Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

domenica 4 maggio 2014

La coppa che scoppia.

Considerando che sarannno scritti oceani d'inchiostro sull'ennesima figuraccia del nostro calcio in termini di tifoserie bulle e aspiranti omicidi che approfittano di finali calcistiche per darsi un tono, ci abbandoniamo a riflessioni tangenziali, che peraltro sono snobbissime e ci piacciono assai.
1) Ancora mi stupisco se ti stupisci. Abbiamo già enucleato in altri post la nostra perplessità sul fatto che spesso si grida alla tragedia quando essa, se non annunciata, è perlomeno ipotizzabile. Il che vale sia per le tragedie immani come la bomba d'acqua sulle Marche che per la bomba di idiozia su Roma. Bombe diverse, ma entrambe figlie di improvvise degenerazioni della situazione, troppo rapide per potervi rispondere prontamente, epperò, per chi ne sa, degne di un certo sistema di accorgimenti preventivi che ne mitigassero i danni.

2) Ma non fu così: Marche sotto l'acqua, Roma e lo stadio Olimpico sotto il fango. Non fanno certo bene al calcio, ma in generale a tutto il nostro umore quei tifosi, giustamente paragonati ad Humpty Dumpty, che assidono sulle reti di protezione e dialogano amenamente con giocatori e forze dell'ordine per dar loro il permesso di iniziare la partita. Gente che appoggia gente che uccise gente, eh? La nostra memoria non può non andare a stagioni lontane, lontanissime di occupazioni scolastiche, anzi di autogestioni trasformatesi in occupazioni per decisione di studenti così convinti di avere chissà quale capacità decisionale da potersi permettere di mandare a qual paese i dirigenti scolastici e usare la scuola come cosa propria. Non vorremo certo qui ripiangere sulla fine del senso delle gerarchie, su cui si è pianto fin troppo, e inutilmente. È da tempo immemorabile che noi tutti si nota la tendenza, a svariatisssimi livelli del corpo sociale, verso una orizzontalizzazione dei ruoli, ciò per cui io capo ultras posso allegramente comandare truppe di lanzichenecchi che tengano in ostaggio i tifosi buoni e i giocatori stessi. Ciò, come sempre, è figlio di nascosti tramini legati al quieto vivere reciproco, di cui poi noi vediamo la scioccante superficie. Come il bimbominkia, da certe debolezze donabbondiesche dei genitori, capisce che può osare, e tanto, così il tifoso infoiato, vedendo che le società mostrano certi riguardi in termini di biglietti e trattamenti vari nei confronti dei settori caldi delle curve, capisce di avere un potere contrattuale ben maggiore di quello formalmente riconosciuto. Poi, quando la tensione è ben cotta, il caos.

