Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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sabato 19 ottobre 2019

Senecana (5): e LUI cosa dice?

Seneca non cita mai espressamente la scuola Pneumatica in nessuna delle opere giunteci, ma è verosimile una sua conoscenza delle dottrine mediche stoiche: filosofia e medicina, nel mondo antico, erano molto meno distanti, dal punto di vista teoretico, di oggi, in quanto entrambe si prefissavano di curare l'uomo dai suoi mali. Essendo poi la scuola Pneumatica filiazione diretta della scuola stoica, difficilmente Seneca avrebbe potuto erudirsi di sola filosofia senza buttar l'occhio sulle opere dei medici, detto pure che lui stesso, come evinciamo dalle sue opere, non era esattamente un fiore dal punto di vista della salute.
A questo punto, lettore accanito, vorrai chiederci se è possibile in ogni caso dimostrare in Seneca conoscenze mediche Pneumatiche pur senza esplicita ammissione? Noi ti diciamo di sì, ma per arrivare a tale contezza si dovranno recuperare tasselli sparsi un po' dappertutto nell'opera del Nostro. Saremo brevi.
Dice Seneca (De ira) che quando bisogna mettere a punto una terapia che renda più difficile cadere preda dell'ira è molto importante tener conto della mescolanza di calore e umidità all'interno di un individuo (ricordate che siamo nel I secolo d. C....): ebbene, un medico greco del secolo successivo, nientemeno che Galeno (il curriculum è scaricabile qui) attribuirà, così pare di capire dai suoi testi, quest'attenzione al caldo e all'umido proprio ai medici Pneumatici.
Dice sempre Seneca (Naturales Quaestiones) che tutto il mondo è retto dalla tensione dello spiritus che in esso scorre, la qual cosa ricorda assai da vicino il pneuma coibente degli stoici. La virata in senso medico è poi poco distante, per così dire: il Nostro afferma che nel corpo, come in tutto il resto del pianeta che è un macro-corpo in cui abitiamo noi micro-corpi, possono nascere malattie se il flusso regolare dello spiritus è alterato da qualche causa come può essere il freddo, il caldo, uno scompenso o scossone di qualsiasi tipo, ma anche un accesso di febbre o un timore improvviso, tutti fattori che intaccano la nostra energia vitale, il tutto senza contare le anomalie che possono interessare gli umori corporei; se hai seguito le puntate precedenti, amico lettore, non potrai non rilevare che queste di cui Seneca parla sono esattamente le cause procatartiche ed antecedenti messe a fuoco da Ateneo (sia fisiche che psichiche, oltretutto), laddove il fatto che lo spiritus si alteri insieme alla parte del corpo ammalata rimanda direttamente alla nozione di pneuma coibente che si fa veicolo della malattia in tutto il corpo. 
Le sindromi biliari sono a conoscenza del Nostro? Ovviamente sì. Nell'accezione di Areteo, magari? Io credo di sì.
Noterai infatti, amico lettore, che nella lettera 94 a Lucilio Seneca parla di una insania publica e di una insania quae medicis traditur: per follia 'pubblica', ovvero rilevabile in modo abbastanza diffuso in quel caravanserraglio di pazzi che è la Roma imperiale, Seneca intende la melancolia di natura psichica, mentre l'altra, che va affidata ai medici, è evidentemente quella somatica, causata dalla bile nera. L'eziologia del male è quindi, solidamente, biunivoca, cosi come biunivoche sono le cure: parole sagge possono spegnere l'infiammazione della bile, come pure sani salassi biliari possono smorzare il malumore. Anche altrove Seneca ribadisce che alla base dei disturbi dell'umore possono trovarsi sia cause fisiche che psichiche.
Se poi diamo un'occhiata ai ritratti dell'uomo in preda all'ira, gli accessi del male presentano elementi assai vicini a quelli che leggiamo nei medici greci: occhi infossati che si alternano a occhiatacce furibonde, urla sguaiate, agitazione di tutto il corpo, il segno insomma dello spiritus che ha perso il suo giusto ritmo. Soprattutto, pare chiaro che il nostro filosofo preferito ritenga che nell'ira possano confluire sia i sintomi della mania che della melancolia. Del resto depressione rabbiosa e pazzia furiosa sono consorelle.
E' però che nelle tragedie che Senecuccio nostro dà il meglio di sé: secoli addietro critici frettolosi additarono i personaggi tragici senecani come piatte allegorie del furor, imprigionate in comportamenti ripetitivi e irrealistici, in certi casi fissati sulle proprie azioni malvagie a tal punto da sconfinare nel manierismo. Sciocchitudini: chi legge i comportamenti, tanto per dire, di Fedra e Medea nelle rispettive tragedie con occhio medico-Pneumatico, non può non vedere che quando queste donne sono descritte dalle rispettive nutrici ciò che abbiamo sott'occhio non è banale fisiognomica del potenziale pazzo, ma una vera e propria cartella clinica che riproduce i sintomi della malattia psicosomatica. Vuoi la prova con Fedra, amico lettore?

