Se c’è mai stato un cartone animato che prova inequivocabilmente la tesi di Freud secondo cui il bambino piccolo è tutto fuorché un angelo, questo è Là sui monti con Annette, ambientato guarda te in Svizzera: nelle circa 50 puntate di questo psicodramma elvetico, giostrate nella Twin Peaks del Canton Vaud, ovvero Rossinière, vediamo in azione bambini capricciosi e vendicativi che si imbizziscono per episodi minimi, ragazzine bionde con un livello di permalosità Nina Moric plus,
timidi aspiranti intagliatori di legno che giocano per tre quarti di episodio a fare la vittima, fratellini seienni petulanti che collezionano ermellini (vivi),
per salvare i quali non esitano a gettarsi in fondo ai precipizi salvo poi rompersi la gamba, il cui
osso si salda poi in modo abnorme (?)
sì da rendere impossibile qualsiasi movimento, gli
intagliatori predetti che si fanno una sciata in mezzo alla tormenta
lungo il crinale che porta a Montreux, perché non hanno i soldi per
il treno,
la biondina che rischia l’assideramento e allora confessa all’ex forse ancora di nuovo amico il misfatto del cavallo, scuole elementari pluriclassi con episodi di bullismo che fortuna che non esisteva internet, dopodiché tutto si conclude con la fine delle scuole e la corsa di questi marmocchi demoniaci verso il loro pirotecnico domani.
Ciò spiega il disastro di sabato sera: undici piccoli Lucien convinti di avere davanti Heidi e che invece non hanno capito che la squadra avversaria era zeppa di Annette ferocissime, a partire dal roccioso capitano Annette Xhaka, per passare all’imprendibile Annette Embolo che si porta a spasso Di Lorenzo e Barella come gli ermellini di Dany, fino ai due cecchini che ci condannano all’eliminazione, il rapinatore d’area Annette Freuler e il cecchino da fuori area Annette Vargas.
Noi,
che poi avevamo rifiutato di guardare il primo tempo, perché in
viaggio verso la città dove avremmo partecipato a
un convegno sulla medicina pneumatica
a
una festa mangereccia, noi appunto con pizze e Vermentino andavamo a
bussare alla porta, ma prima ancora di farlo sentivamo arrivare un
Nooooooo!!! da dentro l’appartamento che ci infondeva i più cupi
presagi, aggravati dal fatto che la maniglia della porta girava, ma
la porta restava chiusa, finché sulla soglia compariva una
gentildonna in gramaglie mormorando: “Ha segnato la Svizzera…”.
Il
che ci ha portati ad ignorare il secondo tempo, recuperando via
registrazione tutto il match, anche perché il raddoppio svizzero
appena rientrati dagli spogliatoi ci ha decisamente fatto preferire
fregola e tramezzino diplomatico rispetto a quello strazio.
Strazio già tutto nell’inspiegabile congiuntivo impiegato da Caressa nel solito epic-pippone pre-gara: cosa vuol dire “Le memorie ci assalgAno?”. Visto il contesto della frase, e dato un rapido controllo a sei-sette grammatiche latine, esortativo non è, desiderativo non è, concessivo non è, potenziale non è, dubitativo nemmeno, suppositivo nemmanche, irreale no perché ci vorrebbe l’imperfetto. Ragionando alla stoica, la crisi del linguaggio è spia di un più generale impazzimento della struttura del cosmo, ed in effetti il Caressa medesimo, al 28’, osserva costernato che siamo troppo “frAttolosi” nella manovra. Mah.
Che poi le statistiche iniziali di Bergomi che dovrebbero garantirci almeno un 56-0 e invece, senza tener conto della solita, storica frasaccia acchiappa-sfiga al 29’ (“vediamo quanto riescono a tenere il ritmo” detto degli svizzeri, e invece), Caressa che minimizza ogni boiata dei nostri, Bergomi che pialla (“non è riuscito a passare…”, “come non è riuscito…? NON HA VOLUTO!!”) e insomma al 35' coso là segna, Caressa dice “male” e Bergomi lo corregge pure lì (“molto male”).
Poi capisci che appena rientrati quelli là segnano e vabbè (“troppo, troppo facile”, opina Bergomi, e Caressa lombrosiano: “i nostri avevano facce che non mi piacevano già sotto il tunnel”). E ciao Europa.
Già
in passato opinammo sullo stato comatoso del nostro calcio, quindi
non aggiungeremo nulla, se non una tipica osservazione da blogger che
si improvvisa esperto di un ramo che non gli appartiene, in
questo caso la sociologia.
Ebbene,
per comprendere come giocatori con tatuaggi più elaborati degli
affreschi di Santa Maria Novella, roba che al confronto le polemiche
sull'acconciatura di Nesta [read my lips: N.E.S.T.A., uno a
cui oggi Calafiori potrebbe FORSE insaponare i tacchetti] diventano
barzelletta, dicevamo per capire come gente simile assurga al ruolo
di portabandiera dei nostri destini pedatori bisogna affondare il
coltello nella purulenta piaga dei mali che ci affliggono da ormai un
trentennio: detto che la polemica sui ‘miliardari in mutande’ è
datata, ma non priva di un certo fondamento, il problema è che
QUESTI miliardari valgono,
sportivamente parlando, meno delle loro mutande: essi sono la
propaggine estrema di quello sciagurato fenomeno di esaltazione del
calciatore sempre e comunque, indipendentemente dai risultati, che ad
un certo punto si è incrociato col mito dorato del binomio
calciatore-velina, che a sua volta si è incrociato col mito del
belloccio incapace di successo incarnato dai tronisti. Risultato: il
calciatore resta un mito per coloro che seguono questo sport con lo
zelo con cui si è adepti di un culto, per cui i singoli ministri
possono sbagliare qualcosa, ma IL culto non si discute. Si ricordi
del resto che Dante Alighieri, nonostante alcune trascurabili divergenze col Papa, non ha mai abiurato alla fede cristiana; allo
stesso modo, chi segue il calcio come una religione non cessa di
rimpinguare gli introiti dei suoi protagonisti, delle società e
relativi stadi, delle televisioni, del merchandising in genere anche
quando costoro fanno schifo allo schifo, così che possono sempre
dire “di far girare l’economia” e quindi giù milioni di
stipendio. Solo che oggi non abbiamo calciatori di valore, ma onesti
mestieranti che hanno semplicemente intrapreso una professione che è
associata alla ricchezza, al lusso, ai privilegi esclusivi,
dimenticandosi che ricchezza, lusso, privilegi esclusivi sono solo il
promontorio estremo di una vita di allenamenti, fatiche, sacrifici,
delusioni e rinunce. Vigendo tuttavia il modello del tronista,
adorato senza senso da folle femminili così come il calciatore-zappa
è adorato senza senso dai tifosi-adepti, i nostri campioni si sono
specializzati nell’italianissimo tirare a campare: finché il
pubblico c’è, e paga, finché il mio stipendio annuale equivale a
quello di CENTOVENTI vite di un operaio, e nessuno me lo contesta,
perché devo mettercela, chessò, per onorare i colori della mia
nazionale (Graziano Pellé, cucchiaista incapace MA con stipendio cinese, remember?). Sui problemi dei nostri vivai e della sciagurata
esterofilia delle nostre squadre taccio, perché molto è già stato
detto. Resta inteso che così, con questa etica da reality show,
faremo la fine delle vacche svizzere quando sono avanti con l’età:
diventano carne Simmenthal.