Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

martedì 5 novembre 2024

Machittevole @electionday USA 2024: una lunga notte; viviamola con dr. Spocchia + Apo7

 Attenzione: i post cominceranno alle ore 23.55, prima di #maratonamentana


Tutto dipende dal Nebraska

L'Ohio che fine ha fatto?

E' bello votare nel New Hampshire e nel Connecticut. Suonano bene.

Taylor Swift potrebbe diventare Taylor Swiffer se Harris vincerà nella  rust belt 

Secondo Apo7 si vota Harris perché? Secondo Apo7 Kamala è un nome accattivante, Donald no


Comunque questo sistema dei voti elettorali va rivisto, troppo macchinoso. Noi in Italia cambiamo legge elettorale ad ogni eclissi di luna, ma anche di là si esagera.

La disinformazione sta alla base delle strategie elettorali .. Non informarsi è la scelta giusta? Riflessioni ...  

La democrazia è bellissima e fragile. Per salvaguardarla bisogna garantire il diritto di voto ed educare cittadini responsabili che vivano la politica, attiva e passiva, come impegno e come servizio alla comunità.  

Once upon a time in America... nel 1999 l'album dei Backstreet boys alla prima settimana di uscita vendeva 1 milione di copie; l'anno dopo, l'album degli Nsync, band fotocopia appena più truzza dei BSB, vendeva 2 milioni di copie sempre dopo una settimana. Domanda: ma il milione di groupie del 2000, l'anno prima dove si era nascosto?

Gioie e dolori della cultura americana: libertà e competizione esasperata; mito del successo e abbandono degli sconfitti; Beth Orton e Ariana Grande

I primi grandi elettori sono assegnati: Trump vince il Kentucky! 64 a 34 .. si sapeva: attendiamo il Nebraska!  

La cravatta di Mentana bipartisan, strisce rosse e blu; così non c'è problema a cambiarsi 

Sono stati loro ad inventare la cultura presentista che mette sempre al centro il godimento dell'attimo, la superficialità consumistica, il culto dell'esteriorità elevata a sistema? O siamo noi europei che, perso il primato di locomotiva della civiltà occidentale, moriamo d'invidia?

Chissà che si dice al collegio elettorale di Memphis, patria di Justin Timberlake...

Comunque quando Clinton ha giurato la prima volta, io c'ero. A casa davanti alla TV.

Harris non ha fatto il botto da vice presidente, però è salita in corsa sul carro della corsa elettorale con scioltezza. 

Certo, hanno la loro narrazione di popolo che si è costruito la propria storia abbandonando le logiche para-feudali della vecchia Europa. Dopodiché certi vizi europei se li sono portati dietro. Però l'orgoglio autocelebrativo è forte. Chi guarda da fuori ovviamente vede altro, ma come sempre la memoria è ciò che uno decide di raccontarsi.  

Che poi i Thundercats non erano poi male. Però niente a che vedere coi Cavalieri dello Zodiaco

ore 1.05 Spocchia main time: 19 a 3 per Trump. Will it be  a trIumpH?

Ma qualcuno si ricorda il Dukakis che perse contro Bush Sr.? 

Per chi voterà Kirk Cameron, ex Michael Seaver di Genitori in Blue Jeans?    

Tutti dicono che gli Stati Uniti sono al tramonto. E' vero che nessun impero ha retto all'impatto della storia, ma se così fosse, che li sostituirà? 

Rmapini dà dello spocchioso all'americano delle élite costiere. Come se io dessi dello spilungone a Ceccon.  

Dice Rampini che dare dei poveracci agli elettori di Trump è il modo migliore per fargli votare Trump. Sichiama cura omeopatica. Ma è un problema antico: chi non vota me è brutto e cattivo.

Il paternalismo delle élites costiere vs il neoconservatorismo: alla fine è una questione di identità

Domanda: l'America - politicamente parlando - anticipa il futuro dell'Europa, rappresenta un'utopia o una distopia? Diteeee

Trend della serata: TOO EARLY TO CALL

Trump 23-3: per ora punteggio rugbystico 

Georgia e Florida col brivido   

8 milioni della generazione Z votano per la prima volta; gente che aspetta ancora il finale di One Piece.

Apo7 ha sonno 

Ore 2.01, Trump a un terzo dei voti che servono.

95-35

 

 

 

      


mercoledì 3 luglio 2024

LE GRANDI BLOG-CRONACHE DI ELIGIO DE MARINIS. EURO 2024, SVIZZERA ITALIA 2-0, "LE MEMORIE CI ASSALGANO"

Se c’è mai stato un cartone animato che prova inequivocabilmente la tesi di Freud secondo cui il bambino piccolo è tutto fuorché un angelo, questo è Là sui monti con Annette, ambientato guarda te in Svizzera: nelle circa 50 puntate di questo psicodramma elvetico, giostrate nella Twin Peaks del Canton Vaud, ovvero Rossinière, vediamo in azione bambini capricciosi e vendicativi che si imbizziscono per episodi minimi, ragazzine bionde con un livello di permalosità Nina Moric plus

 


 

timidi aspiranti intagliatori di legno che giocano per tre quarti di episodio a fare la vittima, fratellini seienni petulanti che collezionano ermellini (vivi),

 


per salvare i quali non esitano a gettarsi in fondo ai precipizi salvo poi rompersi la gamba, il cui osso si salda poi in modo abnorme
(?) sì da rendere impossibile qualsiasi movimento, gli intagliatori predetti che si fanno una sciata in mezzo alla tormenta lungo il crinale che porta a Montreux, perché non hanno i soldi per il treno,  


solo per trovare un medico esperto a dissaldare ginocchia troppo rinsaldate, il tutto tra eroici tentativi del ragazzino di riconquistare l’amicizia perduta scolpendo nel legno arche di Noè puntualmente fatte volare in aria dalla biondina, nonché dispetti infiniti tipo la biondina che fracassa il cavallo ligneo dell’ ex amico per sabotare la sua altrimenti inevitabile vittoria al concorso della scuola, pentimenti,  fughe nel bosco in casa di vecchietti di dubbia affidabilità che però intagliano il legno divinamente,

 


 

la biondina che rischia l’assideramento e allora confessa all’ex forse ancora di nuovo amico il misfatto del cavallo, scuole elementari pluriclassi con episodi di bullismo che fortuna che non esisteva internet, dopodiché tutto si conclude con la fine delle scuole e la corsa di questi marmocchi demoniaci verso il loro pirotecnico domani.


Di fatto, siamo di fronte alla versione dark di Heidi. Cosa che rende allucinante il (banale) testo della sigla, vergato dalla compianta Alessandra Valeri Manera (RIP) e accompagnato da una musichetta troppo paciosa, che recitava: "Là sui monti con Annette/ dove il cielo è sempre blu/ là, con Dany e con Lucien/ vieni vieni anche tu" MA ANCHE TU COSA, IN MEZZO A QUEI BAMBINI PSICOPATICI?? (comunque nella seconda strofa anche la compianta non ha potuto fare a meno di chiamare 'diavoletti' i due, eh, 'nzomma, mentre nella terza Annette è definita UN PO' AGGRESSIVA e rancorosa, ma pronta a farsi una risata.. sì, dopo 23 puntate...)
 



Ciò spiega il disastro di sabato sera: undici piccoli Lucien convinti di avere davanti Heidi e che invece non hanno capito che la squadra avversaria era zeppa di Annette ferocissime, a partire dal roccioso capitano Annette Xhaka, per passare all’imprendibile Annette Embolo che si porta a spasso Di Lorenzo e Barella come gli ermellini di Dany, fino ai due cecchini che ci condannano all’eliminazione, il rapinatore d’area Annette Freuler e il cecchino da fuori area Annette Vargas. 

