Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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mercoledì 8 febbraio 2023

Sanremo ventiventitré, notte in Blanco

 

È evidente che, con una catastrofe sismologico-umanitaria in atto appena al di là del mare, discettare sulle prodezze di un conterraneo millennial che, LEGGERMENTE imbaldanzito (leggasi: gonfipallonito) dai più recenti (effimeri? traslucidi?) successi discografici, si è messo a sfasciare il palco del Sacro Festivàl di Sanremo (le Dionisie italiche, if you know what I mean…), potrebbe risultare fuori luogo. Anzi, lo è di sicuro. Poiché però di mestiere non faccio il sismologo né ho competenze in materia di protezione civile, ma mi occupo di ammannire contenuti formativi, preferisco parlare di ciò che so. E so che lo spettacolo blanchesco di ieri sera non è stato triste solo per la cosa in sé (potremmo citare perlomeno il ricco precedente dei Placebo nel 2001 o la goffa galanteria di Al Bano nel 1999 che estirpò mezza aiuola dalla scenografia per porgere un fiore alla presentatrice), ma per i messaggi che esso veicola.


 

Ora, il nostro [Riccardo Fabbriconi, in arte] Blanco, a fronte del problemino con gli auricolari, non ha, come qualsiasi persona matura (ha già 20 anni, remember) chiesto di interrompere l’esibizione, aggiustare il guasto e riprendere. No. È andato avanti a distruggere il distruggibile con la risibile motivazione che “non funzionava niente, non si poteva fermare [?] comunque mi sono divertito”. Che il nostro Blanco non sia un mago della subordinazione era chiaro già dall’anno scorso, quando le sue risposte nelle interviste non superavano la reggente, una coordinata per asindeto, una risata, un’espressione gergale (“siamo saliti sul palco abbiamo fatto i felicioni”) e ciao. Ma del resto, si diceva, il suo mestiere è cantare [accusa di spocchia da laureato in Lettere in arrivo tra 3...2...1...]. Certo. Poi è chiaro che una capacità di articolare il pensiero dovrebbe essere spia di un’altrettanta capacità di articolare i comportamenti. E, sapendo che nel periodo esistono una reggente e le sue subordinate, si dovrebbe di conseguenza capire che in una situazione formalizzata come il Sacro Festivàl non si può fare quel che si vuole, ma esistono delle regole (certo, anche Catilina subordinava benissimo, almeno a leggere i resoconti sallustiani, e per poco non rovesciava il governo di Roma, ma insomma).


 

Se poi ieri sera la sua scarsità espressiva non ha mancato di manifestarsi con quel “mi dispiace A tutti” ansimato a microfono in gola, la vera scarsità da intorcinare le ime budella è stata senza dubbio quella gestionale di [Amedeo Sebastiani, in arte] Amadeus. Il quale, con la stessa espressione da “scusate, non so fingere che sia tutto combinato” già impiegata nell’indimenticato (pseudo-) alterco Bugo-Morgan di tre anni fa, non fa quello che ogni adulto normosenziente avrebbe fatto, cioè afferrare Blanco per un orecchio, trascinarlo giù dal palco, portarlo gentilmente fuori dall’Ariston, caricarlo su un Boeing di sola andata per Albenga urlandogli di non tornare mai più, risalire sul palco, scusarsi col mondo intiero e offrire il capo alla (metaforica) ghigliottina di giornali, Moige e social assortiti sperando in una (prevedibile) assoluzione (“eri in buona fede, dai”). Macché: come certi genitori schiavi dei capricci dei figli, anzitutto zittisce a più riprese la platea inferocita (perché ovviamente il problema non è Blanco che l’ha combinata, ma il pubblico che se l’è presa), si rivolge con l’occhio umido a Blanco, gli chiede di spiegarsi, Blanco non fa altro che aggravare la sua posizione a colpi di frasi giustapposte una più imbarazzante dell’altra e poi arriva subliminalmente la proposta di andare a rilassarsi un attimo in camerino, “perché la canzone di Salmo bisogna sentirla, poi, se vorrai, DOPO LA RICANTI”. 

 


 

Certo. Poi si passa, come si trattasse con un bambino cinquenne, a fare l’esegesi dei fischi del pubblico, perché il ventenne Blanco (20 anni = diritto di voto = maturità) evidentemente non ci arriva da solo: “Fischiano perché [anzi x’] non capiscono perché l’hai fatto”. E Blanco cosa risponde? “No, li dovevo spaccare comunque” e Amadeus subito a fargli eco asilo- style guardando in galleria: “Li doveva spaccare comunque... perché, qual è il significato?”. Qui Blanco poteva fare il Luigi Tenco 4.0, millantare crisi esistenziali che manco Jean-Michel Basquiat, oppure denunciare i mali del mondo, chiamare l’Occidente a raccolta contro la farina di grilli, qualsiasi cosa E INVECE: “Il significato è che non andava la voce, allora mi son detto mi diverto comunque [??]… tanto la musica è la musica [???]….” più altri ragionamenti ugualmente incomprensibili. La folla folleggia e Amadeus, in luogo di prendere Blanco per un orecchio, trasformarsi in Rubber di One Piece e con una sola torsione del braccio scaraventarlo direttamente a Calvagese, scendere dal palco e farsi sostituire nella conduzione da Dodò de LAlbero Azzurro, che fa? Esige il silenzio dal pubblico, “magari non è stato bello quello che avete visto e lo comprendo PERÒ siccome non ha funzionato niente se vuoi torni dopo”. E Blanco: “Sì, dai, mi piace la musica”. Del resto, chiosa Amadeus, povero cocco, era agitato e “gli è partita la sciabbarabba”. No, caro [Amedeo Sebastiani, in arte] Amadeus: prima che arrivino i soliti benaltristi a insabbiare il tutto con frasi tipo: “vi scandalizzate per Blanco quando c’è di peggio in giro”, diciamo subito CHIARO E NETTO che di [Riccardo Fabbriconi, in arte] Blanco parliamo QUI E ORA e, consci di tutte le tragedie dell’umanità in corso, esprimiamo il nostro assoluto disgusto per la scenetta da bambino viziato andata in onda ieri e soprattutto di come TU, assecondando l’andazzo che “i giovani vanno capiti, se li sgridi si traumatizzano” che sta letteralmente distruggendo la nostra società a partire dalla scuola, hai minimizzato il tutto, forse anche con un occhio all’Auditel, agli sponsor, ai diritti d’autore di Salmo, boh. Sarà la (super)star da tenere buona a tutti i costi, ma di fronte a comportamenti incivili come il suo non esistono attenuanti, altrimenti il messaggio che passa ai giovani impressionabili è: “Visto che figo? Ha spaccato tutto e lo hanno anche invitato a ricantare”. L’idea cioè che se fai un po’ di caos tutto ti è perdonato perché, poverino, bisogna capirti, che a 20 anni “sei ancora un ragazzo”, che in fin dei conti “non hai fatto niente di grave”, che tutto ti è dovuto. Poi – sempre POI- ci si straccia le vesti quando si assiste ad atti di vandalismo assortiti, violenze di ogni tipo su cose & persone, si organizzano pensose trasmissioni “su dove stiamo portando i nostri giovani” e “chissà come mai siamo arrivati a questo punto” quando la risposta è già lì. Ma ovviamente è sempre colpa degli altri.


Raramente abbiamo visto una simile prova di inciviltà giustificata, ma se c’è qualcosa che ancor più ci indigna è il comportamento dei giornali che riportano la notizia della Blancheide come fosse un dettaglio di colore. Un unico articolo di condanna su Repubblica online è sparito dopo che Blanco ha pubblicato il rap di scuse su Instagram; per il resto, il nulla. Fosse accaduto nei Festivàl condotti da [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo, minimo ci sarebbero state edizioni straordinarie con titoli a scatola [ORRORE ALL’ARISTON] e richieste di ergastolo ostativo: tanto per dire, il presunto aspirante suicida di Sanremo 1995 fu subito oggetto di sarcasmo da parte dei giornali che pensarono immediatamente alla montatura. Qui no, del Festivàl ormai si parla sempre e solo bene, perché parlarne male non fa vendere le già poche copie che i giornali riescono a piazzare. Altri tempi quando titoli come: “Sanremo, va in onda la noia” erano pronti già un mese prima, adesso un Festivàl che dal 2010 non si schioda dai 10-11 milioni di spettatori a sera, che ai tempi di [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo sarebbe stato un ascolto fallimentare – e Sanremo 1995 non scese mai sotto i 15 milioni medi a sera - è sempre celebrato come un trionfo perché invece dei numeri assoluti si è deciso di considerare lo share. Il che non è certo un male, ma serve a coprire l’emorragia di ascolti rispetto ai tempi d’oro. Ma chi ne parla più? Ogni serata è un colpo di genio, sempre meglio dell’anno prima, e i giornalisti snobboni – gli stessi di oggi– che crocifiggevano [Giuseppe Raimondo Vittorio, in arte Pippo] Baudo perché a Sanremo 1995 era finita ultima Patty Pravo con Giorgia vincitrice, giornalisti che si vantano di aver dato del tu a De André e di scambiarsi messaggi di buon Natale con De Gregori e Fossati, oggi si spellano le mani ad applaudire i Coma_Cose, Madame [anch’essa perdonata a furor di Spotify, “in fin dei conti cos’è un Green pass falsificato…?”] e Tananai. Certo certo. Tengo famiglia. E Blanco in fin dei conti è un ragazzo.



