Introduzione
Considerando che ormai l’aggettivo ‘quantistico’ si porta un po’ su tutto (come l’autodiagnosi di sindrome di Asperger, che pare faccia molto fino…) è forse il caso di chiedersi se esso possa o non possa quagliare con il sostantivo ‘umanesimo’. La fisica quantistica è, al momento, il massimo vertice mai raggiunto dalle scienze sperimentali, vale a dire il punto attualmente più all’avanguardia, il più dinamico, il più aperto alla novità, visto che nel mondo dell’infinitamente piccolo le leggi che governano il mondo dei fenomeni sembrano (o sono) del tutto sovvertite. Sull’altro versante sta la perennità delle costanti dello spirito umano quali l’umanesimo va indagando da quando esiste il pensiero astratto: esteriormente, cioè, un mondo, più che immutabile, ‘tradizionale’, o perlomeno radicato in un sistema di pensiero molto antico (‘vecchio’ lo definirebbero i detrattori) che risulterebbe a tutta prima incompatibile con la pirotecnica parata di sconvolgenti novità che il mondo quantistico offre a scienziati e (per chi ci capisce qualcosa) opinione pubblica. Può dunque la forma mentis quantistica intercettare quella umanistica, producendo un’ibridazione di cui studiare le caratteristiche?
1.
Anzitutto sarebbe opportuno abbattere il primo degli steccati umanesimo/scienza, ovvero la convinzione che i due àmbiti non abbiano mai avuto molto da condividere (almeno fino allo sviluppo delle neuroscienze) perché impegnati ad esplorare dimensioni del reale troppo lontane tra loro (l’anima dell’uomo e le relazioni interpersonali da un lato, le leggi della materia dall’altro). È un fatto ad esempio che, proprio negli anni in cui l’ancor giovane fisica quantistica metteva in crisi le certezze di quella classica, la letteratura, anche sulla scorta delle scoperte della psicoanalisi, smontava l’idea di un Io individuale monolitico e perfettamente conoscibile, ponendo l’umanità di fronte allo scenario vertiginoso della frantumazione dell’anima e della perpetua mutevolezza dei singoli sia in rapporto a se stessi (il me di oggi potrebbe non essere riconosciuto dal me di domani) che in rapporto agli altri (siamo ciò che gli altri percepiscono di noi). Dei romanzi di Proust, per esempio, si è detto che hanno applicato in letteratura le leggi della relatività generale; di recente il pirandelliano Uno, nessuno e centomila è stato più e più volte citato da C. Rovelli come esempio di narrazione in senso quantistico della realtà, poiché secondo il professore la fisica quantistica ci insegna che non ha più senso cercare il principio ontologico autosussistente del reale, laddove tutto ciò che esiste deve la propria esistenza solo all’entrata in relazione con qualcos’altro. Così noi crediamo di essere unici e perfettamente solidi nella nostra autopercezione, ma poi ci accorgiamo che i centomila modi in cui gli altri ci considerano rendono di fatto insussistente la nostra presunta essenza permanente, della quale noi pure siamo all’oscuro. L’anima, non appena tenta di individuare se stessa al di sotto dei propri processi, diventa trasparente a se stessa: ‘sente’ di operare, ma non ‘vede’ sé stessa in quanto soggetto operante. Il che, per inciso, va a demolire d’un colpo due colonne portanti dell’umanesimo occidentale: il socratico ‘conosci te stesso’ e il cartesiano ‘cogito ergo sum’. Conoscere la propria essenza profonda è impossibile e il solo atto del pensiero non è garanzia di essere finché non si attiva la relazione con qualcos’altro.
Non può quindi negarsi che ci sia una certa pervietà reciproca tra filosofia, letteratura e fisica quantistica. Le provocazioni che quest’ultima lancia alle prime due possono spingersi oltre?
2.
Per rispondere al quesito, bisogna ripartire dai fondamenti dell’Umanesimo occidentale, riassumendoli per pura comodità in due grandi macro-aree, quella classica e quella cristiana. L’operazione, che si rende quantomai schematica per esigenze argomentative, porta ad isolare due tipi di metafisica: la metafisica dell’Essere assoluto e immobile, caratteristica della speculazione greca in particolare di Parmenide e Aristotele, e la metafisica dell’Essere come Relazione, nella quale al vertice del processo di generazione del tutto non si colloca un impersonale Motore immobile (creatore e amato dalle sue creature, ma non a sua volta amante di esse), bensì un Dio-persona che ama anzitutto nella propria trinità e per conseguenza ama il creato, quest’ultimo rappresentando una sorta di tracimazione ontologica della relazione d’amore che l’Essere supremo vive al proprio interno (il Padre ama il Figlio – e viceversa – tramite lo Spirito Santo).