[Antefatto: Teseo, re di Atene, si fa un giretto nell'Oltretomba per aiutare il fido sodale Piritoo nell'impresuccia di rapire la regina di laggiù, Proserpina; ad Atene la moglie di Teseo, Fedra, cretese, figlia di Minosse, sorella di Arianna (l'altra grande fiamma di Teseo, puntualmente piantata in Nasso a seguito del minotauricidio), attende solitaria il ritorno del marito, trovandosi peraltro un pochino infatuata del di lui figlio Ippolito, nato da una relazione espressa con la regina delle Amazzoni, Ippolita, poi morta. Pur tentando di fermare questa passione, Fedra cede gradualmente alle spinte irrazionali, nonostante la Nutrice, manuali di stoicismo alla mano, tenti invano di farla rinsavire. A un bel momento, quando l'innamoramento diventa irreversibile, la regina si presenta in scena vestita da amazzone per far capire al figliastro quanto gli sia groupie. La Nutrice così ce la descrive, versi 360-383...]

      NUTRICE  
      Che speranza può esserci? Una passione così non si può frenare, è un fuoco 
      senza fine. Si consuma a un silenzioso ardore... Anche se la chiude in sé 
      e la nasconde, questa follia, il volto la tradisce. I suoi occhi brillano 
      febbrili, le palpebre stanche non sopportano la luce. Non sa quello che 
      vuole, soffre, le sue membra sono irrequiete. Ora il suo passo è stremato, 
      vacilla come se morisse, e il collo, reclinando, sostiene la testa a 
      fatica; ora vuol concedersi riposo, ma si nega al sonno e passa la notte 
      in lamenti. Si fa levare dal letto e, subito dopo, coricare. I capelli, 
      ora sciolti li vuole, ora acconciati. Insofferente di se stessa, muta 
      continuamente di aspetto. Del cibo e della salute non si cura. Fa l'atto 
      di muoversi, incerta, e subito le forze l'abbandonano. No, non c'è più il 
      suo slancio, non c'è più sul viso lucente colore di rosa. Quel pensiero la 
      consuma tutta. Il suo passo è tremante, adesso, la tenera bellezza del suo 
      corpo se ne va. E gli occhi, quegli occhi che recavano le tracce della 
      luce del sole, non brillano più del loro splendore divino. Lacrime 
      scendono giù per le guance, bagnandole di rugiada, senza sosta, come sui 
      gioghi del Tauro le nevi si sciolgono alla tiepida pioggia...