2) Quindi? Chiudiamo gli stadi? Tanto la Juve ha già vinto (almeno lo scudetto....sigh...)... No, perchè da un lato c'è una stragrande maggioranza di tifosi normali che non merita di vedersi estinguere il divertimento per colpa di una frangia di invasati. Oddio, frangia... anche qui, sarebbe da mettersi d'accordo sul quantitativo di esagitati necessario per passare dalla dicitura "frangia" a quella di "gruppo terroristico". Perché in quel caso ci penserei bene prima di far disputare un match qualsiasi. Ma qui no, sono frange. Frangette. Sai il danno economico se il campionato di stoppasse, anche solo per tre giornate, come succede in Formula 1 nei casi in cui la gara è dichiarata conclusa prima della fine dei giri previsti e valgono le posizioni occupate al momento? Contratti stipulati, sponsor che in fin dei conti hanno picciato i soldi e hanno diritto al ritorno d'immagine, ecc. Tutto vero. Ma è così che alla fine ogni catastrofe a matrice tifoseresca passerà sempre in cavalleria, liquidata, alla lunga, come una grave marachella di cui si dovranno trovare e punire i responsabili, salvo poi ricominciare come se niente fosse, perché "i tifosi veri hanno diritto al calcio" e "lo spettacolo deve continuare", almeno fino al prossimo disastro. Bisogna prendere lucidamente atto che la legge del circuito perpetuo produzione-consumo tipica della nostra civiltà capitalista vale indefettibilmente anche per le manifestazioni sportive: come è impensabile che noi consumatori finiamo ad un certo punto per avere tutto quello che ci serve, sì da non comprare più nulla e quindi fermare l'economia, così non si può fermare il calcio malato, perché per quanto malato fa girare i soldi, malati anch'essi si dirà, convogliati in stipendi che, per quanto uno possa essere un dio in terra da 47 gol in 43 partite, restano sempre esorbitanti rispetto all'effettiva materia che li produce, cioè a dire che tot milioni di euro l'anno a una sola persona per una serie di sgroppate sulla fascia e gol in rovesciata non possono davvero equivalere a decine di migliaia di stipendi di famiglie operaie ecc. ecc. Ma perfino Fabio Fazio, che calciatore non è e guadagna altrettanto, certo in una mansione un po' meno terrestre, e che però fa sempre l'uomo della rive gauche, vi direbbe che gli stipendi sono commisurati al mercato, a quello che il campione (lui o CR7) muove in termini di indotto, di pubblicità, di pubblico, di passaparola sui social network e insomma "è un guadagno giusto" perché si porta dietro possibilità lavorative anche per tutti gli altri che gravitano attorno al movimento. Ora, sulla base di questo assioma autoevidente si potrebbe davvero bloccare il calcio per dare una lezione sia ai cattivi, che si vedono rompere il giocattolo in mano, sia ai buoni, che impareranno d'ora in avanti a isolare e mettere all'angolo gli altri? Ciò sarebbe plausibile se nel meccanismo perfettamente oliato del capitalismo calcistico si inserisse il granello di sabbia dell'etica, sì da dividere i soldi, che notoriamente di loro non puzzano, in onesti e disonesti. Ovvero, se tutto il mercato dei calciatori e delle partite e il loro indotto sono il prerequisito per le scene da repubblica centramericana di ieri sera, semplicemente si dice basta, alla faccia dei mancati introiti. Ma il calcio muove l'economia, appunto. Secondo me manca un  passaggio: il calcio muove PRIMA la tifoseria POI l'economia. Ecco il punto che spesso si sottovaluta: il calcio, come ogni sport, è una forma di competizione che, quando coinvolge masse immani di folle, diventa una sorta di metafora guerresca per cui sul campo e sulle tribune si sfogano le tensioni, gli entusiasmi, le rivalità, tutto ciò che possiamo chiamare "passioni" in senso filosofico, ovvero fenomeni emotivi che l'animo subisce nel momento stesso che li concepisce. Roba irrazionale, insomma. Roba che è più facile eccitare che controllare o, più arduo ancora, reprimere e rieducare. Il tifoso va in visibilio per il suo campione, lo vede come una divinità, lo seguirebbe anche tra le fiamme, non si perde un numero della Gazzetta, presidia tutte le trasmissioni a tema, viaggia, compra, ricompra, riricompra, con il ritmo folle e gaudente che solo una passione filosoficamente intesa può spiegare; è su questa passione che si butta l'economia, generando un circuito inesauribile di occasioni di tifo che si tramutano automaticamente in fonte di guadagno a più livelli. Questo è il processo, e ha tre attori, come si vede, il calcio, il tifo, l'economia. Impedire al primo di esistere o alla terza di operare sarebbe pura follia. È il tratto centrale del segmento su cui bisogna agire, ma sono le agenzie educative a doversi sobbarcare l'onere, perché i calciatori non vorranno mai essere diversi da ciò che sono, checché il nostro buon Prandelli pensi di ottenere col suo codice etico, e i meccanismi dell'economia sono quelli che sappiamo. Se però di promuovesse un'acculturazione vera del branco tifosesco, è chiaro che il binomio calciatore-economia che si muove si sbriciolerebbe, perché il tifoso nutrito di sagge nozioni capirebbe che uno sportivo non può vivere come un nababbo sulla base delle passioni che suscita, passioni che non educano a nulla, non costruiscono nulla, non migliorano i rapporti