Era in
effetti da qualche annetto che lamentavamo come il trilocalizzato festivàl
della filosofia emiliano offrisse performances piuttosto noiosette, non nel
senso dei contenuti, ma per quel modo di affrontare gli argomenti da parte dei
dotti convenuti. In sostanza, finite le solite tirate di rito contro
l’omologazione imperante della moderna società, sulla crisi del capitalismo,
sul sequestro delle libertà democratiche effettuato dalle élite(s) economiche,
restava sempre l’impressione che i dotti elocutori si compiacessero più che
altro per il proprio esercizio retorico da Seconda sofistica, ma non gli
interessasse granché di proporre vie d’uscita. E qui sorgeva il pensiero
cattivello: certo, se poi questi ti danno la soluzione alla tetraggine attuale,
chi viene più ad ascoltarli, una volta che il mondo avrà preso a girare per il
verso giusto? Oppure era gente che preannunciava l’annientamento dell’umanità,
ma forse se ne compiaceva pure: si sa, l’intellettuale DOC odia visceralmente
la società che NON lo ascolta (anche se gli costruisce attorno i festivàl),
quindi non può che godere di affondare con essa.
Fatto
sta che quest’anno, sicuramente per effetto anche di questo post, a Modena-
Carpi- Sassuolo hanno pensato di toccarla piano, anzitutto per il tema
leggerino di tutti gli incontri: la Verità. Come dire: adesso arriviamo alla
radice delle cose e vi diciamo noi come stanno. Tie’.
E
siccome, notoriamente, la verità è semplice da trovare e ancor più da
comunicare, alcuni convenuti hanno pensato di dare la propria, intesa come
verità ASSOLUTA, contestando naturalmente quelle altrui. Il che è perfettamente
in linea con quanto vediamo accadere da Platone in giù (Alessandro di Afrodisia
che irride gli stoici, Hegel che irride Schelling, Nietzsche che irride
tutti…), ma quando al filosofo si consegnano microfono e platea adorante senza
contraddittorio, possono accadere cose, diciamo così, bizzarre.
Per
quanto concerne i tre incontri da me esperiti, questo il succo del primo, i prossimi ai prossimi post.
Umberto
Galimberti (fu Severino), La verità
dell’inconscio.
Ecco, di
inconscio si è parlato pochino, diciamo che a questo giro, perlomeno nelle cose
che ho sentito io, Nietzsche e il nichilismo si portavano benissimo. Il
Galimberti parte effettivamente a parlare di inconscio, definendolo come
l’aggettivo che caratterizza tutto ciò che si pone in antitesi col soggetto
cosciente, cioè con la soggettività dell'Io.
Da qui in poi l’inconscio sparisce dall’eloquio galimbertiano, per venire
sostituito da legittime lamentele del medesimo contro quelli delle prime file
che parlano tra loro, evidentemente in modo inconscio (del resto ogni folla adorante necessita di una componente eretica), ma soprattutto da una lunga digressione sullo stato
dell’Io nella cultura occidentale. Di fatto, dice il dotto, l’economia dell'Io è antitetica a quella della Specie. Una
donna che mette al mondo un figlio per dire, deve rinunciare a molto di sé, al
tempo, alla forma fisica, alle relazioni, forse pure al lavoro, insomma ci
rimette parecchio MA grazie a tutte queste rinunce la specie umana guadagna
nuovi membri. La Specie ci genera, ci fa generare, ma poi ha bisogno di farci
schiattare onde fare spazio a nuovi nati e nuova vita. Il ciclo della vita, of
course. E così, se il tempo dell’Io si configura come lineare e scopico (cioè
tarato in vista di un fine, uno skopos, ah, il greco... ), la natura e la Specie hanno il tempo ciclico della
nascita e della morte. Gli antichi Greci, che a questa dicotomia erano arrivati
comodi comodi col loro pensiero speculativo, hanno quindi portato alla luce la
dimensione tragica dell’esistenza, la quale consiste nello scontro tra la
ricerca del senso, tipica dell’Io scopico, e l'assurdo della morte, che è l’implosione di
ogni senso. Di qui il senso del limite tipico di tutto il pensiero greco
(‘conosci te stesso’, ‘niente di troppo’, ecc.). Tanto è vero tutto ciò, e qui
il dotto vira sui suoi territori preferiti, che tra pretese dell’Io scopico e
sovranità della Natura i Greci optano certamente per la seconda: infatti, nel
mito, Prometeo, simbolo della Tecnica che vuol modificare la Natura, viene allegramente incatenato. Noi, dice il dotto,
noi sciocchi moderni abbiamo s-catenato Prometeo, come dimostra il fatto che
noi non poniamo limiti alla tecnica, non essendo però in grado di gestirne le
conseguenze (laddove, come è noto, pro-metheus significa colui che capisce in anticipo).