[ultima nota ai benaltristi: prima di sentirmi chiedere – dopo tanto pontificare- se anche noi della scuola non abbiamo da fare autocritica, la risposta è ovviamente sì, ma le cause remote di questi disastri – rassegnatevi – stanno altrove]

domenica 8 maggio 2022

Appunti di umanesimo quantistico#3

 

4.


L’umanesimo quantistico come impostato sopra può inverarsi in qualche esperienza reale al di fuori del web? I miei dubbi a riguardo sono stati ulteriormente stimolati dalla lettura di un romanzo uscito (relativamente) di recente (2016): Una vita come tante della scrittrice hawaiana Hanya Yanagihara, edizione italiana a cura di Sellerio, titolo originale A Little Life. Romanzo che, diciamolo in esergo, ha spaccato perfettamente in due parti pubblico e critica tra ammiratori sfegatati e odiatori inconvincibili. Il motivo di questa polarità di gradimento risiede a mio giudizio nella raffigurazione del dolore irredimibile cui è soggetto il protagonista (Jude St Francis), le cui fratture esistenziali sono impossibili da ricomporre, come se la sua anima fosse perennemente la recidiva di un tumore. Senza spoilerare troppo, la vicenda si svolge tra New York e circondario più o meno tra gli anni ‘80 del secolo scorso e gli anni ‘10 di questo e ruota attorno alle vicende di un gruppo di quattro amici che inseguono i rispettivi sogni: tre di loro (Malcolm, JB – che starebbe per Jean-Baptiste – e Willem) si dedicano a professioni creative (architettura, pittura e cinema), mentre Jude è un brillante avvocato che durante il romanzo lascerà l’ufficio del procuratore per il ben più lucroso incarico in uno studio associato specializzato nel salvare i farabutti. Man mano che la storia si dipana, ci rendiamo conto che il protagonista principale è proprio lui e scopriamo gradualmente (MOLTO gradualmente) che il suo passato di orfano è stato irrimediabilmente rovinato da una serie di gravissimi abusi subiti fino all’età di 16 anni che hanno lasciato tracce più visibili (sul suo corpo, in particolare sulla schiena e sulle gambe) e altre meno (nella psiche) che tuttavia si ipostatizzano in ripetuti e incontrollabili atti di autolesionismo. Ciò nonostante, e parliamo di sofferenze psicofisiche inenarrabili, Jude svolge in maniera impeccabile la propria professione, come se riuscisse a compartimentare il suo Io in modo che la parte, per così dire, malata sia silenziata per tutta la durata della giornata lavorativa. Resta inteso che gli orrori del passato non cessano di tormentarlo, esattamente come un branco di iene sempre in agguato e pronte a sbranare la sua fragile serenità.

Ciò che colpisce nella storia è che solo uno dei tre amici riuscirà a sapere da Jude tutto quanto riguarda il suo passato, mentre altri (compreso il medico personale) restano completamente esclusi da tale conoscenza: eppure, nonostante autolesionismi, menzogne, incontri sentimentali disastrosi e svolte prossime alla catastrofe che punteggiano la quarantennale vicenda narrata nel romanzo, Jude è di fatto circondato da gente che vuole solo il suo bene e fa il massimo per procurarglielo e consolidarlo, anche laddove Jude sembra fare di tutto per respingerlo e respingere chi lo circonda. Qui sta il nodo tragico della lunga (1091 pagine) vicenda: il Male si è a tal punto sedimentato in Jude a tutti i livelli che egli non riesce ad assecondare gli atti di affetto delle altre persone perché non se ne sente degno. Egli si odia e si disprezza, si sente irreparabilmente corrotto dal suo passato pur senza avere la minima colpa e pertanto ritiene di essere, semplicemente, inadatto a ricevere il bene. L’entrata in scena di una figura di sadico sessuale, così come l’imprevedibile svolta sentimentale che avviene a circa due terzi della narrazione, sortiscono evidentemente effetti diversi nella vita di Jude, ma sarebbe ingenuo pensare che la prima esperienza sia l’acme del male mentre la seconda costituisca l’inizio della redenzione; basti pensare che gesti estremi di autolesionismo anche peggiori dei precedenti avvengono proprio in questa seconda. Eppure nemmeno questa ripetuta corsa all’autodistruzione (anche quando essa si aggrava dopo l’ennesima disgrazia personale) fa mancare a Jude la vicinanza degli altri personaggi, che anzi moltiplicano le premure nei suoi confronti. Questo è uno dei motivi- cardine del romanzo: NESSUNO abbandona mai Jude a se stesso, anche quando i suoi comportamenti si fanno esasperanti. Jude però è come un buco nero che assorbe la luce, troppo ha patito in anni decisivi per il suo sviluppo e si rende conto che un ritorno alla normalità (o a una parvenza di essa) è semplicemente impossibile. Con un certo nervosismo, alcuni recensori hanno notato che l’espressione più ricorrente del suo frasario è “I’m sorry” (ne sono stati contati 215 casi), stigmatizzandone in certo modo la snervante e pleonastica banalità. Forse però proprio questa presenza ossessiva di un’espressione così basica svela molto più del resto: Jude si scusa non tanto di non venire incontro alle richieste di chi vorrebbe sapere di più su di lui per poterlo meglio aiutare, né gli pesa davvero ricadere più volte negli stessi atti autolesionistici, vanificando tutto ciò che gli altri fanno per dissuaderlo (o anche ostacolarlo): egli di fatto si scusa di esistere così com’è. E nulla e nessuno potrà fargli cambiare idea.

A inizio romanzo è proprio Malcolm a definire il misterioso Jude un post-uomo (specie perché di lui, in effetti, sono ignoti agli amici passato, etnia, orientamento sessuale ecc.) sì che uno dei siti che con più entusiasmo hanno recensito il romanzo afferma che Yanagihara ha scritto un manifesto letterario sul post-umanesimo del ventunesimo secolo. Dove c’è post-umanesimo c’è forse umanesimo quantistico? Se seguiamo la linea ragionativa di Rovelli, credo di no. Jude rappresenta semmai la prova rovesciata della coerenza strutturale dell’umanesimo classico: egli è incapace di autentiche relazioni perché odia se stesso, odia per l’appunto il suo semplice essere. Un essere che non si ama, non ama gli altri né può comprenderne l’amore. Egli è un vuoto di essere che nemmeno la relazione sentimentale più felice (finché dura) riesce a riempire fino in fondo. Ci sono limitazioni (dicasi: ferite) relazionali ereditate dal passato che non verranno MAI superate. Se valessero i temi dell’umanesimo quantistico, Jude dovrebbe convincersi che tutta la sofferenza patita può essere semplicemente cancellata dall’affetto degli altri protagonisti, quasi si fosse trattato di un’illusione. Il venire-all’-essere quantistico di Jude si esplicherebbe sotto il segno dell’abuso psicofisico, nel senso che egli ‘esiste’ allorché la sua identità di vittima vieneattivata’ da coloro che lo violentano. Egli non sussiste in sé, ma è l’oggetto delle violenze altrui che definiscono la sua identità. Tuttavia il subentro della nuova dimensione relazionale non ripara i guasti provocati dalla precedente: trovare una persona che lo ama – che lo fa esistere come essere amato - dovrebbe salvare Jude dal baratro, ma così non è. Ciò perché, a differenza di quanto un umanesimo quantistico prevederebbe, non siamo dotati di identità intercambiabili che si annullano reciprocamente a seconda delle persone con cui interagiamo. Per quanto possiamo muoverci pendolarmente tra nessuno e centomila, le diverse interazioni con gli altri si depositano da qualche parte in noi dando forma, per quanto fluido e instabile, ad un uno che serba in sé una memoria anche minima del susseguirsi delle esperienze relazionali. Non credo però che quest’uno sia semplicemente la risultante (chimicamente: il precipitato) delle relazioni, perché esse, nel loro succedersi cronologico, dovrebbero annichilarsi a vicenda, o meglio in sequenza. Se esse lasciano una traccia, ciò comporta che esista prima di esse qualcosa su cui posarsi. La coscienza di Jude (sfuggente e auto-trasparente finché si vuole) preesisteva a tutte le esperienze e purtroppo la primazia di quelle devastanti sulle altre ha curvato in una direzione irrevocabile il suo tracciato esistenziale. Egli, per tutto il romanzo, vive come quelle persone che non sono riuscite ad elaborare un lutto e sono perseguitate da una perenne afflizione; nello specifico, paradossalmente, il lutto di Jude non si connette ad un evento di morte ma alla sua stessa vita che di fatto è morta per lui tra gli otto e i sedici anni. Tale morte-in-vita è appunto frutto delle relazioni disastrose vissute da giovane: Jude ha perso in un certo senso il possesso di sé e non è più in grado di relazionarsi in modo autenticamente sano e costruttivo con gli altri. Alla luce dell’Umanesimo tradizionale (e ovviamente di tonnellate di manuali di psicologia e psichiatria) tutto ciò è dolorosamente plausibile. Un umanista quantistico (o un neuroscienziato) cosa direbbe? Che tutte le sofferenze di Jude sono state niente più che un’illusione? Che il Jude violentato è tale solo nella coscienza di chi lo ha violentato, mentre il Jude-in-sé, che non esiste autonomamente, ha solo creduto di aver subito violenza, ma non avendo quest’ultima un fondamento oggettivo nella coscienza di Jude non può essere realmente avvenuta?

