Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 15 settembre 2019

Machittevòle@festivalfilosofia: la lezione (tragica) dei classici.

(Carpi, città adottiva di Dorando Pietri e natale Gregorio Paltrinieri, 13 settembre 2019 - 27 fruttidoro 226° anno della Rivoluzione, ore 15.00)



Grandi scervellamenti sotto il cielo dell'Emilia. Il tema del festivàl di quest'anno (Persona) si declina in un numero di incontri ad alto tasso di attualità, come quello presieduto dal prof. Maurizio Bettini, gran capo degli studi di antropologia del mondo antico (versante prevalentemente latino), che oggi ci regala puntute riflessioni sull'attualità o meno dei grandi temi tramandatici dalla letteratura classica. Osserviamo in esergo che quell'arietta timorosa di Lanterna Verde, che ci pareva aver guidato la mano degli organizzatori del festivàl di Mantova settimana scorsa, spira leziosa anche qui, visto il primo step del discorso bettiniano. Ma noi, osservatori dell'Assoluto nel mondo del Relativo, amiamo guardare i grandi contorni della Permanenza piuttosto che ingolfarci con i dettagli della Contingenza.
Tutto questo per dire che ogni discorso sull'attualità dei classici non può prescindere da uno dei testi fondanti della cultura occidentale, letto & goduto da generazioni e generazioni di intellettuali e non solo, ovvero l'Eneide.
Enea e compagni sono a tutti gli effetti dei profughi che fuggono dalla guerra, sballottati da una tempesta fino a schiantarsi soli e disperati in una terra straniera e potenzialmente ostile. I Cartaginesi vorrebbero farli fuori in quanto invasori non desiderati. Ed è qui che il troiano Ilioneo se ne esce col carico da 11 (libro I, vv. 539 ss.): cari voi, quale patria è così barbara da permettervi di respingere dei disgraziati come noi dall'ospitalità qui sulla spiaggia? Se vi facciamo proprio tanto schifo, ricordate in ogni caso che gli dèi hanno buona memoria sia delle azioni buone che di quelle cattive. Morale: una città che sblatta i naufraghi è barbara, non merita di essere considerata civile.
E qui Virgilio ci regala il primo copioso caso di empatia di tutto il poema con la figura di Didone, prontissima a soccorrere i troiani perché vede gente che soffre e lei sa benissimo cosa voglia dire soffrire. Bettini opina pertanto che sembra di parlare dell'oggi, stessi temi e stessi luoghi, profughi fuggiaschi, annegati, accolti ostilmente.
Quindi l'Eneide cos'è?
Un libro che ha fatto filtrare nella nostra cultura modi di sentire e pensare che fondano l'occidente.
Tutto ruota intorno al comportamento degli uomini nei confronti degli altri uomini.
Come oggi. Al punto che, sostiene puntualmente il dotto, tanto la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 quanto l'articolo 10 della nostra Costituzione sono di fatto emanazioni spirituali dell'Eneide. Ma Bettini va oltre: il vero fattore aggiunto degli studi classici rispetto a tutti gli altri è la possibilità di farci riflettere su cose che sono nostre, ma da un altro punto di vista. Essi sono un laboratorio importantissimo in cui si svolge un gioco di identità e alterità che ci obbliga a metterci in costante confronto con le nostre radici. Gli antichi avevano il concetto di diritti umani? Cosa hanno in comune e diverso da quelli di oggi? 




