[Intro: chi scrive non si sente attualmente rappresentato da nessuna delle formazioni politiche che siedono in Parlamento. La presente analisi va quindi letta non tanto come commento ai più recenti fatti, che pure sono citati, men che mai come endorsement ai fatti di oggi pomeriggio, che dimostrano gli effetti catastrofici di un turno elettorale che ha prodotto TRE minoranze parlamentari che si odiano, ma come riflessione distaccata e generale su uno dei tanti mali della nostra politica]
La
maturità politica di un popolo si coglie evidentemente in alcuni momenti clou
della vita nazionale, ad esempio in occasione delle elezioni; le quali elezioni
si suppone diano luogo alla creazione di una maggioranza parlamentare,
maggioranza che a sua volta deve sostenere il governo, si spera, per tutta la
durata di una legislatura, salvo inconvenienti. Succede nella nostra bella
Italia che questa regola basilare della democrazia parlamentare sia stata
sempre interpretata in modo alquanto elastico: non è necessario che il ‘salvo
inconvenienti’ sia rappresentato da qualche maxi-scandalo, o qualche maxi-
defezione di parlamentari o qualche maxi-qualcosa talmente detonante da
obbligare ad un rimpasto governativo o addirittura alle elezioni anticipate. Da
noi i governi e le relative maggioranze, durante una singola legislatura, si
sono sempre distinti per la loro consistenza pongoide, nel senso che, ad ogni
stormir di capriccio anche della formazione partitica più spiccicoforme, i
governi cadevano, i ministri ruotavano, i sostenitori e gli avversari
dell’esecutivo entravano e uscivano dalle coalizioni come fossero porte
girevoli. Si potrebbero citare innumerevoli episodi di tutta la nostra storia
repubblicana. Ma non qui.
Qui ci
preoccuperemo di un preciso caso pongoide, ovvero la fissazione solo nostra di
ritenere tutte le elezioni che avvengono nell’arco della legislatura
elezioni politiche, motivo per cui le maggioranze governative possono
ridefinirsi in perpetuo. Con evidente nocumento alla continuità dell’azione
amministrativa del Paese.
L’exploit agostano di Matteo Salvini non è che l’ultimo esempio di questa italica
patologia: le elezioni europee hanno sancito un copioso 34% di consensi
per la Lega, quasi il doppio rispetto alle politiche di un anno fa, ergo
l’attuale maggioranza di governo non rappresenta più i veri orientamenti
politici degli italiani, quindi si possono mandare tranquillamente tutti a casa
con l’indizione di nuove elezioni.
Prescindendo
da tutto quello che è successo dopo, fino a stasera intendo, il ragionamento salviniano non è affatto
nuovo: la litigiosità e lo scarso senso istituzionale di molti politici porta
ad accettare l’esito delle elezioni politiche non fino al prossimo turno, ma finché
non cambia qualcosa, e qualcosa può cambiare ben prima della scadenza della
legislatura. Perché? Perché l'avversario va delegittimato a priori. E' vero che anche ai tempi primorepubblicani il fuoco reciproco non mancava, ma erano altri tempi, c'era un partito unico
vincitore (DC) che di volta in volta doveva piluccare consensi dalle sue mascotte
(PSI, PRI, PSDI, PLI)(molto vintage, n’est-ce-pas?), il PCI sparava a zero, ma le parti in commedia erano fisse: adesso che le
coalizioni lottano ad ogni turno per sedere al posto di comando, lo sport
prediletto dei politici sconfitti è da 25 anni la delegittimazione perpetua
dell’avversario vincitore o (new entry salviniana) lo scalzamento in
itinere dell’alleato. Cioè: siete al governo, ma non dovreste.
L’errore
di questa impostazione può comprendersi con una comoda metafora scolastica
(sospiro sconsolato di metà dei lettori), ovvero la distinzione tra verifiche
formative o in itinere e verifiche sommative, quale che sia la loro
declinazione specifica a seconda degli insegnanti e delle materie. La verifica
formativa, all’interno di un modulo didattico, può servire per comprendere se
lo studente ha chiaro il percorso in atto e se sta facendo propri i contenuti
proposti dal docente: non è necessario che tale verifica produca una votazione
numerica, o se la produce, essa risulta di grado inferiore rispetto a quella
della verifica sommativa, dicasi la prova finale che accerta l’acquisizione di
conoscenze, capacità e competenze relative a quella parte di programma: quest’ultima
sì prevede una votazione che, insieme a quella delle altre verifiche sommative
del (tri) (quadri) (penta) mestre, produrrà la media finale su cui poi si
deciderà il voto in pagella.
