Vabbe', 'sta Spocchia, mo' se mette pure a recensi' i filme...
No no, recensire non è il nostro forte, correggere semmai, emendare, reindirizzare, cazziare, quello sì. Ma recensire no.
E purtuttavia stavolta recensiamo: il film di Virzì, che tante polemiche ha scatenato per certa impietosa pittura di certo mondo affaristico e non solo tipico del nostro friccicoso nord Italia, è esattamente ciò che abbiamo chiesto e NON ottenuto dalla nostra Ficition di Riferimento Autunnale, talmente di riferimento che ci siamo pure stancati di commentarne gli episodi. Sì, parliamo sempre di Una grande famiglia.
Giacché, se vogliamo per un istante tirare la fila di QUELLA cosa lì, a conclusione di due serie che hanno però già lanciato il piedino nella terza con la misteriosa telefonata a nonna Sandrelli da parte della nipotina spuntata dal nulla, il bilancio è impietoso: alla fine sono tutti, tutti, TUTTI buoni. Edoardo/ Gassmann (oggi mettiamo due n in fondo), dopo giravolte, paraculaggini, ricatti, balle e controballe, e dopo, non lo si scordi, aver bruciato DECINE DI MILIONI rengoniani, si riscatta (?) offrendosi come agnello sacrificale ai cattivi-cattivi della Villa Sempre Immersa nella Nebbia anche a mezzogiorno di Ferragosto, non prima di essersi microfonato il bottone del loden per essere sentito dalla polizia mentre recita l'ennesima parte. Poi sparisce e tutti clappeggiamo, pensando a quanto sdegno ci si era infuso solo 40 minuti prima o giù di lì, quando il medesimo Gassmann si era preso in auto Ernestino detto Tino per portarlo chissà dove, salvo poi scodellarlo davanti a casa della ex-moglie come niente fosse. Per tacere del resto. Morale, a parte il dissangunate dubbio sul destino di Gassmann, sul thriller va a trionfare lo scioglimento comico, in cui più o meno tutto torna come prima, gli sposati con gli sposati, gli amanti con gli amanti, Sandrelli che, dopo aver ripreso ad assumere Danacol, non soffre più di alcunché, gli omosessuali separati, e i rispettivi genitori pure, perché così la mamma degli sceneggiatori va a letto contenta , 'na palla de 'na strapalla, insomma.
Ecco, le copiose lacrime di delusione che andavamo avanti a piangere da metà dicembre si sono d'un colpo asciugate l'altra sera, alla fine del film in oggetto. Abbiamo finalmente trovato quel senso di pugno nello stomaco perenne, di ansia per la sovversione dell'umanità di cui non si garantisce il reintegro, abbiamo finalmente assaporato tutta la cattiveria, il cinismo, la disperazione che possono allignare e irrorare le famiglie apparentemente più felici. I contrasti, la sete insaziabile di star meglio, il senso di un mondo di puri numeri che crolla, l'arrivismo senza radici, l'amore più casuale che progettato, la giovinezza autenticamente Bimbominkia, viziata, amorale, cazzarona, piagnucolosa, capriccesca, e alla fine il trionfo congiunto del Bene e del Male, perché nel mondo reale ciascuno dei due si porta dietro sempre anche l'altro. Grazie, Virzì, siamo probabilmente tra i pochi che si ricordano la tua opera prima, L'estate del mio primo bacio, che, pur ambientata nel 1987, dipinge con spietatezza esemplare il mondo degli adolescenti viziati e senza cervello di allora, i progenitori diretti degli odierni Bimbominkia. Allora non ci deludesti, e non l'hai fatto stavolta. Grazie, perché hai fatto ciò che la fiction anzidetta non ha MAI avuto il coraggio di fare davvero: rovinare l'anima di chi la guarda.
