Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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mercoledì 22 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia2021 #1: Adelante, Pedro, con juicio (o dell'uso sapiente della maschera).

 

Relatori decisamente in forma al Festivàl tricittadino. Certo, alcune conclusioni ci perplimono, ma è il bello dello spirito critico.

 

 

A Sassuolo la prof.ssa Barbara Carnevali opina a proposito del possibile ‘uso intelligente’ della maschera in senso esistenziale (sì, Carnevali parla di maschere, non è una battuta). Parto dal fondo, cioè dal mio personale e spocchioso giudizio: la soluzione proposta dalla relatrice è certamente interessante, ma cela in sé dei rischi che secondo me non sono stati sottolineati adeguatamente.

Va però detto che, perlomeno, la dotta conferenza non è caduta nella trappola in cui spesso i conferenzieri si auto-intrappolano, ovvero spendere quattro quinti del tempo a delineare la storia del problema e tutte le sue sfaccettature, salvo poi guardarsi accuratamente dal chiudere con una propria proposta in materia. Carnevali propone. Non mi ha convinto del tutto, ma propone.

 


 

C’è la maschera ‘fisica’, indossata dagli attori di teatro nell’antichità, soppiantata poi, in epoca moderna, dalla faccia vera e propria degli attori, che quindi non affidano alla sola gestualità il messaggio (visto che la maschera è, evidentemente, a espressività fissa), ma integrano il messaggio stesso con la mimica facciale. Qui, non prima, non dopo, si colloca secondo Carnevali la svolta, in corrispondenza peraltro con l’affermarsi, nella civiltà cinque-seicentesca, del culto dell’apparenza, della sprezzatura, in una società in cui i rapporti interpersonali sono caratterizzati da tutta una serie di ritualità & convenzioni che danno vita a quello che tutti noi abbiamo imparato a chiamare il teatro del mondo. Di fatto, qui si realizza la perfetta aderenza tra il latino persona (= maschera) e l’idea moderna di persona: la persona “recita” nella sua stessa vita. Finzione e realtà non hanno più la maschera a separarle.

 


E oggi?

Siamo un po’ tutti in scena, ogni giorno. Siamo attori sociali. In uno scenario decisamente dualistico. La nostra società, mercé i social network, gioca tantissimo sulla visibilità che rende gli instagram -addicted (e simili) ‘soggetti’ in due sensi, ovvero ‘attori protagonisti’ dell’identità che decidono di costruire sul social, ma anche ‘sottoposti’ alla vista di un pubblico dai cui giudizi ci si può sentire drammaticamente condizionati. In questo caso si perde del tutto, o quasi, il controllo della propria immagine (do you remember il film Birdman?). “Esporsi”, del resto, significa “porsi fuori” (ex- ponere) di sé, aprirsi, esibire il proprio profilo, ma anche “offrirsi agli altri”, “mercificarsi” (gli influencer, del resto...). La ‘visibilità’, insomma, va intesa in due sensi (vous vous souvenez du Panopticon di Foucault?): farsi vedere o essere catturati dallo sguardo altrui. Del resto la maschera stessa si presta ad un’ambiguità assai interessante: si consideri infatti che un conto è la maschera che riproduce un determinato volto (e che viene esibita sui social) un altro è la maschera che, anche nei migliori carnevali (con la minuscola) della Serenissima, serviva all’esatto proposto, ovvero a celare la propria identità. In altre parole, questa maschera non serve ad esibirsi, quanto piuttosto a proteggersi (¿Recuerdas La casa de papel?). Sta a noi scegliere quanto esporre e quanto nascondere. 

 


La maschera, Pirandello docet, è il portato necessario dell’esigenza di essere ‘riconosciuti’ dalla società: siamo artificio di noi stessi per stare al mondo, di fronte al pubblico anzitutto costituito dalla nostra sensorialità corporea (noi ci autopercepiamo come maschere, siamo attori e spettatori di noi stessi), poi a quello esterno. Il che ovviamente comporta il rischio di di moltiplicarci in una pluralità di persone diverse e il problema sarebbe “tenere il filo” di tutte queste facce. Ci vorrebbe una sorta di “maschera delle maschere” che gestisca il tutto. Una "maschera trascendentale", mi verrebbe da dire.

 


E’ a questo punto che Carnevali svolta: in luogo di prodursi in un anatema contro la società della maschere, la docente, dismettendo il concetto cristiano-romantico di identità (ovvero la capacità di distinguere sempre il volto vero e la maschera finta), propone alla tedesca la Maskenfreiheit, ovvero la “libertà della maschera” o la “libertà mascherata”. Si tratta di una sorta di ‘ritorno’ al teatro del mondo di cui sopra. Che male c’è, opina Carnevali, a ‘giocare’ con le maschere? Esse, in luogo di annullare la nostra identità, ci aiutano al contrario a non restare ‘intrappolati’ in un unico modo di essere, quello che noi riteniamo corrispondere al nostro vero io, ma che può risultare assai limitante. Perché non aprirsi a nuove esperienze ‘indossando’ maschere che ci fanno superare limiti che la nostra identità standard non saprebbe affrontare? Scegliersi un modello e imitarlo, uscire dal noto per vedere se nel meno noto si possono trovare magari nuovi stimoli che vadano ad arricchire il nostro bagaglio identitario, why not? Fuori dalle convenzioni imposte, liberi di scegliere nuove possibilità (seguono esempi presi dal mondo delle Drag queen e del Queer, con accenni alla questione della fluidità di genere). Trasgressione a parte, che bello dev’essere gettare la maschera del quotidiano e indossarne una nuova e più appagante? (Erinnern Sie sich an Thomas Manns Der Zauberberg, quando Hans Castorp ci prova con la tizia?). Il Carnevale non è del resto sospensione momentanea dell’identità? Insomma, mi permetto di interpretare il Carnevali-pensiero, senza che fischi nessun treno, fate come Belluca, scardinate per un attimo il vostro io asfittico e diventate qualcun altro. Per poco. Magari. Ma trovatevi un ruolo che vi appaghi. Che la cosa serva a conoscere persone nuove o al contrario ad essere finalmente lasciati in pace da chi è abituato alla versione standard di noi, basta che funzioni. Carnevali dissente dai pensatori cattolici & romantici che raccomandavano di gettare le maschere per mettere a nudo il vero Io. Moltiplichiamo le identità mascherate, casomai: QUESTA è libertà dai condizionamenti. Dice lei.

