Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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giovedì 15 maggio 2014

Exposizione al ridicolo

Abbiamo avuto la fortuna, o la sfortuna a seconda dei punti di vista, di essere adolescenti ai tempi di Tangentopoli (la Prima Tangentopoli, The Very Beginning Of The Tutt) e di assistere al crollo di un sistema che tutti credevano immarcescibile. I Nomi Che Contavano finirono in un calderone letamoscopico che segnò il crepuscolo delle divinità italiche.



Forlani, per dire, il quale usava fare lunghe passeggiate dal centro della natìa Pesaro alla spiaggia, venendo fermato & omaggiato da famuli adoranti, si trovò, in quelle scomode estati tangentopolizie, a venir bersagliato da "ladro!", "buffone!", esclamati con vigore sdegnato da quegli stessi che fino all'anno prima gli aprivano la strada a colpi di lingua.
  
A quell'epoca, secondo l'elementare criterio di giustizia che muoveva i nostri timidi giudizi sintetici a posteriori, ci pareva di assistere all'inevitabile contrappasso dagli altari alla polvere di chi per decenni aveva usato e abusato del ruolo pubblico per farsi molto più spesso gli affaracci privati, o perlomeno fare la cresta ai guadagni della politica per incamerarne, diciamo così, la plusvalenza. E il centro di questa fogna era Milano, quella che per tutti gli anni '80, ai nostri occhi piccini, era la mitica Milano da bere dello spot dell'amaro Ramazzotti, la Milano dei rampantini, cioè degli yuppies (ovvero gli hippies riconvertiti), dei paninari, certo anche la Milano dei cartoni animati che andavano in onda da Segrate, una Milano in cui noi mettemmo piede per la prima volta in assoluto il giorno dell'Immacolata Concezione del 1989. E fu subito Piazza Duomo, un freddo boia che ci costrinse a chiuderci alla Rinascente in cerca [sic] di una calzamaglia che ci salvasse dall'assideramento [un punto di rosso de-li-zio-so...], e poi la libreria Rizzoli in Galleria; e non, come i nostri affezionati lettori penseranno, per buttarci in cerca di romanzi francesi dell'800 o rare copie di saggi su Eschilo: eravamo ancora giocattolosi, e andavamo pazzi per i Librogame.
Milano, comunque: il Duomo che in quel disgraziato gelo si ergeva come una piramide di sabbia e vapore contro un cielo di immutabile grigio. Nessuna poesia, nessun abbandono estatico metatemporale: conobbi la capitale morale d'Italia come capitale del freddo più freddo che abbia mai sentito.
"Vabbe', è finito l'amarcord?".
Solo per dire che la Milano che vidi io, e di cui capii pochissimo, era in bilico su una cicatrice e non lo sapeva ancora: da un mese esatto era crollato il Muro di Berlino, ma nessuno ancora aveva nemmeno lontanamente intuito le smisurate conseguenze storiche di quell'evento, lo tsunami che di lì a nemmeno cinque anni avrebbe annientato un'intera classe politica e un'intera fetta della storia repubblicana. Gli scricchiolii del sistema, se non di quello politico tutto, almeno di quello locale, si sarebbero forse potuti avvertire e tenere nel debito conto all'indomani del lunedì nero del 1987, allorché la crescita inarrestabile del mercato borsistico milanese conobbe il suo primo, vero drammatico stop di tutta l'epoca post-bellica, ciò per cui nel giro di una giornata patrimoni azionari cospicui divennero carta straccia e il mito dell'Albero degli zecchini d'oro di collodiana memoria si sbriciolò, portando via con sé vagonate di illusioni, soprattutto dei risparmiatori medio-piccoli che si erano fidati ciecamente di gatti e volpi ben più lesti a uscire dal gioco prima della catastrofe.
Ma per lo yuppismo furono comunque dolori. Lo stesso anno, manco a farlo apposta, la milanesità incarnata in politica, dicasi Bettino Craxi, veniva sbattuto fuori dopo 4 anni da Palazzo Chigi con nessun'altra motivazione se non "Adesso tocca a me" detto da De Mita (sisivabbè, anche Renzi con Letta, sappiamo, sappiamo...). Milano stava perdendo e si stava perdendo, ma non vedeva.
