CHI
CERCA TROVA
So
che molti di voi si stupiranno, ma la querella più frequente
tra i nostri alunni, specie del biennio, quando andiamo a proporre i
libri da leggere durante l'anno o per l'estate, è sempre che diamo
titoli poco accattivanti, storie lontane nel tempo (già, è dai
tempi di Medea che le madri non assassinano più i figli, né si è
mai più visto un parricidio dai tempi di Dimitri Karamazov...), temi
poco attuali, scritture astruse e difficili da seguire. E allora noi
brava gente che facciamo? Si cerca narrativa ggiovane, o perlomeno
gente suppergiù under 40 con storie di oggi, ma che trasudino
universalità. La qual cosa, come ben si capisce, taglia fuori i
romanzi di Moccia dal parterre.
Epperò
ogni tanto qualcosa si trova, detto pure che alcuni difettucci di
scrittura paiono proprio trasversali in autori tra loro lontanissimi.
Cioè, difettucci. In realtà lo sono ai nostri spocchiosi occhi,
anche se in realtà si tratta di scelte poetiche su cui non ci
sentiamo personalmente d'accordo, ma che di fatto potrebbero essere
gradite ad altrui gusti. È noto ad esempio che dell'ultimo libro di
Paolo Giordano abbiamo trovato un filino prevedibile l'impostazione
da prossima fiction RAI conferita al troncone principale della
narrazione; così come ci scoccia all'inverosimile la fissazione del
fresco premio Strega Alessandro Piperno di inzeppare tre
romanzi su tre (carini, poi, nel complesso) di dettagliati resoconti
su rapporti sessuali a trigonometria variabile, con grandi esibizioni
di fellatio, masturbazioni, diteggiature intravaginali e
annusate varie ecc. ecc. Non è, sia chiaro, bacchettonismo: più che
altro non crediamo che scendere nei particolari dell'atto sessuale,
compresi quelli velatamente pre-pornografici, renda più vera una
storia; ma, molto più banalmente, il fatto è che roba simile data
ai nostri cocchi scatenerebbe subito la levata di scudi di madri,
nonne e parroci del Paese, insensibili agli altri valori del romanzo
in oggetto, e pronti solo ad accusarci di corruzione della gioventù
(c'è già passato lui, grazie). Non vi dico cosa ho rischiato a far
leggere Acciaio (il pericolosissimo Acciaio!!!) della
Avallone.
Tutto
ciò per dire che il romanzo che andiamo a sbioccolarvi oggi, Incanto
del 35enne Pietro Grossi, è caruccio assai, ma ci sono sempre quelle
(poche) paginette un filino hot (“Ah, perché i tuoi cocchi non
conoscono tutti i meandri di Internet?” - ma lo so che non ho a che
fare con gli gnomi delle montagne, del resto devo pur pararmi le
spalle) che poi rischierebbero di diventare la pietra dello scandalo
che andrebbe ad oscurare cose interessanti. Ma questi, appunto, sono
problemi insegnantizi. Veniamo al momento laico e lucido della
recensione.
TOSCANA,
OH, CARA...
Il
Grossi, scrittore già piuttosto ben piazzato nel panorama italizio,
ci regala un'opera ben scritta, scorrevole, inquietante quando tutto
sembra scorrer via liscio, liscia quando l'inquietudine comincia ad
irrorare copiosamente le pagine. Gli eventi ondeggiano tra la metà
degli anni '80 (si cita Ivan Lendl e i protagonisti non hanno il
telefonino) e i primi 2000 (si ricorda l'attentato alle Torri
Gemelle). Il perno dei fatti si attorciglia sulle smerigliate
esistenze di tre ragazzini toscani che abitano a San Filippo (forse quello in provincia di Siena?), Jacopo
(futuro professore di Fisica in USA), Biagio (futuro campione di
moto) e Greg (Gregorio, figlio della famiglia più ricca del paese e,
in seguito, erede delle mostruose fortune paterne). Le mosse della
vicenda sono il ritrovamento da parte di Greg di una vecchia moto
Gilera, che verrà riparata e rimessa a nuovo grazie alle sapienti
mani di Paolino, meccanico del paese. Di qui l'autore ci apre uno
squarcio di pura provincia toscana, senza idilli, nostalgie
crepuscolari né concessioni alla retorica del giovanilismo anni '80,
ma semplicemente offrendoci un quadro esatto di un mondo semplice e
piccino, in cui il massimo dell'eccitazione sono le corse in motorino,
unico antidoto alla noia di un ambiente non più totalmente rustico e
non ancora del tutto industrializzato (per dire, il grosso delle rendite della
famiglia di Greg proviene dal Brasile, anche se lui fino ai 18 anni
crede che tutto dipenda dai profitti di una in realtà asfittica
azienda agricola da quelle parti). Simbolo di questo limbo è la
Stradaccia, ovvero l'avanzo dell'antica strada che collegava San
Filippo a Posta e che ora rimane come un segmento del tutto inutile,
delimitato dal tracciato della nuova tangenziale, buono al massimo
giusto per le gare suddette, in cui la Sandra è l'oggetto di culto, nonché il mezzo per tentare di battere record su record..
