Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 24 novembre 2019

Visti per voi: "Miserere", quando trionfa la privativa del dolore.

Eravamo a Trieste senza bora, con un tramezzino sullo stomaco a cena (e sarde in saor + frittura mista FRESCA a pranzo), gli occhi pieni degli splendori di palazzo Sartorio e Museo Revoltella (ANDATECI!!!): restava da digerire il tramezzino. E a Trieste, scoprimmo, ci sono qualcosa come QUATTRO cinema in circa 250 metri. Città sublime.
Fatta la rapida cernita, decidemmo ovviamente di farci del male scegliendo il cinema monosala intitolato a Federico Fellini, dichiaratamente cinema d'essai. E come ci insegna il Maestro, tra l'essai e l'assai il salto è breve, quindi ci sedemmo assai speranzosi in sala (comodissime poltrone peraltro, appena nei cinema di Brescia mi mangio le ginocchia tutte le volte...), pronti ad assistere ad una cosa dal titolo promettente: Miserere. Non ho capito per che motivo, ero convintissimo che si trattasse di un filmone francese à la manière de Samuel Benchetrit (tipo questo... brrrr), a ciò indotto dalla faccia da dottor Morte del protagonista stampata sul manifesto.



Invece era molto di più, molto meglio e molto peggio.
Molto di più, perché il tasso di sfigaggine dei personaggi del film di Benchetrit è qui tutto riunito nell'unico, titanico protagonista, un uomo capace di far intristire un charter intero di Patch Adams con un solo sguardo.
Molto meglio perché, rispetto alla trama squagliarola del film francese di cui sopra, qui la storia procede serrata, gelida, angosciante, fino al botto finale.
Molto peggio, perché la storia dell'anonimo protagonista (NESSUNO dei personaggi della pellicola ha un nome proprio, il che la dice lunga) uccide discretamente la fiducia nel genere umano.
Ma tant'è.
Siamo in Grecia, e siccome il film è d'essai ci godiamo la versione in lingua ORIGINALE NEOGRECA con sottotitoli, apprezzando la cadenza tombale dell'idioma dei discendenti di Omero, Pindaro e Sofocle. C'è quest'uomo, che di professione fa l'avvocato, in gocciolante depressione perché la moglie è in coma in seguito ad un'aggressione o giù di lì. Nel chiuso della sua cameretta, il tapino piange, comprensibilmente costernato, ma nei suoi rapporti con gli altri esibisce al contrario una freddezza disperata (o disperata freddezza) che si mischia, pare di capire, ad un sotterraneo compiacimento nel venire commiserato da tutti, dalla vicina del piano di sotto, che si è messa a preparare una torta a settimana e viene fatta aspettare apposta davanti alla porta nonostante abbia suonato il campanello, al proprietario della lavanderia che, straziato al vedere la massa di abiti luttuosi portati a lavaggio ("i medici hanno perso le speranze, sa..."), decide addirittura di fare sconti al tapino (roba tipo da 42 a 20 euro IN GRECIA, ridotti alla fame come sono...). Al treno si aggiungono il padre, che normalmente, come si deduce più avanti nel film, non si fila mai di pezza il figlio, poi la segretaria poco espressiva ma tanto abbracciosa (da cui lui adora farsi abbracciare pur mantenendo la faccia tapina) e l'amico della spiaggia. Tanto per essere allegri, il tapino ha preso in carico il caso di un omicidio ai danni di un anzianotto la cui figlia e il cui genero sono tanto disperati, e in qualche modo gli fanno da pietra di paragone per attapinarsi vieppiù.



