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"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 12 maggio 2013

Letti per voi: P. Grossi, "Incanto"


CHI CERCA TROVA

So che molti di voi si stupiranno, ma la querella più frequente tra i nostri alunni, specie del biennio, quando andiamo a proporre i libri da leggere durante l'anno o per l'estate, è sempre che diamo titoli poco accattivanti, storie lontane nel tempo (già, è dai tempi di Medea che le madri non assassinano più i figli, né si è mai più visto un parricidio dai tempi di Dimitri Karamazov...), temi poco attuali, scritture astruse e difficili da seguire. E allora noi brava gente che facciamo? Si cerca narrativa ggiovane, o perlomeno gente suppergiù under 40 con storie di oggi, ma che trasudino universalità. La qual cosa, come ben si capisce, taglia fuori i romanzi di Moccia dal parterre.
Epperò ogni tanto qualcosa si trova, detto pure che alcuni difettucci di scrittura paiono proprio trasversali in autori tra loro lontanissimi. Cioè, difettucci. In realtà lo sono ai nostri spocchiosi occhi, anche se in realtà si tratta di scelte poetiche su cui non ci sentiamo personalmente d'accordo, ma che di fatto potrebbero essere gradite ad altrui gusti. È noto ad esempio che dell'ultimo libro di Paolo Giordano abbiamo trovato un filino prevedibile l'impostazione da prossima fiction RAI conferita al troncone principale della narrazione; così come ci scoccia all'inverosimile la fissazione del fresco premio Strega Alessandro Piperno di inzeppare tre romanzi su tre (carini, poi, nel complesso) di dettagliati resoconti su rapporti sessuali a trigonometria variabile, con grandi esibizioni di fellatio, masturbazioni, diteggiature intravaginali e annusate varie ecc. ecc. Non è, sia chiaro, bacchettonismo: più che altro non crediamo che scendere nei particolari dell'atto sessuale, compresi quelli velatamente pre-pornografici, renda più vera una storia; ma, molto più banalmente, il fatto è che roba simile data ai nostri cocchi scatenerebbe subito la levata di scudi di madri, nonne e parroci del Paese, insensibili agli altri valori del romanzo in oggetto, e pronti solo ad accusarci di corruzione della gioventù (c'è già passato lui, grazie). Non vi dico cosa ho rischiato a far leggere Acciaio (il pericolosissimo Acciaio!!!) della Avallone.
Tutto ciò per dire che il romanzo che andiamo a sbioccolarvi oggi, Incanto del 35enne Pietro Grossi, è caruccio assai, ma ci sono sempre quelle (poche) paginette un filino hot (“Ah, perché i tuoi cocchi non conoscono tutti i meandri di Internet?” - ma lo so che non ho a che fare con gli gnomi delle montagne, del resto devo pur pararmi le spalle) che poi rischierebbero di diventare la pietra dello scandalo che andrebbe ad oscurare cose interessanti. Ma questi, appunto, sono problemi insegnantizi. Veniamo al momento laico e lucido della recensione.

TOSCANA, OH, CARA...