Rovinare, cioè: far vedere con implacabile oggettività un mondo che è tutto fuori che caricaturale. Dicasi:
1) Fabrizio Bentivoglio: spettacolare nella parte del brianzolotto ricconzolo e complessato che le tenta tutte per entrare nel Salotto Che Conta, paraculo al massimo nel salutare come se l'avesse sempre conosciuto Giòva Bernaschi, il papà miliardarissimo del fidanzato della figlia, e imbucarsi nel match di tennis con gli amici straricchi di lui, così da iniziare il lento insinuarsi che lo porterà a partecipare al Fondo Bernaschi, con tutti gli annessi & connessi, compreso l'assurdo fido bancario di 700.000 euro. Verghianamente, Bentivoglio-Gesualdo Motta reloaded 2.0 prova le inquietudini di chi sta già bene, ma vuole toccare l'apice, senza essere davvero consapevole del prezzo di questo apice. Il look tammarrerrimo, con cinturona di pitone e anellazzo al dito, dice tutto il disordine culturale di costui, confrontato con gli impeccabili completi del Bernaschi, simbolo di un'apparenza che stavolta inganna davvero. Cinico da far spavento a fine film, quando troverà l'éscamotage per riavere quanto perduto, strafregandosene dei sentimenti della figlia, anzi rischiando di farla finir dentro per favoreggiamento. Bravò, bravò.
2) Fabrizo Gifuni: perfetto, disumano nel suo culto assoluto del benessere che si fa ipostasi del desiderio di dominio su uomini e cose, o meglio numeri, specchio anzi della potenza quasi divina del Numero sull'Individuo, personaggio orientato al 110% all'adorazione del Guadagno come virtù in sé, così finto da essere vero più del vero. Marito possessivo, padre supercompetitivo che non accetta che il figlio sia al di sotto della Perfezione, pretendendo da lui una sola cosa: la vittoria; la sua etica è l'etica che ha contribuito all'attuale sfascio dell'economia reale, ovvero il puro gusto della scommessa sul Nulla, sui rialzi e i ribassi di enti astratti che nulla quagliano coi Realien della produttività oggettiva, scommessa, sia chiaro, che funziona perché c'è un esercito di gonzi in stile Bentivoglio che si rendono complici del gioco, come del resto facevano i clienti di Wanna Marchi. In questo videogame perenne, è disposto a conoscere la vetta, il baratro e poi di nuovo la vetta, il tutto senza la minima remora; e quando non mostra punta intenzione di tirar fuori il figlio dal guaietto del presunto omicidio colposo, non si tratta certo di un rigurgito di senso civico: è il desiderio di non aver nulla a che fare con uno che, al punto in cui si è, potrebbe essere una fonte ulteriore di grane, come se in fin dei conti fosse meglio che il bamboccio si disintegrasse lì seduta stante. Talmente monomaniacale da risultare manierista, ma per questo assolutamente reale; come la Medea di Seneca, insomma. Bravò, bravò.
3) Valeria Bruni Tedeschi: eccezzzzzzionale nel ruolo della moglie depressa e un po' tonta, persa in un mondo di aspirazioni frustrate, resasi fin troppo conto di essere convolata a nozze con un tizio che la vede come la bella statuina da esibire e zompare e nulla più, tenera ed ingenua nella sua mini-battaglia culturale, che la porta a conoscere tutta l'aridità del marito ("Il Politeama è l'ultimo teatro rimasto nella zona...", "Ah, perché, è una cosa grave?" ), madre incapace di avere la benché minima autorità sul figlio Bimbominkia, ma soprattutto femminella insoddisfatta e accidiosa, drogata dall'avere troppo di tutto tranne ciò che davvero vorrebbe, il calore umano, calore che si illude di ritrovare nel veloce e amorale zompo (Carmelo Bene a far da colonna sonora) col bravo ma sacrificato Luigi Lo Cascio (ah, La meglio gioventù, quella era TV...)(ah, e c'era pure sonia Bergamasco, non costretta nel ruolo da imbecille in casa Rengoni...), e tuttavia predisposta solo a veder deludere desideri sui quali non ha davvero capacità di incidere (quando la ristrutturazione del teatro esce dalla nota spese di casa Bernaschi per sopraggiunta catastrofe finanziaria, la cosa si chiude lì e ciao). Una Bovary 2.0 reloaded, che alla fine accetterà la ricomposizione dei dissidi con una rassegnazione eroicamente nichilista. Bravà, bravà.