A questo punto l'antropologo esperto getta i dovuti ponti tra ieri e oggi: gli Human Rights promossi dai coniugi Roosevelt (Eleanor in particolare), sono la traduzione letterale del latino ius humanum. Interessante però che lo ius humanum sia un po' come la salute, ci si accorge di esso quando manca, cioè a dire che il concetto non è spiegato in sé, ma lo si cita in situazioni in cui esso risulti palesemente violato.
Esempio: narra Tito Livo (AUC 1, 28) che Mezio Fufezio, ultimo re di Alba Longa, accusato di tradimento, fu condannato  ad essere squartato da due cavalli in corsa; Tito Livio commenta dicendo che questa è una violazione dello ius humanum. Dal che noi dobbiamo dedurre in cosa consista lo ius in questione (osservo io: che è come dire che mangiare con le mani sporche di terra non igienico, dal che dobbiamo dedurre cosa si intenda per igiene). E' chiaro che dietro questo ius ondeggia l'idea del rispetto dell'integrità strutturale dell'individuo, ovvero il rispetto dei requisiti minimi in forza dei quali un uomo può definirsi tale: l'incolumità fisica come garanzia da torture e mutilazioni è sicuramente uno di questi.   
Su questa linea 'liviana' può certamente collocarsi il romanziere Edgar Doctorow che, nella sua opera intitolata Ragtime (1974), dice che gli Human rights coprono uno spettro amplissimo di diritti, ma l'idea diffusa è che l'importante sia tutelare quelli minimi come la libertà di parola o essere garantiti dalla legge; più spesso ancora, l'appello ai diritti umani si compie quando quando si esige da colui che può disporre pienamente di noi, e quindi potrebbe essere il nostro carnefice, la garanzia minima di incolumità, quindi non venire torturati o mutilati o uccisi. Il minimo inteso come il minimo quando si è stati deprivati di tutto.

E del resto l'universalismo stoico, di cui sommo rappresentante latino è S.E.N.E.C.A. non ci dice che siamo tutti fratelli perché la natura ci ha generati uguali?

Sin qui le analogie tra noi e gli antichi. Certo, non possiamo trascurare alcune cospicue differenze, perché la realtà è sempre più complessa dei poveri schemi che ci inventiamo quotidianamente per ingabbiarla.
Per dire, già il vulcanico Saint- Just, ai tempi della Rivoluzione, disse con lepida ironia che i diritti umani rivendicati nel XVIII secolo  avrebbero causato la rovina di Atene e Sparta, poiché l'abolizione della schiavitù sarebbe equivalsa alla rovina totale dell'economia di queste città (si ricordi che per Aristotele lo schiavo era tale per natura). In effetti non c'è una sola voce tra gli autori classici che si levi per condannare la schiavitù, laddove condannare significherebbe evidentemente abolire. Anche Seneca, nel suo testo pro-schiavi più famoso, arriva al massimo del concedibile, ovvero riconoscere che l'umanità degli schiavi li rende degni di un trattamento migliore rispetto alla norma. Stop.
Del resto anche S. Agostino, signore assoluto della letteratura dell'interiorità, aveva schiavi al lavoro nei terreni del suo vescovado. La schiavitù era conseguenza del peccato. Quanto allo schiavo prigioniero di guerra, la schiavitù era conseguenza dell'aver combattuto una guerra sbagliata.

