Premesso
che chi scrive, cioè la Spocchia, poco o nulla sa del recentemente
defunto don Andrea Gallo, eccetto il fatto che piaceva a molti e
stava sulle storie ad altrettanti, la sua morte ci consente di
studiare in vitro le particolari movenze della nostra opinione
pubblica, a dimostrare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che da noi
ogni posizione ideale od ideologica si risolve sempre e solo in
univoco, a-dialettico, preconcetto, sordo, sprezzante tifo.
L'uomo,
a quanto ci pare di aver capito, era nato per dividere: sin dagli
anni giovanili la sua vocazione cattolica si tinge di rosso, sì che
in lui, come poche altre volte è capitato nella storia dell'umanità,
il matrimonio tra carità cristiana e solidarismo socialista si
compie alla perfezione. Con tutte le conseguenze del caso, s'intende:
presa il Gallo la tonaca, il cardinale di Genova, Giuseppe Siri, uomo
di rocciose convinzioni, al confronto del quale persino il tormentato
Paolo VI o l'innocuo Albino Luciani potevano passare per
rivoluzionari cubani, coglie nella predicazione gallesca germi di
eccessiva eterodossia e lo sposta là dove il don troverà il suo
spazio ideale, la ridente località di san Benedetto al Porto, poi
sede della sua comunità di recupero di tossicodipendenti,
prostitute, adolescenti difficili et similia. Da lì in avanti
è tutto un fiorire di dichiarazioni e prese di posizione piuttosto
forti su temi caldi e ovviamente compromettenti ove si volesse non
dico sganciarsi, ma perlomeno eccepirsi dalle direttive ufficiali del
Vaticano: fumo di spinelli, benedizione dell'omosessualità come dono
di Dio, partecipazione a comizi con tanto di “Hasta la vitoria
siempre!!” finale, eccetera. Ecco dunque che don Gallo si presenta
come prete degli ultimi, niente a che vedere con le goderecce
gerarchie ecclesiastiche standard, buone solo a predicare a
vuoto dai loro pulpiti ingioiellati per poi concedersi stili di vita
tutt'altro che francescani.
Povertà, atteggiamenti controcorrente,
provocazioni scientemente attuate secondo un piano divulgativo chiarissimo nella mente del don,
e che però hanno avuto, come sempre in Italia, l'effetto di dividere
la platea in due schieramenti bellicosi pronti a sommergere di
improperi la sua figura o al contrario a santificarla ad ogni sillaba
che gli esce dalle labbra, naturalmente in contrapposizione con
l'altra Chiesa, quella bombardona, lussuriosa, anacronistica e
maneggiona (Wojtyla compreso) che soffoca ormai nell'aria viziata dei
palazzi apostolici senza sapere nulla del mondo reale.
Non
risulta pertanto stupefacente che persone anche a me vicine, la cui
ortodossia romana mai avrei messo in discussione, gente vicina ad un
bigottismo quasi tridentino, si spelli ieri e oggi le mani per la
morte del don, appellandolo come “vero prete”, “il parroco di
tutti noi”, fatta poi la somma con i radical-chic sinistresi, i
quali, pur di dire “nononono” a tutto ciò che è Chiesa
ufficiale, candiderebbero Papa il primo sciamano Tagiko che gli
capitasse a tiro, perché dare addosso alla Chiesa (fatta pure la
tara dei suoi tanti e oggettivi errori di gestione degli ultimi
decenni) fa sempre fino, fa sentire à la page col mainstream,
permette di essere cool, pur non avendo alcuna forma di
religiosità ad innervare la propria vita, ma chi se ne frega,
l'importante è cantarle a quelli là con la tonaca,
noiooooosi...