 


Noi, che poi avevamo rifiutato di guardare il primo tempo, perché in viaggio verso la città dove avremmo partecipato a un convegno sulla medicina pneumatica a una festa mangereccia, noi appunto con pizze e Vermentino andavamo a bussare alla porta, ma prima ancora di farlo sentivamo arrivare un Nooooooo!!! da dentro l’appartamento che ci infondeva i più cupi presagi, aggravati dal fatto che la maniglia della porta girava, ma la porta restava chiusa, finché sulla soglia compariva una gentildonna in gramaglie mormorando: “Ha segnato la Svizzera…”. Il che ci ha portati ad ignorare il secondo tempo, recuperando via registrazione tutto il match, anche perché il raddoppio svizzero appena rientrati dagli spogliatoi ci ha decisamente fatto preferire fregola e tramezzino diplomatico rispetto a quello strazio.

Strazio già tutto nell’inspiegabile congiuntivo impiegato da Caressa nel solito epic-pippone pre-gara: cosa vuol dire “Le memorie ci assalgAno?”. Visto il contesto della frase, e dato un rapido controllo a sei-sette grammatiche latine, esortativo non è, desiderativo non è, concessivo non è, potenziale non è, dubitativo nemmeno, suppositivo nemmanche, irreale no perché ci vorrebbe l’imperfetto. Ragionando alla stoica, la crisi del linguaggio è spia di un più generale impazzimento della struttura del cosmo, ed in effetti il Caressa medesimo, al 28’, osserva costernato che siamo troppo “frAttolosi” nella manovra. Mah. 

Che poi le statistiche iniziali di Bergomi che dovrebbero garantirci almeno un 56-0 e invece, senza tener conto della solita, storica frasaccia acchiappa-sfiga al 29’ (“vediamo quanto riescono a tenere il ritmo” detto degli svizzeri, e invece), Caressa che minimizza ogni boiata dei nostri, Bergomi che pialla (“non è riuscito a passare…”, “come non è riuscito…? NON HA VOLUTO!!”) e insomma al 35' coso là segna, Caressa dice “male” e Bergomi lo corregge pure lì (“molto male”).

Poi capisci che appena rientrati quelli là segnano e vabbè (“troppo, troppo facile”, opina Bergomi, e Caressa lombrosiano: “i nostri avevano facce che non mi piacevano già sotto il tunnel”). E ciao Europa.

 

 

Già in passato opinammo sullo stato comatoso del nostro calcio, quindi non aggiungeremo nulla, se non una tipica osservazione da blogger che si improvvisa esperto di un ramo che non gli appartiene, in questo caso la sociologia. Ebbene, per comprendere come giocatori con tatuaggi più elaborati degli affreschi di Santa Maria Novella, roba che al confronto le polemiche sull'acconciatura di  Nesta [read my lips: N.E.S.T.A., uno a cui oggi Calafiori potrebbe FORSE insaponare i tacchetti] diventano barzelletta, dicevamo per capire come gente simile assurga al ruolo di portabandiera dei nostri destini pedatori bisogna affondare il coltello nella purulenta piaga dei mali che ci affliggono da ormai un trentennio: detto che la polemica sui ‘miliardari in mutande’ è datata, ma non priva di un certo fondamento, il problema è che QUESTI miliardari valgono, sportivamente parlando, meno delle loro mutande: essi sono la propaggine estrema di quello sciagurato fenomeno di esaltazione del calciatore sempre e comunque, indipendentemente dai risultati, che ad un certo punto si è incrociato col mito dorato del binomio calciatore-velina, che a sua volta si è incrociato col mito del belloccio incapace di successo incarnato dai tronisti. Risultato: il calciatore resta un mito per coloro che seguono questo sport con lo zelo con cui si è adepti di un culto, per cui i singoli ministri possono sbagliare qualcosa, ma IL culto non si discute. Si ricordi del resto che Dante Alighieri, nonostante alcune trascurabili divergenze col Papa, non ha mai abiurato alla fede cristiana; allo stesso modo, chi segue il calcio come una religione non cessa di rimpinguare gli introiti dei suoi protagonisti, delle società e relativi stadi, delle televisioni, del merchandising in genere anche quando costoro fanno schifo allo schifo, così che possono sempre dire “di far girare l’economia” e quindi giù milioni di stipendio. Solo che oggi non abbiamo calciatori di valore, ma onesti mestieranti che hanno semplicemente intrapreso una professione che è associata alla ricchezza, al lusso, ai privilegi esclusivi, dimenticandosi che ricchezza, lusso, privilegi esclusivi sono solo il promontorio estremo di una vita di allenamenti, fatiche, sacrifici, delusioni e rinunce. Vigendo tuttavia il modello del tronista, adorato senza senso da folle femminili così come il calciatore-zappa è adorato senza senso dai tifosi-adepti, i nostri campioni si sono specializzati nell’italianissimo tirare a campare: finché il pubblico c’è, e paga, finché il mio stipendio annuale equivale a quello di CENTOVENTI vite di un operaio, e nessuno me lo contesta, perché devo mettercela, chessò, per onorare i colori della mia nazionale (Graziano Pellé, cucchiaista incapace MA con stipendio cinese, remember?). Sui problemi dei nostri vivai e della sciagurata esterofilia delle nostre squadre taccio, perché molto è già stato detto. Resta inteso che così, con questa etica da reality show, faremo la fine delle vacche svizzere quando sono avanti con l’età: diventano carne Simmenthal.

martedì 25 giugno 2024

LE GRANDI BLOG-CRONACHE DI ELIGIO DE MARINIS. EURO 2024, CROAZIA -ITALIA 1-1, ", IO VEDO DARMIAN COME TELECOMANDA DI LORENZO..."

 

Ogni match Italia-Croazia non può che risvegliare in noi commosse memorie di giorni remoti, allorché le due nazionali si scontrarono nel girone G della fase finale degli sciagurati mondiali nippo-coreani del 2002 (quelli di Byron Moreno, remember?): era l’8 giugno e noi, freschi supplentini sotto il quintale, pasturavamo su maternità alla ragioneria dove, per effetto del simpatico fuso orario a mandorla, la partita fu trasmessa esattamente a metà mattina, motivo per cui lezioni, recuperi, interventi a cuore aperto furono interrotti per consentire ai tifosi ragionieri di riunirsi in massa nel seminterrato; lì, con ammirevole piglio ingegneristico, qualche eroe aveva issato sopra un palco formato da banchi certosinamente allineati la mitica TV a scatolone che in ogni scuola ante-LIM che si rispetti girava tutta mattina di classe in classe allorché giungeva “l’ora del film”, con somma gioia degli studenti. Da quel mini-maxi schermo, che svettava come ardito scoglio in mezzo ai flutti delle teste adolescenziali (più la nostra, noi a cui uno di quarta aveva riservato un vippissimo posto in tredicesima fila - “prego profe, si sieda..!”), arrivarono le immagini di una delle partite più beffarde della storia, con l’Italia andata in vantaggio al 55’ grazie a Vieri e al suo dopobarba, vantaggio cui seguirono due gol croati e relativa sconfitta; il che ci portò dalla parte sbagliata del tabellone degli ottavi, quella con la Corea del Sud che ci sbatté fuori dalla competizione ope Morenico, con tanti saluti all’acqua santa di Trapattoni


 

Mentre questa ondata mnemonica ci sommerge, Caressa opina con spirito ellenistico che nella terra di Bach non c’è spazio per la fuga (casomai, osserviamo noi, ce n'è per l’aria sulla quarta corda, che i musicologi in genere traducono con 1-1), vediamo tifosi croati sugli spalti mischiati agli italiani, Barella arrampicato come un koala su Donnarumma durante l’inno, Chiesa lasciato in panchina a colorare gli albi degli Sturmtruppen, mentre in campo scende Matteo Darmian, l’unico individuo al mondo con la faccia più triste di Levi Ackerman. Che partita sarà?, ci domandiamo. Una nuova beffa? Oppure, come lasciò scritto l’orfico Ieronimo nella sua teogonia prima di scendere nell’Ade per presentarsi a Persefone dichiarandosi figlio della terra e del cielo stellato, “Zaccagni al 98esimo?”. 