umani o le condizioni materiali del mondo, ma semplicemente fanno da sfogo per il centro del segmento (i tifosi ) e da lucro per gli estremi (calciatori e sistema economico). Questo è lo sport oggi. E le figure di calciatori che "fanno da esempio" per i giovani spingendoli all'impegno e al sacrificio sono ormai quasi del tutto scomparse, sostituite da superstar miliardarie pronte a baciare la maglia della squadra che le ha appena assunte, dichiarando fedeltà eterna al club, salvo poi migrare altrove l'anno successivo se appena appena non riescono a ritoccare verso l'altro il contratto di qualche centomila euris. Eroi da gossip, buoni solo a promuovere stili di vita zompospenderecci che fanno sentire dei falliti tutti coloro che hanno ben altre qualità, non certo meno utili alla società (e non sto alludendo agli insegnanti, chiaro?), ma che guadagnano infinitamente meno. E uno finisce per dirsi: "Perché sacrificarsi a studiare o a coltivare le mie qualità, quando un pedatore qualsiasi guadagna miliardi?". È qui che la risposta: "Ma il calciatore fa girare l'economia" cade nel vuoto per i motivi anzidetti: che l'economia giri in nome di un circo irrazionale e congestionato di cattive passioni può convincere molti, ma non tutti, di certo non quelli che da questo circo non guadagnano nulla, ma anche chi vi sta dentro prima o poi si porrà qualche domanda. E pure il tifoso standard, quello che segue il calcio con passione sì, ma senza eccessi e che al limite piange quando a Del Piero scade il contratto e non glielo rinnovano (uhmmm....), che gode ricciosamente alle vittorie della propria squadra, ma non si butta dal balcone se il Benfica gliela butta fuori dalla Coppa, che polemizza con gli sciocchi tifosi dell'altra sponda, ma alla fine la mette sul ridere, insomma gente così si chiede se valga la pena di vedere lo scempio di ieri sera in nome di un circuito così imperfetto.
3) Gli è che non è più davvero possibile ammannirci la storiellina strappalacrime del bimbetto che comincia a tirare i primi calci nel polveroso campetto di periferia e da lì nasce la grande storia sportiva. Roba buona per i nostalgici: oggi il sistema calcio produce i Cassano e i Balotelli, gente dal passato difficile o difficilissimo a cui però il calcio non offre altro che la superfetazione bombastica del reddito, ma non li rende certo modelli di vita da imitare; l'unica cosa che si può apprendere da quelli come loro è l'indisciplina perenne, la sbruffonata, la lite con l'autorità pubblica, i guai a ripetizione con la pretesa dell'impunità "perché in fondo sono ragazzi", in una parola l'ignoranza elevata a crisma di eccellenza. E non si tratta del calcio "che è vittima". O meglio, esso è vittima di un sistema infallibile che porta alla giustificazione e al discarico di qualsiasi boiata compiuta dai calciatori, sia che si sfracellino con la Ferrari nuova di pacco a 200 all'ora, sia che si facciano tour di gruppo nei bordelli. Tutto alla fine si scusa o s'insabbia, perché sennò c'è il rischio che questi perdano credito e squadra, e allora "l'economia si ferma". E il tifoso, da bravo adepto del dio-calciatore, vede che sono cose buone e giuste e si regola di conseguenza.      
4) Che poi, si fosse trattato di una finale di Champions... vojo di', non capisco questa ridicola volontà di attribuire chissà che carattere epico alla finale di Coppa Italia, torneuccio buono giusto ad inzeppare di ulteriori partite (e incassi, e indotto, ecc.) un calendario già di suo bulimico come quello italiano; e l'Inno di Mameli cantato dalle inascoltabili Marrone, Amoroso... e il gotha (?) della politica e dello sport in tribuna... insomma, a chi giova tutto 'sto gonfiaggio di una partita che è in realtà poca roba? Eppure, come già l'anno scorso, proprio in occasione di questo evento tutto sommato minore accadono le peggio cose. Come se la finale di Coppa Italia, proprio per il suo carattere 'italiano' fosse percepita come il luogo adatto per sfogare l'italianità frustrata, gli odi repressi, il disagio sociale, per dire all'Italia stessa e ai suoi dirigenti, pateticamente appollaiati in tribuna vip, che "ci siamo anche noi", che "c'è un altro mondo fuori dai vostri palazzi", che "esiste un potere parallelo a quello dello Stato"  da potersi scatenare affidando la direzione alle persone, che, purtroppo, ci sanno fare.  È chiaro insomma che questa partita sta assumendo da almeno un paio d'anni dei connotati semplicemente allegorici, serve per dire a nuora in modo che suocera intenda. È l'ulteriore spia di un mondo che ha smesso di funzionare, o che non sa più funzionare secondo i criteri tradizionali. Colpa dei singoli? Della società? Della scuola (beh, ma la scuola ha SEMPRE colpa, vero, Gelmini?)? Tutti hanno la loro parte di responsabilità, ma la radice di tutto sta nel definitivo divorzio dell'economia dall'etica (anche se per alcuni l'economia, per suo stesso statuto oggettivo, NON può essere etica): se le cose devono avvenire perché "sennò l'economia si ferma" e però quest'economia è incapace di garantire la decenza di vita a tutti, riducendo le sperequazioni, il grosso della società andrà sempre dove le passioni lo conducono. E lo spettacolo sarà sempre e solo quello del sangue.

Nessun commento:

Posta un commento