Nel pensiero greco, si tratti della dialettica perpetua dell’Uno metafisico e della Diade di grande-e-piccolo, dell’attività di un Demiurgo, dell’emanazione dell’Uno plotiniano, ma pure, ove si guardi a filosofie antimetafisiche, alla forza creatrice del logos stoico o all’energia che fa aggregare gli atomi (e tralasciamo i presocratici) tutto lo sforzo del pensiero è volto alla ricerca del principio originario (archè) dal quale tutto si genera. Alla base di ciò che esiste deve collocarsi un Essere (siano atomi, pneuma caldo aeriforme, idee intelligibili) che nei più vari modi dà forma e senso a tutte le cose. Resta inteso che questa fonte suprema che garantisce la sussistenza dell’universo e dei suoi singoli elementi non agisce per amore di ciò che crea. Anche la dinamica di Amore-Odio che fa evolvere le relazioni tra gli elementi secondo Empedocle non può ricondursi ad una volontà divina paragonabile al Dio delle religioni monoteiste, risultando piuttosto un processo immanente ai semi stessi delle cose. L’Essere classicamente inteso agisce su una materia preesistente (la creazione ex nihilo non è infatti contemplata) come una forza strutturante. Non c’è il nulla semplicemente perché la materia e l’Essere sono eterni. In cosa quindi la metafisica della Relazione potrebbe superare uno schema che pare così inattaccabile, pur nella varietà degli esiti speculativi?
La risposta si può trovare in maniera sufficientemente esaustiva nel Paradiso dantesco, esattamente all’inizio e alla fine della cantica. L’esordio, celeberrimo e qui riportato solo per comodità, del canto I recita:
La gloria di Colui che tutto move
per l’Universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.
A ribadire l’incolmabile distanza tra Creatore e creato, Dante sottolinea che la gloria divina non è distribuita uniformemente in tutto l’universo, giacché l’Empireo non può certo essere paragonato a nessuno dei nove cieli del Paradiso, né questi alla Terra. Del resto, se la gloria divina fosse al contrario presente in ugual misura ovunque nel creato, cesserebbe qualsiasi trascendenza, poiché tra Dio e ciò che da Lui deriva non esisterebbero fattive distinzioni: Dio sarebbe semplicemente Tutto in tutto.
L’aspetto utile ai fini del mio discorso è però un altro: Dio è definito tramite perifrasi ‘Colui che tutto move’, espressione ineccepibile dal punto di vista aristotelico- tomistico, giacché Dio è motore, ovvero creatore e fine supremo del divenire di tutto il cosmo, come poi Beatrice avrà modo di spiegare a Dante per tutto il canto. Al di sopra dei drammi umani esibiti in Inferno e Purgatorio, il Paradiso assicura subito che Dio è ovunque ma in diversa misura, e tuttavia è ‘vicino’ tramite la Sua gloria alle cose che ha creato. Forse il lettore dantesco avrebbe voluto qualcosa di più che sentirsi ‘toccato’ dalle propaggini di questa luce gloriosa.
Questo ‘qualcosa’ si farà attendere fino alla fine del viaggio paradisiaco, cioè fino al canto XXXIII. Qui Dante, dopo la preghiera di S. Bernardo che gli ottiene l’intercessione della Vergine Maria, può sprofondare intellettualmente nella contemplazione dell’essenza di Dio che gli si rivela in tre tappe successive, corrispondenti all’approfondirsi delle facoltà di visione trasumanata: dapprima il poeta vede che all’interno di Dio si trovano i principi di tutte le cose che esistono dell’universo, legati tra loro come pagine in un volume (similitudine che più medievale non potrebbe essere). Successivamente, con un celebre paragone che per evidenti ragioni sfida la logica della geometria, Dante vede tre sfere – o cerchi – che pur essendo di identica dimensione sono tra di loro concentriche – l’unico modo di rendere l’unità e la trinità di Dio. Uno dei cerchi attira in particolare l’attenzione del poeta, quello nel quale gli sembra di vedere raffigurata una sembianza umana dello stesso colore del cerchio medesimo – altra voluta violazione della logica, giacché non sarebbe possibile distinguere un’ immagine dal suo sfondo omocromo. Ciò indica evidentemente che la natura divina di Cristo coesiste in perfetta consustanzialità con quella umana. Dante si trova quindi ad un passo dal comprendere il mistero sommo della sua Fede, ovvero l’incarnazione di Dio in Cristo, ma proprio qui il suo sforzo manca l’obiettivo e si rende necessario l’intervento divino che svela per un istante brevissimo al viandante ultraterreno la Verità inseguita per tutto il viaggio. A noi tuttavia non sarà dato sapere COSA Dante abbia visto. Ci rimane solo il resoconto del perfetto allinearsi delle sue forze intellettuali con la volontà di Dio (vv. 142-145):
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle.