Notiamo, notiamo...
  • il volto tradisce la follia = i sintomi del male sono tutti evidenti in viso. Non si tratta, bada bene lettore, della fisiognomica che pretende di dedurre il carattere di una persona e le sue personali inclinazioni dai tratti somatici, qui assistiamo ad una malattia in atto.
  • occhi che brillano (arrossati) = mania
  • occhi che fuggono la luce = melancolia
  • non sa quello che vuole, membra inquiete = mania
  • passo stremato, testa che ciondola sul collo = melancolia
  • insonnia = melancolia
  • si alza e si corica, cambio acconciatura = mania
  • insofferenza di sé = mania/melancolia
  • rifiuto del cibo = melancolia
  • forze carenti, passo tremante = insufficienza dell'energia pneumatica
Vuoi vedere Medea? Eccotela...

[Antefatto: Medea, principessina del Mar Nero est, si incapriccia dell'eroico benché imbranatuccio Giasone, giunto sulle coste della Colchide dalla lontana Iolco per recuperare una pelliccia d'ariete dalle proprietà miracolose, inviato lì da uno zio usurpatore che spera lo scotennino. Medea tuttavia, come Arianna del resto, non resiste alla seduzione dello straniero belloccio e lo aiuta a conquistare l'agognato plaid, ricevendo peraltro una proposta di matrimonio in cambio di ulteriore aiuto per consentire a Giasone e compagnia di tornare a casuccia, obiettivo centrato ritardando gli inseguitori con una sfida a puzzle consistente nella la dispersione in mare di pezzetti del fratellino Absirto. Tornati a Iolco e de-usurpato il trono tramite bollitura fraudolenta dello zio, i due devono poi fuggire a Corinto, dove Giasone, colto da improvviso cinismo, ripudia Medea per poter impalmare Creusa, figlia del reonzolo del luogo, Creonte, e garantirsi finalmente un trono non traballante. Medea, sola, barbara e senza diritto alcuno, la prende sportivamente e decide di uccidere i figli avuti da lui. Mentre la follia omicida monta in lei, così la descrive la Nutrice, versi 380-396...]


      NUTRICE 
      Dove corri, figlia; lontano dalla tua casa? Fermati, calmati, frena la tua 
      furia. Come una menade, che, alla cieca, già invasata da dio, si lancia e 
      porta i suoi passi sulla cima del Pindo nevoso o sui gioghi di Nisa, così 
      Medea corre qua e là con gesti selvaggi, mostrando in volto i segni di un 
      furore delirante. Il suo viso è in fiamme, il respiro affannoso, grida, il 
      pianto le sgorga dagli occhi, di colpo si mette a ridere. È in preda ad 
      ogni emozione. Esita, minaccia, avvampa, si lamenta, singhiozza. Dove si 
      volgerà l'empito del suo cuore? Dove spingerà le sue minacce? Dove andrà a 
      infrangersi questo vortice? Il suo furore trabocca. No, non è da poco, non 
      è comune il delitto che medita tra sé. Supererà se stessa, Medea. Li 
      conosco, io, i segni del suo antico furore. Qualcosa di inaudito sta sopra 
      di noi, qualcosa di grande, selvaggio, empio: lo leggo nel suo volto 
      delirante. O dèi, fate che la mia paura sia vana.    

Ri-notiamo, ri-notiamo...
  • similitudine con la Menade, sacerdotessa dei riti dionisiaci che prevedevano l'abbandono estatico alla possessione divina = mania, termine peraltro corradicale a 'Menade'.
  • corsa delirante, viso in fiamme = mania
  • respiro affannoso = crisi dell'energia pneumatica
  • alternanza pianto/riso = bipolarità
  • minacce, avvampamento = mania
  • lamenti, singhiozzi = melancolia
  • lettura sul volto delirante del furore = ulteriore prova che non di mera fisiognomica si tratta,ma di autentico quadro clinico
Vediamo dunque che in nessuno dei due casi predomina solo uno uno dei due disturbi, poiché fanno sempre capolino anche i sintomi di quello opposto. Alla fine, nel personaggio domina una perenne alternanza di umori e  e comportamenti che testimonia l'instabilità delle sindromi biliari.