E poi la storia proseguì. Ma la Milano plumbea di quell'Immacolata postberlinese si nutriva ancora di luci forse già spente, come quelle delle stelle più lontane che si sono già estinte, ma per i noti effetti legati alla distanza in anni-luce sembrano a noi brillare nei cielo. Forse aveva intuito, ma non voleva vedere, perché quella quinta teatrale e bausciona era l'unico contrafforte che ancora teneva compressi dietro di sé i miasmi di stagioni passate che nessuno voleva più rivivere. Poi fu Tangentopoli e ora di nuovo TangentopolExpo (sì, perché poi è all'Expo 2015 che arriviamo, che credevate?). E il difetto capitale di Milano, almeno ai miei occhi, e parlo degli ultimi 30 anni, è proprio questo: voler sempre dimenticare troppo in fretta.
L'italico spirito, per carità, è quello che è, ma i fatti degli ultimi decenni a Milano ne mostrano forse uno degli aspetti più deprimenti: questa operosa città ha vissuto una delle sue stagioni più buie negli anni '70, quando tra bombe, attentati del più vario genere, contestazioni, disordini di piazza, gambizzazioni di giornalisti e altro, la vita scorreva ogni giorno sotto il crisma della più assoluta esasperazione (poi vabbè....) La svolta di inizio anni '80 avvenne forse sin troppo velocemente: la grigia città dei regolamenti di conti ideologici a colpi di pistola si trasformò nel Giardino delle delizie della New Age consumista e godereccia, eccessiva e spendacciona, modaiola e cocainomane, in ciò magistralmente trainata da una classe politica arrivista e senza freni. E mentre il futuro fondatore di  Forza Italia faceva nascere quartieri residenziali e TV commerciali con pari slancio, un'intera stagione di sangue e cenere pareva consegnata all'oblio. Troppo oblio, ci permettiamo di dire; e i campi di tensione che non si volevano più tenere in conto restarono lì, ma a che prezzo li si poteva ignorare? Al prezzo della Gioia A Tutti I Costi, dell'esibizionismo più sfrenato, volgare ed arrogante, in una ricerca spasmodica del meglio che esigeva per forza il sacrificio dei deboli sull'altare della volontà di potenza dei forti. Non che magicamente le sperequazioni sociali fossero evaporate, ma semplicemente il loro senso più acuto era stato narcotizzato dall'illusione del benessere alla portata di tutti, sì che i protestatari dal capello lungo, da motore del rinnovamento, o presunto tale, furono relegati al ruolo di abbaianti disturbatori di un nuovo corso di fighetteria e infallibile soddisfazione del desiderio. Fu questa la stagione in cui molti ex uomini da corteo si convertirono al vangelo socialista craxiano, che di socialista aveva ormai ben poco, e approdarono al porto della politica cool. Un cool che esibì ad un certo punto il conto, e che conto: per garantire davvero il Bengodi a uomini, donne e cani, bisogna saper bengodere e propria volta, e per bengodere ci vogliono i soldi, e per avere più soldi del bengaudente che ti sta a fianco ci sono molti modi, ma il più veloce è senza dubbio la tangentina. Questo fu per tutto il decennio, ma anche prima e anche dopo, il cemento che teneva insieme il muro divisorio tra l'età della gioia e il passato buio delle bombe. Cemento che venne ad un certo punto a mancare, sostituito dal fango. E poi il Pio Albergo Trivulzio, ovvero il sassolino che provocò la valanga, quindi il Dies irae  del pool di Mani Pulite e tutto il resto noto a chiunque. Milano ri-cadde in ginocchio, scoprendo, o decidendo di scoprire, quanto insensato irrealismo aveva ammantato la sua vita per 15 anni, l'irrealismo di una fiaba che equivaleva a scopare la polvere sotto il tappeto. E oggi, dopo 20 anni in cui lo Stivale pare aver girato a vuoto, ancora tangenti, ancora i nomi che già allora furono protagonisti dello scandalo (e due anni fa, comunque...), ma stavolta tutto si impernia sul piedistallo di quella che, a meno di miracoli improvvisi, sarà la più clamorosa e devastante figuraccia fatta dall'Italia di fronte al mondo intero, altro che gli improvvisi cambi di casacca nelle due guerre mondiali: fra un anno, Milano e l'Italia dovranno dire a tutti gli esseri pensanti: "Scusate, abbiamo bucato l'Expo".