Forse l’umanista quantistico potrà rispondere a questi quesiti, ma credo che il nodo fondamentale di questa nuova visione dell’individuo sia ormai chiaro: la sua portata controintuitiva, se accettata, ci obbligherebbe a rivedere radicalmente i fondamenti dell’etica, della libertà e della responsabilità. Non si potrebbe, mi pare, parlar più di responsabilità individuale, ma piuttosto relazionale. Ma se le relazioni attivano sussistenze che da sole non esisterebbero, come stabilire l’oggettività di un danno esistenziale irreparabile come quello subito da Jude? E soprattutto: di che Jude si parlerebbe? Credo infatti che l’Umanesimo quantistico trascenda persino la più estrema prospettiva idealistica: non si può dire che la realtà non esiste fino a che il soggetto non la crea, perché al livello di cui parliamo il soggetto, semplicemente, non c’è, sostituito dalle relazioni. Willem potrà vedere gli effetti degli atti autolesionistici di Jude, ma non le violenze subite in gioventù. In prospettiva quantistica, potrà credere al racconto di un non-soggetto? E quand’anche raccogliesse confessioni tardive dei suoi violentatori, potrebbe dare a questa relazione di violenza valore oggettivo?


Se quindi vien facile estendere a livello quasi di catacresi la teoria einsteiniana della relatività nel classicissimo “tutto è relativo”, o se l’equazione della funzione d’onda di Dirac ha subito il bizzarro destino di essere ribattezzata “equazione dell’amore”, finendo tatuata, spesso con formula erronea, sugli avambracci degli adolescenti ai quattro angoli del globo, la quantizzazione dell’esperienza soggettiva convertita in “nuvola di relazioni” (estensione visibile della nuvole di possibilità di posizione dell’elettrone nel nucleo dell’atomo) può essere certamente una bellissima creazione dell’intelletto, ma la sua traduzione pratica, mi pare, avrebbe effetti robusti sui meccanismi sociali e non solo. Si tratta, come si vede, di un altro dei pedaggi da pagare nel cammino verso l’era del post-Umano. Se ci sarà.

Le grandi recensioni (teatrali) di Machittevòle: "Agnello di Dio", l'incomunicabilità dei sottomondi.


Andò in scena dalle nostre parti in questi giorni la première nazionale di "Agnello di Dio", una pièce piuttosto interessante (e NON, banalmente, perché ambientata in una scuola) dalla cui visione abbiamo trovato uno spunto notevole per approfondire il tema dei temi, ovvero l'incomunicabilità tra generazioni, e forse per capirne la radice profonda. Che è, ancora una volta, l'irrisolvibile contrasto pirandelliano tra forma e vita, con l'impossibilità di una scelta tra le due che soddisfi pienamente. Le info complete sulla pièce sono qui, pertanto dunquizziamo rapidamente: scuola cattolica per rampolli rampanti, padre in carriera (Fausto Cabra) convocato da badessa preside (Viola Graziosi) e sua ex compagna di collegio (e non solo...) proprio lì per tema di figlio (Alessandro Bandini) assai carico di disagio esistenziale. Di qui parte l'istruttoria per capire le ragioni del disagio. Ci vuole poco a polarizzare le posizioni, con Samuele (figlio) che riesce a far perdere le staffe agli altri due perché rifiuta di tornare a più miti consigli circa il suo malessere, malessere che soprattutto Marco (padre) vorrebbe liquidare a paturnia passeggera di diciottenne, forse connessa anche al suo DSA (che invece non c'entra nulla, anzi figlio si scoccia assai che i suoi disagi siano ridotti ad uno sterile tandem diagnosi-cura, come se le sofferenze esistenziali fossero trattabili alla stregua di un mal di denti). Detto che figlio riesce pure ad eccepire sulla visione cristiana di badessa, a suo dire troppo legata a formalismi ed esibizionismi, è naturalmente il match con padre che provoca le frizzantezze dialettiche più vivaci. In superficie, le conclusioni cui entrambi giungono, saldamente ancorati ciascuno al proprio punto di vista, potrebbero sembrare scontate - ma non lo sono: padre accusa figlio di essere alla fine un viziato che, avendo avuto tutto dalla famiglia, godendo di uno status economico-sociale che il 90% dei suoi coetanei può solo sognare da (molto) lontano, si permette di 'giocare' al disagiato, disprezzando tutto & tutti con irrequietudini che finiranno solo per ostacolarlo nella vita; figlio ringrazia certamente padre per tutto, ma questo 'tutto' materiale non lo soddisfa, perché egli non sopporta che il suo futuro sia già pianificato e che padre, tutto assorbito dalla sua successful career, abbia smesso di interrogarsi sul perché delle cose e, più di tutto, non ammetta che figlio possa essere attraversato da inquietudini che, anche se difficili da capire, andrebbero perlomeno ascoltate. C'è in effetti, circa a metà pièce, un momento in cui sembra che le controdeduzioni di Samuele aprano una breccia, e si capisce anche dalla prossemica, perché lui si toglie la felpa e rimane in t-shirt, a simboleggiare il suo volersi 'svestire' del ruolo di bravo figlio zero-problems, mentre Marco si slaccia il nodo della cravatta e inizia a sudare e deglutire, come se le ansie del figlio lo stessero in qualche modo contagiando, facendogli perdere l'impeccabile compostezza dell'abito blu scuro con camicia bianca supermanager style. Poi la storia prosegue (no spoiler here), ma il nocciolo che vogliamo snocciolare è proprio questo: perché entrambi pensano di avere ragione? Risposta agile: dai tempi di Atene antica il teatro tragico fa scontrare sottomondi individuali impossibilitati a conciliarsi (Antigone docet). Risposta articolata: tante volte a scuola vediamo dispiegarsi sofferenze alunnizie in cui non è semplice distinguere tra il capriccio passeggero e il disagio profondo (difficoltà su cui convengono anche i genitori). Come sempre sarebbe opportuno evitare gli estremismi, ovvero il poverinismo a oltranza come pure la stringa automatica "ma di cosa si lamenta, non saranno mica problemi questi, io ai suoi tempi...". Ma non è di questo che voglio parlare ora, e ritorno alla non comprensione reciproca: secondo me i tipi umani incarnati da Marco e Samuele, in realtà, si sono compresi benissimo, nel senso che, tacitamente, hanno convenuto su un punto, e cioè che l'esistenza -heideggerianamte- è qualcosa in cui siamo gettati e, una volta avviata la giostra, si può decidere di darsi - pirandellianamente- una Forma, oppure rivendicare l'autonomia della Vita. Nello specifico, Marco rivendica con orgoglio i suoi successi lavorativi ed economici - di cui anche Samuele evidentemente beneficia- perché sente che la carriera che si è costruito gli ha consentito di dare una funzione d'ordine all'altrimenti caotico svolgersi dei giorni. Non ha senso, secondo lui, arenarsi su riflessioni di alto spessore esistenziale che non spostano di un millimetro i problemi concreti del vivere. Samuele ne prende atto, ma si dice disposto a rinunciare a tutto il benessere pur di sentirsi vivo, di avere il diritto di non dare tutto per scontato e già deciso, di aprirsi all'incertezza, al dubbio, al mistero, all'ansia, senza alcuna garanzia di giungere ad un approdo sicuro. Ciò che Marco, secondo lui, non sa o non vuole fare, tutto incellophanato nel suo bell'abito e nella sua gioiosa carriera. Il fatto è che nessuna delle due prospettive, alla fine, vince, perché nessuna delle due risponde alla domanda fondamentale: Che ci faccio qui? La qual cosa potrebbe sembrare curiosa, visto che siamo in una scuola cattolica, ma Samuele vorrebbe un cattolicesimo diverso, meno formale e più aperto alle questioni di senso. Che poi egli cerchi davvero il senso o abbia già deciso per un sostanziale nichilismo, è questione che la pièce non risolve. Resta invece - potente - il conflitto di prospettive: Marco vuole convincere Samuele (e se stesso) che il soddisfacimento a livello deluxe dei bisogni materiali dovrebbe zittire una volta e per sempre le ansie della vita, perché la vita è una sfida spietata ma appagante (se vinta), mentre Samuele replica che, per paradossale che possa essere, l'eliminazione delle preoccupazioni materiali lascia campo liberissimo alle altre: proprio perché sollevato dalle pure necessità della sopravvivenza, l'essere umano alza lo sguardo verso un cielo profondo ed enigmatico e trova il coraggio di chiedersi il perché delle cose. La Verità nel pieno (materiale) e la Verità nel vuoto (della ricerca del senso), in questa pièce, si sfiorano e si respingono: per Marco, Samuele è un infelice coi soldi altrui, per Samuele Marco si è cristallizzato in una vita inautentica (cit.). Ci dice Marco: è utile consumare la vita in dubbi senza sbocco? Ci dice Samuele: è utile vivere rimuovendo di continuo le questioni ultime? Ci ri-dice Marco: e anche una volta che passi tutta la vita a pensare alla morte, quando muori senza aver vissuto cosa ci hai guadagnato? Ci ri-dice Samuele: e quando -presto o tardi- dovrai rassegnarti a perdere ciò che hai sempre saputo che avresti perso, non ti sembrerà di esserti preso in giro da solo per tutto il tempo? Cogliere l'attimo della forma e costruirsi una -precaria- felicità o lasciarsi travolgere dalle pulsioni inquiete della vita, liberi però da schemi & risposte preconfezionate?