4) Guglielmo Pinelli: applausi a Virzì per aver scelto un attore che incarna alla perfezione il Bimbominkia odierno, fisicaccio inutilmente palestrato e facciotto guanciotto coi ricciolotti lunghi e la riga in mezzo, simbolo concreto dell'adolescente forte all'apparenza e gommoso nella sostanza. Viziato e automobilato con jeeppettino, privo di qualsiasi apertura che lo porti fuori dalla realtà virtuale del consumismo, vive l'incanto della tipica triade Jet Set Bimbominkia, soldi-sesso-giochi, e però vive pure il complesso di inadeguatezza inoculatogli dal padre, il cui Ego superperformante è fonte per lui di non poche ansie, sì che è inammissibile che lui non vinca il premio di miglior studente (e infatti NON lo vince)(e infatti il padre abbandona la sala e lo liquida con un asettico "ciao"). Da bravo adolescente d'oggi, gli manca ogni capacità di vedere al di fuori di sé (visto che ben poco gli cale della morte "di quel ciclista di mmerda!!!"), punti di vista diversi dal suo non devono sussistere, ma appena gli eventi cominciano a metterlo di fronte ai primi pesanti NO della vita, ecco la fuga in camera a piagnucolare, datosi che non sussistono in lui i contenuti umani, culturali ed esistenziali atti ad affrontare problematiche complesse. Dice: "Maronn', e che voi docenti chiedete tutta 'sta roba ai ragazzi di 19 anni?". No, è la realtà che gliele chiede, noi ci limitiamo a rammentargliele... Bravò, bravò.
5) Matilde Gioli: per chi da decenni si dispera che l'idealtipo della femmina del grande romanzo italiano sia blindato nella linea che da Lucia Mondella passa per KissMeLicia/Cristina D'Avena e sfocia in Michela Quattrociocche, ecco il linimento di cotante ferite. Grazie a questa Angelina Jolie truzza con l'incisivo sinistro storto, abbiamo di fronte la Stronza Intrepida che le combina e le copre, mente spudoratamente all'ispettore, pur sapendo, lei sola, la verità della tragedia, sta con il bamboccio belloccio, ma poi si mette a fare l'alternativa zompandosi l'ex drogato con manie suicide, il tutto con la leggerezza di passare, nella stessa sera, dalla camera da letto del secondo alla mega festa fighetta del primo. Non ci viene risparmiato nemmeno il momento Bimbominkia della foto al computer con smorfie, ma nulla ci stupisce, se costei non ha problemi a fottere l'ex per salvare l'altro. Bene ha fatto Virzì a sganciare, una volta tanto, vissuto individuale e storia scolastica: del rendimento di costei nulla sappiamo, né di fatto il mondo della scuola è mai chiamato in causa, perché è chiaro che qui i codici educativi in gioco sono altri. In tal modo, certo, le protagoniste de I ragazzi del muretto diventano preistoria, ma siamo dalle parti di una Giulietta Pulp/Grunge 2.0 reloaded, che ama di un amore che non ha nemmeno un senso compiuto, improvviso, fiammeggiante, amorale, pulsionale, forse mosso da pietà o forse no, in cui la salvezza estrema passerebbe per un messaggio su Facebook che è invece prodromo alla quasi catastrofe finale. Chi non ne poteva più dei maneggi softcore di Mirandolina è servito. Bravà, bravà.
No no, recensire non è il nostro forte, correggere semmai, emendare, reindirizzare, cazziare, quello sì. Ma recensire no.