 

L’opzione 1 ci sembra in realtà suggerita dai primi nove minuti, dominati dalla consueta noia e dal nostro consueto subire le iniziative avversarie, perdendoci in sciocchi passaggi orizzontali e fraseggi insistiti quanto inconcludenti a centrocampo. Fa eccezione un colpo di testa di Pellegrini al 10’, cui segue un minuto dopo una danza avvinghiata in stile polinesiano tra Di Lorenzo e Gvardiol. Al 13’ c’è un calcio d’angolo generato da un tiro di Di Lorenzo stesso, e da qui fino a fine match assisteremo ad una gragnuola di bicchieri di plastica semivuoti che pioveranno generosi dagli spalti contro i nostri. L’angolo fallisce, c’è un contropiede ma Barella risolve, poi al 16’ Calafiori PERDE PALLA e noi tutti rivediamo antichi fantasmi (e tuttavia ci sarebbe un papiro egizio della XXVI dinastia su cui Champollion lesse chiaramente, in un cartiglio dipinto sopra la testa di Anubi, “Calafiori per Zaccagni”). Il primo quarto d’ora passa così evanescente che persino il querulo Caressa tace. Da qui in avanti, invece, i nostri si sveglicchiano (al 20’ Pellegrini, al 21’ Pellegrini-Retegui, corner con cross di Raspadori, ma Pellegrini e Di Marco erano impegnati a ballare la salsa, al 25’ Retegui, al 26’ Bastoni di testa, salvataggio miracoloso di Livakovic). In effetti anche i loro contro-affondi quagliano poco. Insomma, qualche spiraglio si vede. Spiraglio largo come il buco nell’albero che porta nella tana del Bianconiglio, anyway. E insomma il primo tempo scivola via così, con questo minuetto di minacce senza frutto, come quando i gattini appena svezzati giocano a graffiarsi senza farsi male. Sul finale Caressa, visto il nulla di fatto bipartisan, si ricorda di attivare i Power Rangers esclamando: “Attesa, surplus, Darmian”, ma invece attiva Brozovic che si allunga in area, mancando per fortuna l’aggancio. E finisce così. 


 

 

Ritornati in campo, Caressa si abbandona al solito lepido gossip, stavolta a proposito delle gesta di Budimir che sbaglia i rigori cadendo sulla palla e però si diletta a dare passaggi alle vecchine del suo paesello che hanno smarrito la strada e puntualmente c’è un affondo croato di Budimir stesso, ma nulla, poi al 48’ una punizione su discutibile fallo nostro con Di Lorenzo che tocca Kovacic e questo si inginocchia come avesse avuto una visione, il traversone di Kramaric ci abbrividizza, ma nulla.

E’ a questo punto che ci ricordiamo di non aver raccolto il basilico per il pesto di domani [oggi per chi legge n.d.EDM], quindi ci rechiamo nella serra al piano di sotto (“cosa vuoi che succeda in due minuti…?”) e quando risaliamo, minuto 53, vediamo la classica inquadratura in grandangolo da calcio di rigore, con il ringhioso Modric sul pallone e Donnarumma laggiù solo soletto. Maledicendo in cuor nostro la voglia di pesto (a miracolo avvenuto, risaliremo via web al folle tocco di mano di Frattesi, vidimato dal VAR), vediamo il croato tirare e Donnarumma allungarsi meglio di Mr. Fantastic e deviare fuori la palla. Giubilo di Caressa, giubilo di Bergomi, giubilo dei nostri giocatori in campo come se la partita fosse finita, entra in campo Buffon con prosecco e tartine per congratularsi mentre i croati riprendono a giocare e, dopo una flipperata clamorosa davanti alla nostra porta, lo stesso Modric rigorefallente di 45 secondi prima stavolta la insacca.


 

 

Panico. Bastoni sputa la pizzetta con il cappero e l’acciughina, Jorginho vuota il bicchiere di prosecco in faccia a Raspadori e comincia un altro match: da qui alla fine, i nostri profonderanno i più generosi sforzi per riportare il loro Europeo dal livello Schifo assoluto al livello Tristezza epica. Spalletti deve a questo punto costringere Chiesa a giocare minacciando di ridurre il suo album in coriandoli (“Mister, un pennarello per colorare i pantaloncini a Brozovic…?”, “No, togliti la giacchettina e fila in campo!”). I successivi 15 minuti saranno effettivamente giocati con vigore (al 57’ Raspadori di tacco per Frattesi, corner; al 60’ Chiesa per Frattesi, deviazione in corner, Bastoni di testa; al 64’ Chiesa traversone). Poi, verso il 70simo, inevitabilmente l’afflato si indebolisce, come si nota allorché Frattesi viene abbattuto ai limiti dell’area e a calciare la punizione “andrà Jack”, dice Caressa riferendosi a Raspadori, con quell’uso del nomignolo che tradisce palesemente il calo di tensione generale, difatti la barriera devia. Raspadori che poi esce al 74’ perché il fashion consultant della Nazionale ricorda a Spalletti che dopo 74 minuti la riga in parte non si porta più e va sostituita dai tatuaggi, e così entra Scamacca, il quale regala al 78’ una rimessa ai croati con uno sciocco colpo di tacco che fa sbottare Caressa. Di qui al 90’ in effetti i croati riprendono fiato e si avventurano in un paio di azioni filtranti che ci fanno temere il secondo gol, anche perché a furia di fare cambi Spalletti ha tolto tutti i difensori. Replichiamo noi all’85’ con Retegui che passa a Chiesa ma niente, poi all’86’ Retegui-Chiesa-Scamacca, ma niente e all’89’ Caressa attacca col solito “ormai siamo alle preghiere”. L’arbitro decreta OTTO minuti di recupero, numero che nei Tarocchi corrisponde alla Giustizia (sportiva), la qual cosa ci fa ben sperare, anche perché al 95’ entrerà Fagioli. Gli assalti non mancano, ma gli avversari sanno chiudere, con tanto di saltelli alla Teletubbies nei pressi della nostra area al 94’, mentre appena un minuto prima Calafiori aveva preso il giallo. Il segno del crollo imminente? Sì, ma non del nostro: lo stesso Calafiori, a OTTO secondi dalla fine degli OTTO minuti di recupero (what an ominous circumstance…) affonda potente al centro, passa a Zaccagni, nel quale si infonde lo spirito di Del Piero nella semifinale del 2006, sì che dalla stessa zona del campo da cui il nostro coneglianese preferito infilzò i tedeschi all’epoca parte un tiraggìr che entra elegantemente in rete, scatenando un terremoto in campo, con tutto lo staff azzurro che sommerge il goleador, uno in tribuna, dove Caressa si strangola (“ci stavo lasciando una corda vocale e una tonsilla”) e uno nei nostri cuoricini, nella frizzante consapevolezza che sabato con la Svizzera sarà come mangiare l’Emmenthal: a loro il formaggio, a noi i buchi.


 [prima di dire che siamo disfattisti, riascoltatevi le dichiarazioni di Spalletti a fine partita…]

Aufwiedersehen.



domenica 23 giugno 2024

LE GRANDI BLOG-CRONACHE DI ELIGIO DE MARINIS. EURO 2024, SPAGNA-ITALIA 1-0, "DUE PALLE IN CAMPO!"...