Se poi dall'esistenzialismo estremo scendiamo - si fa per dire- ai problemi più concreti del quotidiano, certamente l'atteggiamento di chi non si riconosce nei disagi dell'altro perché non li ha mai vissuti è la grande croce dei nostri giorni; peggio ancora quando la liquidazione dei disagi medesimi avviene sulla scorta di frasi fatte del tipo: "Le sofferenze vere sono altre", "Non sei il solo", "Guarda avanti". Piccolo o grande che sia, il dolore altrui va capito, perché attendere semplicemente che si estingua come fuoco fatuo è la strategia migliore per farlo ingigantire fino a quando sarà ingestibile. Ogni dolore va sconfitto da dentro, e se è davvero banale la sconfitta sarà rapida, una volta reso cosciente l'interessato della sua inconsistenza. Ma da dentro. Chi si limita a rapide diagnosi esterne corredate da raccomandazioni qualunquistiche e senza spessore, non solo non aiuta nella cura ma si fa complice del male. Questa, secondo noi, può essere l'onda lunga o lunghissima del sasso lanciato dalla pièce: gente giovane che si rovina l'esistenza perché non riesce a vivere come un influencer non va derubricata alla voce "bambocci superficiali", ma aiutata a capire la differenza tra mondo virtuale e reale, anche combattendo - certo ad armi impari- coi numerosi disvalori del mondo massmediatico. Chiuderla sbrigativamente con "ai miei tempi" -o simili- equivale a mettere il fondotinta su un melanoma. 

(Sul versante dei figli che rifiutano carriere preconfezionate, dalla monaca di Monza in giù, la questione è sempre quella: lo status ha un suo costo, se tu figlio vuoi avere voce in capitolo e magari eccepire, calcola bene se ciò che guadagni risarcisce ciò che perdi. Si torna quindi a quanto sopra: la felicità è il prezzo del successo?)(vabbè, questo un'altra volta...) 

Per quanto riguarda gli attori, a cui aggiungiamo la spassosa Ola Cavagna nel ruolo di suora-segretaria, il nostro giudizio da non specialisti è positivissimo: Cabra è certo una conferma, mentre Bandini - del tutto a suo agio nel ruolo di diciottenne pur avendo superato i diciotto da un po'- è stato davvero una gradevole sorpresa. La Graziosi semplicemente perfetta (praticamente la recensione è finita in fondo)(lol).

sabato 30 aprile 2022

Appunti di Umanesimo quantistico#2

 


Resta quindi inteso che la Relazione dinamica di amore presuppone un essere consapevole di sé che, proprio in forza dell’amore di sé, riesce a individuare un altro da rendere oggetto del medesimo amore. Essere-in-relazione, sul piano della condizione divina, non indica una priorità cronologica tra i due poli del sintagma: l’Essere è perciò stesso Relazione. Sul piano umano, evidentemente, prima avviene la scoperta del Sé (livello di identità nucleare) poi la relazione con l’altro (livello di identità transizionale) dalla quale l’essere arricchisce per via dialettica la propria autocoscienza. Sarebbe tuttavia, secondo questa prospettiva, impossibile che la relazione avvenga indipendentemente dall’essere. Meglio: sarebbe inaccettabile demandare alla sola Relazione il compito di definire l’identità dell’individuo. Se l’individuo non ha anzitutto coscienza di sé, mai potrà gettare ponti sull’altro da sé.

Una simile impostazione trova senza dubbio una vivace concorrenza in una concezione dell’essere e della relazione diametralmente opposta, le cui radici affondano in un territorio ben lontano dalla filosofia e teologia medievali, ovvero la fisica quantistica.

Tale branca della fisica ha raggiunto ultimamente risultati che la apparentano in modo sorprendente (e sorprendentemente inquietante) a quelli delle neuroscienze. Queste ultime, indagando più a fondo l’assioma cartesiano cogito ergo sum, giungono a concludere che l’anima è di fatto trasparente a se stessa, nel senso che si percepisce, ma per così dire ‘non sa trovarsi’. Che la sua origine sia puramente biologica o metafisica (e il neuroscienziato opta decisamente per la prima ipotesi), resta un fatto che essa non conosce alcuna ‘dimensione’ di sé: possiamo vedere le nostre mani e constatare che abbiamo cinque dita, e persino gli occhi grazie a cui vediamo sono studiabili nella loro anatomia e funzionalità. L’anima, invece, ‘funziona’ ma non è collocabile né descrivibile in alcun modo come le altre parti del nostro corpo.

Certi approdi della fisica quantistica arrivano anche oltre, là dove forse nemmeno Pirandello si sarebbe mai spinto. Di fatto, sostengono alcuni, nessuno di noi può dire di avere un’esistenza autonoma finché non entra in relazione con qualcun altro. Allo stesso modo, le cose non esistono di per sé, non hanno un’autonoma sussistenza, ma iniziano ad esistere solo nel momento in cui entrano nel nostro campo percettivo. Le proprietà sostanziali e accidentali delle cose si attivano solo se le cose sono in relazione tra loro, allo stesso modo le persone: esse iniziano ad esistere solo quando altri le percepiscono ed evidentemente la permanenza (ma addirittura la stessa sussistenza) di una sola identità è messa fortemente in scacco dal fatto che ciascuno di noi è sempre la risultante di come è percepito dagli altri. Il che porta ben oltre il classico Uno, nessuno e centomila, o meglio toglie dalla serie l’uno. Per quanto sfuggente e proteiforme essa sia, Pirandello non nega che ciascuno di noi sia dotato di un’essenza che tuttavia diventa sempre qualcos’altro da sé non appena entriamo in contatto col mondo esterno, generando di volta in volta una maschera diversa (quindi l’evento è di fatto inevitabile); l’approdo quantistico nega invece proprio la possibilità di una nostra essenza autosussistente che precede la maschera anzidetta: noi possiamo dire di essere solo quando siamo in relazione con gli altri, pur con tutte le ricadute soggettive dell’evento. Come singoli, pertanto, noi non siamo nessuno finché non ci tuffiamo nelle centomila maschere che la vita di relazione ci cala addosso. L’anima non ha il problema di trovarsi; essa non c’è, perlomeno non in senso classico. Non è prioritaria.

Se ora torniamo a Dante, possiamo comprendere l’abisso concettuale tra le due visioni dell’essere: al vertice della Commedia noi vediamo l’Essere-in-Relazione e capiamo che anche noi, prima di metterci in relazione con chicchessia, dobbiamo prima avere una solida e netta relazione con noi stessi. Se cade l’essere, cade la relazione. L’approdo quantistico tematizza invece un Essere-Relazione. La soppressione della preposizione ‘in’ gioca un ruolo fondamentale, perché rovescia completamente i termini della questione dantesca: l’essere in qualche modo si attiva solo in presenza della relazione, quindi, esattamente all’opposto di prima, senza relazione non c’è essere.

Non è qui il caso di riflettere sulla portata enormemente controintuitiva della teoria. Semmai si può indagare se tra i tanti “quantismi” che sempre più diffusamente popolano il dibattito culturale si possa trovare la sintesi più ardita, ovvero l’umanesimo quantistico. E’ infatti del tutto evidente che, rovesciando il rapporto tra essere e relazione nel modo che si è detto, il concetto stesso di humanitas si deve aggiornare: Il celeberrimo verso terenziano che costituisce convenzionalmente il sigillo di tale concetto (Homo sum. Humani nihil alienum a me puto) ci dice che si può percepire l’umanità altrui solo se essa risulta in sintonia con una sostanza umana che è anche in noi: homo sum, cioè dato che sono uomo posso percepire l’umanità in chi mi sta attorno. Possiamo dunque ipotizzare che esista anche la forma speculare di umanesimo, quella cioè che rende l’alienum la radice (il prius) del nostro essere? Attenzione: non nel senso già ampiamente esplorato dai filosofi dell’identità che si plasma tramite la relazione, ma in quello tutto nuovo che nega una sussistenza assoluta dell’identità in assenza della relazione.

Ipotizziamo una relazione tra il soggetto A e il soggetto B. Sulla base di quanto detto sin qui, A esiste quando B lo percepisce, non prima. La cosa è evidentemente reciproca. Ebbene, cosa potrà provare A per B e B per A? In cosa si declinerà la loro relazione?

Potremmo ragionare per sottrazione: se partiamo dal concetto di amore come darsi all’altro previo il pieno e consapevole possesso del sé, in un ambito di umanesimo quantistico questo tipo di amore non è praticabile. Il soggetto A e il soggetto B non sono autosussistenti, quindi al limite potrebbero amare se stessi solo dopo la percezione da parte dell’altro. E’ però chiaro che questo amore di sé durerebbe finché dura tale percezione. Forse allora si dovrebbe abbandonare il concetto classico di amore, poiché è difficile pensare che un sentimento che, tradizionalmente, richiede lo scambio di una pienezza che una concezione quantistica dell’identità non consente. Si potrebbe dire che A e B, esistendo ciascuno grazie alla relazione con l’altro, possano piuttosto provare gratitudine reciproca, dato che si fanno esistere a vicenda. Il soggetto A è grato a B perché, finché sono in relazione, ha coscienza di sé. Il problema è semmai come non perdere questa coscienza e il piacere esistenziale che ne deriva. Il modo è uno solo: stare assieme più che si può per non uscire dal cono di luce di sussistenza garantito dalla piacevole relazione con l’altro. Stare assieme, cioè? Essere dove si trova l’altro, Seguirlo e farsi seguire.