Il Grossi, scrittore già piuttosto ben piazzato nel panorama italizio, ci regala un'opera ben scritta, scorrevole, inquietante quando tutto sembra scorrer via liscio, liscia quando l'inquietudine comincia ad irrorare copiosamente le pagine. Gli eventi ondeggiano tra la metà degli anni '80 (si cita Ivan Lendl e i protagonisti non hanno il telefonino) e i primi 2000 (si ricorda l'attentato alle Torri Gemelle). Il perno dei fatti si attorciglia sulle smerigliate esistenze di tre ragazzini toscani che abitano a San Filippo (forse quello in provincia di Siena?), Jacopo (futuro professore di Fisica in USA), Biagio (futuro campione di moto) e Greg (Gregorio, figlio della famiglia più ricca del paese e, in seguito, erede delle mostruose fortune paterne). Le mosse della vicenda sono il ritrovamento da parte di Greg di una vecchia moto Gilera, che verrà riparata e rimessa a nuovo grazie alle sapienti mani di Paolino, meccanico del paese. Di qui l'autore ci apre uno squarcio di pura provincia toscana, senza idilli, nostalgie crepuscolari né concessioni alla retorica del giovanilismo anni '80, ma semplicemente offrendoci un quadro esatto di un mondo semplice e piccino, in cui il massimo dell'eccitazione sono le corse in motorino, unico antidoto alla noia di un ambiente non più totalmente rustico e non ancora del tutto industrializzato (per dire, il grosso delle rendite della famiglia di Greg proviene dal Brasile, anche se lui fino ai 18 anni crede che tutto dipenda dai profitti di una in realtà asfittica azienda agricola da quelle parti). Simbolo di questo limbo è la Stradaccia, ovvero l'avanzo dell'antica strada che collegava San Filippo a Posta e che ora rimane come un segmento del tutto inutile, delimitato dal tracciato della nuova tangenziale, buono al massimo giusto per le gare suddette, in cui la Sandra è l'oggetto di culto, nonché il mezzo per tentare di battere record su record..
Gareggia che ti gareggia, Biagio viene notato da un tal Torcini, proprietario di un team professionistico di stanza al Mugello, che propone al ragazzo di venire una volta a fare una specie di provino. Dopo infiniti dubbi, Jacopo e Biagio partono all'avventura, viaggiando nel cuore più selvatico e meno artistico della Toscana, finché non giungono al circuito. E li per Biagio inizia un'altra avventura. Noi lo sapremo però un centinaio di pagine dopo, perché il Grossi struttura il romanzo come una serie di blocchi che si completano progressivamente, tramite attacchi di capitolo fulminanti poi completati da flashback che tuttavia non fanno perdere il senso complessivo della narrazione. Narrazione che, semmai, nel suo corpo centrale indugia fin troppo sull'iniziazione intellettuale ed erotica di Jacopo, che grazie ad una cartolina misteriosamente finitagli in un libro di scuola vince una borsa di studio in Matematica presso l'università di Glasgow, dove peraltro dopo un po' decide di passare a Fisica, che gli pare disciplina più concreta, e proprio nella nuova facoltà conosce e si zompa allegramente la giovane Trisha (ed è nel descrivere il primo approccio concreto di lui a lei che Grossi cede inevitabilmente alla quota Piperno di cui si parlava poc'anzi). Segue poi il gran viaggio in America per il post-doc e lo stabilimento definitivo a Nuova York, dove, dopo un'avventura pipernica con una tal Tara (che poi non si chiama così e nei bar non si limita a servire ai tavoli), Jacopo conosce Amanda. Dicevo che a mio giudizio, nel contesto generale della narrazione, la parte centrale tutta su Jacopo raffredda un po' quel senso di vita condivisa, semplice ma calda, che promana dalle vicende di San Filippo. Certo, l'opposizione (geografica e psicologica) Toscana-Scozia fa parte degli intenti del narratore, ma l'impressione è che si tratti più che altro di una giustapposizione, quasi una fotografia di quanto può essere imprevedibile il gioco del destino. Se di destino si tratta, of course, detto che Jacopo non manca di porsi quesiti sull'utilità dei propri studi, sia di matematica che soprattutto di Fisica, quesiti che inseguono in realtà l'interrogativo sommo su ciò che si nasconde dietro il teatro dell'Essere: giunto all'elaborazione di teorie sull'origine e il funzionamento dell'universo che aprono panorami inimmaginabili per la comprensione del nostro esistere dove siamo e come siamo, Jacopo sbatte contro una sorta di Barriera Estrema (nell'accezione fissata in questo blog da questo post, ovviamente), poiché l'approfondimento delle teorie sul come e sul quando dell'universo non soddisfa l'altra grande, devastante domanda che ci si pone appena ci si solleva dal mondo orizzontale delle beliebers: perché? Ed è qui che Jacopo si scontra con l'abisso cui nemmeno la sua scienza può portare luce. Tutto questo però dopo la ripresa delle vicende di Biagio, la cui carriera motociclistica conosce i tipici sobbalzi sinusoidi dei campioni bravi ma dannati, con un epilogo tutto sommato inevitabile, per quanto Greg, a colpi di miliardi che ormai gestisce da consumatissimo manager sempre in giro per il mondo, tenti di metterci più di una pezza. E sono altri perché: il destino aveva regalato a Biagio un' occasione eccelsa, ed ecco come va a finire. Sempre che di destino si tratti, ovviamente: da certe allusioni fatte da Greg, Jacopo capisce che il destino, per quanto riguarda loro, ha preso sembianze e soprattutto manine molto poco trascendenti e molto più umane di quanto non sembrasse, sì che alla fine del romanzo i nodi e i fili degli interrogativi paiono ricomporsi, benché il finale, dal punto di vista, diciamo così, ideologico, resti sospeso tra due opzioni: una, direi, di tipo oraziano, che incentra la vita sul piacere, inteso non come assenza di dolore o atarassia, quanto come carpe diem, godimento delle cose che la vita ci mette davanti meglio che si può finché si può, visto che dopo non si sa che c'è; l'altra, che di fronte all'ipotesi che il massimo dei piaceri sia perimetrare e plasmare al meglio la propria e l'altrui esistenza, vede prevalere la forza del dubbio che guarda al Nulla che inghiotte fatalmente qualsiasi presunto filo da noi guidato gli si butti tra le fauci. Ecco, personalmente avremmo preferito che queste riflessioni finali si mangiassero qualcuna delle pagine del momento-Glasgow.

CI PIACQUE, CERTO PIÙ QUI CHE LÀ.