 

… dice Caressa al 41’, ed è un po’ lo stesso pensiero che coglie noi tutti alla fine del primo tempo, caratterizzato dalla noia pura, associata all’impietoso assalto a Fort Alamo degli Ispanici, inframmezzato da episodici rovesciamenti di fronte dei nostri che puntualmente finiscono nel nulla. Come tutti hanno osservato alla fine dello strazio, aver perso ‘solo’ 1-0 su autogol contro quelle furie indiavolate dai cognomi ispanicissimi (Wilson, Yamal, Laporte, Le Normande, Cucurella) è quasi un miracolo, ma le fusillate di Donnarumma sottoporta non coprono il disastro di pochezza tecnico-tattico-atletica di una squadra di illustri signori Nessuno che arriva all’Europeo con lo stesso spirito inconsulto con cui un aspirante doppiatore con la erremoscia si presenterebbe ad un provino per dare la voce a Voldemort. 

 

 

Non bastano i tatuaggi druidici di Scamacca (?) né il mantello dell’invisibilità di Chiesa, ad un certo punto multato per divieto di sosta dall’arbitro visto che non si muoveva in nessuna direzione, men che meno il taglio all’ultima moda di Barella (?). Non basta nulla, salvo chiedersi cosa abbiano in mente certi genitori che a colloquio hanno ancora il coraggio di dire che vabbé, se non ce la farà a scuola c’è sempre il calcio… QUESTO calcio?


 

 

Ma tutto è già nella puntuale osservazione di Caressa al 7’: c’è Gigio (Donnarumma) in porta e Gigi (Buffon) in panchina a fare da dirigente accompagnatore; chiaramente questa ricercata paronomasia è premonitrice di gesta epiche, come lo sciocco tiro di Scamacca al 9’, unico guizzo in mezzo ad un dominio TOTALE degli Iberici che prendono possesso della nostra metà campo, usando la propria per allestire il catering del dopo-partita, giusto per non lasciare inutilizzata tanta area giochi. Così, mentre al 10’ Cucurella mostra la fluente chioma per imprigionare Scamacca e fare a gara a chi ha più ‘c’ nel cognome, Barella sgaloppa senza esito al 12’, ma soprattutto Di Lorenzo, colpito alla spalla in uno scontro, cade di peso tenendosi la faccia, segno di evidente calo di propriocezione.

L’impalpabilità dei nostri, che anche quando riescono ad allungarsi oltre la propria metà campo riescono SEMPRE a farsi raggiungere dagli spagnuoli, porta Caressa al consueto abbandono alla para-cronaca, motivo per cui Rodri risulta essere ‘il metronomo della Spagna’, Yamal viene descritto come destinatario di una profezia di Piqué che gli augura la riconquista del Califfato di Cordova, MA proprio nel momento in cui l’argomento si fa serio, ovvero a riguardo delle peripezie della madre dei fratelli Williams nella drammatica fuga dall’Africa (anche se il tono del narratore non cambia e rimane a livello gossip), il tutto viene interrotto dall’ennesimo affondo spagnolo nella nostra bucherellata area al 20’ che Donnarumma liquida così come gli tocca fare al 23’e 24’, ma del resto, dice Caressa, “contro di noi Morata gioca sempre bene”. Il calo propriocettivo contagia anche Frattesi, colpito al 33’ da Nico Wilson al gomito, ma che cade tenendosi il petto. Segnali inquietanti (Caressa osserva atterrito che Yamal è del 2007, probabilmente pensando ai propri trigliceridi) appena appena alleviati dall’eroico salvataggio di Calafiori al 34’ su un gol quasi fatto, il che porta noi tutti a dire che sì, questa SARÀ la serata di Calafiori. Il tutto nonostante Caressa veda scoramento, osservando al 41’ che ‘manca il dinamismo di Barella’, il quale tuttavia non ha ancora indossato gli iconici occhiali scuri di tre anni fa. A fine primo tempo si rivede Chiesa, tornato dal Gelsenkirchen Mall carico di bretzel e modellini di castello di Ludwig da portare ai cugini, il quale tenta due voli (tutti al 45’) destinati a planare nel silenzio.

 

Secondo tempo inaugurato da qualche sparuto guizzo nostro (al 49’ Cambiaso, al 50’ Scamacca per Chiesa che ha lasciato nello spogliatoio la scatola dei Lego per costruire il Duomo di Colonia), dopodiché ricomincia l’assedio, coi nostri che si piccano di fare passaggini tra portiere e difensore in area di rigore col rischio, avveratosi un paio di volte, che gli avversari abbranchino il pallone e facciano gol (come al 52’). Nulla sembra quindi cambiare, se non che Caressa inizia a divagare di fenomenologia dello spirito, fatto che in tutte le gare degli Europei a partire dall’edizione del 1988 vinta dall’Olanda indica una sola cosa: autorete in arrivo.

Minuto 55: novello Bruce Harper (cit. solo per esperti), il già citato Calafiori decide di mettere un audace ginocchio tra un pallone di Nico Williams destinato a finire nel niente e la propria porta, sì da imprimere quel momento angolare minimo ma decisivo che spinge la sfera nella rete azzurra.

Mentre onde di tenera disillusione si infrangono nei cuori di quei sei-sette tifosi in tutta Italia ancora ostinatamente convinti che avremmo ripetuto il miracolo del 2021 (ma il piazzamento di Angelina Mango all’ESC dovrebbe essere segnale più che evidente che il destino ha altri piani per noi), noi tutti Osservatori Distaccati del Reale (d’ora in poi ODR) non vediamo altro che la conferma della crisi irreversibile di un movimento sportivo che non genera più campioni né mezzi campioni, ma solo onesti mestieranti: tuttavia, essendo il calcio parte integrante del plasma di due terzi degli italiani, ci vorrà ancora tempo perché la bolla economico-idolatrante attorno a questi atleti si sgonfi.

Diciamo ciò confortati dall’indovinello di Caressa al 57’: “C’è una sola squadra in campo e non siamo noi”, roba da mandare in confusione anche Gandalf davanti all’ingresso di Moria. Ma è così: afflosciati ulteriormente dal beffardo svantaggio, riusciamo giusto a contenere le incursioni dell’onnipresente Nico Williams (70’) senza incidere mai seriamente, mentre al 63’ dal tatuaggio di Scamacca usciva Elena Gilbert a dirgli che era ora di farsi sostituire e di tornare a fare il barista a Mystic Falls insieme a Mike Donovan. Solo verso il finale, dopo che Chiesa ha finito di cucinare bratwurst per tutti in vista del dopo gara, ci facciamo lievemente più minacciosi con un corner all’84’, in occasione del quale Caressa rileva “storie tese tra Carvajal e Bastoni”, così offrendo a Bergomi l’occasione per la battuta cringe del secolo che però viene miseramente lasciata cadere, come del resto cadono le nostre speranze di pareggio, nonostante il mucchione in area comprensivo di Donnarumma. 


 

 

E così, tra un rimpianto su come sarebbe potuta andare se avessimo avuto in squadra Del Piero, Totti, Pirlo, Baggio, Baresi, Maldini, Altobelli, Paolo Rossi, Rivera e uno sguardo sconsolato alla Croazia, anche per le minori parcelle dei dentisti, vediamo rientrare nel tunnel ventidue fantasmi, eccellente correlativo oggettivo dello stato agonizzante del nostro calcio. Prima o poi qualcuno dovrà spiegare al pubblico plaudente – e anche a quello non plaudente – cosa si è rotto all’indomani di Berlino 2006, perché non è possibile essere così malconci e privi del benché minimo spunto tattico che non sia fare muro contro l’avversario sperando che la palla rimbalzi e poi rilanciarla lontano confidando negli scherzi dell’attrito. Attendiamo risposte. Con l’obbligo finale di cringiare come non è riuscito a Bergomi: ci vogliono compagni di altra pasta perché giochi Fagioli.