I termini in corsivo di questa relazione quantistica, se tradotti in inglese, sono ovvi: like e follow. L’architrave delle reactions su qualsiasi social network. Da quando si è diffuso questo fenomeno, in effetti, tutti gli osservatori hanno notato che ad essi si lega un bisogno più o meno intenso (a tratti disperatamente morboso) di riscontro: i like e i followers diventano il metro di un prestigio immateriale che però diventa per alcuni influencer sostanziale (mentre altri osservavano lepidamente che avere tanti followers su Facebook è come essere miliardari col Monopoli). La soddisfazione dopaminica di vedere tanto il gradimento sotto i propri post o le proprie foto quanto l’aumento del numero di chi segue il profilo si lega evidentemente non alla propria identità reale, ma a quella virtuale che si consegna al web (sarebbe solo comico, ma a questo punto è anche significativo, sentire adolescenti che non possono fidanzarsi perché, a giudizio di lei, lui non ha abbastanza followers, quindi è un po’ sfigato). Si andrebbe così a creare esattamente una situazione di umanesimo quantistico, poiché io mi creo un profilo i cui like e followcioè i segni della relazione ne costituiscono la vera ragion d’essere. Con il like io comunico all’altro profilo che per me lui esiste e seguendolo ne ‘sostengo’ l’esistenza (e il tutto vale reciprocamente nei confronti del mio). Senza like e follow il mio profilo rimarrebbe un puro guscio senza senso, dentro al quale non c’è alcuna essenza autosussistente che io debba amare per poter amare le altre: a computer spento, io non sento quel profilo, non me ne preoccupo, non ne gioisco, in definitiva non lo possiedo perché l’ho affidato alla dimensione virtuale. Il mio e gli altrui profili sono per l’appunto perfettamente trasparenti a se stessi e prendono corpo solo nell’incrocio di like e follow. Se ad un certo punto, nel corso di un’intera giornata, nessuno degli utenti di Facebook (o Instagram o uno qualsiasi degli altri) entrasse sul suo profilo, ciò significherebbe per per quel giorno i profili, semplicemente, c’erano ma non sono esistiti, a differenza dei loro creatori. L’atto della creazione del profilo mette quindi in azione una pseudo-sostanzialità che perde lo pseudo- solo quando il profilo riceve visite.

Si potrebbe pertanto concludere che un abbozzo (o qualcosa di più) di umanesimo quantistico è già in essere ad esempio nel mondo dei social, in coesistenza a mio modo di vedere con l’umanesimo ‘classico’. Certo, da un punto di vista non classico, il profilo social altro non sarebbe che la proiezione virtuale di una non-identità preesistente, pertanto tra vita reale e vita virtuale non ci sarebbero in realtà differenze. Rimane da indagare, ma ce lo teniamo per future indagini, come possa una non-identità generare un non-profilo.


sabato 23 ottobre 2021

Appunti di Umanesimo quantistico #1

 

Introduzione


Considerando che ormai l’aggettivo ‘quantistico’ si porta un po’ su tutto (come l’autodiagnosi di sindrome di Asperger, che pare faccia molto fino…) è forse il caso di chiedersi se esso possa o non possa quagliare con il sostantivo ‘umanesimo’. La fisica quantistica è, al momento, il massimo vertice mai raggiunto dalle scienze sperimentali, vale a dire il punto attualmente più all’avanguardia, il più dinamico, il più aperto alla novità, visto che nel mondo dell’infinitamente piccolo le leggi che governano il mondo dei fenomeni sembrano (o sono) del tutto sovvertite. Sull’altro versante sta la perennità delle costanti dello spirito umano quali l’umanesimo va indagando da quando esiste il pensiero astratto: esteriormente, cioè, un mondo, più che immutabile, ‘tradizionale’, o perlomeno radicato in un sistema di pensiero molto antico (‘vecchio’ lo definirebbero i detrattori) che risulterebbe a tutta prima incompatibile con la pirotecnica parata di sconvolgenti novità che il mondo quantistico offre a scienziati e (per chi ci capisce qualcosa) opinione pubblica. Può dunque la forma mentis quantistica intercettare quella umanistica, producendo un’ibridazione di cui studiare le caratteristiche?


1.

Anzitutto sarebbe opportuno abbattere il primo degli steccati umanesimo/scienza, ovvero la convinzione che i due àmbiti non abbiano mai avuto molto da condividere (almeno fino allo sviluppo delle neuroscienze) perché impegnati ad esplorare dimensioni del reale troppo lontane tra loro (l’anima dell’uomo e le relazioni interpersonali da un lato, le leggi della materia dall’altro). È un fatto ad esempio che, proprio negli anni in cui l’ancor giovane fisica quantistica metteva in crisi le certezze di quella classica, la letteratura, anche sulla scorta delle scoperte della psicoanalisi, smontava l’idea di un Io individuale monolitico e perfettamente conoscibile, ponendo l’umanità di fronte allo scenario vertiginoso della frantumazione dell’anima e della perpetua mutevolezza dei singoli sia in rapporto a se stessi (il me di oggi potrebbe non essere riconosciuto dal me di domani) che in rapporto agli altri (siamo ciò che gli altri percepiscono di noi). Dei romanzi di Proust, per esempio, si è detto che hanno applicato in letteratura le leggi della relatività generale; di recente il pirandelliano Uno, nessuno e centomila è stato più e più volte citato da C. Rovelli come esempio di narrazione in senso quantistico della realtà, poiché secondo il professore la fisica quantistica ci insegna che non ha più senso cercare il principio ontologico autosussistente del reale, laddove tutto ciò che esiste deve la propria esistenza solo all’entrata in relazione con qualcos’altro. Così noi crediamo di essere unici e perfettamente solidi nella nostra autopercezione, ma poi ci accorgiamo che i centomila modi in cui gli altri ci considerano rendono di fatto insussistente la nostra presunta essenza permanente, della quale noi pure siamo all’oscuro. L’anima, non appena tenta di individuare se stessa al di sotto dei propri processi, diventa trasparente a se stessa: ‘sente’ di operare, ma non ‘vede’ sé stessa in quanto soggetto operante. Il che, per inciso, va a demolire d’un colpo due colonne portanti dell’umanesimo occidentale: il socratico ‘conosci te stesso’ e il cartesiano ‘cogito ergo sum’. Conoscere la propria essenza profonda è impossibile e il solo atto del pensiero non è garanzia di essere finché non si attiva la relazione con qualcos’altro.

Non può quindi negarsi che ci sia una certa pervietà reciproca tra filosofia, letteratura e fisica quantistica. Le provocazioni che quest’ultima lancia alle prime due possono spingersi oltre?


2.


Per rispondere al quesito, bisogna ripartire dai fondamenti dell’Umanesimo occidentale, riassumendoli per pura comodità in due grandi macro-aree, quella classica e quella cristiana. L’operazione, che si rende quantomai schematica per esigenze argomentative, porta ad isolare due tipi di metafisica: la metafisica dell’Essere assoluto e immobile, caratteristica della speculazione greca in particolare di Parmenide e Aristotele, e la metafisica dell’Essere come Relazione, nella quale al vertice del processo di generazione del tutto non si colloca un impersonale Motore immobile (creatore e amato dalle sue creature, ma non a sua volta amante di esse), bensì un Dio-persona che ama anzitutto nella propria trinità e per conseguenza ama il creato, quest’ultimo rappresentando una sorta di tracimazione ontologica della relazione d’amore che l’Essere supremo vive al proprio interno (il Padre ama il Figlio – e viceversa – tramite lo Spirito Santo).

Nel pensiero greco, si tratti della dialettica perpetua dell’Uno metafisico e della Diade di grande-e-piccolo, dell’attività di un Demiurgo, dell’emanazione dell’Uno plotiniano, ma pure, ove si guardi a filosofie antimetafisiche, alla forza creatrice del logos stoico o all’energia che fa aggregare gli atomi (e tralasciamo i presocratici) tutto lo sforzo del pensiero è volto alla ricerca del principio originario (archè) dal quale tutto si genera. Alla base di ciò che esiste deve collocarsi un Essere (siano atomi, pneuma caldo aeriforme, idee intelligibili) che nei più vari modi dà forma e senso a tutte le cose. Resta inteso che questa fonte suprema che garantisce la sussistenza dell’universo e dei suoi singoli elementi non agisce per amore di ciò che crea. Anche la dinamica di Amore-Odio che fa evolvere le relazioni tra gli elementi secondo Empedocle non può ricondursi ad una volontà divina paragonabile al Dio delle religioni monoteiste, risultando piuttosto un processo immanente ai semi stessi delle cose. L’Essere classicamente inteso agisce su una materia preesistente (la creazione ex nihilo non è infatti contemplata) come una forza strutturante. Non c’è il nulla semplicemente perché la materia e l’Essere sono eterni. In cosa quindi la metafisica della Relazione potrebbe superare uno schema che pare così inattaccabile, pur nella varietà degli esiti speculativi?

La risposta si può trovare in maniera sufficientemente esaustiva nel Paradiso dantesco, esattamente all’inizio e alla fine della cantica. L’esordio, celeberrimo e qui riportato solo per comodità, del canto I recita:

La gloria di Colui che tutto move

per l’Universo penetra e risplende

in una parte più e meno altrove.