E purtuttavia stavolta recensiamo: il film di Virzì, che tante polemiche ha scatenato per certa impietosa pittura di certo mondo affaristico e non solo tipico del nostro friccicoso nord Italia, è esattamente ciò che abbiamo chiesto e NON ottenuto dalla nostra Ficition di Riferimento Autunnale, talmente di riferimento che ci siamo pure stancati di commentarne gli episodi. Sì, parliamo sempre di Una grande famiglia.
Giacché, se vogliamo per un istante tirare la fila di QUELLA cosa lì, a conclusione di due serie che hanno però già lanciato il piedino nella terza con la misteriosa telefonata a nonna Sandrelli da parte della nipotina spuntata dal nulla, il bilancio è impietoso: alla fine sono tutti, tutti, TUTTI buoni. Edoardo/ Gassmann (oggi mettiamo due n in fondo), dopo giravolte, paraculaggini, ricatti, balle e controballe, e dopo, non lo si scordi, aver bruciato DECINE DI MILIONI rengoniani, si riscatta (?) offrendosi come agnello sacrificale ai cattivi-cattivi della Villa Sempre Immersa nella Nebbia anche a mezzogiorno di Ferragosto, non prima di essersi microfonato il bottone del loden per essere sentito dalla polizia mentre recita l'ennesima parte. Poi sparisce e tutti clappeggiamo, pensando a quanto sdegno ci si era infuso solo 40 minuti prima o giù di lì, quando il medesimo Gassmann si era preso in auto Ernestino detto Tino per portarlo chissà dove, salvo poi scodellarlo davanti a casa della ex-moglie come niente fosse. Per tacere del resto. Morale, a parte il dissangunate dubbio sul destino di Gassmann, sul thriller va a trionfare lo scioglimento comico, in cui più o meno tutto torna come prima, gli sposati con gli sposati, gli amanti con gli amanti, Sandrelli che, dopo aver ripreso ad assumere Danacol, non soffre più di alcunché, gli omosessuali separati, e i rispettivi genitori pure, perché così la mamma degli sceneggiatori va a letto contenta , 'na palla de 'na strapalla, insomma.
Ecco, le copiose lacrime di delusione che andavamo avanti a piangere da metà dicembre si sono d'un colpo asciugate l'altra sera, alla fine del film in oggetto. Abbiamo finalmente trovato quel senso di pugno nello stomaco perenne, di ansia per la sovversione dell'umanità di cui non si garantisce il reintegro, abbiamo finalmente assaporato tutta la cattiveria, il cinismo, la disperazione che possono allignare e irrorare le famiglie apparentemente più felici. I contrasti, la sete insaziabile di star meglio, il senso di un mondo di puri numeri che crolla, l'arrivismo senza radici, l'amore più casuale che progettato, la giovinezza autenticamente Bimbominkia, viziata, amorale, cazzarona, piagnucolosa, capriccesca, e alla fine il trionfo congiunto del Bene e del Male, perché nel mondo reale ciascuno dei due si porta dietro sempre anche l'altro. Grazie, Virzì, siamo probabilmente tra i pochi che si ricordano la tua opera prima, L'estate del mio primo bacio, che, pur ambientata nel 1987, dipinge con spietatezza esemplare il mondo degli adolescenti viziati e senza cervello di allora, i progenitori diretti degli odierni Bimbominkia. Allora non ci deludesti, e non l'hai fatto stavolta. Grazie, perché hai fatto ciò che la fiction anzidetta non ha MAI avuto il coraggio di fare davvero: rovinare l'anima di chi la guarda.