Questa è arte di serie A+++: non una piatta resa del furor, ma l'illustrazione realistica dei suoi catastrofici effetti. Le conoscenze mediche al servizio della filosofia e della tragedia: questo è il genio.

[poi c'e sempre https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca nonché https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_pneumatica]

sabato 12 ottobre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: ipotesi di complotto

La sera Sassuolese di venerdì 13 si frizza con l'intervento dell'acuto Paolo Ercolani.

L'intervento prende le mosse da una questione che può essere ormai frusta, eppure sempre gravida di spunti: l'esperienza online è un arricchimento o una minaccia per il soggetto?
Come piace a noi, la risposta parte da dati concreti e non da fuffa. Ercolani ci dice di avere effettuato una survey con studenti delle superiori ai quali è stata posta una domandina facile facile: perché i ggiovani d'oggi si fissano ad immortalare i momenti più inutili della loro quotidianità per poi condividerli sui social? Non è una perdita di tempo? Davvero si vive nell'ansia perenne del riscontro?   Ebbene, la giovanil risposta è di quelle notevoli: noi, dicono gli studenti, sappiamo bene che la quasi totalità dei contenuti che postiamo sui social è del tutto inutile, siamo consci che nel mondo virtuale fluttuano elementi e azioni obiettivamente senza scopo, ma, caro Ercolani, "se la sera non ho condiviso parte della mia vita reale nel mondo virtuale, mi sembra di non essere esistito".




Si capisce che la frase si commenta da sé, e potremmo chiederci dove noi tutti abbiamo fallito. Di là da ciò, Ercolani nota una sorta di inversione dell'umano, in ragione della quale molti, moltissimi utenti social vomitano nella vita reale aggressività, incomunicabilità, intolleranza, ma nelle bacheche web è tutto un frullare di bellezza, pienezza di vita e attività. Al di sotto di questa dinamica tra passerella di sé e matta bestialità per le strade del mondo, giace un immenso oceano di solitudine, che produce odio e non trova autentica consolazione spolliciando sulla tastiera. Paradosso supremo, abbiamo i giovani meno capaci di relazionarsi della storia umana. Loro che oggi hanno reti relazionali potenzialmente infinite nello spazio & nel tempo. Il solipsismo è sterilità. Già la tv aveva spento i cervelli degli spettatori (ricordi Homo videns di Sartori? Adesso c'è internet...), oggi gli schermi non ci chiedono solo di guardarli, ma anche di entrarvi, dando più importanza a quel che avviene dentro di essi rispetto alla vita concreta. Risultato che ci si para davanti (cfr. J.M. Twenge, Iperconnessi, Einaudi) sono giovani che sembrano felici e sempre felicemente impegnati, poi basta una mezza indagine sociologica e ci dicono di essere soli e spaventati. La generazione più in crisi che abbiamo mai avuto.



L'identità via social si crea tramite la vetrinizzazione del sé: selfie come si deve, elenchi fluviali di musiche e film preferiti, creazione o meglio ri-produzione di un'identità preconfezionata (quindi dipendente da modelli preesistenti all'identità stessa) volta al successo, ovvero ai like. Di converso, certuni si convincono di valere poco perché hanno pochi like. Peggio ancora, gli ingenui osservatori di stories altrui si convincono dal chiuso della loro alienata cameretta che gli altri siano felicissimi, loro dei poveri sfigati (il che ovviamente non è vero). Il ragazzo diventa un prodotto stesso della realtà virtuale, si fa in certo senso 'consumare' dal suo pubblico. Certo, se il pubblico reagisce maluccio, per esempio col cyberbullismo, si verificano quei casi estremi di suicidio che non cessano di interrogarci e tormentarci. Sui social è vietato mostrarsi deboli ed erranti. Guai ad essere angosciati.