E da dove viene a noi
occidenteschi questa fiducia cieca nel progresso? Da chi abbiamo ereditato un
ottimismo tale da spazzare via il sano pessimismo greco, con la sua lucida
coscienza dell’assurdità inspiegabile della nostra esistenza? Chi o cosa ci ha
illusi da mo’ che tutto abbia un senso? Risposta galimbert-nicciana (tutte le
volte che il dotto scandiva: “Nietzsche dice…” molte anime zuccherose
sollevavano il capo in quel di Sassuolo…): colpa del Cristianesimo (facile, eh,
nella rossa Emilia, Galimbe’?)(ancora con questi pregiudizi, Marchesa?)(vabbè
vabbè vabbè…).
Il Cristianesimo avrebbe,
dice il dotto, le seguenti colpe:
- Ha illuso l’uomo di occupare un posto speciale
nel cosmo.
- Ha introdotto il concetto di anima come lo
intendiamo noi, quando in ebraico non c’è nulla di simile, né il greco psychè è
apparentabile all’idea latina promossa da S. Agostino. Del resto sciocco è chi traduce il greco physis col latino natura, perché il termine latino ha in sé un'idea di esistere per un qualche fine che in greco non c'è.
- Ha introdotto la malsana idea di una vita dopo
la morte e quindi la promessa che gli accidenti di oggi, previo intervento
acconci di intermediari col divino, verranno riscattati un domani.
- Ha influenzato TUTTO il modo di pensare
occidentale, compreso quello di atei e scienziati. Qualsiasi processo
epistemologico, gnoseologico, teoretico e tecnologico della nostra storia,
compresa la Rivoluzione Francese, compresa la psicoanalisi (o psico-analisi)(ma
NON psicanalisi, non si porta, no no) poggia sul triplice (orrendo, ovviamente) filotto problema-intervento-riscatto.
Meglio sarebbe, dice il
Galimberti, che la filosofia, prossima secondo lui a venire bannata persino dai
licei, venisse insegnata fin dalle elementari per educare i piccoli al pensiero
critico e indipendente (applausi dalla platea adorante). E soprattutto al sano nichilismo (perplessione della platea adorante), alla presa d’atto che
nulla, in questa vita, ha veramente un senso e uno scopo, e chi a vedere lo
scopo si ostina è ovviamente inquinato dal retaggio cristiano (come nei film di Don Camillo, suona la campana del Duomo a coprire la voce del Galimberti). Schopenhauer e
Nietzsche avevano capito tutto, Hegel no.
Avendo dunque iniziato a
sospettare, verso la fine della conferenza, che Galimberti non abbia in
simpatia il Cristianesimo, non mi sono posto tanto il problema di questa sua
avversione (figuriamoci se ci mettiamo a fare teologia qui...), quanto quello dell’alternativa che egli pone. Alternativa, si badi,
non tanto al Cristianesimo, quanto a qualunque dottrina, razionale o
fideistica, che oltre il caotico sdipanarsi degli umani e cosmici eventi vede
comunque la possibilità di teorizzare un piano, un fine, un disegno, qualcosa
insomma. Il punto di partenza è quanto abbiamo spocchiosamente osservato sopra:
inneggiare alla lucidità del pensiero critico e poi non proporre, ma imporre
come incontrovertibile la PROPRIA visione delle cose è sempre un rischio di autogol.
