Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 1 maggio 2020

S3#8: la forza della (cattiva) abitudine


Seneca, De ira 2, 19, 1 e 20, 1-2 

Iracundos fervida animi natura faciet; est enim actuosus et pertinax ignis:… Sed quemadmodum natura quosdam proclives in iram facit, ita multae incidunt causae quae idem possint quod natura: alios morbus aut iniuria corporum in hoc perduxit, alios labor aut continua pervigilia noctesque sollicitae et desideria amoresque; quidquid aliud aut corpori nocuit aut animo, aegram mentem in querellas parat. 2. Sed omnia ista initia causaeque sunt: plurimum potest consuetudo, quae si gravis est alit vitium. Naturam quidem mutare difficile est, nec licet semel mixta nascentium elementa convertere.

  


Una ribollente natura d’animo rende iracondi: si tratta infatti di un fuoco pieno di forze e costante… ma come la natura rende alcuni inclini all’ira, così si verificano molte cause che hanno lo stesso potere della natura: una malattia o un danno fisico hanno portato alcuni all’ira, altri la fatica o la veglia continua e le notti inquiete e i desideri amorosi; qualunque cosa ha nuociuto o al corpo o all’animo predispone al lamento la mente malata: ma queste sono solo condizioni strutturali e cause esterne: ha grandissimo potere l’abitudine che, se è gravemente consolidata, nutre il vizio. Certo è difficile mutare la disposizione naturale e non è lecito stravolgere gli elementi che sono stati mescolati una volta per tutte al momento della nascita.  

La genesi del difetto morale, a lume di Scuola Pneumatica via Seneca, è assai articolata: detto che per il materialismo stoico anche le condizioni psichiche dipendono dalla predisposizione fisica del corpo, la spiegazione senecana sembra all’inizio assai standard, poiché l’ira altro non è che la conseguenza di una natura strutturalmente riscaldata. È il seguito dell’analisi a mostrare aspetti assai interessanti: a fianco della naturale predisposizione all’ira, intervengono infatti delle cause supplementari che possono essere interne al corpo (dette anche cause antecedenti) come le malattie o esterne (dette anche procatartiche), come le lunghe veglie, ma anche fattori puramente mentali (le sofferenze d’amore). Essendo il corpo e l’anima specificazioni diverse di una medesima sostanza, l’ira può essere provocata indifferentemente da fattori fisici o psichici: dal che il seguace dello stoicismo deve concludere anzitutto che non solo si nasce iracondi, ma lo si può anche diventare; attenzione quindi a sentirsi troppo sicuri di sé, credendo che i difetti morali siano sempre riservati agli altri: basta uno sconvolgimento improvviso di qualsiasi genere e la nostra natura ‘buona’ si può incattivire; in secondo luogo, risulta chiaro che la cura di sé per prevenire il cedimento all’irrazionalità deve tener conto di entrambe le dimensioni dell’individuo. C’è però un tratto comune a queste cause dell’ira: sono di fatto involontarie, dal momento che uno non si sceglie il temperamento innato, né tantomeno decide di ammalarsi o di subire delusioni d’amore. Altro è il caso della consuetudo, ovvero della reiterazione volontaria di comportamenti errati che a lungo andare nutrono il vizio in maniera diversa dalle cause supplementari. Seneca dice infatti che queste ultime hanno un potere pari a quello della natura (idem possint), mentre la consuetudo può tantissimo (plurimum), come a dire che essa riesce a sortire effetti che vanno al di là della nostra natura. La questione si può spiegare così: le cause antecedenti o procatartiche sono involontarie e occasionali, durano poco e alterano momentaneamente la nostra natura, laddove la consuetudo nutre (alit) il vizio, nel senso che muta lentamente ma inesorabilmente la miscela degli elementi che ci costituiscono, cosicché una persona non iraconda per natura lo diventa permanentemente. Ecco in cosa sta il plurimum della consuetudo: ci fa diventare tutt’altro da quello che eravamo, ma il rischio è che il mutamento sia irreversibile (il fondatore della Scuola Pneumatica, seguendo idee già diffuse nel pensiero greco, definiva l’abitudine come una seconda natura che, se si sovrappone a quella genuina, non è più rimovibile). Detto in termini informatici, è come se noi ‘sovrascrivessimo’ un nostro nuovo io a quello innato, cancellando quindi la personalità che ci ha sempre contraddistinti. Seneca dice che una simile sovversione non è lecita, ma non esclude che essa possa verificarsi: ancora una volta, tutto ricade nella responsabilità individuale, perché abituarsi a qualcosa significa sempre scegliere. E non c’è nessun altro da incolpare al di fuori di noi.      

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