Al di là
delle singole declinazioni (e della fuffa pedagoghese), si diceva, la verifica
formativa più basic può essere semplicemente la richiesta di un feedback
dal posto a due-tre studenti circa l’argomento delle lezioni precedenti,
oppure, nel caso di moduli lunghi & impegnativi, la somministrazione di
questionari di riepilogo o qualsiasi altro strumento che consenta un riscontro
sul breve periodo dell’efficacia dell’attività didattica, in modo che lo
studente comprenda le criticità e le corregga prima della verifica sommativa.
Si
capisce il senso di questa metafora (che come tutte le metafore non è MAI
sovrapponibile alla situazione di partenza, quindi non perdete tempo ad
esercitarvi coi distinguo): le elezioni politiche sono le verifiche sommative a
cui si giunge dopo una legislatura punteggiata certamente da altri appuntamenti
elettorali ‘formativi’ (comunali, regionali, elezioni europee), il cui
risultato è però solo sintomatico di un certo atteggiamento
dell’elettorato rispetto all’azione di governo, ma non può diventare motivo
valido per chiedere ogni volta dimissioni o cambi in corsa di
maggioranze. Esattamente allo stesso modo la verifica formativa serve allo
studente e al docente per capire se le conoscenze vengono introiettate con
profitto o meno: uno studente non rischia ogni volta che gli si abbassi
la media se non è riuscito a dare un feedback accettabile circa gli argomenti
del modulo, né deve temere che ogni domanda di comprensione proveniente
dal docente si traduca in voto, così da rischiare il recupero a settembre un
giorno e schivarlo il giorno dopo (come dite? Una volta i docenti entravano in
classe e interrogavano a caso senza preavviso, perché avevano la luna storta, e
un votaccio su tre aoristi in quindici secondi sanzionava il debito a fine anno?
Altri tempi…).
Questa è
la radice del problema, ovvero la perenne inquietudine elettorale da cui siamo
afflitti: ai tempi del (semi-) maggioritario col mattarellum la
coalizione di maggioranza aveva più deputati pur avendo ricevuto meno voti dell’altra? Subito l’altra coalizione scendeva in piazza al grido di: “Dimettetevi, non siete maggioranza nel
Paese!” (ottobre 1996, by the way). E vabbè. Giro di elezioni regionali e sonora débacle dellacoalizione di governo? L’opposizione tuonava al grido di: “Dimettetevi, non
siete maggioranza nel Paese!”. Il voto amministrativo in una o due grandi città
produce maggioranze opposte a quella governativa? “Ascoltate il segnale delle
città più rappresentative, dimettetevi, non siete più maggioranza nel Paese!”.
E avanti così. Il problema è che chi governa si dimentica, o glielo fanno
dimenticare, che l’unico mandato degli elettori a legittimare il
Parlamento e le sue maggioranze è quello delle elezioni politiche, esattamente
come sono solo i voti sommativi a creare la media per la pagella (sulla
cui definitività poi influiscono altri elementi, ma naturalmente le metafore
contano anche per quanto di non sovrapponibile c’è in esse)(repetita iuvant).
Anche di fronte alla più catastrofica consultazione amministrativa, chi governa
dovrebbe dire a tutti, in primis alla propria maggioranza: “Cari tutti,
gli elettori ci dicono che sono scontenti di come abbiamo lavorato sin qui.
Cerchiamo di aggiustare il tiro, sennò alle prossime politiche finiamo
all’opposizione”. Stop. Non sarebbe nemmeno il caso di aggiungere: “L’unico
mandato e gli unici numeri parlamentari che contano sono quelli scaturiti dalle
elezioni politiche: l’elettorato cui dobbiamo il nostro essere in carica è quello
e se adesso non è più tale dobbiamo recuperarlo. Ma smontare tutto, no”. Eppure
andrebbe fatto tutte le volte. Cosicché o il governo cade o resta in carica in
condizioni di perenne precarietà, sempre nel timore che qualcuno sposti un
mattoncino e venga giù tutto. E alla fine, fermandoci solo agli ultimi 25 anni:
XII
legislatura
Berlusconi
1 (1994) – caduto per defezione
inchiestogenica della Lega.