Rovinare, cioè: far vedere con implacabile oggettività un mondo che è tutto fuori che caricaturale. Dicasi:
1) Fabrizio Bentivoglio: spettacolare nella parte del brianzolotto ricconzolo e complessato che le tenta tutte per entrare nel Salotto Che Conta, paraculo al massimo nel salutare come se l'avesse sempre conosciuto Giòva Bernaschi, il papà miliardarissimo del fidanzato della figlia, e imbucarsi nel match di tennis con gli amici straricchi di lui, così da iniziare il lento insinuarsi che lo porterà a partecipare al Fondo Bernaschi, con tutti gli annessi & connessi, compreso l'assurdo fido bancario di 700.000 euro. Verghianamente, Bentivoglio-Gesualdo Motta reloaded 2.0 prova le inquietudini di chi sta già bene, ma vuole toccare l'apice, senza essere davvero consapevole del prezzo di questo apice. Il look tammarrerrimo, con cinturona di pitone e anellazzo al dito, dice tutto il disordine culturale di costui, confrontato con gli impeccabili completi del Bernaschi, simbolo di un'apparenza che stavolta inganna davvero. Cinico da far spavento a fine film, quando troverà l'éscamotage per riavere quanto perduto, strafregandosene dei sentimenti della figlia, anzi rischiando di farla finir dentro per favoreggiamento. Bravò, bravò.
2) Fabrizo Gifuni: perfetto, disumano nel suo culto assoluto del benessere che si fa ipostasi del desiderio di dominio su uomini e cose, o meglio numeri, specchio anzi della potenza quasi divina del Numero sull'Individuo, personaggio orientato al 110% all'adorazione del Guadagno come virtù in sé, così finto da essere vero più del vero. Marito possessivo, padre supercompetitivo che non accetta che il figlio sia al di sotto della Perfezione, pretendendo da lui una sola cosa: la vittoria; la sua etica è l'etica che ha contribuito all'attuale sfascio dell'economia reale, ovvero il puro gusto della scommessa sul Nulla, sui rialzi e i ribassi di enti astratti che nulla quagliano coi Realien della produttività oggettiva, scommessa, sia chiaro, che funziona perché c'è un esercito di gonzi in stile Bentivoglio che si rendono complici del gioco, come del resto facevano i clienti di Wanna Marchi. In questo videogame perenne, è disposto a conoscere la vetta, il baratro e poi di nuovo la vetta, il tutto senza la minima remora; e quando non mostra punta intenzione di tirar fuori il figlio dal guaietto del presunto omicidio colposo, non si tratta certo di un rigurgito di senso civico: è il desiderio di non aver nulla a che fare con uno che, al punto in cui si è, potrebbe essere una fonte ulteriore di grane, come se in fin dei conti fosse meglio che il bamboccio si disintegrasse lì seduta stante. Talmente monomaniacale da risultare manierista, ma per questo assolutamente reale; come la Medea di Seneca, insomma. Bravò, bravò.
3) Valeria Bruni Tedeschi: eccezzzzzzionale nel ruolo della moglie depressa e un po' tonta, persa in un mondo di aspirazioni frustrate, resasi fin troppo conto di essere convolata a nozze con un tizio che la vede come la bella statuina da esibire e zompare e nulla più, tenera ed ingenua nella sua mini-battaglia culturale, che la porta a conoscere tutta l'aridità del marito ("Il Politeama è l'ultimo teatro rimasto nella zona...", "Ah, perché, è una cosa grave?" ), madre incapace di avere la benché minima autorità sul figlio Bimbominkia, ma soprattutto femminella insoddisfatta e accidiosa, drogata dall'avere troppo di tutto tranne ciò che davvero vorrebbe, il calore umano, calore che si illude di ritrovare nel veloce e amorale zompo (Carmelo Bene a far da colonna sonora) col bravo ma sacrificato Luigi Lo Cascio (ah, La meglio gioventù, quella era TV...)(ah, e c'era pure sonia Bergamasco, non costretta nel ruolo da imbecille in casa Rengoni...), e tuttavia predisposta solo a veder deludere desideri sui quali non ha davvero capacità di incidere (quando la ristrutturazione del teatro esce dalla nota spese di casa Bernaschi per sopraggiunta catastrofe finanziaria, la cosa si chiude lì e ciao). Una Bovary 2.0 reloaded, che alla fine accetterà la ricomposizione dei dissidi con una rassegnazione eroicamente nichilista. Bravà, bravà.
