev (o dare il colpo di grazia ad Andropov).
Ma appunto. Al di là del fatto che anche insegnare alle persone a esprimere correttamente il proprio pensiero o far maturare in loro il senso critico nei confronti dei fenomeni storici e sociali non mi sembrano contributi così spregevoli al mondo empirico (ove si sottintenda che il grosso degli umanisti poi fa il professore), è noto che la laurea umanistica conferisce al laureato una duttilità e una capacità critica e creativa allo stesso tempo di affrontare i problemi che altri laureati, legati a visioni un filino più schematiche delle cose, non hanno, sì che non è difficle vedere umanisti occupati in posizioni professionali che, a rigore, quaglierebbero poco con la loro laurea. Ma non è questo che interesserebbe al Feltri. Feltri, in ciò ossequendo ancora Abravanel, direbbe che il tipo di società che ormai domina ai quatto angoli del globo richiede le soft skills, il problem solving, la praticità, mica si può stare a leggere poesie per 3+2 anni.
Lasciamoglielo dire. E chiediamoci: in cosa l'ottimo Feltri riesce persino a superare il già ottimo Abravanel? Nel format antropologico tipico di moltissimi fanciulli e fanciulle nati e cresciuti negli anni '80: la convinzione che la propria esperienza personale sia il modulo di riferimento UNICO in base al quale giudicare il mondo e le scelte altrui. Ora, se io volessi feltrizzarmi, direi che TUTTI i nati negli anni '80 rispecchiano il modello anzidetto. Non lo dirò: primo perché non sono Feltri, secondo perché ho per fortuna sottomano esempi di gente che esce dallo schema. Peccato che quelli che in questo schema rientrano, Feltri tra costoro, offrano di sé uno spettacolo che con acuto eufemismo potremmo definire solo che desolante. 
Vediamo le prove di questo gommoso egotismo. Lo dice, il Feltri, nel suo accorato benché sbullonato paper: IO ho fatto la Bocconi perché gente più saggia di me mi ha distolto da filosofia, I MIEI genitori si sono accollati la non sobria retta dell'università, IO non avevo diritto alle agevolazioni perché altri evadevano il fisco, IO ho raggiunto l'obiettivo che mi ero posto, IO mi sono già ampiamente ripagato delle spese sostenute, anche perché I MIEI non hanno rivoluto nemmeno un tolino indietro.
Eccoci al punto; siccome A LUI è andata in un certo modo, allora chi sceglie diversamente è per ciò stesso in errore. Ma sono così, la generazione dei Fabolous 80's, quelli usciti male, intendiamoci. Li sentiamo e vediamo, i freschi trentenni che si beano delle app che mettono a punto e che consentono loro guadagni faraonici in poco tempo, e che parlano come se saper sviluppare app fosse l'unica attività umanamente degna; li sentiamo e li vediamo, quelli che sono convinti che la politica italiana inizi nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi e dicono "Berlusconi sì, Renzi no" (o viceversa) adducendo come prova a favore della tesi il fatto che "Berlusconi sì, Renzi no" (o viceversa); li sentiamo e li vediamo, i fortunelli che non hanno vissuto i colpi di coda culturali ed esistenziali degli anni '70 e sono cresciuti a pane, vizi e giocattoli, vedendo crollare il Muro di Berlino, ma scambiandolo per una casa di Lego; quelli, per intenderci, e in particolare i nati tra il 1980 e il 1989, che per effetto dell'abolizione degli esami di riparazione a settembre voluta dal ministro D'Onofrio hanno passato beatamente il liceo potendosi permettere di perculare i docenti delle materie a loro sgradite, evitando accuratamente di studiarle "perché tanto Lei non mi può far niente"; ce li ricordiamo bene, quelli che a 15-16 anni "prima vado in palestra, poi studio perché sennò mi vanno via gli addo", con l'assenso delle mamme già rifatte a 40 anni, orgogliose di come il figlio sapeva stare al mondo e godersi la vita invece di marcire sui libri; quelli che hanno sempre soldi in mano pur senza lavorare, o lavorando molto poco a 33 anni suonati, perché tanto paga papà, vanno in ferie 6 volte l'anno (sommando ben più degli stereotipati "tre mesi a fare un c****" che rinfacciano a noi) e però sono sempre in prima linea a denunciare l'occidente cattivo e consumista e ad appoggiare Emergency (a parole, poi pagherà qualcun altro); quelli che credono che Alessandro e Carlo Magno siano fratelli e la rivoluzione francese sia una teoria di Galileo e che però un bel free Palestine sui loro stati di Facebook non lo fanno mai mancare. Gente che ha potuto pensare esclusivamente a se stessa perché il mondo era mandato avanti dagli altri e che ha visto la perfetta coincidenza tra volere, dovere e piacere. Ha cioè sempre fatto quel che ha voluto: senza spigoli, senza contraddittorio, senza divieti, senza sanzioni. Senza un non-Io che mettesse in discussione il loro Io. 
Gente così. Quelli usciti male, si diceva. Certo, si dirà che però il buon Feltri i suoi studi li ha fatti e la sua carriera pure, non è rimasto con le mani in mano. Senza dubbio. Sarei tuttavia curioso di chiedergli chi fosse Ezio Vanoni, per vedere se magari mi risponderebbe che era un parente di Ornella e non l'inventore di quella che oggi chiamiamo IRPEF. Ma è il profilo psicologico suo che è perfettamente 80's, quello di gente cresciuta senza dialettica e quindi capace solo di porre se stessa come tesi unica di un discorso che non ammette antitesi né, per carità, sintesi. Scettici e politicamente apolidi, seguono l'idea del momento, specialmente quando è la loro. Privi di ogni prospettiva storica, non sanno trovare radici ad un fenomeno che vadano oltre l'altroieri. La loro piccola esperienza diventa l'Esperienza e guai a chi dissente.
Ed ecco scodellato un articolo a dir poco delirante, ma che svela appieno la matrice antropologica del suo estensore: non è tanto il cieco ossequio alla linea Abravanel a deprimerci, quanto l'idea che un trentunenne ha già esaurito gli spazi dialettici e non vede altro all'infuori di sé. Certo, è lo stesso difetto della generazione bimbominkia. Sì. Solo che Feltri è, diciamo così, un filino fuori età.

Dovrebbe, perlomeno.