Sta di fatto che la trama si svolge tutta stampata nell'immutabile faccia da funerale del protagonista, che addirittura, quando gli eventi prendono una certa svolta (sorry, no spoiler here...), non aggiorna la frequenza della tristezza, anzi quasi si dispiace di non poter più farsi commiserare e cerca quindi di tener viva la fiamma di morte della musoneria (ecco spiegato l'abbandono in mare della cagnetta, dichiarando però di averla persa nel bosco, per cercare compassione da parte del padre che invece gli volta le spalle)(ecco spiegato il quasi-stalking con la vicina del piano di sotto, che ha smesso di sfornare torte)(ecco spiegata la richiesta all'amico della spiaggia di avere una simpatica - e illegale- bomboletta di gas lacrimogeno da far scoppiare in studio giusto, per piangere un po'...)(s'era detto niente spoiler)(ok). Finché, per essere sicuro di farsi compatire usque ad consummationem vitae, il tapino prende la decisione estrema. D'altronde è uomo di legge, saprà come cavarsela. 
La storia è scioccante dall'inizio alla fine, mai del tutto prevedibile, nonostante il ritmo sia inevitabilmente funereo non ci si annoia, forse perché la media attesa dello spettatore medio (anche al cinema d'essai) si attende sempre la svolta in storie del genere. Certo, non questa svolta.




Niente da dire sull'attore, perfettamente calato in una parte non facile. Sceneggiatura ottima, direi, se ne sapessi qualcosa, ma mi fido di chi ne sa. Saremmo in Grecia, ma le luci in tutto il film sono fredde e taglienti, anche quando il tapino è in spiaggia.
Mi stupisce semmai il fatto che il film mi arriva in tackle su un post a cui stavo lavorando e che adesso sviluppo qui...
[Agganciamento!!!][ahhhh....]
E' da un po' di tempo che mi interrogo su un problema che rampolla dalla lettura di certi classici latini. Ci sarebbe una commedia di Terenzio (II sec. a.C.) nella quale un tizio vede il suo vicino di casa spaccarsi la schiena di lavoro 24/7 e non capisce perché, allora glielo chiede. L'altro gli ribatte chiedendogli a sua volta per quale motivo gli interessino la vita e la sofferenza di un uomo che conosce appena, al che il tizio predetto ri-ribatte con una frase divenuta celebre, in quanto costituisce il fondamento di tutto l'umanesimo occidentale e anche un po' più in là: homo sum, humani nihil alienum a me puto ("sono un uomo, non ritengo che nulla di umano mi sia estraneo"). Entra in scena, letteralmente, l'idea di empatia, di condivisione emotiva basata sul riconoscimento dell'altro in quanto persona come me, quindi strutturalmente degna di compassione & comprensione. Roba nota, si dirà, ma per l'epoca era un discreto siluro all'idea che prima venisse il cittadino e poi l'individuo.
Ecco, il film di cui sopra mi pare l'esatto rovesciamento del paradigma terenziano: "Sono uomo e voglio che tu mi compatisca perché se io soffro è giusto che debba soffrire anche tu, ma soprattutto solo io sono degno di compassione e fuori dalla bolla del mio dolore non ne esiste uno paragonabile. Tu dunque, finché sarò infelice io, non potrai mai avere diritto ad una felicità tua. Ma soprattutto, non aspettarti mai che io compatisca per qualche motivo te".



Si dirà che questo è un ritratto abbastanza corrispondente al tipo (o a uno dei tipi) del cosiddetto vampiro emotivo. Può essere. Ciò che però mi colpisce del vampirizzamento emotivo non è tanto il desiderio insaziabile di essere compatito, ma l'incapacità assoluta di compatire a propria volta. Il fatto è che questo secondo aspetto del carattere dei cosiddetti vampiri emotivi è in realtà comune anche a gente che vampira non è: ci sono persone che non chiedono di essere compatite, ma piuttosto ritengono di passare o aver passato tali e tante disavventure (vere o presunte, s'intende) da sentirsi in diritto di non concedere a nessuno non solo la compassione, ma nemmeno l'ascolto. Delle monadi assolute.
Questa tipologia di individui mi addolora ancor più dei vampiri emotivi, perché si chiude totalmente sulle proprie esperienze pregresse e non sente altro; è come se il loro Io fosse regolato su una sorta di 'frequenza' del dolore che provoca sordità rispetto a tutte le altre. Non li sentirete mai dire: "Nessuno mi capisce", perché non sentono il bisogno di essere capiti. Casomai, qualora provaste a manifestare un vostro qualsiasi disagio, la loro risposta standard sarà: "Ma cosa vuoi che sia, con quello che sto passando/ ho passato io...". A differenza degli individui privi di empatia, che neanche si accorgono che un altro soffre, costoro sono piuttosto sono auto-patici: si accorgono che l'altro soffre, e probabilmente capiscono anche la sofferenza, ma non sentono il bisogno di ascoltare o aiutare a lenirla. Ma anche quando non la capiscono, non lo fanno per incapacità: sono, come dire, già saturi della propria e non hanno spazio per quella altrui.