A ribadire l’incolmabile distanza tra Creatore e creato, Dante sottolinea che la gloria divina non è distribuita uniformemente in tutto l’universo, giacché l’Empireo non può certo essere paragonato a nessuno dei nove cieli del Paradiso, né questi alla Terra. Del resto, se la gloria divina fosse al contrario presente in ugual misura ovunque nel creato, cesserebbe qualsiasi trascendenza, poiché tra Dio e ciò che da Lui deriva non esisterebbero fattive distinzioni: Dio sarebbe semplicemente Tutto in tutto.

L’aspetto utile ai fini del mio discorso è però un altro: Dio è definito tramite perifrasi ‘Colui che tutto move’, espressione ineccepibile dal punto di vista aristotelico- tomistico, giacché Dio è motore, ovvero creatore e fine supremo del divenire di tutto il cosmo, come poi Beatrice avrà modo di spiegare a Dante per tutto il canto. Al di sopra dei drammi umani esibiti in Inferno e Purgatorio, il Paradiso assicura subito che Dio è ovunque ma in diversa misura, e tuttavia è ‘vicino’ tramite la Sua gloria alle cose che ha creato. Forse il lettore dantesco avrebbe voluto qualcosa di più che sentirsi ‘toccato’ dalle propaggini di questa luce gloriosa.

Questo ‘qualcosa’ si farà attendere fino alla fine del viaggio paradisiaco, cioè fino al canto XXXIII. Qui Dante, dopo la preghiera di S. Bernardo che gli ottiene l’intercessione della Vergine Maria, può sprofondare intellettualmente nella contemplazione dell’essenza di Dio che gli si rivela in tre tappe successive, corrispondenti all’approfondirsi delle facoltà di visione trasumanata: dapprima il poeta vede che all’interno di Dio si trovano i principi di tutte le cose che esistono dell’universo, legati tra loro come pagine in un volume (similitudine che più medievale non potrebbe essere). Successivamente, con un celebre paragone che per evidenti ragioni sfida la logica della geometria, Dante vede tre sfere – o cerchi – che pur essendo di identica dimensione sono tra di loro concentriche – l’unico modo di rendere l’unità e la trinità di Dio. Uno dei cerchi attira in particolare l’attenzione del poeta, quello nel quale gli sembra di vedere raffigurata una sembianza umana dello stesso colore del cerchio medesimo – altra voluta violazione della logica, giacché non sarebbe possibile distinguere un’ immagine dal suo sfondo omocromo. Ciò indica evidentemente che la natura divina di Cristo coesiste in perfetta consustanzialità con quella umana. Dante si trova quindi ad un passo dal comprendere il mistero sommo della sua Fede, ovvero l’incarnazione di Dio in Cristo, ma proprio qui il suo sforzo manca l’obiettivo e si rende necessario l’intervento divino che svela per un istante brevissimo al viandante ultraterreno la Verità inseguita per tutto il viaggio. A noi tuttavia non sarà dato sapere COSA Dante abbia visto. Ci rimane solo il resoconto del perfetto allinearsi delle sue forze intellettuali con la volontà di Dio (vv. 142-145):


A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle.


Da ‘la gloria di Colui che tutto move’ a ‘l’Amor che move ‘l sole e l’altre stelle’ il passaggio è brevissimo ma enorme allo stesso tempo: Dio non è più solamente motore di tutte le cose, loro causa originaria e finale, ma è definito per via di perifrasi come amore che muove l’intero Universo. Siamo quindi al punto di svolta che separa la Fede dantesca dal motore immobile aristotelico (creatore delle cose e da loro amato, ma di loro non amante a sua volta), per non parlare del logos stoico (principio puramente materiale e impersonale). Con questa ulteriore precisazione della natura di Dio, Dante non ci svela il mistero dell’incarnazione, ma forse (si e ci) risponde ad una domanda ancor più metafisica: che senso ha l’Essere rispetto al non-essere? Domanda che rappresenta il vertice di qualsiasi inquietudine tanto fideistica quanto razionale e che quindi ben racchiude il doppio binario della ricerca esistenziale di Dante, il quale ha interrogato per tutta la vita filosofia e teologia in cerca di risposte.

Il verso finale del poema ci dice allora molto di più della sola lettera: Dio si presenta come Ente supremo caratterizzato dalla Relazione di Amore tra il Padre e il Figlio veicolata dallo Spirito Santo. Nella Sua unità, Egli allora non è statico, bensì dinamico, ed è da questa dinamicità che ad un certo punto trabocca la forza creatrice che dà origine a tutte le cose. Dio ama l’Universo che ha creato, poiché tale amore altro non è che la continuazione della relazione amorosa dinamica che ab aeterno si verifica all’interno della Sua natura. A questo punto la metafisica dell’Essere è sorpassata (o meglio, portata a compimento) da quella della Relazione. Se Dio fosse puro Essere, sarebbe totalmente autoreferenziale, e la Sua staticità non avrebbe mai potuto tracimare nell’atto della creazione. Questo è già una dato che conforta Dante: l’universo non è in balìa del Caso o peggio ancora del Caos, ma è attraversato da una forza positiva che trascende l’apparente disordine degli eventi per indicare, se riconosciuta dal fedele, la via per la salvezza.

Ma c’è di più: riconoscere l’amore come forza intrinseca all’Essere supremo rivela a Dante che la dicotomia fondamentale del reale non è Essere vs non- essere (o Nulla che dir si voglia), poiché un Essere statico equivarrebbe di fatto al Nulla. Un Essere che semplicemente è, senza essere attraversato dalla corrente della Relazione, non ha maggior ragion d’essere del Nulla. Sarebbero di fatto due condizioni statiche accomunate dall’assenza di amore, di creazione e, quindi, di senso: il Nulla, non essendo, non può avere un senso perché ‘non si muove’ verso alcunché, ma se anche l’Essere resta immobile senza relazione, di fatto, si nullifica, tuttavia, perché il Nulla (per assurdo) abbia Relazione, quest’ultima presupporrebbe che ci fosse almeno UN qualcos’altro a cui relazionarsi, ma il Nulla è uniformemente Nulla, non genera e non si relaziona con alcunché né all’interno né all’esterno di sé (che non esistono). La dinamicità della Relazione, al contrario, rende l’Essere diverso dal Nulla e ne giustifica la sussistenza rispetto ad esso: la relazione e la creazione sono il senso dell’Essere che al Nulla manca. Ritornando all’inizio del paragrafo, la dicotomia è dunque Relazione vs Nulla: si capisce che l’Essere dantesco vada sempre inteso come Essere-in-relazione. Diversamente, tanto varrebbe definirlo Nulla. La filosofia Dantesca finisce pertanto per coincidere con la teologia, nel senso che, in luogo di ‘amore della sapienza’, essa si configura, per citare Lévinas, come ‘sapienza dell’amore’. La Relazione d’amore all’interno della Trinità è la più autentica ragion d’essere delle cose che sono: l’animo del poeta si acquieta nel momento in cui vede svelarsi nell’essenza di Dio il punto d’arrivo comune ad entrambi i suoi percorsi di ricerca esistenziale. Amare il prossimo significa quindi partire dall’amore di sé per aprirsi all’altro. Questo Dante vuole lasciare alla sua tormentata epoca.

[continua....]


giovedì 23 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia #2: Socrate, l'anarchico e antifascista.

Premessa: di Ulisse ciascuno ha fatto l'uso che ha voluto. Dante lo ha dantizzato, Tennyson lo ha tennysonizzato, Pascoli lo ha pascolizzato, persino i giapponesi e i francesi se ne sono appropriati.

La storia è nota: personaggi che fanno da archetipo della civiltà (occidentale in questo caso) possono essere soggetti alle più varie (re-) interpretazioni. Molto soggettive of course. A volte, anche, fuorvianti rispetto ai tratti genuini del carattere originario. 

Figuriamoci Socrate, che anche se non è propriamente il fondatore della filosofia occidentale, ha svolto un ruolo talmente importante che la storia della filosofia antica distingue sotto il lemma 'presocratici' tutti i suoi predecessori, Talete incluso, che sarebbe poi il capostipite di tutta la cumpa. Lui (Socrate) che non ha lasciato mezza riga del suo pensiero. Lui che conosciamo solo per interposto autore (Platone ovviamente, poi Aristofane e Senofonte). Il che ci porterebbe a pensare (e saremmo in ottima compagnia) che già Platone abbia platonizzato Socrate, Aristofane lo abbia aristofanizzato and so on. Chissà.


 

 

Se però le cose andavano così già nel V secolo a.C., non solleveremo ciglia spocchiose a sentire la dotta conferenziera Simona Forti (Modena, 19 settembre u.s.) che reinterpreta per sua stessa ammissione Socrate alla luce di categorie certamente posteriori al filosofo greco. Forse c'è stata una certa forzatura, ma qualcuno di noi era là ad Atene a capire, mentre Platone scriveva i suoi dialoghi, quali teorie espresse da Socrate erano socratiche e quali del discepolo? No. Ciao.

Parte subito in derapata la Forti, inquadrando il problema del fascismo secondo una prospettiva che attirerebbe ipso facto i fulmini di Emilio Gentile: di fascismo si può parlare anche oggi tutte le volte (lo dice Foucault) che si verificano fenomeni di governi autoritari che sopprimono le libertà individuali. Ebbene che fare? Strutturare le nostre soggettività come anime anarchiche. Non in senso bakuniniano, sia chiaro. Anche per Platone, è noto, la città in preda all'anarchia va in rovina. Ma infatti Forti ha in mente un altro tipo di anarchia: assodato che nella parola anarchia è presente il termine archè (che vorrebbe dire 'principio', 'origine' 'comando'), si potrebbe mettere in discussione il meccanismo secondo cui il singolare è sussunto nell'universale; detto più pucciosamente: la pluralità dei singoli può sottrarsi all'egemonia dell'Uno che pretende di imporre l'identità ai molti. Si capisce cioè che l'approccio proposto non mira a chiamare alla rivoluzione permanente, ma alla rifondazione filosofica del rapporto tra etica (individuale) e politica (collettiva). 