Bisogna quindi andarci piano con la lode in toto della classicità. Non per dire che questi fossero carnefici senza cuore o al contrario custodi dell'Armonia universale: bisogna far parlare le fonti per capire la LORO perimetratura dei diritti umani, senza applicare retroattivamente le nostre categorie.
Proviamo.
In Attica, moooolto tempo prima della democrazia di cui tutti tessiamo le lodi, c'erano sacerdoti, i bùzigi ("aggiogatori di buoi") che all'inizio dell'anno agricolo praticavano l'aratura sacra per favorire lo svolgimento fausto delle attività. L'aggiogatore lanciava tre maledizioni contro chi negava acqua, fuoco e cibo ai bisognosi (non c'erano discount a ogni pie' sospinto, all'epoca), contro chi non indicava la strada al viandante (non c'erano i GPS, all'epoca, perdersi era un attimo, ecco perché oggi anche i profughi hanno il cellulare con google maps) e contro chi non seppelliva i morti (si sa, si sa...).
Attenzione bene: non si trattava di semplici minacce (un kittemuort generico, per dire), ma formule di maledizione (arài in greco) che si era certi avrebbero sortito effetto in caso di azioni empie tali da scatenare l'ira degli dèi. Rispetto quindi alla sostanziale laicità dei "nostri" diritti umani, i "loro" diritti umani si riferivano a comportamenti dietro i quali era presupposta la presenza vigilante degli dèi.
Il che suggerirebbe maggiore attenzione nei confronti della nota interpretazione hegeliana del mito sofocleo di Antigone, recentemente ripreso da cantanti- professori: dice Bettini che il pur pregevole filosofo teutonico ha sbagliato assai nel vedere nell'opposizione Antigone- Creonte l'ipostasi del conflitto tra diritto familiare e diritto pubblico. Agli occhi di Antigone (e probabilmente del "pio" Sofocle)(uno che guidava il vapore durante i misteri eleusini, sa?) Creonte sta violando un diritto umano, ovvero sta attirando su di sé una maledizione sul tipo di quelle dei bùzigi: non seppellire Polinice non è un'offesa alla famiglia in nome delle leggi dello Stato, è proprio un atto empio.. Difatti, non appena il re di Tebe toglie la polvere che Antigone aveva sparso sul corpo di Polinice a mo' di sepoltura, subito gli dèi fanno venire un forte vento per rimettercela (quindi, osservo io, Carola Rackete non pertiene più al paragone).
Proteggere i morti per salvaguardarne la dignità: si noti che il cadavere di Ettore non va in decomposizione, perché gli dèi non vogliono che resti insepolto. Ma perché ciò accada, Achille deve deporre la sua ira e restituire le spoglie ettòree a Priamo, perché, dice Apollo, ora come ora si sta ostinando ad infierire, a rischio di provocare l'ira divina, contro "terra muta" (Iliade XXIV, v. 56). Chiaro? Muta è la terra perché muto è il cadavere di cui si fa scempio, e che vuol dire muto? Vuol dire che non ha facoltà di chiedere aiuto alcuno ad alcuno, quindi Achille sta giungendo ad un limite di sopportabilità divina che ricade nuovamente nella fattispecie dei contenuti delle arài di cui sopra (Apollo d'altronde minaccia...).
Anche Cicerone, in De officiis I, 52, parla di alcuni valori/diritti comuni (communia) il cui rispetto conferisce saldezza alla società umana: ricompaiono l'obbligo di fornire acqua e fuoco, ma al posto dell'indicare la strada (ovviamente inconcepibile per gente che ha costruito le strade migliori del mondo in cui era impossibile perdersi) inserisce la capacità di dare buoni consigli a chi li chiede. Certo, siccome  i bisognosi sono tanti ma i mezzi pochi, prima bisogna preoccuparsi di quelli che sono a noi vicini. Cicerone è un po' più restrittivo dei greci, pare. Invece Seneca, universalizzando come solo lui sa fare, dice che fornire cibo, indicare la via ecc. è proprio il minimo per sostentare la famiglia umana. 
Resta inteso che, pur con tutti i limiti ora visti, i latini ci hanno consegnato il meraviglioso concetto di humanitas che si traduce come
1) L'essere uomo ed essere riconosciuto come tale  +
2) Comportamento mite, civile, generoso                 +
3) La cultura, aver letto dei libri (Plinio finito sotto il Vesuvio dice che l'humanitas della vita si fonda sulla carta, cioè sulla lettura).
Se tutte queste cose a noi oggi sembrano financo ovvie, va detto che il guadagno concettuale proposto dai romani è ENORME: considerando come girava l'etica antica, un comportamento humanus, cioè un modo di agire da homo dell'epoca, poteva anche essere l'atto di infierire sull'avversario sconfitto. Invece no, i romani associano l'essere uomini con l'essere civili. Salto notevole. 