Dall'altra
parte, sponda cattolico-pidiellina, i primi distinguo, e ovviamente
palle incatenate da parte di chi vede in don Gallo nient'altro che
“il prete comunista”, agitatore di piazze come un Che Guevara
qualsiasi, spinellatore pro-froci, e chissà cosa combinava in quella
sua comunità piena di ragazzi... Al che il non- pidiellino risponde
per le rime, obiettando che a questi qui piacciono solo i preti di
CL, gli affaristi alla don Verzé e alla don Gelmini, ovvero il
pretume imprenditorial-fighetto che trasforma la Fede in un brand
redditizio come lo zinco; ed ecco allora questi altri replicare che a
don Gallo interessavano solo certi casi umani e non altri, e che è
inutile accogliere tossici nella comunità se poi sei il primo a
lodare le virtù del cilum. Insomma, il solito talk-show.
Quindi?
No, niente, vorremmo dire la nostra, giusto perché l'oceano è
formato da tante gocce, ma soprattutto vorremmo una volta tanto
metterci in atteggiamento paraculo e bacchettare gli opposti
schieramenti, stando equanimemente al di sopra delle parti.
Ai
radical- chic innamorati della povertà altrui diciamo senza
mezze riserve né mezze maniche che devono rassegnarsi: l'espressione
“prete comunista” è e sarà sempre un ossimoro radicale. Comegià ampiamente argomentato altrove, cattolicesimo e marxismo hanno
punti di combaciatura (o combaciaggio?) solo empirici nell'idea che
la dottrina sociale di un popolo debba garantire l'uguaglianza dei
diritti e dell'accesso all'ascensore sociale, dopodiché si sa come i
comunisti trattavano e trattano i cattolici. O si accetta la
dimensione metafisica o la si rifiuta, ma se la si rifiuta e al suo
posto si sostituisce la religione della ragione, ovvero l'ideologia,
e con essa il più disumano degli addentellati, ovvero la strage di
chi non si allinea, e se poi si riduce l'uomo a tubo digerente, e se
poi il linguaggio dell'uguaglianza deve essere imposto con la forza
del gulag, e se poi l'orizzonte umano finisce qui e non va più su,
insomma, difficile mettere d'accordo queste due parrocchie. Che sul
piano pratico certamente possono sembrare simili, ma posizioni
sincretistiche che prendono un po' di Cristianesimo e ne correggono
l'afflato ultraterreno con robuste dosi di materialismo ateo (cioè
ne concretizzano le illusorie promesse ultramondane con tangibili
progetti transeunti) sono pura libido frankensteiniana. È ben
vero che anche al tempo dei maiores nostri c'erano due
filosofie, epicureismo e stoicismo, che non andavano d'accordo su
niente tranne che sull'etica: l'atomismo epicureo, col suo carico di
meccanicismo necessario appena corretto dal clinamen, mal si
sposava con il 'provvidenzialismo stoico' che vedeva nel cosmo
l'azione perpetua e finalizzata di un fuoco pneumatico; eppure,
ridotte all'osso, le etiche delle due scuole dicevano più o meno la
stessa cosa, ovvero che la felicità sta nella misura, se è vero che
i termini usati da Epicuro e Zenone per indicare il raggiungimento
della pace psichica sono rispettivamente atarassia (assenza di
turbamento) e apatheia (assenza di passione, intesa come
pressione degli agenti esterni che alterano la tonicità dell'anima),
ovvero due quasi (quasi!!!!) sinonimi. Semmai il bivio era tra la
visione comunque a suo modo 'missionaria' del saggio stoico, la cui
volontà di giovare agli altri è diretta virtualmente all'umanità
tutta, e il vivere nascosti dalla folla e dalle sue seduzioni
confusive, che è uno dei precetti fondanti l'epicureismo. Poi uno
poteva pure stoicheggiare epicureggiando o viceversa (Seneca, per
dire...), pescando un po' qui un po' lì, ma alla fine, se tali
eclettismi erano possibili, ciò si doveva non tanto alla natura
intimamente eclettica del pensiero ellenistico (sì, anche Roma antica è
culturalmente una provincia dell'ellenismo, rassegnatevi), quanto al
fatto che epicureismo e stoicismo sono, alla loro radice, due
filosofie materialistiche, entrambe radicate sulla credenza in un
principio materiale da cui tutto si origina, sì che nulla vi è
nelle regioni metafisiche, proprio perché tutto è mondo fisico e
basta. Difatti, per quanto ci si ostini a ritenere lo stoicismo una
specie di pre-Cristianesimo, le differenze tra le due dottrine sono
