Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 14 aprile 2019

Senecana (2). Torniamo alle cose serie.

Certo Il nome della rosa versione 2.0 ha scatenato profluvi di guappidtudine che una quieta disquisizione senecana può solo sognare. Ma tant'è.
C'eravamo lasciati l'altroieri con una sommaria introduzione a quelli che secondo me e la mia Spocchia sono i caratteri che rendono Seneca un grande, anche nelle sue infinite contraddizioni di uomo.
Ora ci occupiamo di aspetti del pensiero del Nostro che non sempre sono stati messi adeguatamente in luce, per il semplice motivo che nessuno se n'era occupato prima di un certo individuo. Ovviamente le teorie di costui hanno suscitato pareri contrastanti, per il semplice motivo che nel dibattito delle idee è del tutto impossibile ottenere il plauso di tutti, poiché significherebbe che non c'è più nulla da cercare. Solo con il dissenso può infatti generarsi quella sana tensione dialettica che apre nuove vie della conoscenza anche là dove sembra che sia stato tutto detto.
Facciamo un passo indietro, perché per capire un certo Seneca bisogna retrocedere a circa 4 secoli prima. Solo pochi ingenui presentisti, infatti, alcuni dei quali diedero gran prova di sé ai festivàl filosofici da noi assiduamente frequentati, avrebbero il coraggio di dire che mai prima dei decenni di nostra esperienza biografica il mondo ha conosciuto la globalizzazione. Meglio: questa globalizzazione, viste le condizioni di massmediatismo imperante, è certamente senza precedenti, ma da qui a dire che MAI prima di questi anni regioni del mondo storicamente non comunicanti hanno provato a comunicare è affermazione rischiosetta.
Grazie alle conquiste di Alessandro Magno, infatti, il mondo greco aveva innervato di sé, lasciandosene innervare a sua volta, il mondo orientale (Egitto, Asia minore, Asia interna) con risultati in termini di progresso culturale, scientifico spirituale semplicemente mostruosi. Le parole chiave di quest'epoca sono, a lume di Spocchia, le seguenti:
- cosmopolitismo, ovvero il fatto che un individuo grecofono poteva sentirsi cittadino di un mondo ben più grande della piccola Grecia dei tempi che furono; poiché il greco si apprendeva come oggi si impara l'inglese, ciò comportava l'aprirsi di strade non solo fisiche che portavano l'individuo a far parte di una comunità culturale transnazionale.
-sincretismo, dicasi la fusione naturale tra elementi culturali che di fatto erano nati per fondersi, solo che si manifestasse l'agente agglutinante: sotto la superficiale, progressiva assimilazione, tanto per dire, di divinità appartenenti a pantehon diversi (Iside-Selene-Astarte, tanto per dirne una) non faceva altro palesarsi la comune appartenenza di questi popoli alla Mezzaluna fertile sin dai tempi del neolitico, ciò per cui esseri supremi tutti legati al ciclo della vegetazione e ai fenomeni atmosferici si affratellavano al di sopra delle singole culture di elaborazione.
- relativismo: inevitabilmente, la presenza di diversi sistemi di valori coesistenti e tra loro conflittuali crea la problematica dell'esistenza di un gruppo di verità uguali per tutti al di là delle singole visioni del mondo. Ci si può certo isolare in un mondo autonomo e autogiustificante, ma come fare di fronte alle 'verità' altrui? Cercare il compromesso, cedendo parte delle proprie certezze per giungere a nuova sintesi? Oppure accettare il fatto che i recinti delle singole verità possono toccarsi senza confondersi, in ciò riconoscendo che una certezza assoluta non esisterà mai? 
- inquietudine: strano a dirsi, ma nemmeno troppo. Da un lato, un mondo in cui una lingua, e una cultura, sovranazionale si sovrappongono ad altre senza cancellare il sostrato precedente; dall'altro, il mondo da cui quella lingua nasce sperimentava una condizione che nell'immaginario collettivo della sua popolazione sembrava retrocessa per sempre nel mito: non più cittadini, ma sudditi di sovrani sempre in lotta fra loro per espandere il proprio dominio ai danni dei vicini. Un clima che, unitamente ai fattori di cui sopra, non può che provocare nei singoli un certo smarrimento, nonché una crescente insicurezza circa il proprio futuro prossimo e remoto. Impossibilitato a decidere autonomamente il proprio destino, costretto a delegare pace e libertà ad un' autorità lontana, l'uomo ellenistico esprimerà istanze esistenziali parzialmente nuove rispetto al passato, e le filosofie dell'epoca saranno lì pronte a rispondere in un modo che merita certamente attenzione.