Aufwiedersehen.

mercoledì 8 febbraio 2023

Sanremo ventiventitré, notte in Blanco

 

È evidente che, con una catastrofe sismologico-umanitaria in atto appena al di là del mare, discettare sulle prodezze di un conterraneo millennial che, LEGGERMENTE imbaldanzito (leggasi: gonfipallonito) dai più recenti (effimeri? traslucidi?) successi discografici, si è messo a sfasciare il palco del Sacro Festivàl di Sanremo (le Dionisie italiche, if you know what I mean…), potrebbe risultare fuori luogo. Anzi, lo è di sicuro. Poiché però di mestiere non faccio il sismologo né ho competenze in materia di protezione civile, ma mi occupo di ammannire contenuti formativi, preferisco parlare di ciò che so. E so che lo spettacolo blanchesco di ieri sera non è stato triste solo per la cosa in sé (potremmo citare perlomeno il ricco precedente dei Placebo nel 2001 o la goffa galanteria di Al Bano nel 1999 che estirpò mezza aiuola dalla scenografia per porgere un fiore alla presentatrice), ma per i messaggi che esso veicola.


 

Ora, il nostro [Riccardo Fabbriconi, in arte] Blanco, a fronte del problemino con gli auricolari, non ha, come qualsiasi persona matura (ha già 20 anni, remember) chiesto di interrompere l’esibizione, aggiustare il guasto e riprendere. No. È andato avanti a distruggere il distruggibile con la risibile motivazione che “non funzionava niente, non si poteva fermare [?] comunque mi sono divertito”. Che il nostro Blanco non sia un mago della subordinazione era chiaro già dall’anno scorso, quando le sue risposte nelle interviste non superavano la reggente, una coordinata per asindeto, una risata, un’espressione gergale (“siamo saliti sul palco abbiamo fatto i felicioni”) e ciao. Ma del resto, si diceva, il suo mestiere è cantare [accusa di spocchia da laureato in Lettere in arrivo tra 3...2...1...]. Certo. Poi è chiaro che una capacità di articolare il pensiero dovrebbe essere spia di un’altrettanta capacità di articolare i comportamenti. E, sapendo che nel periodo esistono una reggente e le sue subordinate, si dovrebbe di conseguenza capire che in una situazione formalizzata come il Sacro Festivàl non si può fare quel che si vuole, ma esistono delle regole (certo, anche Catilina subordinava benissimo, almeno a leggere i resoconti sallustiani, e per poco non rovesciava il governo di Roma, ma insomma).


 

Se poi ieri sera la sua scarsità espressiva non ha mancato di manifestarsi con quel “mi dispiace A tutti” ansimato a microfono in gola, la vera scarsità da intorcinare le ime budella è stata senza dubbio quella gestionale di [Amedeo Sebastiani, in arte] Amadeus. Il quale, con la stessa espressione da “scusate, non so fingere che sia tutto combinato” già impiegata nell’indimenticato (pseudo-) alterco Bugo-Morgan di tre anni fa, non fa quello che ogni adulto normosenziente avrebbe fatto, cioè afferrare Blanco per un orecchio, trascinarlo giù dal palco, portarlo gentilmente fuori dall’Ariston, caricarlo su un Boeing di sola andata per Albenga urlandogli di non tornare mai più, risalire sul palco, scusarsi col mondo intiero e offrire il capo alla (metaforica) ghigliottina di giornali, Moige e social assortiti sperando in una (prevedibile) assoluzione (“eri in buona fede, dai”). Macché: come certi genitori schiavi dei capricci dei figli, anzitutto zittisce a più riprese la platea inferocita (perché ovviamente il problema non è Blanco che l’ha combinata, ma il pubblico che se l’è presa), si rivolge con l’occhio umido a Blanco, gli chiede di spiegarsi, Blanco non fa altro che aggravare la sua posizione a colpi di frasi giustapposte una più imbarazzante dell’altra e poi arriva subliminalmente la proposta di andare a rilassarsi un attimo in camerino, “perché la canzone di Salmo bisogna sentirla, poi, se vorrai, DOPO LA RICANTI”. 

 


 

Certo. Poi si passa, come si trattasse con un bambino cinquenne, a fare l’esegesi dei fischi del pubblico, perché il ventenne Blanco (20 anni = diritto di voto = maturità) evidentemente non ci arriva da solo: “Fischiano perché [anzi x’] non capiscono perché l’hai fatto”. E Blanco cosa risponde? “No, li dovevo spaccare comunque” e Amadeus subito a fargli eco asilo- style guardando in galleria: “Li doveva spaccare comunque... perché, qual è il significato?”. Qui Blanco poteva fare il Luigi Tenco 4.0, millantare crisi esistenziali che manco Jean-Michel Basquiat, oppure denunciare i mali del mondo, chiamare l’Occidente a raccolta contro la farina di grilli, qualsiasi cosa E INVECE: “Il significato è che non andava la voce, allora mi son detto mi diverto comunque [??]… tanto la musica è la musica [???]….” più altri ragionamenti ugualmente incomprensibili. La folla folleggia e Amadeus, in luogo di prendere Blanco per un orecchio, trasformarsi in Rubber di One Piece e con una sola torsione del braccio scaraventarlo direttamente a Calvagese, scendere dal palco e farsi sostituire nella conduzione da Dodò de LAlbero Azzurro, che fa? Esige il silenzio dal pubblico, “magari non è stato bello quello che avete visto e lo comprendo PERÒ siccome non ha funzionato niente se vuoi torni dopo”. E Blanco: “Sì, dai, mi piace la musica”. Del resto, chiosa Amadeus, povero cocco, era agitato e “gli è partita la sciabbarabba”. No, caro [Amedeo Sebastiani, in arte] Amadeus: prima che arrivino i soliti benaltristi a insabbiare il tutto con frasi tipo: “vi scandalizzate per Blanco quando c’è di peggio in giro”, diciamo subito CHIARO E NETTO che di [Riccardo Fabbriconi, in arte] Blanco parliamo QUI E ORA e, consci di tutte le tragedie dell’umanità in corso, esprimiamo il nostro assoluto disgusto per la scenetta da bambino viziato andata in onda ieri e soprattutto di come TU, assecondando l’andazzo che “i giovani vanno capiti, se li sgridi si traumatizzano” che sta letteralmente distruggendo la nostra società a partire dalla scuola, hai minimizzato il tutto, forse anche con un occhio all’Auditel, agli sponsor, ai diritti d’autore di Salmo, boh. Sarà la (super)star da tenere buona a tutti i costi, ma di fronte a comportamenti incivili come il suo non esistono attenuanti, altrimenti il messaggio che passa ai giovani impressionabili è: “Visto che figo? Ha spaccato tutto e lo hanno anche invitato a ricantare”. L’idea cioè che se fai un po’ di caos tutto ti è perdonato perché, poverino, bisogna capirti, che a 20 anni “sei ancora un ragazzo”, che in fin dei conti “non hai fatto niente di grave”, che tutto ti è dovuto. Poi – sempre POI- ci si straccia le vesti quando si assiste ad atti di vandalismo assortiti, violenze di ogni tipo su cose & persone, si organizzano pensose trasmissioni “su dove stiamo portando i nostri giovani” e “chissà come mai siamo arrivati a questo punto” quando la risposta è già lì. Ma ovviamente è sempre colpa degli altri.