Anarchia, anzitutto, come possibilità di libertà nelle differenze. Liberazione dalla logica dell'Identico. Seguendo Deleuze e Agamben, arriverebbe il collasso del soggetto in una nuda vita senza qualità: di fronte al soggetto de-soggettivizzato il Potere si ferma perché non ha più nulla da plasmare. E il fascismo si depotenzia.


 

Forti tuttavia si perplime circa il ticket Deleuze-Agamben, perché volenti o nolenti avremo sempre rapporti col Potere. Si può resistere in altro modo? C'è una via di mezzo tra il soggetto chiuso su se stesso e quello spersonalizzato nell'incontrollato svolazzare di libertà senza fondamento? C'è una via di mezzo tra un bisogno di norma (identità) e il bisogno di trasgredirla (abbandono della soggettività)?

Forti propone di usare in modo provocatorio il concetto di anima, superando il dualismo platonico in ambo i sensi (preplatonico e aristotelico): l'istanza è il bisogno di non farsi inchiodare in un'unica dimensione (cfr. Nietzsche: ci liberiamo dell'anima immortale per tenere l'anima mortale e duplice).

 


 

La filosofia moderna tende a separare etica e politica: nato il corpo politico, gli individui vengono isolati nella loro sfera privata (Hobbes, già), laddove Platone postulava una connessione circolare tra polis e anima del cittadino: era impensabile che l'individuo non fosse anche cittadino, anzi proprio la dimensione civile rappresentava l'inveramento dell'identità individuale.

Forti cita Vegetti: per Platone, affinché la città sia in pace, deve spegnersi il conflitto per il desiderio di potere e si arriva a ciò instillando giustizia nelle anime dei cittadini. Un uomo giusto abita in una polis giusta, una polis giusta genera anime giuste (cfr. Socrate nella Repubblica). La giustizia è una virtù di relazione: come in una polis devono andare d'accordo reggitori, guerrieri e produttori, così nell'uomo l'anima razionale deve guidare le altre due. Se le parti si dispongono in un sistema gerarchico conforme all'archè, l'anima diventa da molti a uno. Allo stesso modo i filosofi guidano gli altri due gruppi.

Oggi diremmo che la giustizia platonica sorpassa la libertà individuale, perché se quest'ultima prevale trionfa la tirannide, espressione dell'anima anarchica. Come si nota, tutto corrisponde nel micro e nel macro. Libertà è disordine, scissione, schiavitù. L'anima si sdoppia e provoca caos per sé e per gli altri. L'anima giusta unifica tutto sotto la forza del logos.

E oggi che il valore dell'unità del soggetto è stato destituito? Si può recuperare un concetto positivo di anarchia? Si può sfuggire alla gabbia della gerarchia funzionale delle parti? 

 


 

Forti fa la sua proposta riutilizzando indovinate chi? Socrate. Non solo quello platonico, ma pure quello senofonteo e oltre.

Socrate si opporrebbe a Platone nella definizione di anima: Forti sa di agire in modo arbitrario, ma dice di essere in buona compagnia (anche i Guelfi bianchi alla Lastra, del resto...).

Socrate non crede(rebbe) né all'anima immortale (quindi quello che parla nel Fedone sarà il gemello) né al dualismo anima-corpo (ripetiamo: Forti's opinion), ma concepisce un'anima anarchica che è giusta secondo criteri diversi. Non si tratta dell'obbedienza dei molti all'uno (archè, logos), ma di seguire un daimon che comanda di non seguire la doxa, ovvero l'opinione non verificata della città (ne parlano sia Platone che Senofonte, you know). Socrate promuove il potere critico del pensiero che sceglie cosa NON fare, destabilizzando norme stabilite e identità condivise e approvate dalla città. Il sé è duplice, il pensiero si lascia calare nella potenza dell'esterno ma poi sa ritirarsi per scomporre gli stimoli ricevuti e analizzarli, riplasmando i contenuti acquisiti. L'anima diventa il punto di partenza dell'essere altro da sé, l'inquietudine è incessante, identificazione e dis-identificazione si alternano incessantemente. Una dialettica perpetua, direi. L'anima non pone fine al movimento, scopre senza posa la propria duplicità, il proprio conflitto interiore, in tensione tra ciò che ci rassicura nell'appartenenza e ciò che farà venire meno appartenenza e sicurezza. Questa è la libertà, che può valere oggi come libertà dal fascismo e dal rigido determinismo. Siamo gli arbitri di noi stessi. Anarchia socratica is the new antifascismo, insomma: non farsi asfissiare dal Potere, vivendo in una mobile problematicità. Se per Platone nella Repubblica giustizia è unità, per Socrate la giustizia è l'anarchia della dualità che si sottrae al Principio.



C'era un rischio trappola in tutto il discorso, perché la distinzione tra un Socrate 'anarchico' e fautore della dualità dinamica contrapposto ad un Platone unitario e quasi 'reazionario' lascerebbe intendere una divergenza di pensiero tra i due, che si sarebbe potuta dimostrare solo avendo a disposizione almeno uno scritto solo socratico, cosa che notoriamente non si dà, visto che è sempre Platone la fonte. Allora si procede per incroci: il fatto che oltre a Platone ci sia anche Senofonte a parlare del daimon farebbe pensare che quest'ultimo sia un copyright socratico. Cioè: il Socrate della Repubblica parla, ma di fatto è Platone che scrive, laddove il Socrate, per esempio, dell'Apologia è quello originale, confermato indirettamente da Senofonte. C'è però sicuramente almeno un caso problematico sempre nella Repubblica VI 496C, dove Socrate dichiara: “Infine, il mio caso è difficilmente spiegabile - il mio segno demoniaco - perché oltre a me, fino ad oggi, è accaduto ad un solo ad altre poche persone”.  Epperò pare di capire da questi e altri passi che Platone non credesse così in fondo all'interiorizzazione del comando divino, perlomeno in uomini diversi dall'eccezionale Socrate. Insomma, la misteriosa forza anarchica sembra baluginare anche nell'opera in cui tutto il pensiero platonico converge verso l'unità. Dialettica sotterranea? Polarità etico- politica? Terreno scivoloso, gentlemen. Quindi prudenza. Ciò avrebbe peraltro aperto autostrade per una svolta realista (nel senso dell'interpretazione di Platone data dal compianto Giovanni Reale - mai citato da Forti), poiché il Platone-uno opposto al Socrate-due riporterebbe alle dottrine non scritte di Platone medesimo nelle quali, al vertice della gerarchia dell'essere, si trovano l'Uno metafisico e la Diade di grande - e - piccolo, dal cui ininterrotto confrontarsi derivano sia gli enti ideali che quelli concreti. Ma appunto.

Credo insomma che la proposta di Forti vada accolta come si accoglie l'Ulisse dantesco o pascoliano: il filosofo che tuonava contro i sofisti e il loro uso scaltro e spregiudicato della parola, che invitava a circoscrivere il concetto di ogni cosa di cui si parla, che concepiva la conoscenza come maieutica dell'animo sempre alla ricerca della verità oltre le apparenze, ebbene questo filosofo può dire molto ancora oggi. Bombardati come siamo da slogan usa e getta, abbarbicati ai relitti delle vecchie ideologie nel mare della post-verità, in bilico sul sottilissimo ciglio del transumanesimo, non possiamo non ricordare la lezione socratica. Però attenzione, perché il passo che porta a fare di Socrate 'uno di noi', l'anarchico antifascista, e arrivare alla brandizzazione del marchio è breve. Bauman docet.

mercoledì 22 settembre 2021

Machittevole@festivalfilosofia2021 #1: Adelante, Pedro, con juicio (o dell'uso sapiente della maschera).

 

Relatori decisamente in forma al Festivàl tricittadino. Certo, alcune conclusioni ci perplimono, ma è il bello dello spirito critico.

 

 

A Sassuolo la prof.ssa Barbara Carnevali opina a proposito del possibile ‘uso intelligente’ della maschera in senso esistenziale (sì, Carnevali parla di maschere, non è una battuta). Parto dal fondo, cioè dal mio personale e spocchioso giudizio: la soluzione proposta dalla relatrice è certamente interessante, ma cela in sé dei rischi che secondo me non sono stati sottolineati adeguatamente.

Va però detto che, perlomeno, la dotta conferenza non è caduta nella trappola in cui spesso i conferenzieri si auto-intrappolano, ovvero spendere quattro quinti del tempo a delineare la storia del problema e tutte le sue sfaccettature, salvo poi guardarsi accuratamente dal chiudere con una propria proposta in materia. Carnevali propone. Non mi ha convinto del tutto, ma propone.