Parliamo evidentemente di Epicureismo e Stoicismo, le quali, in disaccordo pressoché su tutto, concordano tuttavia in cima e in fondo:
1) il principio del mondo è unicamente materiale, negandosi di rincalzo la possibilità di una dimensione metafisica oltre quello che si vede.
2) il fine della filosofia è un'etica che dimostri come solo una vita secondo natura, immune dai desideri eccessivi che sconvolgono l'anima, possa dirsi autenticamente felice.
Sorvolando evidentemente su tutti i dettagli che sarebbe lungo ripassare, la certezza di questi filosofi circa la possibilità di mettere a punto una 'cura' per le inquietudini della vita riposa appunto sulla non-metaforicità del concetto stesso di cura: l'anima si può curare come un corpo perché essa stessa è di fatto un corpo fisico, costituito da atomi secondo gli epicurei, da pneuma secondo gli stoici. E' cioè relativamente più 'semplice' rapportarsi con un'entità che non è astratto ed impalpabile spirito, ma corporea, benché intangibile, sta da qualche parte dentro di noi e quindi può essere in qualche modo 'trattata'.
Il ragionamento è ai suoi fondamenti piuttosto lineare: guardando in casa epicurea, un'anima fatta di atomi deve essere mantenuta in uno stato di a-tarassia, intendendosi in ciò uno stato di relativa quiete degli atomi spirituali, ottenibile riducendo il novero dei desideri da soddisfare a quelli strettamente naturali e necessari. L'ingresso nell'anima di desideri eccessivi (come quello smodato di ricchezza, per dire) sortisce l'effetto di una palla da biliardo che all'improvviso venisse lanciata sul tavolo, andando a scontrarsi con le altre e provocando una serie di tamponamenti a catena che genererebbero la più totale confusione. Ecco, basta sostituire le palle del biliardo con gli atomi e il quadro è chiaro: il normale fluttuare degli atomi psichici, disturbato da un'onda di immagini legate a oggetti, e quindi a desideri, che non si è stati in grado di filtrare, diventa d'un colpo vorticoso e ingestibile, traducendosi nell'ansia di vivere che rovina se stessi e qualsiasi rapporto con altri.
Per gli stoici il discorso è simile: immaginando l'anima come un flusso energetico dotato di giusta tensione, se per qualche motivo uno stimolo esterno si imprime con forza eccessiva su questa sorta di 'corda' e ne altera il tono, l'individuo non è più in grado di discernere il bene relativo da quello assoluto e soprattutto si convince che nella vita qualcosa o qualcuno possa provocargli il male, elemento che non dovrebbe trovare cittadinanza nel razionale universo stoico. Ecco quindi perché l'immunità dalle passioni raccomandata da questa scuola si chiama a-patheia: pathos indica qui, etimologicamente, qualsiasi condizione in cui l'anima 'subisce' una pressione dall'esterno e si deforma, anche in questo caso trattandosi di qualcosa di meno che una metafora e più vicina all'analogia coi fenomeni del corpo, dal momento che gli eventi esterni lasciano la loro impronta sulla psiche esattamente come il pollice si imprime sulla cera. Tenendo quindi ben allenata l'anima, in modo che non perda il suo tono e non si indebolisca, si dovrebbe in teoria essere in grado di respingere ogni negatività, o vedere positività in eccesso laddove non c'è.
Vista quindi l'estrema 'fisicità' delle terapie spirituali di queste due filosofie, nessuno stupore che da esse germogliassero altrettante scuole mediche.
                                                                                                                    (2- continua)


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