 

Ecco.

Carnevali ha ammannito la sua proposta con un sorriso soave, certa e fiduciosa di una soluzione che va un po’ a rompere la solita polemica sulla società finta & plastificata che ci tiriamo dietro da almeno 40 anni. O meglio: non è detto che in questa società finta sia impossibile, saltabeccando di maschera in maschera, trovare più appagamento che alienazione. Certo, il fatto di appellarsi a quel rutilante carnevale perenne che era la società cinque-seicentesca può rendere, con amabile ossimoro, la sua proposta innovativamente regressiva. Ma ciò che ci perplime di più è la fiducia carnevaliana nella possibilità di giocare con le maschere senza venirne sopraffatti. Nel caso della maschera come garante dell’anonimato, credo che il fenomeno hikikomori abbia già suorpassato a destra la questione posta dalla professoressa: oggi si può scomparire al mondo semplicemente non uscendo di casa e affidando al web i contatti selezionati con l’esterno. Quanto alla maschera come ‘avventura’ fuori dalla piattezza dell’io standard, la dotta conferenziera mi è sembrata avere la certezza che, quale che sia la maschera-modello che cercheremo di assumere, saremo sempre in grado di percepire il limite tra l’imitazione e la perdita della nostra identità. E qui mi permetto di dissentire. Come la spocchiologia più avanzata ha indagato a partire dalla metà degli anni ‘90 del secolo passato, il problema in una società così morbosamente fissata nello stabilire modelli cui la massa deve adeguarsi è legato alla capacità dei singoli di interagire con la radianza dei modelli stessi. Io posso scegliere – seguo la tesi carnevaliana – un attore famoso, un cantante, uno sportivo e fare di lui un paradigma per la mia maschera. Affinché la radianza di costui non risulti dannosa per la mia identità, è necessario che il paradigma rimanga settato sulla modalità ‘generico’: io posso desiderare di essere ‘come lui’, adeguando cioè gli stimoli che da lui derivano alla mia irripetibile unicità. Un lavoro di sintesi che mi porta ad allontanarmi dalla mia comfort-zone identitaria per arricchirmi. Peccato, e qui dissento da Carnevali, che per le più varie circostanze (un momento emotivamente difficile, la scelta di un paradigma troppo arduo da imitare o al contrario un fascino paradigmatico fin eccessivo da costui esercitato) possa avvenire che il paradigma generico diventi modello specifico: io non voglio essere ‘come lui’; io voglio essere LUI. Di qui un’alienazione identitaria dalle conseguenze potenzialmente devastanti: basterebbe citare i casi di anoressia legati alla volontà irrazionale di adeguarsi ai modelli di bellezza incarnati (o in questo caso sarebbe meglio dire scarnificati) dalle modelle filiformi.

Non so quindi quanto la proposta di Carnevali sia applicabile senza rischi: anzitutto, per decidere di ‘mascherarmi’, devo provare una certa insoddisfazione per ciò che sono e un desiderio di evoluzione. Fisiologico, si direbbe. Necessario, anzi. Certo: basta che il desiderio venga più da dentro che da fuori. Più chiaramente: è difficile che un desiderio paradigmatico sorga dal niente all’interno di una qualsiasi coscienza, poiché è sempre l’interazione col mondo esterno a definirci e provocarci al cambiamento. Sarebbe però opportuno che questo stimolo esterno incontri una fase di ridefinizione interna dell’identità che sente di aver raggiunto determinati limiti e desidera ampliarsi. Io posso piacermi come sono, ma sentire che posso essere anche qualcosa di più ad integrazione di quello che già sono. Me lo sento io, me lo dice il mondo esterno e io accolgo il suggerimento. Scelgo il paradigma che mi aiuta a fare il salto e va tutto bene. Altro caso è però quello in cui il bombardamento di stimoli esterni arrivi a minare la certezza di ciò che sono stato sin qui, facendomi sentire d’un colpo inadeguato, limitato, perdente. Come se tutto il tempo passato fosse stato un gigantesco spreco, decido che ciò che sono e sono stato è un’identità insopportabile, asfittica, inutile. Di qui la disintegrazione della barriera tra me e il paradigma e il mio precipitare- annullarmi su di lui, divenuto nel frattempo modello specifico. Su questo Carnevali ha trasvolato un po’ troppo. Cambiamo pure maschere, basta che la faccia (= l’identità) sottostante non si disintegri. Sennò ti saluto “uso emancipatorio e creativo offerto dalla finzione”. Ricordate Face off con John Travolta e Nicholas Cage? Ecco.

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