Raramente abbiamo visto una simile prova di inciviltà giustificata, ma se c’è qualcosa che ancor più ci indigna è il comportamento dei giornali che riportano la notizia della Blancheide come fosse un dettaglio di colore. Un unico articolo di condanna su Repubblica online è sparito dopo che Blanco ha pubblicato il rap di scuse su Instagram; per il resto, il nulla. Fosse accaduto nei Festivàl condotti da [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo, minimo ci sarebbero state edizioni straordinarie con titoli a scatola [ORRORE ALL’ARISTON] e richieste di ergastolo ostativo: tanto per dire, il presunto aspirante suicida di Sanremo 1995 fu subito oggetto di sarcasmo da parte dei giornali che pensarono immediatamente alla montatura. Qui no, del Festivàl ormai si parla sempre e solo bene, perché parlarne male non fa vendere le già poche copie che i giornali riescono a piazzare. Altri tempi quando titoli come: “Sanremo, va in onda la noia” erano pronti già un mese prima, adesso un Festivàl che dal 2010 non si schioda dai 10-11 milioni di spettatori a sera, che ai tempi di [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo sarebbe stato un ascolto fallimentare – e Sanremo 1995 non scese mai sotto i 15 milioni medi a sera - è sempre celebrato come un trionfo perché invece dei numeri assoluti si è deciso di considerare lo share. Il che non è certo un male, ma serve a coprire l’emorragia di ascolti rispetto ai tempi d’oro. Ma chi ne parla più? Ogni serata è un colpo di genio, sempre meglio dell’anno prima, e i giornalisti snobboni – gli stessi di oggi– che crocifiggevano [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo perché a Sanremo 1995 era finita ultima Patty Pravo con Giorgia vincitrice, giornalisti che si vantano di aver dato del tu a De André e di scambiarsi messaggi di buon Natale con De Gregori e Fossati, oggi si spellano le mani ad applaudire i Coma_Cose, Madame [anch’essa perdonata a furor di Spotify, “in fin dei conti cos’è un Green pass falsificato…?”] e Tananai. Certo certo. Tengo famiglia. E Blanco in fin dei conti è un ragazzo.



[ultima nota ai benaltristi: prima di sentirmi chiedere – dopo tanto pontificare- se anche noi della scuola non abbiamo da fare autocritica, la risposta è ovviamente sì, ma le cause remote di questi disastri – rassegnatevi – stanno altrove]

domenica 8 maggio 2022

Appunti di umanesimo quantistico#3

 

4.


L’umanesimo quantistico come impostato sopra può inverarsi in qualche esperienza reale al di fuori del web? I miei dubbi a riguardo sono stati ulteriormente stimolati dalla lettura di un romanzo uscito (relativamente) di recente (2016): Una vita come tante della scrittrice hawaiana Hanya Yanagihara, edizione italiana a cura di Sellerio, titolo originale A Little Life. Romanzo che, diciamolo in esergo, ha spaccato perfettamente in due parti pubblico e critica tra ammiratori sfegatati e odiatori inconvincibili. Il motivo di questa polarità di gradimento risiede a mio giudizio nella raffigurazione del dolore irredimibile cui è soggetto il protagonista (Jude St Francis), le cui fratture esistenziali sono impossibili da ricomporre, come se la sua anima fosse perennemente la recidiva di un tumore. Senza spoilerare troppo, la vicenda si svolge tra New York e circondario più o meno tra gli anni ‘80 del secolo scorso e gli anni ‘10 di questo e ruota attorno alle vicende di un gruppo di quattro amici che inseguono i rispettivi sogni: tre di loro (Malcolm, JB – che starebbe per Jean-Baptiste – e Willem) si dedicano a professioni creative (architettura, pittura e cinema), mentre Jude è un brillante avvocato che durante il romanzo lascerà l’ufficio del procuratore per il ben più lucroso incarico in uno studio associato specializzato nel salvare i farabutti. Man mano che la storia si dipana, ci rendiamo conto che il protagonista principale è proprio lui e scopriamo gradualmente (MOLTO gradualmente) che il suo passato di orfano è stato irrimediabilmente rovinato da una serie di gravissimi abusi subiti fino all’età di 16 anni che hanno lasciato tracce più visibili (sul suo corpo, in particolare sulla schiena e sulle gambe) e altre meno (nella psiche) che tuttavia si ipostatizzano in ripetuti e incontrollabili atti di autolesionismo. Ciò nonostante, e parliamo di sofferenze psicofisiche inenarrabili, Jude svolge in maniera impeccabile la propria professione, come se riuscisse a compartimentare il suo Io in modo che la parte, per così dire, malata sia silenziata per tutta la durata della giornata lavorativa. Resta inteso che gli orrori del passato non cessano di tormentarlo, esattamente come un branco di iene sempre in agguato e pronte a sbranare la sua fragile serenità.

Ciò che colpisce nella storia è che solo uno dei tre amici riuscirà a sapere da Jude tutto quanto riguarda il suo passato, mentre altri (compreso il medico personale) restano completamente esclusi da tale conoscenza: eppure, nonostante autolesionismi, menzogne, incontri sentimentali disastrosi e svolte prossime alla catastrofe che punteggiano la quarantennale vicenda narrata nel romanzo, Jude è di fatto circondato da gente che vuole solo il suo bene e fa il massimo per procurarglielo e consolidarlo, anche laddove Jude sembra fare di tutto per respingerlo e respingere chi lo circonda. Qui sta il nodo tragico della lunga (1091 pagine) vicenda: il Male si è a tal punto sedimentato in Jude a tutti i livelli che egli non riesce ad assecondare gli atti di affetto delle altre persone perché non se ne sente degno. Egli si odia e si disprezza, si sente irreparabilmente corrotto dal suo passato pur senza avere la minima colpa e pertanto ritiene di essere, semplicemente, inadatto a ricevere il bene. L’entrata in scena di una figura di sadico sessuale, così come l’imprevedibile svolta sentimentale che avviene a circa due terzi della narrazione, sortiscono evidentemente effetti diversi nella vita di Jude, ma sarebbe ingenuo pensare che la prima esperienza sia l’acme del male mentre la seconda costituisca l’inizio della redenzione; basti pensare che gesti estremi di autolesionismo anche peggiori dei precedenti avvengono proprio in questa seconda. Eppure nemmeno questa ripetuta corsa all’autodistruzione (anche quando essa si aggrava dopo l’ennesima disgrazia personale) fa mancare a Jude la vicinanza degli altri personaggi, che anzi moltiplicano le premure nei suoi confronti. Questo è uno dei motivi- cardine del romanzo: NESSUNO abbandona mai Jude a se stesso, anche quando i suoi comportamenti si fanno esasperanti. Jude però è come un buco nero che assorbe la luce, troppo ha patito in anni decisivi per il suo sviluppo e si rende conto che un ritorno alla normalità (o a una parvenza di essa) è semplicemente impossibile. Con un certo nervosismo, alcuni recensori hanno notato che l’espressione più ricorrente del suo frasario è “I’m sorry” (ne sono stati contati 215 casi), stigmatizzandone in certo modo la snervante e pleonastica banalità. Forse però proprio questa presenza ossessiva di un’espressione così basica svela molto più del resto: Jude si scusa non tanto di non venire incontro alle richieste di chi vorrebbe sapere di più su di lui per poterlo meglio aiutare, né gli pesa davvero ricadere più volte negli stessi atti autolesionistici, vanificando tutto ciò che gli altri fanno per dissuaderlo (o anche ostacolarlo): egli di fatto si scusa di esistere così com’è. E nulla e nessuno potrà fargli cambiare idea.