Il che obbliga naturalmente ad almeno una distinzione: un conto sono gli individui reduci da un dolore recentissimo e devastante, che come feriti gravemente non possono guardare fuori di sé perché devono anzitutto guarire sé medesimi. Pretendere da costoro che si accorgano anche del dolore altrui, in questa fase, è in effetti troppo. Certo, il tapino del film di cui sopra estremizza fino a metà film questa condizione: passi la momentanea interruzione del'empatia, difficile accettare la pretesa che il proprio dolore vada ad infettare la serenità degli altri, perché si presupporrebbe che tutti gli altri siano felici tranne me che soffro, quindi è giusto che, nel compatirmi, soffrano un po' anche loro. Niente di più egoistico.
Altra questione, tuttavia, è quella che si pone quando le cause e gli effetti del dolore, stoicismo alla mano, dovrebbero essere estinti da mo': sempre stoicismo alla mano, dopo un certo tempo, la ferita dell'anima si rilassa e anche se il rammarico del dolore passato rimane, l'assenza delle medesime circostanze che l'hanno prodotto dovrebbe consentire di ri- connettersi al mondo, esattamente come una ferita rimarginata non si riapre se uno non si taglia di nuovo. Qui però l'individuo auto-patico cade catastroficamente e, pur avendo (forse) elaborato a sufficienza la sofferenza passata, la ritiene così oltre rispetto a qualsiasi sofferenza altrui da non giudicare quest'ultima degna delle benché minima attenzione. Il che, finché si è tra pari, è già negativo, perché di fatto si ammazza l'empatia, ma l'altrui sofferente si suppone abbastanza maturo da riuscire a farsi una ragione dell'indifferenza dell'interlocutore auto-patico e abbastanza scafato da cercare qualcuno che sappia cos'è la comprensione. Il dramma vero è quando c'è una relazione asimmetrica, ad esempio quella genitori- figli: è evidente che un adulto non può accettare come dotate di fondamento tutte le lamentele di un giovane, ma dismettere regolarmente ogni segnalazione di disagio con la formuletta: "Eh, ma io alla tua età... con quello che ho passato... ma di cosa ti lamenti...?" è un modo eccellente per distruggere le relazioni. Io credo che non ci dovrebbe mai essere una hit parade del dolore: ogni dolore è dolore della coscienza individuale, dipende anche dalle circostanze storiche e biografiche del sofferente, nel senso che ad età diverse possono esserci scale di dolore diverse. Si può anche ritenere il dolore altrui meno grave del proprio, ma questo fatto non è di per sé sufficiente a dire che l'altro non soffre o non merita comprensione e/o aiuto, né tantomeno compiacersi segretamente del fatto che "soffri un po' anche tu come ho sofferto io, così vedi come si sta". Purtroppo l'individuo auto-patico fa proprio tutte queste cose, e difficilmente dubita di essere in torto. La domanda è appunto: si può regolare la frequenza del dolore di costoro per, diciamo così, abbassarla e renderla psichicamente meno assordante, cosicché riescano una buona volta a sentire il dolore degli altri? O si deve essere costretti ad 'alzare' la propria frequenza, rischiando però di teatralizzare la sofferenza e renderla bombastica e quindi ancor meno convincente ai loro occhi? O si deve rinunciare?
E' il problema delle relazioni affettive monodirezionali in cui il monodirigente non si accorge di monodirigere senza MAI ricevere in cambio. Oddio, che poi, ricevere in cambio quel che dà il tapino del film... magari anche no...

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