tali che il presunto epistolario tra Seneca e San Paolo va giusto
bene come argomento di filologia da macchinetta del caffè: un
dio-pneuma impersonale che crea e non ama ciò che crea, essendo egli
stesso materia fisica che si fa mondo creato, non è il Dio
metafisico cristiano, spirituale e altro rispetto al mondo da lui
creato dal nulla, mondo destinatario di un amore che discende poi
nell'etica dell'agàpe, laddove il freddo (in senso emotivo) pneuma
stoico non poteva che produrre l'etica dell'immunità dalle passioni,
sì che pure la pietà e l'amore sono pericolose distorsioni dalla
virtù. E parliamo di stoici, che regimi totalitari non ne hanno mai
fondati. Orbene, non dovrebbe essere difficile capire che il prete
comunista è tanto logico quanto lo stoico cristiano, nel senso che
per esserci ci sono (Parini, per dire...), ma è evidente che la loro
militanza religiosa si tinge di caratteri molto molto laici, di un
laicismo che alle volte, semplicemente e senza che ciò debba fare
scandalo, confligge con l'ortodossia, perché, che piaccia o no,
l'ortodossia, c'è. Altro però è trasformare l'anticonformismo in
contro-religione, ovvero decidere macchinalmente di cambiare di segno
tutte quelle che sono le indicazioni della Casa Madre per dimostrare
di non essere corrotti dalla pestilenza vaticana e pretendere di
essere sempre nel giusto. Ebbene, il Gallo senza dubbio ha indulto a
ciò, la qual cosa non gli ha mai per fortuna meritato la scomunica a
divinis, e però possiamo comprendere certo disagio di certuni
nei confronti delle sue uscite a volte assai estreme: le coscienze
individuali, in materia di religione, sono molto spesso ben più
fragili e ricettive di quanto non si pensi, ovvero vogliono che
qualcuno dica loro qualcosa di sufficientemente certo e persuasivo, e
che questo qualcosa regga anche alla prova dei fatti; quando però si
vede una fetta della gerarchia muoversi in una direzione e sacerdoti
singoli agire quasi a titolo personale, è chiaro che il dubbio su
dove stia la ragione è forte; se poi il prete in questione strizza
l'occhiolino in modo inequivocabile a certe dottrine che la Casa
Madre fulminava con la scomunica fino all'altro ieri, il disagio è
più che comprensibile. Tutto ciò però è affare per credenti che
hanno il diritto di avere una parola univoca e sicura sulle questioni
di fede, sia teologiche che morali: stiano per favore zitti i
religiosi da salotto che non vanno mai in Chiesa perché è troppo
scontato, ma plaudono a don Gallo come eroe civile per puro
conformismo, giusto per far vedere che anche loro ci tengono agli
ultimi (mica come quei preti là), sempreché ne trovino uno disposto
a lavargli la Jaguar.
Ciò
detto, l'ondata di commozione alla Gallo's death, con tanto di
Cardinal Bagnasco, capo dei vescovi italiani, che officerà la
Messa, a definirlo “un fratello”, sì, insomma, decidetevi,
voialtri. È chiaro che il personaggio, nei suoi eccessi e nelle sue
a volte bizzarre riuscite, mostra una volta ancora quale sia l'intima
tensione contraddittoria che da sempre azzoppa l'operato della
Chiesa, scissa ab origine tra la sua dimensione verticale di
emanazione di Dio tramite Cristo e quella orizzontale di Verbo
incarnato e quindi soggetto alla passione e alla condivsione. Il che,
tradotto in termini casarecci, sta a significare che la Chiesa ha una
duplice identità, gerarchico-manageriale e missionaria, solo che
spesso la prima scavalca la seconda, con le nefaste conseguenze a
tutti note, così che poi c'è sempre la corsa all'uomo di Chiesa
'anomalo' in grado di incarnare quei valori di purezza primigenia che
la sete di potere, legata indebitamente alla funzione spirituale,
prosciuga negli animi della maggior parte dei chierici, dal più
dimenticato parroco di campagna su su fino alle stanze vaticane. Si
finisce cioè in quella situazione per cui il supplentino alla prima
esperienza o il professore pazzo che suona la chitarra in classe
riscuotono più successo dei colleghi ormai calcificati in una
didattica sempre uguale a se stessa, sordi alle richieste di
adeguamento, incapaci di alcuna empatia con i discepoli, anche se
alla fine la 'nuova' scuola non dà poi troppo di più dell'altra.
