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"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 8 maggio 2022

Le grandi recensioni (teatrali) di Machittevòle: "Agnello di Dio", l'incomunicabilità dei sottomondi.


Andò in scena dalle nostre parti in questi giorni la première nazionale di "Agnello di Dio", una pièce piuttosto interessante (e NON, banalmente, perché ambientata in una scuola) dalla cui visione abbiamo trovato uno spunto notevole per approfondire il tema dei temi, ovvero l'incomunicabilità tra generazioni, e forse per capirne la radice profonda. Che è, ancora una volta, l'irrisolvibile contrasto pirandelliano tra forma e vita, con l'impossibilità di una scelta tra le due che soddisfi pienamente. Le info complete sulla pièce sono qui, pertanto dunquizziamo rapidamente: scuola cattolica per rampolli rampanti, padre in carriera (Fausto Cabra) convocato da badessa preside (Viola Graziosi) e sua ex compagna di collegio (e non solo...) proprio lì per tema di figlio (Alessandro Bandini) assai carico di disagio esistenziale. Di qui parte l'istruttoria per capire le ragioni del disagio. Ci vuole poco a polarizzare le posizioni, con Samuele (figlio) che riesce a far perdere le staffe agli altri due perché rifiuta di tornare a più miti consigli circa il suo malessere, malessere che soprattutto Marco (padre) vorrebbe liquidare a paturnia passeggera di diciottenne, forse connessa anche al suo DSA (che invece non c'entra nulla, anzi figlio si scoccia assai che i suoi disagi siano ridotti ad uno sterile tandem diagnosi-cura, come se le sofferenze esistenziali fossero trattabili alla stregua di un mal di denti). Detto che figlio riesce pure ad eccepire sulla visione cristiana di badessa, a suo dire troppo legata a formalismi ed esibizionismi, è naturalmente il match con padre che provoca le frizzantezze dialettiche più vivaci. In superficie, le conclusioni cui entrambi giungono, saldamente ancorati ciascuno al proprio punto di vista, potrebbero sembrare scontate - ma non lo sono: padre accusa figlio di essere alla fine un viziato che, avendo avuto tutto dalla famiglia, godendo di uno status economico-sociale che il 90% dei suoi coetanei può solo sognare da (molto) lontano, si permette di 'giocare' al disagiato, disprezzando tutto & tutti con irrequietudini che finiranno solo per ostacolarlo nella vita; figlio ringrazia certamente padre per tutto, ma questo 'tutto' materiale non lo soddisfa, perché egli non sopporta che il suo futuro sia già pianificato e che padre, tutto assorbito dalla sua successful career, abbia smesso di interrogarsi sul perché delle cose e, più di tutto, non ammetta che figlio possa essere attraversato da inquietudini che, anche se difficili da capire, andrebbero perlomeno ascoltate. C'è in effetti, circa a metà pièce, un momento in cui sembra che le controdeduzioni di Samuele aprano una breccia, e si capisce anche dalla prossemica, perché lui si toglie la felpa e rimane in t-shirt, a simboleggiare il suo volersi 'svestire' del ruolo di bravo figlio zero-problems, mentre Marco si slaccia il nodo della cravatta e inizia a sudare e deglutire, come se le ansie del figlio lo stessero in qualche modo contagiando, facendogli perdere l'impeccabile compostezza dell'abito blu scuro con camicia bianca supermanager style. Poi la storia prosegue (no spoiler here), ma il nocciolo che vogliamo snocciolare è proprio questo: perché entrambi pensano di avere ragione? Risposta agile: dai tempi di Atene antica il teatro tragico fa scontrare sottomondi individuali impossibilitati a conciliarsi (Antigone docet). Risposta articolata: tante volte a scuola vediamo dispiegarsi sofferenze alunnizie in cui non è semplice distinguere tra il capriccio passeggero e il disagio profondo (difficoltà su cui convengono anche i genitori). Come sempre sarebbe opportuno evitare gli estremismi, ovvero il poverinismo a oltranza come pure la stringa automatica "ma di cosa si lamenta, non saranno mica problemi questi, io ai suoi tempi...". Ma non è di questo che voglio parlare ora, e ritorno alla non comprensione reciproca: secondo me i tipi umani incarnati da Marco e Samuele, in realtà, si sono compresi benissimo, nel senso che, tacitamente, hanno convenuto su un punto, e cioè che l'esistenza -heideggerianamte- è qualcosa in cui siamo gettati e, una volta avviata la giostra, si può decidere di darsi - pirandellianamente- una Forma, oppure rivendicare l'autonomia della Vita. Nello specifico, Marco rivendica con orgoglio i suoi successi lavorativi ed economici - di cui anche Samuele evidentemente beneficia- perché sente che la carriera che si è costruito gli ha consentito di dare una funzione d'ordine all'altrimenti caotico svolgersi dei giorni. Non ha senso, secondo lui, arenarsi su riflessioni di alto spessore esistenziale che non spostano di un millimetro i problemi concreti del vivere. Samuele ne prende atto, ma si dice disposto a rinunciare a tutto il benessere pur di sentirsi vivo, di avere il diritto di non dare tutto per scontato e già deciso, di aprirsi all'incertezza, al dubbio, al mistero, all'ansia, senza alcuna garanzia di giungere ad un approdo sicuro. Ciò che Marco, secondo lui, non sa o non vuole fare, tutto incellophanato nel suo bell'abito e nella sua gioiosa carriera. Il fatto è che nessuna delle due prospettive, alla fine, vince, perché nessuna delle due risponde alla domanda fondamentale: Che ci faccio qui? La qual cosa potrebbe sembrare curiosa, visto che siamo in una scuola cattolica, ma Samuele vorrebbe un cattolicesimo diverso, meno formale e più aperto alle questioni di senso. Che poi egli cerchi davvero il senso o abbia già deciso per un sostanziale nichilismo, è questione che la pièce non risolve. Resta invece - potente - il conflitto di prospettive: Marco vuole convincere Samuele (e se stesso) che il soddisfacimento a livello deluxe dei bisogni materiali dovrebbe zittire una volta e per sempre le ansie della vita, perché la vita è una sfida spietata ma appagante (se vinta), mentre Samuele replica che, per paradossale che possa essere, l'eliminazione delle preoccupazioni materiali lascia campo liberissimo alle altre: proprio perché sollevato dalle pure necessità della sopravvivenza, l'essere umano alza lo sguardo verso un cielo profondo ed enigmatico e trova il coraggio di chiedersi il perché delle cose. La Verità nel pieno (materiale) e la Verità nel vuoto (della ricerca del senso), in questa pièce, si sfiorano e si respingono: per Marco, Samuele è un infelice coi soldi altrui, per Samuele Marco si è cristallizzato in una vita inautentica (cit.). Ci dice Marco: è utile consumare la vita in dubbi senza sbocco? Ci dice Samuele: è utile vivere rimuovendo di continuo le questioni ultime? Ci ri-dice Marco: e anche una volta che passi tutta la vita a pensare alla morte, quando muori senza aver vissuto cosa ci hai guadagnato? Ci ri-dice Samuele: e quando -presto o tardi- dovrai rassegnarti a perdere ciò che hai sempre saputo che avresti perso, non ti sembrerà di esserti preso in giro da solo per tutto il tempo? Cogliere l'attimo della forma e costruirsi una -precaria- felicità o lasciarsi travolgere dalle pulsioni inquiete della vita, liberi però da schemi & risposte preconfezionate?