Poi certo (e qui il ricco resoconto del Bettini's talk lascia spazio alle spocchiose riflessioni del sottoscritto) i detrattori del mondo antico diranno che i padri dell'humanitas erano gli stessi che facevano dilaniare i poveracci nel Colosseo, per tacere del fatto che gli ateniesi si sono sempre ben guardati dal concedere il diritto di voto alle donne. Il fatto è appunto che "quel" mondo è anteriore al "nostro", ma a mio giudizio non nel senso banale di "prima nel tempo", semmai nel senso che "sta davanti": quel mondo ha anticipato certamente dinamiche che hanno caratterizzato molta storia dell'occidente, ma soprattutto ne fornisce la chiave di lettura generale, che è tutta nella più grande conquista artistica del mondo greco, ovvero il senso tragico dell'esistenza. A fronte di posizioni come quelle di molta umanità odierna che non resiste e deve per forza schierarsi in uno qualsiasi degli spogli giardinetti ideologici sul mercato, il senso tragico costituisce un salutare correttivo all'anestesia dello spirito critico inoculata dalle ideologie medesime. Siamo anche discretamente stufi di gente che deve comportarsi da tifosa qualsiasi cosa accada nel mondo, per cui le verità della "propria" parte sono sempre assolute, la ragione è solo la propria, le posizioni degli "altri" sono sbagliate di default. Se la realtà smentisce la validità di idee precotte e assimilate senza vaglio critico, ovviamente è la realtà ad essere sbagliata. Questo muro contro muro perpetuo andrebbe smontato proprio prendendo in considerazione il giudizio che si può dare dei protagonisti del mondo classico.
A fronte di chi vede solo splendori in esso, siamo i primi a riconoscere che gli inventori della democrazia (in casa propria) hanno ben pensato di diventare imperialisti (all'estero), così come i civilizzatori d'Europa "fanno il deserto e lo chiamano pace" (cit). Non c'è, ci insegna la storia di Atene e Roma, progresso storico, civile, spirituale a costo zero: il dominatore fa risplendere la gloria del suo ingegno su un popolo di dominati, la popolazione dominatrice si polarizza sempre in un nucleo, ristrettissimo, di potenti e in uno, vastissimo, di poveri, cosicché dentro e fuori di essa la logica gerarchica nei rapporti tra gli individui si ripropone ciclicamente. Arriva un momento in cui l'etica accelera di colpo per osmosi con i mondi degli "altri", ed il benessere seduce i giovani che non se lo sono conquistato e lo ritengono a sé dovuto, attirandosi i fulmini dei vecchi che non concepiscono la vita che non sia sacrificio, l'agire bene essendo un premio in se stesso che non necessita di ulteriori riconoscimenti; il popolo all'apice del potere può franare per difetto interno, la democrazia intesa come tirannia della maggioranza mal guidata dai suoi capi produce guasti inimmaginabili, quando in gioco è il potere assoluto non bastano abili discorsi di fronte alla forza delle armi.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma l'idea mi pare chiara: la storia antica ha molto di anticipatorio dell'oggi, anche in molte delle brutture dell'oggi. Eppure quei popoli dal vissuto così contraddittorio sono anche quelli che ci hanno regalato le coordinate per ricercare le Bellezza. Qui sta il senso tragico dell'esistenza, ovvero la presa d'atto che è solo superbia quella di chi pretende di separare sempre con nettezza il bene dal male dall'alto di un perfezione che non possiede. La vera consapevolezza del reale sta nell'incoercibile sforzo verso il bene che deve però misurarsi sempre con la minaccia del male, preso atto che le due forze convivono spesso. Eliminare una delle due, paradossalmente, ci proietterebbe in una dimensione non umana. Questo siamo, invece, in ogni epoca: costruttori di progresso al prezzo dell'imperfezione del medesimo. L'esclusiva del bene non è appannaggio di nessuno.
Si può dunque davvero schierarsi ideologicamente del tutto pro o del tutto contro gli antichi? No, come non si possono tacere i meriti dei nostri padri anche se nella loro vita magari non hanno azzeccato tutto, e ci permettiamo di farglielo notare: eredi della complessità, dobbiamo progredire consci della nostra perfettibilità.
Certo, la Bellezza più autentica nasce sempre dal dolore più profondo. Questo è il prezzo dell'humanitas.

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