Da qui l'Ercolani parte per una ampia & desolante panoramica sul rapporto tra umanità e tecnologia: tutta la tecnologia che ci sommerge ha come effetto imprevisto, ma forse non imprevedibile, di  impoverire o addirittura eliminare il pensiero, il ragionamento, la conoscenza e il dialogo. Stiamo dunque dando l'addio al logos nell'era in cui Internet avrebbe dovuto costituire il trionfo del logos medesimo. Morale: siamo diventati una società misologa.
Seguono dati, un pochino acri verso lo zio Sam.



Primo esempio di misologia: in USA negli anni '50 girava la favola intitolata La locomotiva, in cui una locomotiva pucciosa andava a scuola per diventare un treno. Le venivano insegnate due cose: non uscire dai binari e fermarsi alla bandierina rossa. Ma la locomotiva amava i fiori che crescevano a fianco dei binari e voleva uscirne. Allora la società ferroviaria fece in modo che la locomotiva desiderasse solo restare sui binari disseminando di bandierine rosse i prati in fiore e mettendo le bandierine verdi sui binari. Così la locomotiva rientrava tutta felice sui binari. Allegoria del tutto: l'uomo moderno vive solo sulla base dell'approvazione della società. I bambini vengono allevati secondo un conformismo eterodiretto: esistono dei binari, se li segui sarai felice, perché tutti ti approveranno (cfr. La folla solitaria). Questa favola dimostra il passaggio dal divide et impera di romana memoria al conforma e dirigi. Omologate le persone il più possibile, ci dicono queste allegorie, e avrete il potere di dirigerle dove vorrete. E dove vanno dirette? Ovviamente a consumare secondo una precisa pedagogia del consumo (cfr. I persuasori occulti).




Secondo esempio: nel 1971 un giudice americano, tal Lewis Powell, scriveva al Ministero dell'istruzione che il sistema economico basato sul profitto era in crisi, si vedeva che le Università erano piene di contestatori, quindi bisognava provvedere con un'azione chirurgica nelle facoltà di Scienze sociali. Lì si sarebbe dovuta scatenare una lotta a tutto campo contro le teorie di Marcuse e compagnia, neutralizzandole con contro-conferenze di eminente gente di orientamento liberista; a fianco di ciò, tv, stampa, radio, riviste avrebbero dovuto diventare altrettanti gangli di una rete di controllo dell'opinione pubblica che sarebbe stata indottrinata ai valori del sano capitalismo. Il tutto da esportare al resto dell'Occidente. 

Terzo esempio: nel 1975, in una delle riunioni della Commissione Trilaterale, fondata dal compianto Rockfeller, si creò un pool di 200 eminenze grigie provenienti da Usa, Europa e Giappone. Tre di questi studiosi, interpellati per mappare la situazione sociale in corso, conclusero che c'erano troppe persone istruite e dotate di pensiero autonomo e critico che decidevano di uscire dai binari come la locomotiva tirocinante dell'esempio 1. Si propose dunque una pianificazione educativa per correlare gli studi scolastici agli obiettivi del potere (tipico paradigma neoliberista): punto d'arrivo di ciò, la formazione del concetto di capitale umano da contrapporre a quello di sviluppo umano. Formare individui funzionali a quello che chiede il mercato, disinteressandosi della loro umanità autentica.

Il disastro attuale verrebbe quindi da lontano, con l'attuale collaborazione dei social: in essi l'identità reale si annulla nell'omologazione, portandosi via lo spirito critico.