4) Guglielmo Pinelli: applausi a Virzì per aver scelto un attore che incarna alla perfezione il Bimbominkia odierno, fisicaccio inutilmente palestrato e facciotto guanciotto coi ricciolotti lunghi e la riga in mezzo, simbolo concreto dell'adolescente forte all'apparenza e gommoso nella sostanza. Viziato e automobilato con jeeppettino, privo di qualsiasi apertura che lo porti fuori dalla realtà virtuale del consumismo, vive l'incanto della tipica triade Jet Set Bimbominkia, soldi-sesso-giochi, e però vive pure il complesso di inadeguatezza inoculatogli dal padre, il cui Ego superperformante è fonte per lui di non poche ansie, sì che è inammissibile che lui non vinca il premio di miglior studente (e infatti NON lo vince)(e infatti il padre abbandona la sala e lo liquida con un asettico "ciao"). Da bravo adolescente d'oggi, gli manca ogni capacità di vedere al di fuori di sé (visto che ben poco gli cale della morte "di quel ciclista di mmerda!!!"), punti di vista diversi dal suo non devono sussistere, ma appena gli eventi cominciano a metterlo di fronte ai primi pesanti NO della vita, ecco la fuga in camera a piagnucolare, datosi che non sussistono in lui i contenuti umani, culturali ed esistenziali atti ad affrontare problematiche complesse. Dice: "Maronn', e che voi docenti chiedete tutta 'sta roba ai ragazzi di 19 anni?". No, è la realtà che gliele chiede, noi ci limitiamo a rammentargliele... Bravò, bravò.
5) Matilde Gioli: per chi da decenni si dispera che l'idealtipo della femmina del grande romanzo italiano sia blindato nella linea che da Lucia Mondella passa per KissMeLicia/Cristina D'Avena e sfocia in Michela Quattrociocche, ecco il linimento di cotante ferite. Grazie a questa Angelina Jolie truzza con l'incisivo sinistro storto, abbiamo di fronte la Stronza Intrepida che le combina e le copre, mente spudoratamente all'ispettore, pur sapendo, lei sola, la verità della tragedia, sta con il bamboccio belloccio, ma poi si mette a fare l'alternativa zompandosi l'ex drogato con manie suicide, il tutto con la leggerezza di passare, nella stessa sera, dalla camera da letto del secondo alla mega festa fighetta del primo. Non ci viene risparmiato nemmeno il momento Bimbominkia della foto al computer con smorfie, ma nulla ci stupisce, se costei non ha problemi a fottere l'ex per salvare l'altro. Bene ha fatto Virzì a sganciare, una volta tanto, vissuto individuale e storia scolastica: del rendimento di costei nulla sappiamo, né di fatto il mondo della scuola è mai chiamato in causa, perché è chiaro che qui i codici educativi in gioco sono altri. In tal modo, certo, le protagoniste de I ragazzi del muretto diventano preistoria, ma siamo dalle parti di una Giulietta Pulp/Grunge 2.0 reloaded, che ama di un amore che non ha nemmeno un senso compiuto, improvviso, fiammeggiante, amorale, pulsionale, forse mosso da pietà o forse no, in cui la salvezza estrema passerebbe per un messaggio su Facebook che è invece prodromo alla quasi catastrofe finale. Chi non ne poteva più dei maneggi softcore di Mirandolina è servito. Bravà, bravà.