Da ‘la gloria di Colui che tutto move’ a ‘l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle’ il passaggio è brevissimo ma enorme allo stesso tempo: Dio non è più solamente motore di tutte le cose, loro causa originaria e finale, ma è definito per via di perifrasi come amore che muove l’intero Universo. Siamo quindi al punto di svolta che separa la Fede dantesca dal motore immobile aristotelico (creatore delle cose e da loro amato, ma di loro non amante a sua volta), per non parlare del logos stoico (principio puramente materiale e impersonale). Con questa ulteriore precisazione della natura di Dio, Dante non ci svela il mistero dell’incarnazione, ma forse (si e ci) risponde ad una domanda ancor più metafisica: che senso ha l’Essere rispetto al non-essere? Domanda che rappresenta il vertice di qualsiasi inquietudine tanto fideistica quanto razionale e che quindi ben racchiude il doppio binario della ricerca esistenziale di Dante, il quale ha interrogato per tutta la vita filosofia e teologia in cerca di risposte.
Il verso finale del poema ci dice allora molto di più della sola lettera: Dio si presenta come Ente supremo caratterizzato dalla Relazione di Amore tra il Padre e il Figlio veicolata dallo Spirito Santo. Nella Sua unità, Egli allora non è statico, bensì dinamico, ed è da questa dinamicità che ad un certo punto trabocca la forza creatrice che dà origine a tutte le cose. Dio ama l’Universo che ha creato, poiché tale amore altro non è che la continuazione della relazione amorosa dinamica che ab aeterno si verifica all’interno della Sua natura. A questo punto la metafisica dell’Essere è sorpassata (o meglio, portata a compimento) da quella della Relazione. Se Dio fosse puro Essere, sarebbe totalmente autoreferenziale, e la Sua staticità non avrebbe mai potuto tracimare nell’atto della creazione. Questo è già una dato che conforta Dante: l’universo non è in balìa del Caso o peggio ancora del Caos, ma è attraversato da una forza positiva che trascende l’apparente disordine degli eventi per indicare, se riconosciuta dal fedele, la via per la salvezza.
Ma c’è di più: riconoscere l’amore come forza intrinseca all’Essere supremo rivela a Dante che la dicotomia fondamentale del reale non è Essere vs non- essere (o Nulla che dir si voglia), poiché un Essere statico equivarrebbe di fatto al Nulla. Un Essere che semplicemente è, senza essere attraversato dalla corrente della Relazione, non ha maggior ragion d’essere del Nulla. Sarebbero di fatto due condizioni statiche accomunate dall’assenza di amore, di creazione e, quindi, di senso: il Nulla, non essendo, non può avere un senso perché ‘non si muove’ verso alcunché, ma se anche l’Essere resta immobile senza relazione, di fatto, si nullifica, tuttavia, perché il Nulla (per assurdo) abbia Relazione, quest’ultima presupporrebbe che ci fosse almeno UN qualcos’altro a cui relazionarsi, ma il Nulla è uniformemente Nulla, non genera e non si relaziona con alcunché né all’interno né all’esterno di sé (che non esistono). La dinamicità della Relazione, al contrario, rende l’Essere diverso dal Nulla e ne giustifica la sussistenza rispetto ad esso: la relazione e la creazione sono il senso dell’Essere che al Nulla manca. Ritornando all’inizio del paragrafo, la dicotomia è dunque Relazione vs Nulla: si capisce che l’Essere dantesco vada sempre inteso come Essere-in-relazione. Diversamente, tanto varrebbe definirlo Nulla. La filosofia Dantesca finisce pertanto per coincidere con la teologia, nel senso che, in luogo di ‘amore della sapienza’, essa si configura, per citare Lévinas, come ‘sapienza dell’amore’. La Relazione d’amore all’interno della Trinità è la più autentica ragion d’essere delle cose che sono: l’animo del poeta si acquieta nel momento in cui vede svelarsi nell’essenza di Dio il punto d’arrivo comune ad entrambi i suoi percorsi di ricerca esistenziale. Amare il prossimo significa quindi partire dall’amore di sé per aprirsi all’altro. Questo Dante vuole lasciare alla sua tormentata epoca.
[continua....]
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