Eppure il loro successo sta nella passione che mettono nel mestiere,
al di là dei diktat delle riunioni di Dipartimento o delle circolari
ministeriali: essi risultano dei battitori liberi e quindi più
disposti a venire incontro agli alunni. Il bivio sta allora a valle:
ricordarsi che, al netto della didattica più dinamica e meno
ingessata, il fine del docente è sempre quello di lasciare certe
competenze, e quindi sforzarsi di farle maturare anche con i nuovi
approcci; oppure fregarsene bellamente di tutto, trasformare la
scuola nel proprio palcoscenico, farsi amici gli studenti
accontentandoli in tutto e poi saranno fatti loro. La sete di figure
come don Gallo nasce proprio dal fatto che le gerarchie 'ufficiali'
riducono troppo spesso la sostanza a forma, predicano povertà e
girano in elicottero, esortano a cercare il volto di Gesù anche nei
disperati e poi usano le offerte dei fedeli per costruirsi casa.
Eppure è chiaro che una totale de-gerarchizzazione della Chiesa
porterebbe all'anarchia o alla creazione della religione fai-da-te;
il modus operandi di don Gallo elevato a sistema consentirebbe
a chiunque di prendere un pezzettino di Cristianesimo, ibridarlo con
qualche ideologia alla moda, e tirar fuori un prodotto da piazzare ai
fedeli in concorrenza con altri Cristianesimi più o meno seducenti;
l'altro problema è che l'aiuto ai diseredati è ovviamente scopo
precipuo della carità cristiana, basta che poi non si crei una sorta
di elitarismo a rovescio per cui meritevole di compassione è
l'individuo che ha alle spalle almeno un suicidio in famiglia, mentre
della ragazza anoressica o del nerd alienato nessuno si cura
più: voglio dire che la nostra società ha prodotto forme di
“ultimaggine” anche diverse rispetto a quelle ormai consolidate,
ma non meno gravi; i dolori che non sono così evidenti, le
depressioni nascoste, le famiglie dilaniate dalla gelosia o dai
tradimenti, l'incomunicabilità diffusa sono certo cose meno
eclatanti di un giovane che si pippa di eroina un giorno sì e
l'altro pure, ma non per questo meritano meno attenzione. Il rischio
sennò sarebbe quello di incorrere nella “sindrome delle due
Simone”, a ricordo delle due volontarie Pari e Torretta, sequestrate e poi liberate in Irak ai tempi della seconda guerra del
Golfo, le quali hanno sempre lasciato intendere che il vero
volontario minimo va sui teatri di guerra, altrimenti è troppo
comoda. Io non direi: se so che il mio vicino di casa ha un figlio
con problemi e posso aiutarlo, non mi sento diminuito perché ho la
disgrazia sotto casa. Ecco, il dongallismo, se estremizzato, potrebbe
portare a questo curioso algoritmo; se invece trattato coi dovuti
riguardi, esso può generare il lievito concettuale di cui tutti
sentiamo bisogno: la Chiesa deve ricordarsi di tutti, e sopratutto
dimenticarsi una buona volta della donazione di Costantino.
[Ma
tanto, il giorno del funerale, sarà tutto un darsi del fascista e
del comunista tra detrattori e agiografi del don...]
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