 


 

C’è la maschera ‘fisica’, indossata dagli attori di teatro nell’antichità, soppiantata poi, in epoca moderna, dalla faccia vera e propria degli attori, che quindi non affidano alla sola gestualità il messaggio (visto che la maschera è, evidentemente, a espressività fissa), ma integrano il messaggio stesso con la mimica facciale. Qui, non prima, non dopo, si colloca secondo Carnevali la svolta, in corrispondenza peraltro con l’affermarsi, nella civiltà cinque-seicentesca, del culto dell’apparenza, della sprezzatura, in una società in cui i rapporti interpersonali sono caratterizzati da tutta una serie di ritualità & convenzioni che danno vita a quello che tutti noi abbiamo imparato a chiamare il teatro del mondo. Di fatto, qui si realizza la perfetta aderenza tra il latino persona (= maschera) e l’idea moderna di persona: la persona “recita” nella sua stessa vita. Finzione e realtà non hanno più la maschera a separarle.

 


E oggi?

Siamo un po’ tutti in scena, ogni giorno. Siamo attori sociali. In uno scenario decisamente dualistico. La nostra società, mercé i social network, gioca tantissimo sulla visibilità che rende gli instagram -addicted (e simili) ‘soggetti’ in due sensi, ovvero ‘attori protagonisti’ dell’identità che decidono di costruire sul social, ma anche ‘sottoposti’ alla vista di un pubblico dai cui giudizi ci si può sentire drammaticamente condizionati. In questo caso si perde del tutto, o quasi, il controllo della propria immagine (do you remember il film Birdman?). “Esporsi”, del resto, significa “porsi fuori” (ex- ponere) di sé, aprirsi, esibire il proprio profilo, ma anche “offrirsi agli altri”, “mercificarsi” (gli influencer, del resto...). La ‘visibilità’, insomma, va intesa in due sensi (vous vous souvenez du Panopticon di Foucault?): farsi vedere o essere catturati dallo sguardo altrui. Del resto la maschera stessa si presta ad un’ambiguità assai interessante: si consideri infatti che un conto è la maschera che riproduce un determinato volto (e che viene esibita sui social) un altro è la maschera che, anche nei migliori carnevali (con la minuscola) della Serenissima, serviva all’esatto proposto, ovvero a celare la propria identità. In altre parole, questa maschera non serve ad esibirsi, quanto piuttosto a proteggersi (¿Recuerdas La casa de papel?). Sta a noi scegliere quanto esporre e quanto nascondere. 

 


La maschera, Pirandello docet, è il portato necessario dell’esigenza di essere ‘riconosciuti’ dalla società: siamo artificio di noi stessi per stare al mondo, di fronte al pubblico anzitutto costituito dalla nostra sensorialità corporea (noi ci autopercepiamo come maschere, siamo attori e spettatori di noi stessi), poi a quello esterno. Il che ovviamente comporta il rischio di di moltiplicarci in una pluralità di persone diverse e il problema sarebbe “tenere il filo” di tutte queste facce. Ci vorrebbe una sorta di “maschera delle maschere” che gestisca il tutto. Una "maschera trascendentale", mi verrebbe da dire.

 


E’ a questo punto che Carnevali svolta: in luogo di prodursi in un anatema contro la società della maschere, la docente, dismettendo il concetto cristiano-romantico di identità (ovvero la capacità di distinguere sempre il volto vero e la maschera finta), propone alla tedesca la Maskenfreiheit, ovvero la “libertà della maschera” o la “libertà mascherata”. Si tratta di una sorta di ‘ritorno’ al teatro del mondo di cui sopra. Che male c’è, opina Carnevali, a ‘giocare’ con le maschere? Esse, in luogo di annullare la nostra identità, ci aiutano al contrario a non restare ‘intrappolati’ in un unico modo di essere, quello che noi riteniamo corrispondere al nostro vero io, ma che può risultare assai limitante. Perché non aprirsi a nuove esperienze ‘indossando’ maschere che ci fanno superare limiti che la nostra identità standard non saprebbe affrontare? Scegliersi un modello e imitarlo, uscire dal noto per vedere se nel meno noto si possono trovare magari nuovi stimoli che vadano ad arricchire il nostro bagaglio identitario, why not? Fuori dalle convenzioni imposte, liberi di scegliere nuove possibilità (seguono esempi presi dal mondo delle Drag queen e del Queer, con accenni alla questione della fluidità di genere). Trasgressione a parte, che bello dev’essere gettare la maschera del quotidiano e indossarne una nuova e più appagante? (Erinnern Sie sich an Thomas Manns Der Zauberberg, quando Hans Castorp ci prova con la tizia?). Il Carnevale non è del resto sospensione momentanea dell’identità? Insomma, mi permetto di interpretare il Carnevali-pensiero, senza che fischi nessun treno, fate come Belluca, scardinate per un attimo il vostro io asfittico e diventate qualcun altro. Per poco. Magari. Ma trovatevi un ruolo che vi appaghi. Che la cosa serva a conoscere persone nuove o al contrario ad essere finalmente lasciati in pace da chi è abituato alla versione standard di noi, basta che funzioni. Carnevali dissente dai pensatori cattolici & romantici che raccomandavano di gettare le maschere per mettere a nudo il vero Io. Moltiplichiamo le identità mascherate, casomai: QUESTA è libertà dai condizionamenti. Dice lei.

 

Ecco.

Carnevali ha ammannito la sua proposta con un sorriso soave, certa e fiduciosa di una soluzione che va un po’ a rompere la solita polemica sulla società finta & plastificata che ci tiriamo dietro da almeno 40 anni. O meglio: non è detto che in questa società finta sia impossibile, saltabeccando di maschera in maschera, trovare più appagamento che alienazione. Certo, il fatto di appellarsi a quel rutilante carnevale perenne che era la società cinque-seicentesca può rendere, con amabile ossimoro, la sua proposta innovativamente regressiva. Ma ciò che ci perplime di più è la fiducia carnevaliana nella possibilità di giocare con le maschere senza venirne sopraffatti. Nel caso della maschera come garante dell’anonimato, credo che il fenomeno hikikomori abbia già suorpassato a destra la questione posta dalla professoressa: oggi si può scomparire al mondo semplicemente non uscendo di casa e affidando al web i contatti selezionati con l’esterno. Quanto alla maschera come ‘avventura’ fuori dalla piattezza dell’io standard, la dotta conferenziera mi è sembrata avere la certezza che, quale che sia la maschera-modello che cercheremo di assumere, saremo sempre in grado di percepire il limite tra l’imitazione e la perdita della nostra identità. E qui mi permetto di dissentire. Come la spocchiologia più avanzata ha indagato a partire dalla metà degli anni ‘90 del secolo passato, il problema in una società così morbosamente fissata nello stabilire modelli cui la massa deve adeguarsi è legato alla capacità dei singoli di interagire con la radianza dei modelli stessi. Io posso scegliere – seguo la tesi carnevaliana – un attore famoso, un cantante, uno sportivo e fare di lui un paradigma per la mia maschera. Affinché la radianza di costui non risulti dannosa per la mia identità, è necessario che il paradigma rimanga settato sulla modalità ‘generico’: io posso desiderare di essere ‘come lui’, adeguando cioè gli stimoli che da lui derivano alla mia irripetibile unicità. Un lavoro di sintesi che mi porta ad allontanarmi dalla mia comfort-zone identitaria per arricchirmi. Peccato, e qui dissento da Carnevali, che per le più varie circostanze (un momento emotivamente difficile, la scelta di un paradigma troppo arduo da imitare o al contrario un fascino paradigmatico fin eccessivo da costui esercitato) possa avvenire che il paradigma generico diventi modello specifico: io non voglio essere ‘come lui’; io voglio essere LUI. Di qui un’alienazione identitaria dalle conseguenze potenzialmente devastanti: basterebbe citare i casi di anoressia legati alla volontà irrazionale di adeguarsi ai modelli di bellezza incarnati (o in questo caso sarebbe meglio dire scarnificati) dalle modelle filiformi.

Non so quindi quanto la proposta di Carnevali sia applicabile senza rischi: anzitutto, per decidere di ‘mascherarmi’, devo provare una certa insoddisfazione per ciò che sono e un desiderio di evoluzione. Fisiologico, si direbbe. Necessario, anzi. Certo: basta che il desiderio venga più da dentro che da fuori. Più chiaramente: è difficile che un desiderio paradigmatico sorga dal niente all’interno di una qualsiasi coscienza, poiché è sempre l’interazione col mondo esterno a definirci e provocarci al cambiamento. Sarebbe però opportuno che questo stimolo esterno incontri una fase di ridefinizione interna dell’identità che sente di aver raggiunto determinati limiti e desidera ampliarsi. Io posso piacermi come sono, ma sentire che posso essere anche qualcosa di più ad integrazione di quello che già sono. Me lo sento io, me lo dice il mondo esterno e io accolgo il suggerimento. Scelgo il paradigma che mi aiuta a fare il salto e va tutto bene. Altro caso è però quello in cui il bombardamento di stimoli esterni arrivi a minare la certezza di ciò che sono stato sin qui, facendomi sentire d’un colpo inadeguato, limitato, perdente. Come se tutto il tempo passato fosse stato un gigantesco spreco, decido che ciò che sono e sono stato è un’identità insopportabile, asfittica, inutile. Di qui la disintegrazione della barriera tra me e il paradigma e il mio precipitare- annullarmi su di lui, divenuto nel frattempo modello specifico. Su questo Carnevali ha trasvolato un po’ troppo. Cambiamo pure maschere, basta che la faccia (= l’identità) sottostante non si disintegri. Sennò ti saluto “uso emancipatorio e creativo offerto dalla finzione”. Ricordate Face off con John Travolta e Nicholas Cage? Ecco.