Dini
(1995-1996) – mandato a morire per fare nuove elezioni.
XIII
legislatura
Prodi 1
(1996- 1998) – caduto per la legge finanziaria e UN voto di meno nella
questione di fiducia.
D’Alema
1 (1998-1999) – caduto per capricci interni alla maggioranza, nonché per l’onda
lunga del disastro amministrativo di Bologna, persa dalla sinistra per la prima
volta nel dopoguerra, disastro dietro cui i più dietrologi vollero vedere il
colpo di coda di Romano Prodi (Bologna, 1939), infuriato per la fine del suo
governo.
D’Alema
2 (1999-2000) – caduto per elezioni
regionali poco felici.
Amato 2
(2000-2001) – mandato a morire per fare nuove elezioni.
XIV
legislatura
Berlusconi
2-3 (2001-2006) – reimpastato dopo regionali poco felici.
XV
legislatura
Prodi 2
(2006-2008) – caduto per la ripicca di TRE senatori.
XVI
legislatura
Berlusconi
4 (2008-2011) – caduto per terremoti interni e defezioni multiple.
Monti (2011-2013)
– sfiduciato in itinere e mandato a morire per fare nuove elezioni.
XVII
legislatura
Letta
(2013-2014) – sfiduciato dal suo stesso partito.
Renzi
(2014-2016) – suicidato via referendum (60% contro) a fronte di un 40% del PD
alle europee di due anni prima.
Gentiloni
(2016-2018) - mandato a morire per fare nuove elezioni
XVII
legislatura
Conte 1
(2018-2019) – caduto per esito di elezioni europee troppo favorevoli ad
uno dei due partiti della coalizione.
Prescindendo
da tutti i microsismi provocati da tutte le consultazioni
intercorse tra una legislatura e l’altra (coi relativi dimettetevi!), il
saldo è 14 governi in 25 anni. Come se tutti i Consigli di classe in un anno
fossero scrutini. Immaginate l’impazzimento degli alunni. Ecco: adesso trasferitelo
all’Italia.
[P.S.: dopodiché, siccome si diceva che le metafore contano anche per quanto non c’è di sovrapponibile tra i loro termini (visto che gli studenti non eleggono i docenti)(repetita iuvant), c’è tanto di scapicollatezza nei politici quanto in noi elettori, vero? Guardate ancora il resumé di cui sopra: in 25 anni non è MAI successo che la coalizione vincente alle elezioni si sia riconfermata a quelle successive. Perché? Da un lato non è nemmeno MAI successo che la coalizione di governo che aveva iniziato la legislatura fosse la stessa che la concludeva (escluso il cdx 2001-2006), dal momento che girotondi di deputati, grazie all’assenza di vincoli di mandato, hanno SEMPRE ridisegnato la seggiografia del Parlamento; facile dunque supporre un certo disorientamento nel corpo elettorale. Facile però anche riconoscere come NOI elettori siamo spesso presi da attacchi di erbavoglite acuta, per cui salutiamo come il Messia qualsiasi candidato premier che prometta mari & monti, lo accompagniamo come il salvatore della Patria salvo poi dismetterlo non appena fallisce nell’esaudire entro un mese dall’insediamento proprio quella promessa per cui l’abbiamo votato, come se esistessero solo le nostre esigenze e non ne fosse differibile il soddisfacimento. Siamo sempre NOI quelli bravi a pontificare sulle mancanze degli altri, ma poi quando ci troviamo a compiere quelle mancanze medesime “eh, ma sai, il mio è un caso particolare…”, siamo noi che ci serviamo di chi ci sta sui cosiddetti facendocelo amico quando occorre per poi rigettarlo nel limbo, noi che ci indigniamo quando qualcuno va avanti grazie “al favorino dell’amico mio”, poi se il favorino tocca noi col piffero che lo rifiutiamo, noi che pur di vedere il nemico che affonda invece di far fronte comune contro un problema collettivo [chessò, i tagli alle ore di latino…], godiamo di andare a fondo assieme a lui al grido di “mal comune mezzo gaudio”.
Questi
siamo NOI. LORO sono semplicemente lì a rappresentarci.
Tienn ‘a
mment.]
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