Si capisce che le nostre antenne insegnantizie si sono rizzate quando l'Ercolani ha aperto il confronto tra scuola e mondo virtuale. Se la scuola richiede allo studente l'apprendimento tramite la lentezza, la profondità, la selezione delle nozioni per sviluppare lo spirito critico, nel mondo virtuale è tutto l'opposto: velocità, superficialità e opulenza informativa con assenza di spirito critico. Peccato che opulenza e buon funzionamento del cervello facciano apertamente a pugni, perché un cervello sovraccarico non funziona. La sua plasticità si manifesta non nell'incamerare quintalate di dati, ma gestendo i contenuti e sviluppando strategie per il loro immagazzinamento. Sicché, ed è anche la nostra tesi da millenni fin qua, la scuola non può competere con la rete nel poter dare informazioni, ma deve insegnare ai ragazzi la selezione del sapere mostruoso che trovano ormai ovunque. Lo spirito critico deve elaborare le informazioni perché si formi un pensiero autonomo. Ercolani mi pare quindi vedere con sospetto certe derive didattico-docimologiche degli ultimi tempi. In ciò ovviamente incontrando i nostri dubbi: bisogna vagliare attentamente certe 'nuove' mode che sembrano virare più sull'apprendimento funzionale al 'fare' immediato, sulla creazione dell'alunno 'efficiente' più prono alla soluzione dei casi singoli rispetto alla considerazione generale del reale.



