Resta quindi inteso che la Relazione dinamica di amore presuppone un essere consapevole di sé che, proprio in forza dell’amore di sé, riesce a individuare un altro da rendere oggetto del medesimo amore. Essere-in-relazione, sul piano della condizione divina, non indica una priorità cronologica tra i due poli del sintagma: l’Essere è perciò stesso Relazione. Sul piano umano, evidentemente, prima avviene la scoperta del Sé (livello di identità nucleare) poi la relazione con l’altro (livello di identità transizionale) dalla quale l’essere arricchisce per via dialettica la propria autocoscienza. Sarebbe tuttavia, secondo questa prospettiva, impossibile che la relazione avvenga indipendentemente dall’essere. Meglio: sarebbe inaccettabile demandare alla sola Relazione il compito di definire l’identità dell’individuo. Se l’individuo non ha anzitutto coscienza di sé, mai potrà gettare ponti sull’altro da sé.
Una simile impostazione trova senza dubbio una vivace concorrenza in una concezione dell’essere e della relazione diametralmente opposta, le cui radici affondano in un territorio ben lontano dalla filosofia e teologia medievali, ovvero la fisica quantistica.
Tale branca della fisica ha raggiunto ultimamente risultati che la apparentano in modo sorprendente (e sorprendentemente inquietante) a quelli delle neuroscienze. Queste ultime, indagando più a fondo l’assioma cartesiano cogito ergo sum, giungono a concludere che l’anima è di fatto trasparente a se stessa, nel senso che si percepisce, ma per così dire ‘non sa trovarsi’. Che la sua origine sia puramente biologica o metafisica (e il neuroscienziato opta decisamente per la prima ipotesi), resta un fatto che essa non conosce alcuna ‘dimensione’ di sé: possiamo vedere le nostre mani e constatare che abbiamo cinque dita, e persino gli occhi grazie a cui vediamo sono studiabili nella loro anatomia e funzionalità. L’anima, invece, ‘funziona’ ma non è collocabile né descrivibile in alcun modo come le altre parti del nostro corpo.
Certi approdi della fisica quantistica arrivano anche oltre, là dove forse nemmeno Pirandello si sarebbe mai spinto. Di fatto, sostengono alcuni, nessuno di noi può dire di avere un’esistenza autonoma finché non entra in relazione con qualcun altro. Allo stesso modo, le cose non esistono di per sé, non hanno un’autonoma sussistenza, ma iniziano ad esistere solo nel momento in cui entrano nel nostro campo percettivo. Le proprietà sostanziali e accidentali delle cose si attivano solo se le cose sono in relazione tra loro, allo stesso modo le persone: esse iniziano ad esistere solo quando altri le percepiscono ed evidentemente la permanenza (ma addirittura la stessa sussistenza) di una sola identità è messa fortemente in scacco dal fatto che ciascuno di noi è sempre la risultante di come è percepito dagli altri. Il che porta ben oltre il classico Uno, nessuno e centomila, o meglio toglie dalla serie l’uno. Per quanto sfuggente e proteiforme essa sia, Pirandello non nega che ciascuno di noi sia dotato di un’essenza che tuttavia diventa sempre qualcos’altro da sé non appena entriamo in contatto col mondo esterno, generando di volta in volta una maschera diversa (quindi l’evento è di fatto inevitabile); l’approdo quantistico nega invece proprio la possibilità di una nostra essenza autosussistente che precede la maschera anzidetta: noi possiamo dire di essere solo quando siamo in relazione con gli altri, pur con tutte le ricadute soggettive dell’evento. Come singoli, pertanto, noi non siamo nessuno finché non ci tuffiamo nelle centomila maschere che la vita di relazione ci cala addosso. L’anima non ha il problema di trovarsi; essa non c’è, perlomeno non in senso classico. Non è prioritaria.
Se ora torniamo a Dante, possiamo comprendere l’abisso concettuale tra le due visioni dell’essere: al vertice della Commedia noi vediamo l’Essere-in-Relazione e capiamo che anche noi, prima di metterci in relazione con chicchessia, dobbiamo prima avere una solida e netta relazione con noi stessi. Se cade l’essere, cade la relazione. L’approdo quantistico tematizza invece un Essere-Relazione. La soppressione della preposizione ‘in’ gioca un ruolo fondamentale, perché rovescia completamente i termini della questione dantesca: l’essere in qualche modo si attiva solo in presenza della relazione, quindi, esattamente all’opposto di prima, senza relazione non c’è essere.