Gareggia
che ti gareggia, Biagio viene notato da un tal Torcini, proprietario
di un team professionistico di stanza al Mugello, che propone al
ragazzo di venire una volta a fare una specie di provino. Dopo
infiniti dubbi, Jacopo e Biagio partono all'avventura, viaggiando nel
cuore più selvatico e meno artistico della Toscana, finché non
giungono al circuito. E li per Biagio inizia un'altra avventura. Noi
lo sapremo però un centinaio di pagine dopo, perché il Grossi
struttura il romanzo come una serie di blocchi che si completano
progressivamente, tramite attacchi di capitolo fulminanti poi
completati da flashback che tuttavia non fanno perdere il
senso complessivo della narrazione. Narrazione che, semmai, nel suo
corpo centrale indugia fin troppo sull'iniziazione intellettuale ed
erotica di Jacopo, che grazie ad una cartolina misteriosamente
finitagli in un libro di scuola vince una borsa di studio in
Matematica presso l'università di Glasgow, dove peraltro dopo un po'
decide di passare a Fisica, che gli pare disciplina più concreta, e
proprio nella nuova facoltà conosce e si zompa allegramente la
giovane Trisha (ed è nel descrivere il primo approccio concreto di
lui a lei che Grossi cede inevitabilmente alla quota Piperno
di cui si parlava poc'anzi). Segue poi il gran viaggio in America per
il post-doc e lo stabilimento definitivo a Nuova York, dove, dopo
un'avventura pipernica con una tal Tara (che poi non si chiama così
e nei bar non si limita a servire ai tavoli), Jacopo conosce Amanda.
Dicevo che a mio giudizio, nel contesto generale della narrazione, la
parte centrale tutta su Jacopo raffredda un po' quel senso di vita
condivisa, semplice ma calda, che promana dalle vicende di San
Filippo. Certo, l'opposizione (geografica e psicologica)
Toscana-Scozia fa parte degli intenti del narratore, ma l'impressione
è che si tratti più che altro di una giustapposizione, quasi una
fotografia di quanto può essere imprevedibile il gioco del destino.
Se di destino si tratta, of course, detto che Jacopo non manca di
porsi quesiti sull'utilità dei propri studi, sia di matematica che
soprattutto di Fisica, quesiti che inseguono in realtà l'interrogativo sommo su ciò che si nasconde dietro il teatro dell'Essere: giunto all'elaborazione di teorie sull'origine
e il funzionamento dell'universo che aprono panorami inimmaginabili
per la comprensione del nostro esistere dove siamo e come siamo,
Jacopo sbatte contro una sorta di Barriera Estrema (nell'accezione
fissata in questo blog da questo post, ovviamente), poiché
l'approfondimento delle teorie sul come e sul quando dell'universo
non soddisfa l'altra grande, devastante domanda che ci si pone appena
ci si solleva dal mondo orizzontale delle beliebers: perché?
Ed è qui che Jacopo si scontra con l'abisso cui nemmeno la sua
scienza può portare luce. Tutto questo però dopo la ripresa delle
vicende di Biagio, la cui carriera motociclistica conosce i tipici
sobbalzi sinusoidi dei campioni bravi ma dannati, con un epilogo
tutto sommato inevitabile, per quanto Greg, a colpi di miliardi che
ormai gestisce da consumatissimo manager sempre in giro per il mondo,
tenti di metterci più di una pezza. E sono altri perché: il destino
aveva regalato a Biagio un' occasione eccelsa, ed ecco come va a
finire. Sempre che di destino si tratti, ovviamente: da certe
allusioni fatte da Greg, Jacopo capisce che il destino, per quanto
riguarda loro, ha preso sembianze e soprattutto manine molto poco
trascendenti e molto più umane di quanto non sembrasse, sì che alla
fine del romanzo i nodi e i fili degli interrogativi paiono
ricomporsi, benché il finale, dal punto di vista, diciamo così,
ideologico, resti sospeso tra due opzioni: una, direi, di tipo
oraziano, che incentra la vita sul piacere, inteso non come assenza
di dolore o atarassia, quanto come carpe diem, godimento delle
cose che la vita ci mette davanti meglio che si può finché si può,
visto che dopo non si sa che c'è; l'altra, che di fronte all'ipotesi
che il massimo dei piaceri sia perimetrare e plasmare al meglio la
propria e l'altrui esistenza, vede prevalere la forza del dubbio che guarda al Nulla che
inghiotte fatalmente qualsiasi presunto filo da noi guidato gli si
butti tra le fauci. Ecco, personalmente avremmo preferito che queste
riflessioni finali si mangiassero qualcuna delle pagine del
momento-Glasgow.
CI
PIACQUE, CERTO PIÙ QUI CHE LÀ.
