Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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venerdì 1 febbraio 2013

Homo insipiens (de aquae calidae inventione).

Dedichiamo questo post ad uno di quei temi che prenderanno sì e no 10 contatti (infatti ci piazzo poi un episodio della blognovela a fare da traino, ahò, so' mejo de Mentana...) (e invece ho già 21 contatti al 3 sera, grazie Erica...), ma che mi urge assai. E'appena di ieri la notizia VERAMENTE CLAMOROSA che l'Università italiana ha perso in dieci anni 58.000 studenti, l'equivalente di tutta la Statale di Milano, disastro che si associa all'altro, ovvero il calo drastico dei laureati, che erano già pochi rispetto agli iscritti. E giù stupore. E giù lamentele & giaculatorie. E giù recriminazioni. Ovviamente 'sono notizie che non lasciano ben sperare per il futuro del sistema Paese' e che 'dimostrano l'arretratezza della nostra politica culturale', ma pure 'la difficoltà per l'Università di essere davvero una cinghia di trasmissione tra utenza ed esigenze del territorio'. Ora, il sottoscritto lavora ANCHE in Università, quindi vede certe cose e trae le sue conclusioni. Conclusioni alla conclusione delle quali v'è da concludere che non vedo la ragione di tanto stupore: avete fatto di tutto per bucherellare il secchio e solo adesso vi accorgete/lamentate che perde? Sì, sì, imposto la lezioncina.
1) E' chiaro che se l'Università non funge, non funge ancor prima il gradino immediatamente precedente, ovvero la scuola superiore; la non fungevolezza non dipende però, come sosteneva madama Gelmini, 'dall'eccessivo numero di ore di latino a svantaggio di matematica' o al fatto che 'il 98% del bilancio della scuola va in stipendi'. Fuffa. Cioè, si può discutere anche di questo, ma il problema è altrove. Ed è il solito: politiche 'poveriniste' che, in nome della concezione della scuola come ente assistenziale che deve sanare gli squilibri della società, hanno voluto mandar avanti chiunque senza alcun filtro, dando del fascista a chi si permetteva di pretendere una selettività non basata sul censo, ma sui risultati. No, si ribatteva, è chiaro che i figli dei poveri saranno sempre ignoranti e quelli dei ricchi saranno sempre bravi, quindi si risolve il problema alla radice e si promuovono tutti. Questa elastica e moderna visione delle cose sociali si è paradossalmente sposata con l'odio a prescindere della destra berlusconiana nei confronti della scuola, sì che, per evitare ai professori di guadagnare miliardi con le lezioni private, oltre che per non rovinare i fine settimana in montagna o le vacanze estive alle famiglie, e quindi agli operatori turistici, e quindi alle casse dello Stato, si pensò bene di sterilizzare ulteriormente il sistema valutativo eliminando i cosiddetti esami a settembre, lasciando al loro posto i famigerati 'debiti formativi', ovvero insufficienze maturate alla fine dell'anno da saldarsi con tutto comodo l'anno successivo VENENDO NEL FRATTEMPO PROMOSSI. In caso di mancato saldo, l'alunno sarebbe comunque andato avanti, con l'obbligo morale, a suo talento, di recuperare prima o poi le lacune o di uscire dalle superiori senza saldo veruno, al limite si sarebbe giocato 4-5 punti sul voto finale di maturità. Risultato: gli scemi, ricchi o poveri di famiglia non importa, non hanno più studiato. E si sono diplomati. Mi domando quindi cosa si pretenda dall'Università, nella quale ad un certo punto si sono riversati ragazzi incapaci di gestirsi, privi di qualsivoglia competenza, bravi solo a cercare scorciatoie per studiare poco e sfangarla, attori incomparabili nel presentarsi a ricevimento dai professori e millantare problemi esistenziali titanici per concordare una riduzione di programma rispetto al già poco che siamo costretti a chiedere con l'introduzione del 3+2 (ma per questo, cfr. paragrafo 2). Gente che sa solo esigere, inabile ad affrontare le difficoltà, poiché le superiori, coi loro presidi compiacenti e attenti solo ad attirare 'clientela' con la fama della manica larga del proprio Istituto, hanno sempre fatto in modo di annullargliele, priva di qualsiasi attitudine al sacrificio, gente che aveva il coraggio di chiedere ad un docente di anticipare di un giorno la sessione d'esame 'perché il giorno dopo parto per il mare'. Era inevitabile che costoro si perdessero per strada, crisi o non crisi. Perché è chiaro a noi tutti che il crollo segnalato da questi numeri non va imputato solo alla diminuzione di coloro che decidono di iscriversi, ma comprende anche quei fuoricorsisti perenni che ad un bel momento mollano. Se il fuoricorsismo è una piaga storica dell'Università italiana, esso ha trovato ulteriore alimento nel clima da todos caballeros creato dalle politiche sia di sinistra che di destra, che hanno tutte avuto come risultato la smidollizzazione del carattere dei ragazzi e quindi l'aumento del numero degli incapaci. Non vedo perché lamentarsi dei fallimenti e degli abbandoni: li abbiamo messi noi in questa condizione, e le famiglie, vogliose solo di garantire un'adolescenza serena 'ai loro bambini', non hanno mai questionato. Ecco ora i frutti di cotanta lungimiranza.
2) Certo poi che, per chi la voglia di universitarizzarsi ce l'ha davvero, il nostro sistema universitario fa di tutto per risultare respingente: tasse altissime, disservizi all'ordine del giorno, fondi sempre più esigui, corpo docente mummificato dalle baronie con conseguente affido dei corsi a gente che poco o nulla ne sa [mi dicono di aggiungere la clausola ad me paraculandum 'però ci sono moltissime lodevoli eccezioni'. Lo so benissimo e le vedo anch'io, ma qui sto descrivendo il problema per come l'utenza lo percepisce], possibilità di carriera intra moenia garantita quasi sempre dalla loggetta di turno, sviluppo di competenze autenticamente spendibili nel mondo lavorativo spesso affidato alla buona stella ('ho la laurea in ingegneria, ma quello che ho studiato in Università non mi viene richiesto al lavoro' vs 'ho un diploma, ma per fortuna mi hanno paraculato, sennò ciao...'). Si dirà poi che la crisi ha prosciugato le tasche di molte famiglie, e visto che il lavoro post lauream spesso è anche peggio retribuito di quelli dei semplici diplomati (Sidròn docet), molti, legittimamente, pensano che il gioco non valga la candela e si arrangiano altrove.
Ecco, proviamo a soffermarci su quest'ultimo punto: perché l'Università italiana, alla fine, sembra dare così poco? Certo, l'onda lunga degli esami di gruppo e del 18 politico di marca sessantottina non ha mai cessato realmente di esercitare i suoi effetti: che anche l'Università abbia ampiamente allargato le maglie della sua iniziale rigidezza per mandar fuori, se non chiunque, quasi tutti, è roba che si sa da ben prima degli avvilenti dati di ieri. Se così è, però, credo che la prospettiva vada lievemente corretta: non si tratta di aver dato poco agli studenti universitari, ma di non aver saputo mettere un argine ai loro sbagli, mandando fuori per sfinimento (= non vederseli più tra i piedi) gente giunta al ventesimo esame di Analisi 1, Diritto Amministrativo, Latino 1, Tedesco 1, insomma facendo ciò che altrove non si fa e non facendo ciò che altrove si fa, ovvero pronunciare la seguente formula: "Caro tu, se davvero sei costretto a ripresentarti 5, 6, 15, 20 volte allo stesso esame, e regolarmente non lo passi, è segno inequivocabile che sei nel posto sbagliato. Questo corso di studi ti darà un pezzo di carta che ti attaccheremo alle chiappe, congedandoti quando avverrà, e che ti verrà buono al massimo per fasciare il salame nostrano. Va', abbandona l'Università, o perlomeno la nostra Facoltà, e non peccare più". Quanti bimbominkia ante litteram privi di raccomandazione fuori dall'Università avrebbero risparmiato tempo e fatica e si sarebbero immessi prima nel mondo del lavoro invece di gravare sulle famiglie e sullo Stato! Il fatto cioè che, spesso, gente anche brava non trovi uno sbocco lavorativo del tutto omogeneo ai suoi studi, dipende da una molteplicità di fattori (arretratezza delle politiche in materia, assenza di meritocrazia, paraculaggini varie) che vanno oltre i demeriti oggettivi delle Università, la cui vera e unica personale colpa è stata, di nuovo, la mancata selezione in nome del già visto principio pseudo-democratico delle uguali possibilità di successo da garantire a tutti, dall'attaccapanni al piccolo Einstein. Non si tratta solo di aver dato poco, ma di non essere riusciti a convincere certuni che con quel poco non avrebbero combinato nulla.