Tralasciando Valeria Golino (e non aggiungo altro)(ma chi ce l'ha messa, all'epoca, in Rain man?)(ma davvero la sua è recitazione?)(basta, su...), il tossico e varia altra umanità, diciamo che il meccanismo narrativo del film, affidato alla triplice scissione della medesima trama secondo la prospettiva di tre diversi personaggi, che di suo non è una novità, funziona qui però benissimo, sia perché permette di mettere insieme a poco a poco i pezzi del puzzle e capire chi ha fatto cosa, sia perché in tal modo il desolato mondo etico e materiale in cui si muovono i personaggi, rivisto più volte da angolature diverse, ci si mostra in tutta la sua arida oggettività. Pertanto l'inflessione pesantemente brianzola di tutti i protagonisti (Bentivoglio, Gifuni - nato a Roma!!!!- e Pinelli in primis) perde quel tratto macchiettistico che aveva in Una grande famiglia per diventare il condimento necessario ed esasperante di una visione e di uno stile di vita che trova in effetti piena realizzazione in gente simile. Con il che, peraltro, mi domando perché il popolo leghista, e il quotidiano Libero, abbiano alzato gli scudi contro il film, accusando Virzì di ciucciare soldi alla vacca pubblica per realizzare una pellicola che offende chi lavora davvero: per quanto io non abbia simpatia alcuna per il modus vivendi - e soprattutto il modus culturandi- leghista, se fossi uno di loro non avrei nulla di cui offendermi. Il bacino di utenza della Lega è il famoso popolo delle partite IVA, gente cioè che lavora sul concreto, Gifuni/Bernaschi è un finanziere tanto amorale quanto privo di autentico colore politico, uno che gioca a Monopoli con la carta che diventa straccia o meno straccia a seconda del vento finanziario, mentre il leghista vero si sporca le mani al tornio o passa tre quarti della sua vita al banco, lavora cioè nell'imprenditoria che produce, non nel mondo dei prodotti algoritmici che fermentano sull'economia vera e fanno solo danni. Duole cioè che, per puro amor di polemica, si veda nel film la critica a ciò che non c'è. Il solo accenno, pure qui macchiettistico, all'ideologia leghista si ha nel personaggio del consigliere d'amministrazione del risorto - per poco- Politeama, il quale propone alla Bruni Tedeschi una serata a tema cori alpini, ma ci fermiamo lì. A cadere davvero sotto la scure virziesca, oltre al povero ciclista, è il mondo che idolatra le cifre e traduce ogni aspetto della vita in valore economico, capitale umano, appunto, quanto cioè i periti assicurativi sono disposti a pagare di indennizzo per la morte di un poveraccio. La dignità risiede nel conto in banca, tutto è subordinato alla quantificabilità in termini economici delle tue prestazioni. Di umanità neanche a parlarne. Sia chiaro, siamo tutti figli del consumismo e io sto in questo momento scrivendo sul tablet, in attesa di una mail che mi arriverà fra breve sul Blackberry (oddio, il Blackberry...? Ma ci sono ancora...?). Guai a fare le anime belle. Ma c'è un limite a tutto, e il circuito produzione-consumo, quando si eleva al livello della speculazione sui numeri scissi dalle cose, non merita alcuna indulgenza. Non credo a chi dice che le cose stanno così e insomma questo comporta necessariamente anche quello. In parole povere, l'esistenza del vino non implica che chiunque debba ubriacarsi. Gifuni, invece, quello rappresenta: l'ubriacatura della ricchezza che ad un certo punto non produce più nulla, se non l'astratto senso di dominio su nuovi sudditi, che sono gli ingenui contributori di speculazioni finanziarie che sembrano parenti strette del concetto di usura dantesca, ovvero il fare soldi sui soldi e non sulle cose. Si dice insomma che i nostri poveri e adorati Bimbominkia sono chiusi nella realtà virtuale. Ma, come si vede, essa lavora anche ai piani più alti del circuito economico. Ma non è giusto che videogiochi simili portino, per tutta la catena di cose cui stiamo assistendo dal 2007, alla rovina di famiglie intere. Quello non è più un gioco.