Seneca, De ira 2, 19, 1 e 20, 1-2
Iracundos
fervida animi natura faciet; est enim actuosus et pertinax ignis:… Sed quemadmodum natura quosdam proclives in iram facit, ita multae incidunt
causae quae idem possint quod natura: alios morbus aut iniuria corporum in hoc
perduxit, alios labor aut continua pervigilia noctesque sollicitae et desideria
amoresque; quidquid aliud aut corpori nocuit aut animo, aegram mentem in
querellas parat. 2. Sed omnia ista initia causaeque sunt: plurimum potest
consuetudo, quae si gravis est alit vitium. Naturam quidem mutare
difficile est, nec licet semel mixta nascentium elementa convertere.
Una ribollente natura d’animo rende
iracondi: si tratta infatti di un fuoco pieno di forze e costante… ma come la
natura rende alcuni inclini all’ira, così si verificano molte cause che hanno
lo stesso potere della natura: una malattia o un danno fisico hanno portato
alcuni all’ira, altri la fatica o la veglia continua e le notti inquiete e i
desideri amorosi; qualunque cosa ha nuociuto o al corpo o all’animo predispone
al lamento la mente malata: ma queste sono solo condizioni strutturali e cause
esterne: ha grandissimo potere l’abitudine che, se è gravemente consolidata,
nutre il vizio. Certo è difficile mutare la disposizione naturale e non è lecito
stravolgere gli elementi che sono stati mescolati una volta per tutte al
momento della nascita.
La genesi del difetto morale, a lume
di Scuola Pneumatica via Seneca, è assai articolata: detto che per il
materialismo stoico anche le condizioni psichiche dipendono dalla predisposizione
fisica del corpo, la spiegazione senecana sembra all’inizio assai standard, poiché
l’ira altro non è che la conseguenza di una natura strutturalmente riscaldata. È
il seguito dell’analisi a mostrare aspetti assai interessanti: a fianco della
naturale predisposizione all’ira, intervengono infatti delle cause supplementari
che possono essere interne al corpo (dette anche cause antecedenti) come le malattie
o esterne (dette anche procatartiche), come le lunghe veglie, ma anche fattori
puramente mentali (le sofferenze d’amore). Essendo il corpo e l’anima
specificazioni diverse di una medesima sostanza, l’ira può essere provocata
indifferentemente da fattori fisici o psichici: dal che il seguace dello
stoicismo deve concludere anzitutto che non solo si nasce iracondi, ma
lo si può anche diventare; attenzione quindi a sentirsi troppo sicuri di
sé, credendo che i difetti morali siano sempre riservati agli altri: basta uno
sconvolgimento improvviso di qualsiasi genere e la nostra natura ‘buona’
si può incattivire; in secondo luogo, risulta chiaro che la cura di sé per
prevenire il cedimento all’irrazionalità deve tener conto di entrambe le
dimensioni dell’individuo. C’è però un tratto comune a queste cause dell’ira:
sono di fatto involontarie, dal momento che uno non si sceglie il temperamento
innato, né tantomeno decide di ammalarsi o di subire delusioni d’amore. Altro è
il caso della consuetudo, ovvero della reiterazione volontaria di
comportamenti errati che a lungo andare nutrono il vizio in maniera diversa
dalle cause supplementari. Seneca dice infatti che queste ultime hanno un
potere pari a quello della natura (idem possint), mentre la consuetudo
può tantissimo (plurimum), come a dire che essa riesce a sortire effetti
che vanno al di là della nostra natura. La questione si può spiegare così: le cause
antecedenti o procatartiche sono involontarie e occasionali, durano poco e
alterano momentaneamente la nostra natura, laddove la consuetudo
nutre (alit) il vizio, nel senso che muta lentamente ma inesorabilmente
la miscela degli elementi che ci costituiscono, cosicché una persona non iraconda
per natura lo diventa permanentemente. Ecco in cosa sta il plurimum della
consuetudo: ci fa diventare tutt’altro da quello che eravamo, ma il rischio
è che il mutamento sia irreversibile (il fondatore della Scuola Pneumatica,
seguendo idee già diffuse nel pensiero greco, definiva l’abitudine come una seconda
natura che, se si sovrappone a quella genuina, non è più rimovibile). Detto in
termini informatici, è come se noi ‘sovrascrivessimo’ un nostro nuovo io a
quello innato, cancellando quindi la personalità che ci ha sempre contraddistinti.
Seneca dice che una simile sovversione non è lecita, ma non esclude che essa
possa verificarsi: ancora una volta, tutto ricade nella responsabilità
individuale, perché abituarsi a qualcosa significa sempre scegliere. E non c’è
nessun altro da incolpare al di fuori di noi.
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