Certo, uno deve per forza avere una sua idea. Il problema è sempre che essa
idea, creduta fino in fondo senza aperture dialettiche, diventa ideologia o perlomeno così è percepita
dagli altri. Per Galimberti il Cristianesimo non è, immagino, religione, ma
ideologia; per un cristiano quella di Galimberti è ideologia nichilista.
Guardo la cosa dal mio lato (mancino, peraltro): c’è, al fondo del
Galimbertismo, qualcosa che ci galimberta poco: a parte l’impostazione
filonicciana dell’intervento, come se la storia della filosofia si fosse fermata lì, ma non è il mio campo; a parte
l’idea che l’unica educazione che si può impartire come pura e assolutamente
veritiera è quella nichilista; a parte tutto ciò, chi elimina qualsiasi
fine/speranza dalla prospettiva dell’umana umanità mi pare si inoltri in una
strada altrettanto consolatoria rispetto a quella che lui stesso contesta agli
altri: siccome nulla serve davvero a nulla, tanto vale smettere di attaccarsi
ad alcunché e lasciarsi beatamente vivere in attesa di dissolversi. Cose già sentite, si dirà. Però questo tipo di abbandono oggi mi pare
narcisisticamente rinunciatario, molto più che in passato, quasi un indispettito guizzo della Ragione che si schianta contro l'Assoluto e, non ricavandone nulla, non dice nondum matura est, ma proprio non est. Il
nichilismo poteva andare bene (detto rozzerrimamente) come correttivo (rozzezza, rozzezza...), più che
all’ottimismo religioso, a quello positivista che credeva che il mondo e l’uomo
fossero misurabili (e quindi prevedibili)(e quindi manipolabili) in tutto. Ma
dal momento in cui la scienza ha cessato di essere rigidamente deterministica
per aprirsi all’oceano probabilistico della fisica delle particelle, credo che anche il nichilismo, e i filosofi ad esso suggenti, dovrebbero rivedere i propri bersagli, facendo molta attenzione ad ammannire certezze come antidoto ad altre certezze. Il nichilismo è
comunque un modo di guardare le cose da dentro il sistema, non da fuori. E,
come la fisica delle particelle insegna, osservatore e osservato formano un
insieme inscindibile che si condiziona a vicenda. Detto altrimenti: a considerarlo con mente sgombra da TUTTO, il
nichilismo è una modalità di interrogare il reale, ma non costituisce per ciò stesso LA verità (e comunque...).
E tuttavia, alla mia mente
che già anni addietro si lanciò là da dove sarebbe meglio tenersi lontani, il
verbo nichilista non suona del tutto intonato, perché mi rimane sempre enorme un
quesito: toglimi il fine, toglimi il disegno, toglimi l’utilità dell’Essere;
sai dirmi perché l’Essere di sarebbe dato la pena non solo di essere, sgorgando
dal nulla o essendoci sempre, ma persino di esistere nella dimensione del
divenire per non avere uno scopo? Di fronte a questa Barriera Estrema io
preferisco sempre fermarmi. Altri si (e ci) rispondono che già solo questa
domanda dimostra che l’Essere non ha senso, perché se l’avesse sarebbe evidente
a tutti. Il problema diventa allora perché l’uomo ha dato battaglia alla natura
da quando esiste per dominarla e per superare i limiti imposti dalla Specie.
Così, dicono. Spinte evoluzionistiche senza scopo. Quindi disperiamoci pure.
Notevole resta comunque il fatto che i teorici della disperazione non si
suicidino mai. I disperati veri, spesso, sì.
[continua...]
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