A inizio romanzo è proprio Malcolm a definire il misterioso Jude un post-uomo (specie perché di lui, in effetti, sono ignoti agli amici passato, etnia, orientamento sessuale ecc.) sì che uno dei siti che con più entusiasmo hanno recensito il romanzo afferma che Yanagihara ha scritto un manifesto letterario sul post-umanesimo del ventunesimo secolo. Dove c’è post-umanesimo c’è forse umanesimo quantistico? Se seguiamo la linea ragionativa di Rovelli, credo di no. Jude rappresenta semmai la prova rovesciata della coerenza strutturale dell’umanesimo classico: egli è incapace di autentiche relazioni perché odia se stesso, odia per l’appunto il suo semplice essere. Un essere che non si ama, non ama gli altri né può comprenderne l’amore. Egli è un vuoto di essere che nemmeno la relazione sentimentale più felice (finché dura) riesce a riempire fino in fondo. Ci sono limitazioni (dicasi: ferite) relazionali ereditate dal passato che non verranno MAI superate. Se valessero i temi dell’umanesimo quantistico, Jude dovrebbe convincersi che tutta la sofferenza patita può essere semplicemente cancellata dall’affetto degli altri protagonisti, quasi si fosse trattato di un’illusione. Il venire-all’-essere quantistico di Jude si esplicherebbe sotto il segno dell’abuso psicofisico, nel senso che egli ‘esiste’ allorché la sua identità di vittima vieneattivata’ da coloro che lo violentano. Egli non sussiste in sé, ma è l’oggetto delle violenze altrui che definiscono la sua identità. Tuttavia il subentro della nuova dimensione relazionale non ripara i guasti provocati dalla precedente: trovare una persona che lo ama – che lo fa esistere come essere amato - dovrebbe salvare Jude dal baratro, ma così non è. Ciò perché, a differenza di quanto un umanesimo quantistico prevederebbe, non siamo dotati di identità intercambiabili che si annullano reciprocamente a seconda delle persone con cui interagiamo. Per quanto possiamo muoverci pendolarmente tra nessuno e centomila, le diverse interazioni con gli altri si depositano da qualche parte in noi dando forma, per quanto fluido e instabile, ad un uno che serba in sé una memoria anche minima del susseguirsi delle esperienze relazionali. Non credo però che quest’uno sia semplicemente la risultante (chimicamente: il precipitato) delle relazioni, perché esse, nel loro succedersi cronologico, dovrebbero annichilarsi a vicenda, o meglio in sequenza. Se esse lasciano una traccia, ciò comporta che esista prima di esse qualcosa su cui posarsi. La coscienza di Jude (sfuggente e auto-trasparente finché si vuole) preesisteva a tutte le esperienze e purtroppo la primazia di quelle devastanti sulle altre ha curvato in una direzione irrevocabile il suo tracciato esistenziale. Egli, per tutto il romanzo, vive come quelle persone che non sono riuscite ad elaborare un lutto e sono perseguitate da una perenne afflizione; nello specifico, paradossalmente, il lutto di Jude non si connette ad un evento di morte ma alla sua stessa vita che di fatto è morta per lui tra gli otto e i sedici anni. Tale morte-in-vita è appunto frutto delle relazioni disastrose vissute da giovane: Jude ha perso in un certo senso il possesso di sé e non è più in grado di relazionarsi in modo autenticamente sano e costruttivo con gli altri. Alla luce dell’Umanesimo tradizionale (e ovviamente di tonnellate di manuali di psicologia e psichiatria) tutto ciò è dolorosamente plausibile. Un umanista quantistico (o un neuroscienziato) cosa direbbe? Che tutte le sofferenze di Jude sono state niente più che un’illusione? Che il Jude violentato è tale solo nella coscienza di chi lo ha violentato, mentre il Jude-in-sé, che non esiste autonomamente, ha solo creduto di aver subito violenza, ma non avendo quest’ultima un fondamento oggettivo nella coscienza di Jude non può essere realmente avvenuta?

Forse l’umanista quantistico potrà rispondere a questi quesiti, ma credo che il nodo fondamentale di questa nuova visione dell’individuo sia ormai chiaro: la sua portata controintuitiva, se accettata, ci obbligherebbe a rivedere radicalmente i fondamenti dell’etica, della libertà e della responsabilità. Non si potrebbe, mi pare, parlar più di responsabilità individuale, ma piuttosto relazionale. Ma se le relazioni attivano sussistenze che da sole non esisterebbero, come stabilire l’oggettività di un danno esistenziale irreparabile come quello subito da Jude? E soprattutto: di che Jude si parlerebbe? Credo infatti che l’Umanesimo quantistico trascenda persino la più estrema prospettiva idealistica: non si può dire che la realtà non esiste fino a che il soggetto non la crea, perché al livello di cui parliamo il soggetto, semplicemente, non c’è, sostituito dalle relazioni. Willem potrà vedere gli effetti degli atti autolesionistici di Jude, ma non le violenze subite in gioventù. In prospettiva quantistica, potrà credere al racconto di un non-soggetto? E quand’anche raccogliesse confessioni tardive dei suoi violentatori, potrebbe dare a questa relazione di violenza valore oggettivo?


Se quindi vien facile estendere a livello quasi di catacresi la teoria einsteiniana della relatività nel classicissimo “tutto è relativo”, o se l’equazione della funzione d’onda di Dirac ha subito il bizzarro destino di essere ribattezzata “equazione dell’amore”, finendo tatuata, spesso con formula erronea, sugli avambracci degli adolescenti ai quattro angoli del globo, la quantizzazione dell’esperienza soggettiva convertita in “nuvola di relazioni” (estensione visibile della nuvole di possibilità di posizione dell’elettrone nel nucleo dell’atomo) può essere certamente una bellissima creazione dell’intelletto, ma la sua traduzione pratica, mi pare, avrebbe effetti robusti sui meccanismi sociali e non solo. Si tratta, come si vede, di un altro dei pedaggi da pagare nel cammino verso l’era del post-Umano. Se ci sarà.

Le grandi recensioni (teatrali) di Machittevòle: "Agnello di Dio", l'incomunicabilità dei sottomondi.