Ma certo l'allocuzione ercoliana, specie sulla questione del rimbecillimento sistemico della gioventù, ci ha stimolato ulteriori istanze: anni fa, su un forum di Macchianera.net, un utente sintetizzò in modo sparaflashante l'evoluzione delle tattiche di insonnolimento del pensiero critico attuate dal Sistema nei decenni che furono, arrivando più a meno a dire che (semicit.) "se negli anni '70 in Italia si anestetizzarono i giovani con lo stragismo e l'eroina, negli anni '80 fu sufficiente la programmazione pomeridiana di Italia1". Il che, essendo io fruitore di quella programmazione, mi questionò: in effetti, non posso nascondere che una certa tendenza a cartoonizzare gli aspetti dell'esistenza sia piuttosto diffusa tra noi dei gloriosi second-mid-seventies. Già altrove e altrando (=altroquando) evidenziammo che certe pose di Matteo Renzi (Rignano, Firenze, 1975- vivente) in prossimità della fine della sua esperienza di capo del Governo sembravano molto vicine all'allure cartoonesco-videoludica. Si ricordi inoltre che l'ex vicepremier Matteo Salvini (Milano 1973- vivente), appena prima di schiantare la sua esperienza vicepremieriatizia, dalle assolate spiagge di Milano marittima chiese al popolo tutto pieni poteri, ricordando a noi tutti almeno due celebri episodi dell'epica nippo- giappo (vedere il Capolavoro 1 qui e il Capolavoro 2 qui). A molti di noi, in effetti, è stato sempre ripetutamente rinfacciato "di non essere mai cresciuti", di aver vissuto troppo coi videogiochi e di aver ritardato assai assai il distacco dalla mammella per farci una vita autonoma. Ora, a parte che come sempre ci sono esempi luminosi di gente che è maturata 'normalmente' accanto a gente dai percorsi più o meno... originali, è un fatto che, rispetto ai maremoti di fiamma che agitarono la gioventù scuolafrequentante nella generazione precedente alla nostra, noi adolescenti fabulouseighties abbiamo vissuto proporzionalmente abbastanza nella bambagia. Escludendo gli scioperi di default ad ogni approvazione di legge finanziaria, quando venne giù il Muro io ero in terza media, quindi non so bene se le piazze giovanili siano esplose, ma ricordo bene che, iniziati i bombardamenti della prima guerra del Golfo, si scioperò giusto il primo giorno e poi ciao. Qualche altro scioperetto giornaliero punteggiò gli anni successivi (per la strage di Capaci, per la mancata autorizzazione a procedere contro Craxi, per la guerra nell'ex Jugoslavia...), inframmezzato da tentativi di sciopero in cui un tizio di una classe venne da un tizio della nostra e gli disse che quella mattina lì bisognava fare sciopero perché sennò lo interrogavano in greco ("aiutami con lo striscione!!"). Bene, rispose l'altro, e per cosa lo facciamo? Ma sì, disse il tizio, diciamo che facciamo sciopero contro l'attuale situazione mondiale.
Certo, questo scambio di battute è illuminante sulla fondatezza della tesi ercolanesca: qualcosa, in effetti, cambiò in quegli anni, nel senso che la generazione cosiddetta 'di carta' dei giovani superimpegnati dei tempi di Moro e Berlinguer, gente che leggeva almeno due libri a settimana e giornali vari, fu sostituita, nella proposta mass-mediatica del 'ciò che faceva figo', da una gioventù teledipendente e giocherellona. Il metro della figaggine divenne progressivamente l'abbinata bellezza&stupidità, all'impegno politico si preferì progressivamente il disimpegno gaudente.
Cose che già dissimo, ma oggi abbiamo qualche spunto in più, legato ovviamente all'esperienza insegnantizia, ma anche alla tesi ercolanesca: sappiate infatti che negli anni '80-'90 non tutti smisero di pensare e tormentarsi sul senso delle cose. Forse la prospettiva era meno legata a (leggi: inquinata da) questioni di ideologia e forse, rispetto alla carne e sangue e m***a del vissuto socio-politico quotidiano, le inquietudini prendevano una piega, per così dire, metafisica. Fatto sta che ci furono adolescenze molto più pensose di quanto la vulgata abbia fissato nell'immaginario collettivo; ebbene, pensando da grandicelli alla nostra adolescenza pensosa, forse troppo pensosa, ci siamo indotti spesso a ritenere che tra noi e i bimbominkia la differenza fondamentale fosse nello spassoso mondo di bolle di sapone in cui fluttuavano loro rispetto al barile di chiodi giù per il fianco della collina stile Attilio Regolo in cui spesso eravamo rotolati noi. Pare invece che i giovani di oggi siano infelicissimi e il paradosso è che la società che li ha coccolati in epoca bimbominkia sembrava aver predisposto tutto per togliere dal loro cammino ogni inciampo e ogni dolore. O forse era l'illusione delle gioia che doveva predisporre agli abissi della solitudine e della frustrazione online. Credo però che 'predisporre' sia errato come verbo: non penso che, nascendo internet, le sue ostetriche avrebbero immaginato che esso internet da ricettacolo della democrazia globale sarebbe diventato (anche) vasca di fermentazione di odio e ignoranza globalizzati. Allo stesso modo, chi ha inventato i social non ha secondo me immaginato le conseguenze descritte dall'Ercolani. I social erano certo parte di un sistema basato, per dirla con Bauman, sulla stimolazione perpetua dei bisogni e del senso di inadeguatezza rispetto alle novità perpetue proposte dal mercato, ma che anche sui social si sarebbero riprodotte le stesse dinamiche della circostante civiltà consumistica non poteva essere chiaro sin da subito. Da mo' ci siamo convinti che non sempre tutte le conseguenze della tecnologia siano prevedibili, come del resto ci insegna il capolavoro dell'animazione anni '90 più complesso che sia mai uscito da cervello umano (oggi ridoppiato da denuncia).
Non credo, concludendo, che tutto lo sfacelo a cui assistiamo oggi fosse programmato (se è vero il motivo per cui Zuckerberg ha inventato Facebook, si capisce): esso si è gradualmente uniformato al presunto piano di rimbambimento generale, ma solo per effetto delle leggi dell'evoluzione umana che si sono estese alla blogosfera (di fatto Facebook, Twitter & C. sono tutti blog). La casuale invenzione dei social ha manifestato caratteri adatti all'ambiente più della vecchia bloggheria (qui mi leggono in pochi, ma anche i blog storici boccheggiano): narcisismo esasperato, sete di notorietà, senso di autorealizzazione like-dipendente. Evoluzione dell'evoluzione, ecco che dagli anfibi si arriva ai rettili: gli influencer. E gli 'altri', quelli 'sfigati con pochi like' a soffrire ai margini dei social. Visto però che ogni evoluzione è più casuale che altro, pare, non perderei la speranza di qualcos'altro.
(Comunque un rituale propiziatorio lo farei...)