Il Grossi struttura quindi una vicenda esponenziale, che parte dalla tranquilla provincia centroitalica per poi espandersi verso la Scozia, gli USA, l'Australia dove ad un certo momento Biagio va a vivere, senza contare tutte le località mondiali in cui Greg soggiorna per stare dietro ai suoi ultra-lucrosi affari. Dalla Stradaccia a New York, dove Greg e Jacopo si incontrano a fine romanzo, passano evidentemente storie di iniziazione, maturazione, fallimento, abbandoni e ritorni al nido, il tutto basato sull'idea che il motore (vero e metaforico) che porta ad evolversi le vicende dei tre protagonisti sia una forza che certo offre molto, ma dall'altra parte richiede una sorta di perdita dell'innocenza, diversa per ciascuno di loro, ma che in comune ha l'abbandono delle radici e la complicazioni dei rami dell'esistenza. Anche se Jacopo ad un certo punto torna al paesello, è chiaro che lui non è più lo stesso, né gli è possibile resettarsi su quello che era; Greg troverà ottima compagnia tra un affare e l'altro, per quanto la nevroticità del suo stile di vita sia più accennata che esibita, mentre Biagio è il classico ragazzino di provincia maciullato da un meccanismo troppo più grande di lui.
Si dirà che è tutta roba più o meno già letta. Certo. Anche I promessi sposi hanno il loro antenato nel romanzo greco del I secolo a.C., ma non per questo tacciamo Manzoni di plagio. Così il Grossi si rivela persona dalla sensibilità profonda e dalla scrittura che tien dietro a questa sensibilità, senza volersi sovrapporre a tutti i costi. Voglio dire che in troppi romanzi d'oggidì la vicenda narrata è messa semplicemente al servizio della debordanza stilistica dell'autore, sì che le pur piacevoli riflessioni ivi contenute, espresse con gran copia di compiaciuti mezzi retorici, si soffocano in una trama che alla lunga non porta da nessuna parte. Grossi invece domina le vicende, e le porta al dunque, sorretto da uno stile uniforme e sicuro, che agli occhi dei più vogliosi di slang giovanile ad ogni piè sospinto sembrerà banale e fuori tempo, mentre a mio giudizio è semplicemente e fortunatamente sottratto al tempo. Voglio dire che far parlare dei ragazzini del liceo con i congiuntivi tutti a posto, limitare il giovanilismo a qualche espressione fàtica (“Oh” disse Jacopo, “Eh” rispose Biagio), evitare i “cioè”, i “tipo”, far tornare tutti i gradi della subordinazione non vuol dire avere uno stile piatto, quanto piuttosto rispettare al punto il lettore destinatario del messaggio da volergli offrire un prodotto ad alto tasso di comprensibilità, oggi e sempre. Il che nulla toglie alla versatilità vorrei dire pittorica dei soggetti di Grossi, capace di dipingerci con vivezza da realismo ottocentesco unita a sapienti tocchi simbolici le polverose vie di San Filippo, i grigi edifici dell'Università di Glasgow, ma pure i sobborghi più pittoreschi e degradati della medesima, così come di New York vediamo sia i palazzi che i locali di lap dance, tutti credibili, tutti uniformi, ma di un'uniformità assolutamente razionale.
Se poi il pubblico volesse anche qui la Machittevòle's choice, la mia preferenza va senza dubbio al primo capitolo del romanzo, con quella capacità di evocare un'adolescenza del tutto antieroica senza un briciolo di elegia del tempo perduto, un mondo di bulletteria in fondo innocua, di eroismi legati alla presenza, accanto agli altri sghimbesci e tossicchianti motorini, della Sandra (così è ribattezzata la Gilera), prefigurazione di quell'Oltre così affascinante e tremendo che attende i protagonisti. La Stradaccia, anonima e di suo inutile, diventa un luogo di avventure in pieno stile Ragazzi di via Paal, i record sul giro stabiliti da Biagio sulla Sandra sono l'epica più credibile per quell'età e quel periodo. La storia di come Jacopo e gli altri si procurano i vari pezzi per riattare la moto, le prove, le sorprese e le delusioni tutte incentrate su quello che, alla fine dei conti, è un mezzo di trasporto, per quanto pensato anche per un uso sportivo, sono forse lo specchio più vero dei nuovi miti post-agricoli e proto-industriali di cui ci siamo nutriti negli anni '80: il mezzo meccanico, nuovo destriero fatato per cavalieri senza macchia e senza paura, è la nave Argo che traghetta simbolicamente gli adolescenti del romanzo verso una complessa e sofferta crescita. La natura di San Filippo e del Mugello mostra l'irrompere nella quiete bucolica delle forze del Progresso, la cui più remota propaggine, ovvero appunto la Sandra, diventa il totem attorno a cui la tribù dei protagonisti gioca le sue prime prove di maturità. E attorno a cui si compie, per poi lentamente incrinarsi sino alla dicotomia finale, l'incanto della giovinezza: uscire dalla Stradaccia, limitata ma sicura, vuol dire entrare in tangenziale, con tutte le uscite possibili.

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