Ma anche a chi vorremmo dare tanto si dà poco. Perché? Chiedetelo a chi volle introdurre, nel 2000-2001, il sistema universitario 3+2, mutuato dallo Zio Sam. Ah, che genialità la laurea triennale seguita dalla magistrale!!! Più esami e più preparazione? Macché, un pulviscolo di esamini pieni di cosine, imperniati su programmini che portano all'elaborazione di tesine su cui i futuri dottorini disquisiscono dottamente, sapendo un pochino di tutto, cioè globalmente nulla. Con le debite eccezioni, per carità, chi è bravo si trova sempre, ma quando si sta per dare un misero 18 in latino e la candidata cinguetta che lo prende 'perché se no resto indietro con gli esami', ciò significa che lo studio universitario è ormai una gigantesca abbuffata di esami da cui ricavare i crediti (perché la cultura, come è noto, si quantifica) e quindi accedere alla laurea oltre che, ove ciò interessi, alla possibilità di determinate abilitazioni all'insegnamento. I nostri attuali studenti, quindi, trottolano in questa bulimia esaminatoria poiché, evidentemente, l'obiettivo dei geniacci che partorirono la riforma fu quello di far fare tutto a somma zero: se con il vecchio ordinamento si chiedeva tot, oggi si chiede lo stesso tot spalmato in più esami, ergo questi poveracci fanno come gli invitati ai buffet di matrimonio che assaggicchiano tutto, non gustano niente, ma alla fine della serata hanno lo stomaco a pezzi.
Stupirsi dunque che 58.000 studenti abbiano mollato? Piuttosto di vederli vagare come zombi tra corridoi muti, bussando come amanti elegiaci a porte di professori che non sanno più come toglierseli dai piedi, destinati a bivaccare su divani sformati in attesa di un impiego che non sarà mai, perché gli anni migliori si sono impantanati là dove gente meno spocchiosetta ha provveduto altrimenti, ebbene, se questo era il destino di quei 58.000, meglio che abbiano cambiato lidi [update: mi dicono di aggiungere che però, tra quei 58.000, magari c'è qualche meritevole fregato dagli scarsi mezzi economici. Non lo escludo, ma mi sento di dire che si tratta di percentuali irrisorie rispetto agli indegni veri e propri]. Vorrei però che si pensasse ora a come tener dentro gli altri e a come dar loro il vero pane della conoscenza, che naturaliter tracima in competenza, senza che ci siamo i professionisti del pedagoghese a spiegarci separatamente come far emergere entrambe a colpi di prove semistruttrate a griglia di valutazione anglosassone.
Chissà (cader fragile di foglie in sottofondo...)

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