Se poi dall'esistenzialismo estremo scendiamo - si fa per dire- ai problemi più concreti del quotidiano, certamente l'atteggiamento di chi non si riconosce nei disagi dell'altro perché non li ha mai vissuti è la grande croce dei nostri giorni; peggio ancora quando la liquidazione dei disagi medesimi avviene sulla scorta di frasi fatte del tipo: "Le sofferenze vere sono altre", "Non sei il solo", "Guarda avanti". Piccolo o grande che sia, il dolore altrui va capito, perché attendere semplicemente che si estingua come fuoco fatuo è la strategia migliore per farlo ingigantire fino a quando sarà ingestibile. Ogni dolore va sconfitto da dentro, e se è davvero banale la sconfitta sarà rapida, una volta reso cosciente l'interessato della sua inconsistenza. Ma da dentro. Chi si limita a rapide diagnosi esterne corredate da raccomandazioni qualunquistiche e senza spessore, non solo non aiuta nella cura ma si fa complice del male. Questa, secondo noi, può essere l'onda lunga o lunghissima del sasso lanciato dalla pièce: gente giovane che si rovina l'esistenza perché non riesce a vivere come un influencer non va derubricata alla voce "bambocci superficiali", ma aiutata a capire la differenza tra mondo virtuale e reale, anche combattendo - certo ad armi impari- coi numerosi disvalori del mondo massmediatico. Chiuderla sbrigativamente con "ai miei tempi" -o simili- equivale a mettere il fondotinta su un melanoma. 

(Sul versante dei figli che rifiutano carriere preconfezionate, dalla monaca di Monza in giù, la questione è sempre quella: lo status ha un suo costo, se tu figlio vuoi avere voce in capitolo e magari eccepire, calcola bene se ciò che guadagni risarcisce ciò che perdi. Si torna quindi a quanto sopra: la felicità è il prezzo del successo?)(vabbè, questo un'altra volta...) 

Per quanto riguarda gli attori, a cui aggiungiamo la spassosa Ola Cavagna nel ruolo di suora-segretaria, il nostro giudizio da non specialisti è positivissimo: Cabra è certo una conferma, mentre Bandini - del tutto a suo agio nel ruolo di diciottenne pur avendo superato i diciotto da un po'- è stato davvero una gradevole sorpresa. La Graziosi semplicemente perfetta (praticamente la recensione è finita in fondo)(lol).

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