Il
Grossi struttura quindi una vicenda esponenziale, che parte dalla
tranquilla provincia centroitalica per poi espandersi verso la
Scozia, gli USA, l'Australia dove ad un certo momento Biagio va a
vivere, senza contare tutte le località mondiali in cui Greg
soggiorna per stare dietro ai suoi ultra-lucrosi affari. Dalla
Stradaccia a New York, dove Greg e Jacopo si incontrano a fine
romanzo, passano evidentemente storie di iniziazione, maturazione,
fallimento, abbandoni e ritorni al nido, il tutto basato sull'idea
che il motore (vero e metaforico) che porta ad evolversi le vicende dei tre protagonisti
sia una forza che certo offre molto, ma dall'altra parte richiede una
sorta di perdita dell'innocenza, diversa per ciascuno di loro, ma che
in comune ha l'abbandono delle radici e la complicazioni dei rami
dell'esistenza. Anche se Jacopo ad un certo punto torna al paesello,
è chiaro che lui non è più lo stesso, né gli è possibile
resettarsi su quello che era; Greg troverà ottima compagnia tra un
affare e l'altro, per quanto la nevroticità del suo stile di vita
sia più accennata che esibita, mentre Biagio è il classico
ragazzino di provincia maciullato da un meccanismo troppo più grande
di lui.
Si
dirà che è tutta roba più o meno già letta. Certo. Anche I
promessi sposi hanno il loro antenato nel romanzo greco del I
secolo a.C., ma non per questo tacciamo Manzoni di plagio. Così il
Grossi si rivela persona dalla sensibilità profonda e dalla
scrittura che tien dietro a questa sensibilità, senza volersi
sovrapporre a tutti i costi. Voglio dire che in troppi romanzi
d'oggidì la vicenda narrata è messa semplicemente al servizio della
debordanza stilistica dell'autore, sì che le pur piacevoli
riflessioni ivi contenute, espresse con gran copia di compiaciuti
mezzi retorici, si soffocano in una trama che alla lunga non porta da
nessuna parte. Grossi invece domina le vicende, e le porta al dunque,
sorretto da uno stile uniforme e sicuro, che agli occhi dei più
vogliosi di slang giovanile ad ogni piè sospinto sembrerà
banale e fuori tempo, mentre a mio giudizio è semplicemente
e fortunatamente sottratto al tempo. Voglio dire che far parlare dei ragazzini del
liceo con i congiuntivi tutti a posto, limitare il giovanilismo a
qualche espressione fàtica (“Oh” disse Jacopo, “Eh” rispose
Biagio), evitare i “cioè”, i “tipo”, far tornare tutti i
gradi della subordinazione non vuol dire avere uno stile piatto,
quanto piuttosto rispettare al punto il lettore destinatario del
messaggio da volergli offrire un prodotto ad alto tasso di
comprensibilità, oggi e sempre. Il che nulla toglie alla versatilità
vorrei dire pittorica dei soggetti di Grossi, capace di dipingerci
con vivezza da realismo ottocentesco unita a sapienti tocchi
simbolici le polverose vie di San Filippo, i grigi edifici
dell'Università di Glasgow, ma pure i sobborghi più pittoreschi e
degradati della medesima, così come di New York vediamo sia i
palazzi che i locali di lap dance, tutti credibili, tutti uniformi,
ma di un'uniformità assolutamente razionale.
Se
poi il pubblico volesse anche qui la Machittevòle's
choice, la mia preferenza va senza dubbio al primo
capitolo del romanzo, con quella capacità di evocare un'adolescenza
del tutto antieroica senza un briciolo di elegia del tempo perduto,
un mondo di bulletteria in fondo innocua, di eroismi legati alla
presenza, accanto agli altri sghimbesci e tossicchianti motorini,
della Sandra (così è ribattezzata la Gilera), prefigurazione di
quell'Oltre così affascinante e tremendo che attende i protagonisti.
La Stradaccia, anonima e di suo inutile, diventa un luogo di
avventure in pieno stile Ragazzi di via Paal, i record sul
giro stabiliti da Biagio sulla Sandra sono l'epica più credibile per
quell'età e quel periodo. La storia di come Jacopo e gli altri si
procurano i vari pezzi per riattare la moto, le prove, le sorprese e
le delusioni tutte incentrate su quello che, alla fine dei conti, è
un mezzo di trasporto, per quanto pensato anche per un uso sportivo,
sono forse lo specchio più vero dei nuovi miti post-agricoli e
proto-industriali di cui ci siamo nutriti negli anni '80: il mezzo
meccanico, nuovo destriero fatato per cavalieri senza macchia e senza
paura, è la nave Argo che traghetta simbolicamente gli adolescenti
del romanzo verso una complessa e sofferta crescita. La natura di San
Filippo e del Mugello mostra l'irrompere nella quiete bucolica delle
forze del Progresso, la cui più remota propaggine, ovvero appunto la
Sandra, diventa il totem attorno a cui la tribù dei protagonisti
gioca le sue prime prove di maturità. E attorno a cui si compie, per
poi lentamente incrinarsi sino alla dicotomia finale, l'incanto della
giovinezza: uscire dalla Stradaccia, limitata ma sicura, vuol dire
entrare in tangenziale, con tutte le uscite possibili.
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