Perché è chiaro che, di questo passo, rischiamo di fare la fine della Colombia che rinunciò ad organizzare i mondiali di calcio del 1986, costringendo la FIFA a ripiegare frettolosamente sul pre-attrezzato Messico (e anche coi mondiali in Brasile è andata così... siamo tutti colombiani...): non avremo non solo nulla da eXporre, ma neanche i luoghi dove farlo. Sono 6 anni che Milano ha ottenuto di essere sede dell'Expo, e come ai tempi della guerra di Roma contro Giugurta le operazioni vanno uno zinzino a rilento, e ora come allora c'è dietro la tangente. In quel caso era un sovrano estero a corrompere i consoli romani, qui invece ci siamo fatti tutto in casa, con i più bei nomi della primissima primavera tangentopolese di 20 anni fa. E la figuraccia deborda dagli italici confini. L'Expo, che doveva rappresentare per Milano l'addio definitivo ad una stagione di melma assortita, sta diventando ormai un supplemento di melma. Ancora come allora: Milano si sporca, corre frettolosamente a ripulirsi, ma lo fa sempre con la stessa acqua della pozzanghera in cui è caduta. Però stavolta non c'è in ballo solo l'elastica moralità ad orologeria di cui noi tutti italiani siamo campioni sommi, c'è di mezzo il ludibrio di tutto il mondo sviluppato: Greganti & c. hanno una colpa centuplicata, perché i loro maneggi andranno a danneggiare l'immagine già non bellissima di un Paese condannato ad essere l'eterna controfigura di se stesso. La tangentExpopoli non è una questione di marciume interno, è la prova che si può essere così morbosamente avvitati sul proprio particulare da disinteressarsi completamente delle pesantissime conseguenze che tutto un Paese subirà da questa condotta: chi si fiderà più di noi, di cui già ci si fidava poco, chi non ricorderà, da qui ai prossimi decenni, il fallimento di un evento che per TUTTI i Paesi che lo organizzano è la vetrina principale, l'occasione definitiva per lanciarsi e rilanciarsi, il momento in cui, sotto gli occhi dell'orbe terracqueo tutto, si può dire: "Eccoci, noi siamo questi qui e sappiamo fare queste cose qui"? Chi non sogghignerà sentendoci dire: "Sono italiano"? "Sì, quelli dell'Expo...." (come nella novella di Pirandello c'era "quello del mulino", un marchio a vita capace di spegnere ogni velleità di cambiamento). Guicciardini, dall'alto dei cieli della prudenza e della discrezione, ("dai, dai, fa' vedere che insegni lettere..") contemplerà probabilmente questo spettacolo con acre e rimordente soddisfazione, giusto per trovare conferma alla tesi maturata in una vita: noi qui di terra Ausonia sappiamo farci - benissimo - solo i fatti nostri. E il cuore dello scandalo, sempre lei, quella Milano che è passata dal piombo alla plastica, che ha voluto reagire al dolore con l'anestesia della parte malata, senza volerla veramente guardare - e curare: e quest'arto incancrenito sarà ora mostrato all'inorridito mondo. Una cancrena di nebbia (scusate, sono agli Ermetici in quinta...).  

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