Andò in scena dalle nostre parti in questi giorni la première nazionale di "Agnello di Dio", una pièce piuttosto interessante (e NON, banalmente, perché ambientata in una scuola) dalla cui visione abbiamo trovato uno spunto notevole per approfondire il tema dei temi, ovvero l'incomunicabilità tra generazioni, e forse per capirne la radice profonda. Che è, ancora una volta, l'irrisolvibile contrasto pirandelliano tra forma e vita, con l'impossibilità di una scelta tra le due che soddisfi pienamente. Le info complete sulla pièce sono qui, pertanto dunquizziamo rapidamente: scuola cattolica per rampolli rampanti, padre in carriera (Fausto Cabra) convocato da badessa preside (Viola Graziosi) e sua ex compagna di collegio (e non solo...) proprio lì per tema di figlio (Alessandro Bandini) assai carico di disagio esistenziale. Di qui parte l'istruttoria per capire le ragioni del disagio. Ci vuole poco a polarizzare le posizioni, con Samuele (figlio) che riesce a far perdere le staffe agli altri due perché rifiuta di tornare a più miti consigli circa il suo malessere, malessere che soprattutto Marco (padre) vorrebbe liquidare a paturnia passeggera di diciottenne, forse connessa anche al suo DSA (che invece non c'entra nulla, anzi figlio si scoccia assai che i suoi disagi siano ridotti ad uno sterile tandem diagnosi-cura, come se le sofferenze esistenziali fossero trattabili alla stregua di un mal di denti). Detto che figlio riesce pure ad eccepire sulla visione cristiana di badessa, a suo dire troppo legata a formalismi ed esibizionismi, è naturalmente il match con padre che provoca le frizzantezze dialettiche più vivaci. In superficie, le conclusioni cui entrambi giungono, saldamente ancorati ciascuno al proprio punto di vista, potrebbero sembrare scontate - ma non lo sono: padre accusa figlio di essere alla fine un viziato che, avendo avuto tutto dalla famiglia, godendo di uno status economico-sociale che il 90% dei suoi coetanei può solo sognare da (molto) lontano, si permette di 'giocare' al disagiato, disprezzando tutto & tutti con irrequietudini che finiranno solo per ostacolarlo nella vita; figlio ringrazia certamente padre per tutto, ma questo 'tutto' materiale non lo soddisfa, perché egli non sopporta che il suo futuro sia già pianificato e che padre, tutto assorbito dalla sua successful career, abbia smesso di interrogarsi sul perché delle cose e, più di tutto, non ammetta che figlio possa essere attraversato da inquietudini che, anche se difficili da capire, andrebbero perlomeno ascoltate. C'è in effetti, circa a metà pièce, un momento in cui sembra che le controdeduzioni di Samuele aprano una breccia, e si capisce anche dalla prossemica, perché lui si toglie la felpa e rimane in t-shirt, a simboleggiare il suo volersi 'svestire' del ruolo di bravo figlio zero-problems, mentre Marco si slaccia il nodo della cravatta e inizia a sudare e deglutire, come se le ansie del figlio lo stessero in qualche modo contagiando, facendogli perdere l'impeccabile compostezza dell'abito blu scuro con camicia bianca supermanager style. Poi la storia prosegue (no spoiler here), ma il nocciolo che vogliamo snocciolare è proprio questo: perché entrambi pensano di avere ragione? Risposta agile: dai tempi di Atene antica il teatro tragico fa scontrare sottomondi individuali impossibilitati a conciliarsi (Antigone docet). Risposta articolata: tante volte a scuola vediamo dispiegarsi sofferenze alunnizie in cui non è semplice distinguere tra il capriccio passeggero e il disagio profondo (difficoltà su cui convengono anche i genitori). Come sempre sarebbe opportuno evitare gli estremismi, ovvero il poverinismo a oltranza come pure la stringa automatica "ma di cosa si lamenta, non saranno mica problemi questi, io ai suoi tempi...". Ma non è di questo che voglio parlare ora, e ritorno alla non comprensione reciproca: secondo me i tipi umani incarnati da Marco e Samuele, in realtà, si sono compresi benissimo, nel senso che, tacitamente, hanno convenuto su un punto, e cioè che l'esistenza -heideggerianamte- è qualcosa in cui siamo gettati e, una volta avviata la giostra, si può decidere di darsi - pirandellianamente- una Forma, oppure rivendicare l'autonomia della Vita. Nello specifico, Marco rivendica con orgoglio i suoi successi lavorativi ed economici - di cui anche Samuele evidentemente beneficia- perché sente che la carriera che si è costruito gli ha consentito di dare una funzione d'ordine all'altrimenti caotico svolgersi dei giorni. Non ha senso, secondo lui, arenarsi su riflessioni di alto spessore esistenziale che non spostano di un millimetro i problemi concreti del vivere. Samuele ne prende atto, ma si dice disposto a rinunciare a tutto il benessere pur di sentirsi vivo, di avere il diritto di non dare tutto per scontato e già deciso, di aprirsi all'incertezza, al dubbio, al mistero, all'ansia, senza alcuna garanzia di giungere ad un approdo sicuro. Ciò che Marco, secondo lui, non sa o non vuole fare, tutto incellophanato nel suo bell'abito e nella sua gioiosa carriera. Il fatto è che nessuna delle due prospettive, alla fine, vince, perché nessuna delle due risponde alla domanda fondamentale: Che ci faccio qui? La qual cosa potrebbe sembrare curiosa, visto che siamo in una scuola cattolica, ma Samuele vorrebbe un cattolicesimo diverso, meno formale e più aperto alle questioni di senso. Che poi egli cerchi davvero il senso o abbia già deciso per un sostanziale nichilismo, è questione che la pièce non risolve. Resta invece - potente - il conflitto di prospettive: Marco vuole convincere Samuele (e se stesso) che il soddisfacimento a livello deluxe dei bisogni materiali dovrebbe zittire una volta e per sempre le ansie della vita, perché la vita è una sfida spietata ma appagante (se vinta), mentre Samuele replica che, per paradossale che possa essere, l'eliminazione delle preoccupazioni materiali lascia campo liberissimo alle altre: proprio perché sollevato dalle pure necessità della sopravvivenza, l'essere umano alza lo sguardo verso un cielo profondo ed enigmatico e trova il coraggio di chiedersi il perché delle cose. La Verità nel pieno (materiale) e la Verità nel vuoto (della ricerca del senso), in questa pièce, si sfiorano e si respingono: per Marco, Samuele è un infelice coi soldi altrui, per Samuele Marco si è cristallizzato in una vita inautentica (cit.). Ci dice Marco: è utile consumare la vita in dubbi senza sbocco? Ci dice Samuele: è utile vivere rimuovendo di continuo le questioni ultime? Ci ri-dice Marco: e anche una volta che passi tutta la vita a pensare alla morte, quando muori senza aver vissuto cosa ci hai guadagnato? Ci ri-dice Samuele: e quando -presto o tardi- dovrai rassegnarti a perdere ciò che hai sempre saputo che avresti perso, non ti sembrerà di esserti preso in giro da solo per tutto il tempo? Cogliere l'attimo della forma e costruirsi una -precaria- felicità o lasciarsi travolgere dalle pulsioni inquiete della vita, liberi però da schemi & risposte preconfezionate?

Se poi dall'esistenzialismo estremo scendiamo - si fa per dire- ai problemi più concreti del quotidiano, certamente l'atteggiamento di chi non si riconosce nei disagi dell'altro perché non li ha mai vissuti è la grande croce dei nostri giorni; peggio ancora quando la liquidazione dei disagi medesimi avviene sulla scorta di frasi fatte del tipo: "Le sofferenze vere sono altre", "Non sei il solo", "Guarda avanti". Piccolo o grande che sia, il dolore altrui va capito, perché attendere semplicemente che si estingua come fuoco fatuo è la strategia migliore per farlo ingigantire fino a quando sarà ingestibile. Ogni dolore va sconfitto da dentro, e se è davvero banale la sconfitta sarà rapida, una volta reso cosciente l'interessato della sua inconsistenza. Ma da dentro. Chi si limita a rapide diagnosi esterne corredate da raccomandazioni qualunquistiche e senza spessore, non solo non aiuta nella cura ma si fa complice del male. Questa, secondo noi, può essere l'onda lunga o lunghissima del sasso lanciato dalla pièce: gente giovane che si rovina l'esistenza perché non riesce a vivere come un influencer non va derubricata alla voce "bambocci superficiali", ma aiutata a capire la differenza tra mondo virtuale e reale, anche combattendo - certo ad armi impari- coi numerosi disvalori del mondo massmediatico. Chiuderla sbrigativamente con "ai miei tempi" -o simili- equivale a mettere il fondotinta su un melanoma. 

(Sul versante dei figli che rifiutano carriere preconfezionate, dalla monaca di Monza in giù, la questione è sempre quella: lo status ha un suo costo, se tu figlio vuoi avere voce in capitolo e magari eccepire, calcola bene se ciò che guadagni risarcisce ciò che perdi. Si torna quindi a quanto sopra: la felicità è il prezzo del successo?)(vabbè, questo un'altra volta...) 

Per quanto riguarda gli attori, a cui aggiungiamo la spassosa Ola Cavagna nel ruolo di suora-segretaria, il nostro giudizio da non specialisti è positivissimo: Cabra è certo una conferma, mentre Bandini - del tutto a suo agio nel ruolo di diciottenne pur avendo superato i diciotto da un po'- è stato davvero una gradevole sorpresa. La Graziosi semplicemente perfetta (praticamente la recensione è finita in fondo)(lol).