Non è qui il caso di riflettere sulla portata enormemente controintuitiva della teoria. Semmai si può indagare se tra i tanti “quantismi” che sempre più diffusamente popolano il dibattito culturale si possa trovare la sintesi più ardita, ovvero l’umanesimo quantistico. E’ infatti del tutto evidente che, rovesciando il rapporto tra essere e relazione nel modo che si è detto, il concetto stesso di humanitas si deve aggiornare: Il celeberrimo verso terenziano che costituisce convenzionalmente il sigillo di tale concetto (Homo sum. Humani nihil alienum a me puto) ci dice che si può percepire l’umanità altrui solo se essa risulta in sintonia con una sostanza umana che è anche in noi: homo sum, cioè dato che sono uomo posso percepire l’umanità in chi mi sta attorno. Possiamo dunque ipotizzare che esista anche la forma speculare di umanesimo, quella cioè che rende l’alienum la radice (il prius) del nostro essere? Attenzione: non nel senso già ampiamente esplorato dai filosofi dell’identità che si plasma tramite la relazione, ma in quello tutto nuovo che nega una sussistenza assoluta dell’identità in assenza della relazione.
Ipotizziamo una relazione tra il soggetto A e il soggetto B. Sulla base di quanto detto sin qui, A esiste quando B lo percepisce, non prima. La cosa è evidentemente reciproca. Ebbene, cosa potrà provare A per B e B per A? In cosa si declinerà la loro relazione?
Potremmo ragionare per sottrazione: se partiamo dal concetto di amore come darsi all’altro previo il pieno e consapevole possesso del sé, in un ambito di umanesimo quantistico questo tipo di amore non è praticabile. Il soggetto A e il soggetto B non sono autosussistenti, quindi al limite potrebbero amare se stessi solo dopo la percezione da parte dell’altro. E’ però chiaro che questo amore di sé durerebbe finché dura tale percezione. Forse allora si dovrebbe abbandonare il concetto classico di amore, poiché è difficile pensare che un sentimento che, tradizionalmente, richiede lo scambio di una pienezza che una concezione quantistica dell’identità non consente. Si potrebbe dire che A e B, esistendo ciascuno grazie alla relazione con l’altro, possano piuttosto provare gratitudine reciproca, dato che si fanno esistere a vicenda. Il soggetto A è grato a B perché, finché sono in relazione, ha coscienza di sé. Il problema è semmai come non perdere questa coscienza e il piacere esistenziale che ne deriva. Il modo è uno solo: stare assieme più che si può per non uscire dal cono di luce di sussistenza garantito dalla piacevole relazione con l’altro. Stare assieme, cioè? Essere dove si trova l’altro, Seguirlo e farsi seguire.
I termini in corsivo di questa relazione quantistica, se tradotti in inglese, sono ovvi: like e follow. L’architrave delle reactions su qualsiasi social network. Da quando si è diffuso questo fenomeno, in effetti, tutti gli osservatori hanno notato che ad essi si lega un bisogno più o meno intenso (a tratti disperatamente morboso) di riscontro: i like e i followers diventano il metro di un prestigio immateriale che però diventa per alcuni influencer sostanziale (mentre altri osservavano lepidamente che avere tanti followers su Facebook è come essere miliardari col Monopoli). La soddisfazione dopaminica di vedere tanto il gradimento sotto i propri post o le proprie foto quanto l’aumento del numero di chi segue il profilo si lega evidentemente non alla propria identità reale, ma a quella virtuale che si consegna al web (sarebbe solo comico, ma a questo punto è anche significativo, sentire adolescenti che non possono fidanzarsi perché, a giudizio di lei, lui non ha abbastanza followers, quindi è un po’ sfigato). Si andrebbe così a creare esattamente una situazione di umanesimo quantistico, poiché io mi creo un profilo i cui like e follow – cioè i segni della relazione – ne costituiscono la vera ragion d’essere. Con il like io comunico all’altro profilo che per me lui esiste e seguendolo ne ‘sostengo’ l’esistenza (e il tutto vale reciprocamente nei confronti del mio). Senza like e follow il mio profilo rimarrebbe un puro guscio senza senso, dentro al quale non c’è alcuna essenza autosussistente che io debba amare per poter amare le altre: a computer spento, io non sento quel profilo, non me ne preoccupo, non ne gioisco, in definitiva non lo possiedo perché l’ho affidato alla dimensione virtuale. Il mio e gli altrui profili sono per l’appunto perfettamente trasparenti a se stessi e prendono corpo solo nell’incrocio di like e follow. Se ad un certo punto, nel corso di un’intera giornata, nessuno degli utenti di Facebook (o Instagram o uno qualsiasi degli altri) entrasse sul suo profilo, ciò significherebbe per per quel giorno i profili, semplicemente, c’erano ma non sono esistiti, a differenza dei loro creatori. L’atto della creazione del profilo mette quindi in azione una pseudo-sostanzialità che perde lo pseudo- solo quando il profilo riceve visite.
Si potrebbe pertanto concludere che un abbozzo (o qualcosa di più) di umanesimo quantistico è già in essere ad esempio nel mondo dei social, in coesistenza a mio modo di vedere con l’umanesimo ‘classico’. Certo, da un punto di vista non classico, il profilo social altro non sarebbe che la proiezione virtuale di una non-identità preesistente, pertanto tra vita reale e vita virtuale non ci sarebbero in realtà differenze. Rimane da indagare, ma ce lo teniamo per future indagini, come possa una non-identità generare un non-profilo.
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